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Il tavolo dei relatori nella Sala del Pellegrino: al centro Ivano Gobbato
AURELIO AGOSTINO
(per principianti)
In occasione del ricordo del compleanno di sant'Agostino
13 novembre 2021
Sala del Pellegrino
In occasione della ricorrenza del compleanno di sant'Agostino, la Associazione S. Agostino ha organizzato nella serata del 13 novembre un incontro che ha ripercorso alcuni tratti della vita di sant'Agostino con lettura e commento di alcuni brani tratti dalle Confessioni.
Dopo la presentazione delle motivazioni che hanno condotto a organizzare la serata ad opera del presidente dell'Associazione prof. Luigi Beretta, ha preso la parola il dott. Ivano Gobbato, che ha esposto in un colloquio familiare alcuni quadri della vita di sant'Agostino, confrontando la sua esperienza con la realtà quotidiana dei nostri giorni.
Con il sapiente aiuto di Ettore Fiorina, che ha eccellentemente letto vari brani dalle Confessioni, la relazione di Ivano Gobbato ha presentato la figura di Agostino in modo semplice, "per principianti", come lui stesso ha amato definirsi di fronte al grande santo, lontano nel tempo ma vicinissimo nello spirito.
AURELIO AGOSTINO
(per principianti)
intervento di Ivano Gobbato
Poiché oggi festeggiamo un compleanno, e 1.667 anni sono decisamente tanti da festeggiare, forse è giusto cominciare da un regalo. A riceverlo però non è Agostino ma un altro personaggio, a propria volta assai famoso: Francesco Petrarca. L'anno è il 1333, 979 anni dopo la nascita di Agostino d'Ippona.
C'è questo monaco agostiniano, infatti, che si chiama Dionigi da Borgo San Sepolcro. È un uomo di lettere Dionigi, uno studioso, un teologo, qualche anno dopo aver incontrato Petrarca sarebbe diventato Vescovo di Monopoli, nelle Puglie. Non si sa nemmeno bene dove i due si siano incontrati, forse a Parigi, forse ad Avignone. Ma il fatto è che diventano amici.
E sarà proprio all'amico Dionigi che Petrarca un giorno scriverà una lettera (ce ne sono arrivate tre, di queste lettere) in cui narra di un'ascesa fatta in montagna, sul Monte Ventoso, in Provenza, che è il primo documento scritto che sia arrivato a noi e che parli di alpinismo. Tra l'altro c'è una cosa bella in quella lettera, importante da dire stasera: ci arriviamo dopo.
Ma forse i due furono legati ancora più profondamente perché Dionigi sarà il confessore di Petrarca, uno cioè cui confidare quanto si avverte nel profondo, uno cui si chiede guida e aiuto. Tra l'altro Petrarca in quel periodo viveva il suo amore impossibile per Laura, la donna che aveva conosciuto, già sposata con un nobile francese, il Venerdì Santo dell'anno 1327. Francesco all'epoca aveva ventitré anni, Laura diciassette.
Lasciate stare tutta la questione letteraria che sta dietro queste informazioni: qualcuno dice che Laura neppure sarebbe esistita, che sarebbe stata una metafora per parlare d'altro, pressappoco le stesse cose che si sentono dire della Beatrice di Dante. Ma a questa figura, comunque, Petrarca avrebbe dedicato parole bellissime nel suo Canzoniere, cantandone "Le belle membra, i begli occhi, il bel fianco, le trecce bionde".
È esistita, insomma, Laura? No? E chi lo sa. Ma questo rapporto è evidentemente qualcosa di carnale, che ricorda da vicino un altro legame, ovvero quello che unì Agostino e quella donna il cui nome non è arrivato sino a noi e che fu la madre di Adeodato. Proprio con questa figura, anche se solo con un accenno, chiuderemo questa piccola chiacchierata.
Sia come sia, Petrarca, quando incontra il monaco Dionigi, anno del Signore 1333, porta molta inquietudine nel cuore. E Dionigi - l'amico, il confessore - quando sente tutto quel peso che fa? Fa quello che facciamo anche noi con le persone che ci sono care quando ci sono care e vogliamo aiutarle a "tirarsi su": gli fa un regalo. E cosa gli regala? Le Confessioni di Sant'Agostino.
Che è un regalo prezioso, non solo perché è un testo che sta nel cielo delle opere immortali tanto per la spiritualità che contiene quanto per le belle lettere con cui è scritta, ma perché un libro a quel tempo valeva moltissimo, se non come una casa di oggi, certamente come un'automobile. Doveva essere un libro in qualche modo "tascabile", perché Petrarca lo portò sempre con sé e dirà in seguito di non essersene separato mai più, per tutta la vita.
Ci ha lasciato a propria volta un libro Petrarca, in cui parla di tutte queste cose. Il Secretum. Se lo cercate tra librerie e biblioteche lo trovate ancora, in prestito e in vendita, a prova che si tratta di cose grandi perché non sono molti i libri vecchi di secoli che ancora si trovano andando semplicemente da un libraio, o da un bibliotecario. Come anche le opere di Agostino, del resto. Quando arriveremo alla fine lascerò un po' di titoli, per chi volesse approfondire.
