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LA CONTROVERSIA ARIANA

 Milano: Basilica di sant'Ambrogio, il simbolo dell'evangelista Luca

Milano: Basilica di sant'Ambrogio, il simbolo dell'evangelista Luca

 

 

 

LA CONTROVERSIA ARIANA

 

 

 

La questione ariana

Nel corso del IV secolo la Chiesa di Milano fu direttamente coinvolta nella questione e negli scontri teologici generati dalla controversia ariana. L'intervento dei vescovi milanesi ed in particolare di Ambrogio fu complessivamente rilevante anche nelle discussioni di carattere trinitario e in teologia in generale. Le posizioni dottrinarie di Ambrogio e della Chiesa che rappresentava era tenuta nella massima considerazione sia per l'autorità dell'uomo quanto per il fatto che Milano è ormai stabilmente sede imperiale e pertanto occupa un ruolo centrale nelle alterne vicende politiche e religiose di quei tempi. La questione ariana aveva fatto parlare di sè verso il 320, quando il prete Ario nelle sue predicazioni e nei suoi scritti rifiutò la coeternità e increaturalità del Verbo. L'argomento sollevato da Ario era di estrema gravità per cui il dibattito ben presto coinvolse i vertici delle Chiese di maggiore autorità e i temi in discussione furono portati davanti a un concilio, che passerà alla storia come primo il concilio ecumenico. L'assemblea conciliare fu tenuta a Nicea nel 325. Nonostante la esplicita affermazione della divinità del Figlio formulata nella celebre definizione del Credo approvata in quel concilio, che considerava il Figlio come homousios (consustanziale) al Padre, il dibattito avviato da Ario non poté dirsi risolto, perché, soprattutto in Oriente, sospettando di eresia la dottrina dell'homousios, vari concili e assemblee sostennero, con il consenso imperiale, altre professioni di fede alternative. Principali paladini della fede nicena furono in questo frangente Atanasio il patriarca di Alessandria e Alessandro I vescovo di Costantinopoli. Il loro orientamento dottrinale, antitetico rispetto alle posizioni prevalenti in Oriente, e il prestigio delle cattedre episcopali che occupavano, trasformò ben presto il loro scontro con gli imperatori e l'episcopato antiniceno in discussioni che imponevano prese di posizione pro o contro Atanasio e Alessandro.

Alessandro sedette sulla cattedra episcopale di Costantinopoli subito dopo il concilio di Nicea del 325 fino al 336, quando morì. Sono anni difficilissimi, in cui l'eresia ariana dilagava e trovava comprensione anche nell'imperatore Costantino, alla ricerca di un compromesso teologico capace di ridare una apparente unità alla popolazione cristiana dell'impero. Proprio da una lettera scrittagli da Atanasio sappiamo che Ario, l'eresiarca che negava la consustanzialità di Cristo, ridotto a una creatura, per quanto nobilissima, faceva confuse e ambigue professioni di ortodossia e, forte della riabilitazione di Costantino, pretendeva di essere riammesso alla piena comunione ecclesiale. Alessandro si oppose fermamente e Ario non ebbe tempo di entrare nel tempio cristiano poiché, mentre si avviava sulla via della pubblica riabilitazione, morì improvvisamente. In questo quadro generale le Chiese cristiane occidentali si orientarono compatte a difesa del credo di Nicea e a sostegno di Atanasio.

Anche l'imperatore Costante, che governava la parte occidentale dell'impero, condivideva questa posizione, che nel 341 il Concilio di Roma aveva definito con autorità. In tale consesso papa Giulio aveva decretato la riabilitazione del vescovo di Alessandria e aveva piuttosto accusato di arianesimo i suoi molteplici oppositori. L'imperatore Costante nel 342 ricevette a Milano Atanasio, che si presentò alla corte accompagnato dal vescovo della città Protaso. La presenza del vescovo di Milano esprime chiaramente la linea filonicena della Chiesa milanese. Protaso in piena coerenza parteciperà e aderirà ai decreti del concilio di Serdica del 343. Convocato come concilio di tutto l'impero, Serdica vide la partecipazione di circa cento vescovi occidentali filoniceni e quasi settanta orientali, in prevalenza antiniceni. Purtroppo questo concilio anziché risolvere i gravi contrasti fra Occidente e Oriente, li rese ancora più acuti poiché nel bel mezzo dei lavori i vescovi orientali abbandonarono la città, mentre gli occidentali riconfermavano la fede di Nicea. Anche il vescovo Eustorgio I, il successore di Protaso sulla cattedra milanese, proseguì nella linea dottrinale filonicena. Fra il 345 e il 347, in un periodo che vide la stabile presenza in città dell'imperatore Costanzo, a Milano furono convocati ancora altri due concili, sia l'uno che l'altro concernenti ancora la tematica trinitaria e manifestamente filoniceni.

 

Aussenzio

A Eustorgio successe il vescovo Dionigi, che fu oggetto di numerosi attacchi da parte di vescovi ariani. Nel 355, durante il concilio di Milano, venne sferrato il colpo decisivo da Valente, vescovo di Mursa, l'attuale Eszeg in Ungheria, il quale godeva dell'appoggio dell'imperatore.

