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2023: Sironi Annarita

La locandina dell'incontro in programma

La locandina dell'incontro in programma

I partecipanti all'incontro nella sala del pellegrino

I partecipanti all'incontro nella sala del pellegrino

 

 

I PROMESSI SPOSI: uno sguardo sul lecchese

Parole, scorci, curiosità

 

Lunedì 22 maggio 2023

ore 20.45 nella Sala del Pellegrino

Cassago Brianza

 

 

 

In occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni viene proposta una rivisitazione di alcuni episodi che hanno interessato il lecchese nel corso della narrazione relativa ai Promessi Sposi. La serata propone immagini del territorio in consonanza con alcuni brani scelti dei Promessi Sposi.

 

In occasione della celebrazione dei 150 dalla morte si Alessandro Manzoni, abbiamo pensato di presentare una serata di immagini, brevi letture e curiosità legate all'opera a cui lo scrittore Milanese deve la sua immortalità. I Promessi Sposi è il romanzo per eccellenza della letteratura italiana. Fonte inesauribile di ispirazione per il cinema, la tv, il teatro, i fumetti. Il romanzo I Promessi Sposi nella sua pienezza narrativa e per i suoi puntualissimi riferimenti storici è anche una miniera di curiosità e piccoli segreti che ne fanno un libro sempre attuale. Tutti a scuola abbiamo letto i Promessi Sposi, una storia d'amore tormentata da fatti storici turbolenti e potenti prepotenti. I poveri Renzo e Lucia ne hanno passate di tutti i colori, ma avete mai pensato che quella storia, che a noi sembra tanto lontana e inverosimile, potesse essere vera? Ebbene, recenti ricerche hanno rivelato qualcosa di incredibile: le mitiche vicende che hanno ispirato il famoso romanzo di Manzoni sono realmente accadute. Ma non sulle rive del lago di Como, come racconta il Manzoni, bensì ad Orgiano. Così Renzo, Lucia e Don Rodrigo ritenuti da sempre frutto della fantasia dell'autore, si è scoperto che sono realmente esistiti. Infatti qualche anno fa, sulla base di approfondite ricerche del prof. Claudio Povolo, docente universitario veneziano, è stato appurato che la vicenda di Renzo e Lucia, romanzata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, è una quasi trasposizione di una vicenda storica realmente accaduta ad Orgiano e finita poi addirittura a Venezia nelle mani del Consiglio dei 10. Un signorotto locale, tale Paolo Orgiano, che sarebbe il corrispettivo di Don Rodrigo, aveva commesso ogni sorta di soprusi ed angherie a danno della popolazione e sulle povere ragazze indifese sino a quando, con lo stupro di Fiore (Lucia Mondella), promessa sposa e rapita prima delle nozze, il vaso è stato colmo. Paolo Orgiano venne arrestato e condannato al carcere a vita ed a nulla è valsa la protezione del potente conte Settimio Fracanzan (conte zio nei Promessi Sposi) che in più occasioni aveva coperto il nipote nelle sue scorribande, anche contro il curato don Ludovico Oddi (don Abbondio) costretto a lasciare la parrocchia di Orgiano. Le analogie sono molte altre e la corposa documentazione storica presente nell'archivio storico di Venezia consente di poter avallare quasi in toto la vicenda raccontata dal Manzoni. Il processo si è protratto dal 1605 al 1607 e Paolo Orgiano, a differenza dell'omologo don Rodrigo, morirà nel carcere dei Piombi di Venezia il 6 aprile del 1613. Sepolto per oltre due secoli in un polveroso archivio veneziano, nel 1819 questo documento sarebbe finito fra le mani di Alessandro Manzoni, a coronamento di "segreti rapporti" intercorsi con tale Agostino Carlo Rubbi, funzionario dell'impero austriaco molto pratico di segreti giudiziari. Poi c'è l'Innominato: anche lui personaggio creato dal Manzoni. Tuttavia pare che egli si sia ispirato ad una persona realmente esistita. Secondo alcuni storici, infatti, l'Innominato deriverebbe da Francesco Bernardino Visconti, dei Visconti di Brignano. Questa famiglia era lontanamente imparentata con quella della mamma di Manzoni. Bernardino Visconti aveva la fama di essere un brigante che agiva insieme a una banda di bravi; si diceva che ad un certo punto si convertì grazie al cardinale Borromeo. Nel romanzo lo scrittore ha preferito omettere il nome reale e ricorrere all'appellativo di Innominato. Ciò aveva anche lo scopo di incutere timore nel lettore e di dar vita ad un personaggio che fosse quanto più possibile misterioso e violento.

ANCHE LA DATA DI COLLOCAZIONE DEGLI EVENTI NON È CASUALE.