Ma si diceva - poi ci arriviamo ad Agostino, giuro - che c'è una cosa interessante in quella lettera sull'alpinismo di Petrarca a Dionigi, una cosa che ci può servire. Sta nel IV libro della raccolta chiamata Familiares. A un certo punto l'autore della lettera racconta che mentre ha appena mosso i primi passi di questa chiamiamola "gita" (Petrarca, che la fa insieme al fratello Gherardo, ci perdonerà) incontra un tale, un pastore, che chiede loro dove stiano andando. E Petrarca allora gli spiega che hanno in mente di scalare il Mont Ventoux. E questo signore, che è anziano, cerca di dissuaderli. "Anch'io - dice loro - l'ho fatta la scalata, tanti anni fa, ma quando sono arrivato in cima c'erano solo la fatica per essere arrivato fin lì e la delusione di non aver trovato niente". E questo è un simbolo. Non dovremmo mai dimenticarlo questo particolare: noi oggi siamo abituati alla cronaca "giornalistica", per così dire, in cui quello che viene narrato è vero, oppure non lo è, e basta.
Ma non è sempre stato così, anzi. Quando leggiamo opere che vengono dall'antichità, non possiamo dimenticare che contengono una cifra simbolica che a volte è persino più corposa dei "fatti" che ci vengono narrati. Come qui: il vecchio pastore dice una cosa che ha senso se pensiamo alla scalata della montagna, ma che può significare, simbolicamente, ben altro.
E così questa lettera, la prima al mondo che parli d'alpinismo, parla anche di cosa significhi esaminare la propria coscienza, proprio come scalare un monte. E dei freni che incontriamo esaminandola, quando ci dicono "Ma che ci perdi tempo a fare? Non serve a niente". Insomma, di quante sirene pronte a distrarci si incontrano, e di quanto sia facile cedere alla debolezza e alla tentazione di "lasciar perdere". Il che, se vogliamo, ci porta di nuovo ad Agostino.
Primo brano "Tolle Lege" - Conf. 8. 12. 28; 12. 29; 12. 30
Quando dal più segreto fondo della mia anima l'alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un'ingente pioggia di lacrime. Per scaricarla tutta con i suoi strepiti mi alzai e mi allontanai da Alipio, parendomi la solitudine più propizia al travaglio del pianto, quanto bastava perché anche la sua presenza non potesse pesarmi. In questo stato mi trovavo allora, ed egli se ne avvide, perché, penso, mi era sfuggita qualche parola, ove risuonava ormai gravida di pianto la mia voce; e in questo stato mi alzai. Egli dunque rimase ove ci eravamo seduti, immerso nel più grande stupore. Io mi gettai disteso, non so come, sotto una pianta di fico e diedi libero corso alle lacrime. Dilagarono i fiumi dei miei occhi, sacrificio gradevole per te, e ti parlai a lungo, se non in questi termini, in questo senso: "E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, sarai irritato fino alla fine? Dimentica le nostre passate iniquità". Sentendomene ancora trattenuto, lanciavo grida disperate: "Per quanto tempo, per quanto tempo il "domani e domani"? Perché non subito, perché non in quest'ora la fine della mia vergogna?". 12. 29 Così parlavo e piangevo nell'amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: "Prendi e leggi, prendi e leggi". Mutai d'aspetto all'istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L'unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si leggeva: "Va', vendi tutte le cose che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi". Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te. Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: "Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze". Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono. 12. 30 Chiuso il libro, tenendovi all'interno il dito o forse un altro segno, già rasserenato in volto, rivelai ad Alipio l'accaduto. Ma egli mi rivelò allo stesso modo ciò che a mia insaputa accadeva in lui. Chiese di vedere il testo che avevo letto. Glielo porsi, e portò gli occhi anche oltre il punto ove mi ero arrestato io, ignaro del seguito. Il seguito diceva: "E accogliete chi è debole nella fede". Lo riferì a se stesso, e me lo disse. In ogni caso l'ammonimento rafforzò dentro di lui una decisione e un proposito onesto, pienamente conforme alla sua condotta, che l'aveva portato già da tempo ben lontano da me e più innanzi sulla via del bene. Senza turbamento o esitazione si unì a me. Immediatamente ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo. Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più né moglie né avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei tanti anni prima nel corso di una rivelazione; e mutasti il suo duolo in gaudio molto più abbondante dei suoi desideri, molto più prezioso e puro di quello atteso dai nipoti della mia carne.
Era il Libro VIII delle Confessioni, già un po' oltre la metà. Qui Agostino si trova già sulla strada che poi intraprenderà ma si può dire che non ci sia ancora arrivato del tutto. Allora sente di aver bisogno di aiuto, come farà Dante quando sentirà di aver bisogno di un Virgilio: va a trovare una persona cui chiedere consiglio, e quella persona si chiama Simpliciano. Che è proprio il Simpliciano che la tradizione ambrosiana vuole nativo di Brivio, qui, a pochi chilometri da noi.
Che poi in queste cose non si è mai davvero sicuri, altri dicono fosse di Roma, quindi lasciamo stare. Però se vi capita di andare a Lecco passando da Calco fateci caso, ché dopo la rotonda che porta a Brivio e all'Adda, un po' prima di Airuno, c'è un bel casale, sulla destra, su cui in grande sta scritto "Beverate" e un po' più in piccolo "Paese natale di San Simpliciano Vescovo". Vescovo perché sarà proprio lui, Simpliciano, a succedere brevemente ad Ambrogio nell'anno 397, dieci anni dopo il battesimo di Agostino.
Ma non divaghiamo. Agostino va da Simpliciano, il quale gli racconta della conversione di un suo amico carissimo, un famoso uomo di lettere romano (per quello qualcuno suppone potesse essere non brianzolo ma originario a propria volta di Roma) Mario Vittorino. E Agostino un po' vorrebbe lasciarsi convincere e un po' non ci riesce, e allora le cose ancora non sono mature ma quasi, e serve ancora una spintarella. A darla, ad Agostino e al suo amico Alipio, sarà un altro personaggio, Ponticiano.
Questi un giorno, probabilmente poco dopo l'incontro tra Agostino e Simpliciano, racconta ai due amici la storia di due funzionari imperiali che stavano a Treviri, in Germania, e che durante una passeggiata avevano trovato per caso un libro che narrava la vita di Sant'Antonio (che naturalmente non è quello di Padova, che sarebbe venuto secoli dopo, ma un monaco egiziano. Oggi lo conosciamo bene come "Sant'Antonio del porcello", per capirci).
E subito, avendo letto quel libro, trovato per caso e aperto a caso, i due funzionari si sarebbero convertiti alla fede. E voi capite che Agostino ne rimane colpito: "Ma come - si sarà detto - qui tutti trovano ragioni per cambiare la loro vita, tutti ricevono questa specie di illuminazione, e io no?". Ci sarà probabilmente rimasto male. E forse è anche per questo che - l'abbiamo appena ascoltato - esce in giardino in preda a tutta quell'agitazione.
Ed è in seguito a questo episodio che potrà vivere, finalmente, a propria volta, la sua illuminazione proprio come era accaduto a quei due funzionari imperiali col libro sulla vita di Sant'Antonio. Esattamente come loro, anche Agostino troverà in un libro la spinta decisiva: un brano della lettera di San Paolo ai Romani. Allora torna pieno di stupore e di felicità da Alipio ed ecco che anche Alipio riceve un'illuminazione simile, quindi lo dicono a Monica, la madre che tanto aveva pregato per tutto questo, e Monica esulta.
Ed è bella questa cosa, che la gioia abbia bisogno di essere raccontata per essere sentita. A tutti noi è certamente capitato di ricevere una bella notizia, qualcosa che ci rallegra nel profondo, e anche noi sentiamo - proprio come Agostino - il bisogno di raccontarla, di "Gridarla dai tetti" come dice il Vangelo. Di condividerla.
Con la mamma, con un amico, con la persona amata. La gioia per risplendere di più deve essere comunicata. E a me, personalmente, da lettore, da persona cui piace scrivere, piace molto questa cosa che posso anch'io apprendere: Agostino ha provato una gioia così grande che ha dovuto raccontarla e non solo a chi gli stava intorno ma anche a noi, e l'ha scritta in libri che leggiamo ancora oltre sedici secoli dopo. Ed è proprio alla prima destinataria di quel grido di gioia, a Monica, che dobbiamo dirigerci adesso. Però lasciatemi dire ancora, qui, una cosa più personale.
O meglio lasciatemi fare una precisazione. È questa: io, mentre stavo scrivendo questa cosa che vi racconto stasera, mi sono sentito un po' in imbarazzo. Perché mi rendo conto che siano osservazioni minuscole, non certo qualcosa che abbia un rilievo "dotto".
Sono tutte cose arcinote cui arrivo anzi seguendo la bussola che il prof. Beretta mi ha dato selezionando i brani, uno l'abbiamo ascoltato adesso, che ci vengono letti tanto bene dall'amico Ettore Fiorina.
In più, sapevo che avrei dovuto parlare davanti a persone che Agostino lo conoscono, e bene. Tutti voi, o almeno la maggior parte di voi, lo conosce meglio di me. Quindi a cosa serve? Ecco, ho pensato questo, che sia per questo: che forse può essere utile anche preparare, e persino ascoltare, una relazione che tocchi anche solo per sommi capi una figura così colossale come quella di questo santo purché provi a renderlo accessibile anche a chi lo conosce poco, come per esempio a me stesso, che le cose che dico più che saperle le imparo proprio intanto che le scrivo.
Cioè le imparo proprio scrivendole. Non so se avete anche voi questa esperienza, che certe cose per poterle capire bisogna anche scriverle: a me succede spesso di non aver capito davvero qualcosa fino a quando non mi sono messo lì e l'ho scritta. E mi viene da pensare che forse anche Agostino, ovviamente in modo immensamente più grande, ha scritto così tanto anche per poter capire meglio - lui - quello che stava scoprendo intanto che lo scopriva.
E cos'era quello che stava scoprendo? Era, erano, ovviamente, moltissime cose. Così tante che condensarle in poco tempo è impossibile. Ma forse si può ridurre il tutto a una parola sola, perché la complessità ha questa meraviglia in sé, che è semplice. E quella parola è "Bellezza". Aurelio Agostino ha inseguito, prima riottoso e poi a passo spedito, semplicemente la Bellezza con la maiuscola, al punto che quando ha descritto nelle Confessioni questo lungo percorso è riuscito a farlo in poche parole ma raggiungendo una delle molte vette letterarie che la sua opera contiene.
Difatti, se noi oggi a distanza di così tanti secoli leggiamo ancora Agostino (mentre facevo questa ricerca ho trovato, l'annotazione di uno studioso che dice che di, o su, Agostino si pubblica ancora oggi un libro al giorno) è perché nella sua opera non sono contenute "solo" le riflessioni di un uomo che è una delle colonne portanti del pensiero occidentale, non c'è solo materia per le speculazioni teologiche e filosofiche di una moltitudine di filosofi e teologi che hanno letto e studiato Agostino.
Non è "solo" questo perché c'è anche un enorme giacimento di bellezza, di pura bellezza letteraria. Così grande da assumere accenti che non è fuori luogo definire lirici e che non per caso sono anche stati tradotti persino in un canto celebre e amato. Sto parlando naturalmente di quanto è contenuto nel Libro X delle Confessioni, là dove Agostino scrive parole che risplendono intatte, proprio come fa l'oro, anche sedici secoli dopo.