Ed è proprio per la voglia di incrociare la Storia con la S maiuscola, che Manzoni scelse di ambientare l'avventura amorosa di Renzo e Lucia "dal 1628 al 1631". Come spiegherà lui stesso in una lettera al collaboratore Claude Fauriel, "le memorie che ci restano di quest'epoca presentano e fanno supporre una situazione della societa' quanto mai straordinaria: il governo piu' arbitrario combinato con l'anarchia feudale e l'anarchia popolare; una legislazione stupefacente per cio' che prescrive e per cio' che fa indovinare, o racconta; un'ignoranza profonda, feroce, e pretenziosa; delle classi con interessi e principi opposti". In conclusione vogliamo ricordarvi che, per arrivare alla stesura definitiva dei Promessi Sposi, Manzoni ci aveva messo quasi 21 anni e non pubblicò il suo Romanzo tutto in una volta: l'edizione definitiva, la Quarantana, vide la luce in 108 "episodi" (dispense) settimanali, che tennero i lettori sulle spine per 2 anni, proprio come avviene oggi con le serie tv di successo. E anche il cast, gli intrecci narrativi e i colpi di scena ricordano molto quelli della moderna narrazione televisiva. Insomma, questo romanzo è un'opera senza tempo che ha conosciuto sin da subito il più largo consenso popolare, finanche il sofferto problema di ben otto edizioni pirata che venivano vendute senza rispettare alcun copyright! Ed è proprio di diritto d'autore che riguarda una delle prime curiosità che vi raccontiamo. Le dispense de I promessi sposi, sempre molto richieste dai lettori, venivano contraffatte per ribassare il prezzo d'acquisto ed è così che l'editore, sia per la ristampa del 1827 che per la famosa Quarantana (del 1840), inserì alcune illustrazioni d'artista Francesco Gonin al fine limitarne la contraffazione.

 

 

 

Letture

 

SCORCIO PAESAGGIO

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: [...] Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, [...]

Dall'una all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua; di qua lago, chiuso all'estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute".

 

INCONTRO DON ABBONDIO E I BRAVI

"Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra:[...] Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto".

 

PESCARENICO

"Il sole non era ancor tutto apparso sull'orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov'era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell'Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all'entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s'alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de' monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d'autunno, staccando da' rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall'albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne' campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza". [...] cap. IV

 

ADDIO AI MONTI

"Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande". CAP. VIII

 

OLATE E ACQUATE

"L'assediato (don Abbondio), vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: - aiuto! aiuto! - Era il più bel chiaro di luna; l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano". CAP. VIII

 

(ACQUATE - CASA DI LUCIA)

"Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch'era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s'avviò a quella di Lucia, ch'era in fondo, anzi un po' fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzio che veniva da una stanza di sopra. S'immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia. (...) Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: - lo sposo! lo sposo! CAP. II

 

PALAZZOTTO DI DON RODRIGO

"Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca, sulla cima d'uno de' poggi ond'è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l'anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de' costumi del paese. Dando un'occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. (...) Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant'alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d'un altro. Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d'abitanti. Due grand'avoltoi, con l'ali spalancate, e co' teschi penzoloni, l'uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l'altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d'esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore". CAP. V

 

CASTELLO INNOMINATO

"Il castello dell'Innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle, hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni. Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un'occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell'agio i passi di chi veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. E anche d'una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. (...) Tale è la descrizione che l'anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all'imboccatura dell'erto e tortuoso sentiero". CAP. XX

 

CHIUSO - CASA DEL SARTO / CHIESA BEATO SERAFINO

"[...] Finalmente il baroccio arriva, e si ferma alla casa del Sarto. Lucia, s'alza precipitosamente; Agnese scende, e dentro di corsa: sono nelle braccia l'una dell'altra.[...] Le due donne, in que' pochi giorni ch'ebbero a passare nella casuccia ospitale del Sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna il suo antico tenor di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; [...]". Cap. XXIV e XXV

 

"Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sé una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a dare gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere; l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua a fare il suo dovere e la sua idea del dovere era: tutto il bene possibile; credeva egli sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come l'illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù che egli possedeva in grado raro, ma che egli si studiava sempre di acquisire". "Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest'arrivo ne' paesi d'intorno aveva invogliati tutti d'andare a veder quell'uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso. (...) Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una lunga passeggiata. (...) S'accostò a uno, e gli domandò dove fosse il cardinale. - In casa del curato, - rispose quello, inchinandosi, e gl'indicò dov'era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c'eran molti preti, che tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa". Cap. XXII " Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l'ora d'andar in chiesa a celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com'era solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato. - Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo! - Chi è? - domandò il cardinale.

- Niente meno che il signor... - riprese il cappellano - e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: - è qui fuori in persona; e chiede nient'altro che d'esser introdotto da vossignoria illustrissima. (...) Appena introdotto l'innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì. I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L'innominato, ch'era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell'uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l'orgoglio di fronte, l'abbatteva, e, dirò così, gl'imponeva silenzio". Cap. XXIII