Secondo brano "Tardi ti ho amato" - Conf. 10. 27. 38
Tardi ti ho amato, Bellezza così antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Sì, perché tu eri dentro di me ed io fuori: lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle sembianze delle tue creature. Eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, respirai ed ora anelo verso di te; ti gustai ed ora ho fame e sete di te; mi toccasti, e arsi dal desiderio della tua pace.
Quindi è anche per questo che mi sono permesso di intitolare questo incontro (poi non ho avuto il coraggio di chiedere a Luigi di dare questo titolo alla serata, si capisce) "Aurelio Agostino per principianti". Dove va da sé che il principiante in questione sono anzitutto io, con tutta la mia meraviglia nel momento stesso in cui incontro la bellezza. Anzi, la Bellezza con la maiuscola
Perché davvero l'immensa produzione, anche solo letteraria, di questa personalità gigantesca che è stata Agostino d'Ippona non si sintetizza - né si lascia sintetizzare - facilmente. Poi è chiaro, che se bisogna ringraziare qualcuno, quei qualcuno sono due. Ed è proprio qui, allora, che possiamo tornare a Monica anzitutto, e poi ad Ambrogio Vescovo.
Terzo brano "Monica - Ambrogio" - Conf. 6. 2. 2; 3. 3
Un giorno mia madre, secondo un'abitudine che aveva in Africa, si recò a portare sulle tombe dei santi una farinata, del pane e del vino. Respinta dal custode, appena seppe che c'era un divieto del vescovo, lo accettò con tale devozione e ubbidienza, da stupire me stesso al vedere la facilità con cui condannava la propria consuetudine anziché discutere la proibizione del vescovo. Il suo spirito non era soffocato dall'ebrietà né spinto dall'amore del vino a odiare il vero, mentre i più fra i maschi e le femmine all'udire il ritornello della sobrietà vengono assaliti dalla nausea che prende gli ubriachi davanti a un bicchiere d'acqua. Quando portava lei il canestro con le vivande rituali da distribuire agli intervenuti dopo averle assaggiate, poneva davanti solo un calicetto di vino diluito secondo le esigenze del suo palato piuttosto sobrio e per riguardo verso gli altri; e se erano molte le sepolture dei defunti che così si volevano onorare, portava intorno quell'unico, piccolo calice da deporre su ogni tomba, e in quello condivideva a piccoli sorsi con i fedeli presenti un vino non solo molto annacquato, ma anche molto tiepido. Alle tombe infatti si recava per devozione, non per diletto. Perciò, una volta informata che il predicatore illustre, l'antesignano della devozione aveva proibito di eseguire quelle cerimonie anche sobriamente, per non dare ai beoni alcuna occasione d'ingurgitare vino e per la grande somiglianza di quella sorta di parentali con le pratiche superstiziose dei pagani, se ne astenne ben volentieri. In luogo di un canestro pieno di frutti terreni imparò a portare alle tombe dei martiri un cuore pieno di affetti più puri. Così dava ai poveri quanto poteva, anche se a celebrarsi era la comunione del corpo del Signore: perché i martiri s'immolarono e furono coronati a imitazione della passione di lui. Eppure credo, Signore Dio mio, ed è in proposito la mia intima convinzione davanti ai tuoi occhi, che probabilmente mia madre non si sarebbe arresa con tanta facilità a troncare le sue usanze, se la proibizione fosse venuta da una persona che non avesse amato come Ambrogio; e Ambrogio lo amava soprattutto a cagione della mia salvezza. Lui poi amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa. Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l'elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre. Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell'impossibilità di trovare la via della vita.
3. 3 Non t'invocavo ancora con gemiti affinché venissi in mio aiuto. Il mio spirito era piuttosto attratto dalla ricerca e mai sazio di discussioni. Lo stesso Ambrogio era per me un uomo qualsiasi, fortunato secondo il giudizio mondano perché riverito dalle massime autorità; l'unica sua pena mi sembrava fosse il celibato che praticava. Delle speranze invece che coltivava, delle lotte che sosteneva contro le tentazioni della sua stessa grandezza, delle consolazioni che trovava nell'avversità, delle gioie che assaporava nel ruminare il tuo pane entro la bocca nascosta del suo cuore, di tutto ciò non potevo avere né idea né esperienza. Dal canto suo ignorava anch'egli le mie tempeste e la fossa ove rischiavo di cadere. Non mi era infatti possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell'angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l'alimento indispensabile, o l'anima con la lettura. Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l'ingresso e non si usava preannunziargli l'arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente. Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa? Poi ci allontanavamo, supponendo che aveva piacere di non essere distratto durante il poco tempo che trovava per ricreare il proprio spirito libero dagli affari tumultuosi degli altri. Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attento a spiegare qualche passaggio eventualmente oscuro dell'autore che leggeva, o a discutere qualche questione troppo complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volumi inferiore ai suoi desideri. Ma anche la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale. Ad ogni modo, qualunque fosse la sua intenzione nel comportarsi così, non poteva non essere buona in un uomo come quello.
Si diceva quindi di Agostino, che non si sintetizza né si lascia sintetizzare facilmente. L'insegnamento di Agostino è sì sintetizzabile in una sola parola, "bellezza", ma non si deve fraintendere, non è che questo lo renda un autore "facile". Anzi, egli è uno dei più complessi anche perché il suo pensiero viene da un tempo che ci è molto lontano e le ramificazioni cui ha portato la filosofia e la teologia sono di tale ampiezza che risalire alla radice è tutto tranne che agevole.
Soprattutto per i principianti, come me. Ciononostante, ci si accorge subito di un paradosso: il pensiero di Agostino è complesso, eppure se andate in Internet e scrivete il suo nome si aprono pagine a migliaia in cui sono riportate sue frasi, suoi aforismi, e se cercate una copia delle Confessioni ne trovate in vendita di tutti i tipi e per tutti i lettori, dallo studioso al semplice lettore che vuole provarci.
Mi pare che sia un paradosso sostanzialmente perché oggi il pensiero di Agostino non è in sintonia perfetta con la modernità: noi viviamo in un mondo in cui l'idea di una Verità con la maiuscola è in crisi, e in cui il sapere scientifico - che è quanto per noi sia più vicino all'idea di verità - funziona per approssimazioni e probabilità. Eppure Agostino è ancora ascoltato, letto, cercato. Non solo dagli specialisti, non solo dagli appassionati componenti di un'Associazione, ma da un sacco di gente normale.
Per esempio, leggendo uno dei libri che poi dirò alla fine - uno di quelli degli studiosi seri e di livello accademico intendo, non di gossip - ho trovato la notizia che, dopo la prematura scomparsa, sul comodino di una nota attrice (che se vogliamo stare ai fatti era stata una famosa pornodiva) venne trovata alla morte di lei una copia delle Confessioni. A prova che è proprio vero, forse, quello che è stato detto su chi nel Regno dei Cieli entrerà prima di tanti che si ritengono "giusti".
Lo dico anzitutto pensando a me stesso perché ho controllato anche oggi, prima di uscire per venire qui, e mi tocca essere onesto e ammettere che sul mio comodino una copia delle Confessioni ... non c'è. Tuttavia non mi pare un caso se questo grande pensatore - che è soprattutto un grande santo - viene cercato e ascoltato anzitutto da chi si trova nel dubbio, nell'angoscia, nel travaglio, nella paura della morte.
Nelle Confessioni, di cui abbiamo ascoltato alcuni brevissimi brani, c'è difatti in bella evidenza proprio il tormento della ricerca, e l'angoscia del non trovare risposta. E poi, ovviamente, c'è la gioia del trovarla. Noi naturalmente non possiamo metterci qui, adesso, in pochi minuti, a dire della gioia immensa che Agostino ha potuto trovare - prima ancora che nella fede - nella "ricerca stessa" della fede.
Quando dice che nessuno può essere luce a sé stesso, Agostino parla ancora all'uomo di oggi, il quale vede perfettamente come neppure le conquiste tecnologiche sono sufficienti, e che neppure i nostri smartphone (che teniamo in mano come se li avessimo sempre avuti anche se sarebbero sembrati un miracolo e una magia appena pochi anni fa) bastano a renderci felici.
Quando nell'apertura delle Confessioni dice rivolgendosi a Dio: "Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te" parla di qualcosa che tutto il nostro essere di donne e di uomini del XXI secolo capisce perfettamente nonostante - o forse proprio a causa di - tutte le cose peraltro meravigliose che ci circondano, di tutte le nostre opportunità, libertà, ricchezze, conquiste: possediamo oggetti e viviamo esperienze che appena ieri sarebbero sembrate fantasie e ugualmente sentiamo che tutto questo non basta.
E quando sintetizza tutta questa sua ricerca dicendo che la prova che l'uomo è fatto a immagine di Dio sta proprio nella constatazione che l'uomo altro non fa lungo la propria vita che cercare una risposta alla propria origine, risponde proprio all'obiezione più comune dei non credenti, che sia stato l'uomo a creare Dio a propria immagine e somiglianza. "No!" risponde Agostino: l'uomo è immagine di Dio perché dentro di sé sente con tutta la forza l'imperativo di cercarLo. E, vien da aggiungere, l'angoscia quando non lo trova.
Tutta questa meraviglia (tutta questa bellezza ...) è impossibile da sintetizzare in poche righe, o in poche parole, e oltretutto so perfettamente - in quanto principiante - di non esserne capace. Allora può forse valere un esempio. Abbiamo parlato prima di Monica, della mamma che tanto ha fatto per attrarre Agostino alla fede. Ecco, un'idea della pace (meglio: dell'approdo sicuro) che finalmente Agostino ha trovato nella propria ricerca possiamo forse sentirla meglio che altrove in un brano che proprio di Monica parla.
Anzi, che parla di Monica - si potrebbe dire - per l'ultima volta. Agostino si trova davanti al limite estremo contro il quale tutti sbattiamo presto o tardi nella nostra vita, che è il limite della morte non tanto nostra (che fa paura, sì, ma che è comunque una prospettiva se non distante quantomeno sotto il pelo della superficie della nostra coscienza) quanto delle persone che amiamo. E qui Agostino, davanti alla morte della madre amata, ci dice - e miracolosamente ci fa vedere - quanto saldo sia quel porto quando si riesce a trovarvi riparo.
Quarto brano "Morte di Monica" - Conf. 9. 19. 29; 13. 37
Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino a disseccarlo. Fu una lotta penosissima. Il giovane Adeodato al momento dell'estremo respiro di lei era scoppiato in singhiozzi, poi, trattenuto da noi tutti, rimase zitto: allo stesso modo anche quanto vi era di puerile in me, che si scioglieva in pianto, veniva represso e zittito dalla voce adulta della mente. Non ci sembrava davvero conveniente celebrare un funerale come quello fra lamenti, lacrime e gemiti. Così si suole piangere in chi muore una sorta di sciagura e quasi di annientamento totale; ma la morte di mia madre non era una sciagura e non era totale. Ce lo garantivano la prova della sua vita e una fede non finta e ragioni sicure. 13. 37 Sia dunque in pace col suo uomo, prima del quale e dopo il quale non fu sposa d'altri; che servì offrendoti il frutto della sua pazienza per guadagnare anche lui a te. Ispira, Signore mio e Dio mio, ispira i servi tuoi, i fratelli miei, i figli tuoi, i padroni miei, che servo col cuore e la voce e gli scritti, affinché quanti leggono queste parole si ricordino davanti al tuo altare di Monica, tua serva, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi introducesti in questa vita, non so come. Si ricordino con sentimento pietoso di coloro che in questa luce passeggera furono miei genitori, e miei fratelli sotto di te, nostro Padre, dentro la Chiesa cattolica, nostra madre, e miei concittadini nella Gerusalemme eterna, cui sospira il tuo popolo durante il suo pellegrinaggio dalla partenza al ritorno. Così l'estrema invocazione che mi rivolse mia madre sarà soddisfatta, con le orazioni di molti, più abbondantemente dalle mie confessioni che dalle mie orazioni.
Poi però c'è un rovescio della medaglia in questo rapporto così stretto che Agostino ha con la nostra contemporaneità, ed è che in quanto autore importante, celebre, uno dei non moltissimi abitanti di un mondo ancora pienamente romano che siano ancora oggi vitali e conosciuti ovunque (fosse anche soltanto di nome) è anche uno cui è facile far dire cose che non ha mai detto.
Ad esempio, c'è tutta una pubblicistica che rende un'immagine negativa di Agostino, che lo presenta come un nemico di tutti quei valori che oggi nel nostro tempo giustamente celebriamo. Un nemico della pari dignità tra gli uomini e le donne ad esempio, un nemico della sessualità, un nemico addirittura della libertà. E a volte certe critiche durissime ad Agostino non vengono semplicemente dalla Rete, o dalle "fake news", ma anche da studiosi autorevoli, da persone che sanno - o dovrebbero sapere - di cosa parlano.
Perché è chiaro che se si prende qualcosa dalla sterminata produzione di Agostino e la si toglie dal contesto in cui è stata scritta (è sempre la questione dell'ambiente vitale in cui un'opera nasce, ne avevamo parlato - chi c'era magari se lo ricorda - incontrando Dante all'inizio dello scorso settembre) poi è chiaro che si riesce a far dire a qualcuno più o meno quello che si vuole.
Che quando viene fatto con malizia è persino più comprensibile (e il giochetto è più semplice da smontare) ma quando capita invece che la malizia non ci sia, la manipolazione è molto più subdola proprio perché non c'è dolo, e allora succede anche di trovare studi e libri che parlino di un Agostino che sminuisce la figura della donna, o riduce l'amore della coppia alla mera procreazione, il che è fuorviante in senso proprio filologico: anzitutto Agostino viveva un tempo in cui i valori erano - poco o tanto - diversi dai nostri, e soprattutto il più delle volte andando a vedere le cose da vicino (ovvero a leggerle per intero e nel loro contesto) vediamo che il senso delle diverse proposizioni è ben altro.
Naturalmente non c'è bisogno di dilungarsi su questo, prima di tutto perché come ho già detto (a mia difesa soprattutto, e più volte) io sono un principiante e per trattare tematiche come questa occorrono figure di ben altro spessore, e poi perché certe questioni andrebbero sviscerate una per una. Che poi è quello che l'Associazione Sant'Agostino cerca di fare, ad esempio, nella Settimana agostiniana, no? Un passo alla volta.
In realtà, la ragione per cui ho voluto toccare anche se appena di sfuggita questo aspetto, è che l'impatto di Agostino sul nostro mondo, cioè su oltre millecinquecento anni dopo la sua esistenza, è davvero notevole, e lo si può comprendere se pensiamo a quante opere odierne, anche opere che neppure ci verrebbero in mente, abbiano debiti colossali con il pensiero agostiniano.
Per esempio: avete presente quella serie televisiva di inizio anni 2000, celebratissima, premiatissima, entrata a buon diritto nella storia della televisione, che è stata Lost? Quella in cui un aereo precipita su una sperduta isola in mezzo all'oceano, con tutto quello che ne consegue man mano che quell'isola la esplorano? Quella in cui il concetto stesso di "tempo" diventa una sorta di personaggio? Per non parlare della lotta tra il bene e il male, tra il destino e il libero arbitrio?
Ecco, chi ha scritto quella serie era qualcuno che conosceva bene Agostino. Per non parlare di altri film molto celebrati e molto premiati, non film da cinema d'essai ma film per il grande pubblico, pellicole hollywoodiane come Inception, con Leonardo Di Caprio, o Interstellar, con Matthew McConaughey? Anche qui l'idea di "tempo" è sviscerata da gente che di sicuro ha letto Agostino.
È così che fanno le cose grandi, quelle che conoscono bene solo gli specialisti, solo quelli che hanno dedicato anni della loro vita allo studio, a filtrare poi anche nella vita dei principianti: poco a poco. Così tutti noi, praticamente ogni giorno, ci troviamo messi davanti, senza che neppure ce ne accorgiamo, a idee e pensieri che anche Sant'Agostino d'Ippona ha avuto. Ma una goccia alla volta.
Però noi non siamo qui per parlare di film e serie televisive, ma per festeggiare un compleanno, non dovremmo dimenticarcene. Era proprio come oggi un 13 novembre, l'anno era il 386, mille e seicento e trentacinque anni fa. Forse, è possibile, magari è addirittura probabile, che a pochi metri da dove ci troviamo adesso sia accaduta proprio questa scena.
Quinto brano "Compleanno" - De Beata Vita 1. 6
Il tredici novembre ricorreva il mio compleanno. Dopo un pranzo tanto frugale che non impedì il lavoro della mente, feci adunare nella sala delle terme tutti coloro che non solo quel giorno ma ogni giorno convivevano con me. S'era presentato come luogo appartato, adatto all'occorrenza. Partecipavano, e non ho timore di presentarli per ora con i soli nomi alla singolare tua benevolenza, prima di tutto mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, tutto quel che sto vivendo, Navigio mio fratello, Trigezio e Licenzio miei concittadini e discepoli. Volli che non mancassero neanche Lastidiano e Rustico, miei cugini, sebbene non avessero frequentato neppure il maestro di grammatica. Ritenni che il loro buon senso fosse sufficiente all'argomento che intendevo trattare. Con noi era anche mio figlio Adeodato, il più piccolo di tutti. Egli ha tuttavia un ingegno che, salvo errore dovuto all'affetto, promette grandi cose. Ottenuta la loro attenzione, cominciai nei termini seguenti.
Ci sono tutti lì riuniti, proprio come si usa fare quando si fa festa a qualcuno. C'è Monica, quella madre cui Agostino deve tutto ciò che ha potuto scoprire, ci sono Licenzio, capace di grandi intuizioni, e Trigezio, che dall'esperienza ha imparato molte cose. C'è il silenzioso Navigio, che non interverrà quasi mai, così come sempre silenziosi saranno Lastidiano e Rustico, al punto da aleggiare quasi come presenze più che come personaggi. E poi c'è Adeodato, che soprattutto ascolta, e apprende.
Così come l'episodio con cui avevamo iniziato, quello del "Prendi e leggi", era avvenuto a Milano mentre la conversione stava maturando, nello stesso modo questo, che è narrato nel De Beata Vita e che è accaduto forse proprio dove siamo ora, mostra l'arrivo imminente all'approdo. Agostino in quest'opera sollecita risposte dai propri compagni, già quasi come un maestro, ed è anche per questo che se si vuol leggere Agostino forse vale la pena cominciare da qui, dal De Beata Vita, e affrontare le Confessioni solo dopo, una volta divenuti più saggi.
Qui (probabilmente qui) pressappoco dove ci troviamo adesso, ospite dell'amico Verecondo, circondato dalle persone più care, Agostino porta a maturazione tutto ciò che ha appreso e su cui ha meditato con pazienza e acume. Dopo il pasto frugale di cui abbiamo appena sentito arriverà anche un dolce, come è giusto in ogni festa di compleanno che si rispetti, preparato forse da Monica stessa o da qualcuno della casa, e da lì inizia una discussione lunga tre giorni che avrà per tema proprio la felicità.
Sesto brano "Cassiciaco" - Conf. 9. 3. 5; 9. 4. 7; 9. 4. 8
La nostra fortuna consumava d'inquietudine Verecondo. Egli vedeva come, a causa dei vincoli tenacissimi che lo trattenevano, sarebbe rimasto escluso dalla nostra società. Non ancora cristiano, aveva una moglie credente, ma proprio costei era una catena al piede, che più di ogni altra lo ritardava fuori dal cammino che avevamo intrapreso. Poi diceva di voler rinunziare a farsi cristiano, se non poteva esserlo nel modo appunto che gli era precluso. Però si offrì molto generosamente di ospitarci per tutto il tempo che saremmo rimasti colà. Lo ricompenserai, Signore, con usura alla resurrezione dei giusti, come già lo ricompensasti concedendogli il loro stesso capitale. Noi, trasferiti ormai a Roma, eravamo assenti quando, assalito nel corpo da una malattia, si fece cristiano e fedele, quindi migrò da questa vita. Fu da parte tua un atto di misericordia non soltanto nei suoi riguardi, ma anche nei nostri, poiché sarebbe stato un tormento intollerabile ripensare all'insigne generosità dell'amico verso di noi senza poterlo annoverare nel tuo gregge. Grazie a te, Dio nostro! Noi siamo tuoi, lo attestano le tue esortazioni e poi le tue consolazioni, perché, fedele alle promesse, tu rendi a Verecondo, in cambio della sua campagna di Cassiciaco, ove riposammo in te dalla bufera del secolo, l'amenità del tuo giardino dall'eterna primavera. Sì, gli hai rimesso i peccati sulla terra, ponendolo sul monte pingue di cacio, il tuo monte, monte ubertoso. 9. 4. 7 E venne il giorno della liberazione anche materiale dalla professione di retore, da cui ero spiritualmente già libero. Così fu: sottraesti la mia lingua da un'attività, cui avevi già sottratto il mio cuore. Partito per la campagna con tutti i miei familiari, ti benedicevo gioioso. L'attività letteraria da me esplicata laggiù interamente al tuo servizio, benché sbuffante ancora, come nelle pause della lotta, di alterigia scolastica, è testimoniata nei libri ricavati dalle discussioni che ebbi con i presenti, e con me solo davanti a te; mentre quelle che ebbi con Nebridio assente sono testimoniate nel mio epistolario. E quando mi basterà il tempo per mettere in scritto tutti i tuoi grandi benefici a noi accordati in quel periodo, tanto più che ho fretta di passare ad altri, ancora maggiori? La mia memoria mi richiama, pregusto la dolcezza di confessarti, Signore, i pungoli interiori, con cui mi domasti; il modo che usasti per spianarmi, abbassando i monti e i colli dei miei pensieri, per raddrizzare le mie vie tortuose, per addolcire le mie asperità; e quello con cui piegasti anche lui, Alipio, al nome del tuo unigenito, il signore e salvatore nostro Gesù Cristo, fino ad allora indegno ai suoi occhi di figurare nei nostri scritti. Preferiva che olezzassero dei cedri scolastici, ormai stritolati dal Signore, anziché delle erbe ecclesiastiche, medicamentose contro i serpenti. 9. 4. 8 Quali grida, Dio mio, non lanciai verso di te leggendo i salmi di Davide, questi canti di fede, gemiti di pietà contrastanti con ogni sentimento d'orgoglio! Novizio ancora al tuo genuino amore, catecumeno ozioso in villa col catecumeno Alipio e la madre stretta al nostro fianco, muliebre nell'aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell'amore, cristiana nella pietà, quali grida non lanciavo verso di te leggendo quei salmi, quale fuoco d'amore per te non ne attingevo! Ardevo del desiderio di recitarli, se potessi, al mondo intero per abbattere l'orgoglio del genere umano.
E al mondo intero, infatti, li avrebbe recitati, anche per il nostro bene e per la nostra di felicità. Per parlarci di Dio, del bene e del male, di quale sia il senso della vita, di come faccia a scorrere il tempo. Per parlarci soprattutto della Bellezza, quella con la maiuscola. Così stando le cose, come si fa a dire che Agostino non è attuale? Che non ha da parlare anche al nostro presente? Le sue non sono forse domande che attanagliano anche noi benché si abbia tra le mani uno smartphone e ci basti scrivere "Agostino" su Google per sapere di lui cose che anche solo pochi anni fa ci sarebbe costata grave fatica conoscere?
Mi fermo qui perché non mi sembra di poter dire nient'altro. Ho cercato molto semplicemente di dirvi alcune piccole cose che del resto sto anch'io ancora imparando su questo tesoro del paese in cui abito da tanti anni. Ma vi sono debitore ancora di una piccola cosa prima di chiudere e salutarvi. Sono un film e quattro libri.
Il film è quello di Roberto Rossellini del 1972. Lo si trova gratuitamente su YouTube. Mi ha aiutato tanto e forse lo ha fatto proprio perché è un film "vecchio", molto lontano dal modo di raccontare che il cinema (o la televisione: Rossellini lo girò per la televisione, in effetti) ha oggi. Non c'è nessuna concessione al ritmo infatti, al dramma, tutto è riepilogato nei dialoghi che sono tutti costruiti a partire dalle opere di Agostino. E poi c'è l'attore protagonista, l'algerino, berbero, Dary Berkani, che ci mostra un uomo credibile, un uomo che potrebbe davvero esser nato a Tagaste.
Il primo libro è questo, il Secretum di Francesco Petrarca, che ci fa sentire bene, secondo me, tutto il travaglio che è anche il nostro, che è stato anche di Agostino, quando sappiamo perfettamente cosa sia il bene e ugualmente commettiamo il male. Petrarca altrove avrebbe condensato tutto quanto in un verso solo, mirabile: "Io vedo il meglio ma al peggior m'appiglio". Non so se sia la vostra esperienza, ma era stata quella di Agostino e certamente è anche la mia.
Il secondo titolo io lo conosco da qualche anno ma non sono ancora riuscito a trovare un libro che riesca, con la stessa semplicità eppure mantenendo tutto il necessario rigore, a parlare di Agostino anche a chi non è esperto ma solo principiante. È di un docente universitario oggi cinquantenne che si chiama Carlo Chiurco, e s'intitola emblematicamente, semplicemente, Sant'Agostino.
E infine - Luigi e gli amici dell'Associazione avranno pazienza - due romanzi. Ché bisogna anche essere indulgenti con chi, come il sottoscritto, è più ferrato con la narrativa che con la saggistica specialistica. Uno è del tedesco Louis De Wohl, uscito nel 1951 ma pubblicato nel 2015 da Rizzoli: Una fiamma inestinguibile, in cui "l'avventurosa vita di Agostino", come viene definita, ci viene presentata dal punto di vista dell'amico Alipio.
L'altro è del norvegese Jostein Gaarder. Qui mi serve ancora più indulgenza da parte del prof. Beretta e di tutti quanti perché Vita brevis fa parlare non Agostino ma una donna che l'autore, nella finzione letteraria, chiama Floria Emilia. È quella di cui parlavamo all'inizio, ricordate? L'avevo paragonata alla Laura di Petrarca. Ovvero la donna che fu la mamma di Adeodato. Ed è un canto anche di dolore questo romanzo, in cui è lei sola a parlare, anche di abbandono. Perché tutto il libro altro non è se non una lunga lettera in cui questa donna, che ancora palesemente ama, "rimprovera" ad Agostino, già Vescovo, di aver considerato il loro amore terreno un ostacolo per l'amore divino.
È ovvio che è un romanzo che si può leggere anche con piacere ma che non è un manuale accademico. Però pone una domanda interessante. Importante persino, anche se naturalmente non ha a che fare con il vero Agostino, quello della storia, ma con noi e con tutti i secoli in più che rispetto ad Agostino abbiamo avuto a disposizione per rispondere. Una domanda grande con la quale vi lascio, perché ovviamente non ho una risposta, o meglio ho soltanto la mia e non interessa, giustamente a nessuno. È questa: "Può l'amore per una persona essere un limite all'amore per Dio? O invece l'uno può alimentare l'altro?".
Grazie.