Così Dionigi assieme a Lucifero di Cagliari ed Eusebio di Vercelli dovette abbandonare il concilio e allontanarsi in esilio da Milano. L'imperatore Costanzo fu libero di insediare al suo posto Aussenzio, un ecclesiastico di origine cappadoce, che non parlava latino e che era stato ordinato prete ad Alessandria da Gregorio, rivale di Atanasio. Nonostante le ripetute condanne papali e le prese di posizione dei vescovi cattolici Aussenzio riuscì a guidare la chiesa di Milano sino all'autunno del 374. Quantunque nella sua qualità di esponente della corrente teologica antinicena, proprio a motivo della sua dottrina trinitaria, non potesse rappresentare integralmente la comunità di cui era stato fatto vescovo, d'altra parte bisogna tuttavia ammettere che, nonostante la storia lo ricorderà abitualmente come usurpatore, egli, nei suoi interventi in campo ecclesiale, parlò ed agì con l'autorevolezza di vescovo della Chiesa di Milano. Da un punto di vista squisitamente teologico Aussenzio non può essere ritenuto un ariano radicale, quanto piuttosto un seguace della linea di pensiero condivisa dallo stesso imperatore, che nella designazione del rapporto fra Dio e il Logos divino non ammetteva lo homousion (consustanziale) niceno a motivo della sua natura extrascritturistica e lo sostituiva con il più sfumato homoion (simile). Quando Ambrogio divenne vescovo nel 374 il clero e la popolazione della chiesa milanese erano divisi fra un gruppo cattolico probabilmente ancora maggioritario ed una comunità ariana che si era consolidata con il passare degli anni. Le vicende che condussero alla elezione a vescovo di Ambrogio sono una conferma di questo stato di fermento nella chiesa milanese.

Ambrogio si proponeva come l'uomo nuovo capace di placare le contese e di superare le divisioni, in un contesto di forti rivalità: "Perché sia gli ariani - ricorda Paolino - quanto i cattolici, cercando di sopraffarsi a vicenda, sostenevano l'elezione di un vescovo della loro fazione." Ambrogio, consacrato vescovo il 7 dicembre 374, affrontò il problema ariano nei primi tempi del suo episcopato con molta prudenza. Un tale atteggiamento era più che giustificato poiché egli mancava di competenza in campo teologico e inoltre non celava il desiderio di non esasperare il clero ordinato da Aussenzio, che fu integralmente accolto nella chiesa milanese. Le Chiese dell'ecumene cristiana, tornate ormai in gran parte alla fede nicena si aspettavano invece da Ambrogio una decisa difesa della dottrina dell'homousios. Significativo a questo riguardo l'intervento di Basilio, il celebre vescovo di Cesarea. Avendo ricevuta verso la fine del 374 una lettera, in cui Ambrogio lo informava della propria elezione alla sede milanese, Basilio rispose ad Ambrogio sollecitamente elogiando la sua rinuncia di Ambrogio agli onori civili. Allo stesso tempo con grande tatto lo invitava all'azione pastorale: "Combatti una buona battaglia - gli scrisse - risana le malattie del popolo, se vi sia qualcuno affetto da sventura della pazzia ariana."

Ambrogio fece propri i suggerimenti di Basilio e, sia pure con la paziente gradualità che la situazione milanese necessariamente richiedeva, iniziò una efficace azione di educazione e conversione alla fede nicena. Dal 378 al 382 scrisse e rese pubblici i suoi tre magnifici scritti teologici riguardanti il tema trinitario oltre a vari aspetti di cristologia: sono il De fide, il De Spiritu sancto e il De incarnationis dominicae sacramento. Già da questi scritti si rivela nella sua pienezza la grande capacità di Ambrogio di cogliere l'essenza dei problemi e di assimilare le soluzioni, anche già formulate da altri maestri, individuando formulazioni nitide, in cui l'ortodossia ecclesiastica si cala con chiarezza e precisione. Soprattutto va riconosciuto ad Ambrogio il merito di aver saputo strutturare in un quadro unitario e coerente i risultati del lavoro teologico che si svolgeva ai suoi tempi.

La sua teologia trinitaria viene così alimentata da più fonti, soprattutto greche, ma è ritradotta in forme personali e ortodosse alla tradizione latina. Ne sortisce una teologia strettamente legata al credo di Nicea ed al suo homousios, nel senso forte di identità di sostanza. Le convinzioni teologiche così maturate inducono Ambrogio a dar corso a una concreta prassi ecclesiale, che sarà messa a dura prova di lì a qualche anno. Nell'ambito della chiesa milanese egli dovette infatti affrontare fra il 385 e il 386 un caso di evidente contestazione da parte di ariani, che è l'unico da segnalare nel corso del suo episcopato. Questo caso fu portato alle estreme conseguenze dall'intervento interessato di Giustina, la madre dell'imperatore Valentiniano II, che appoggiava le richieste ariane.

 

La Basilica Porziana

L'episodio che portò alle estreme conseguenze questa sorda opposizione fra Ambrogio e Giustina, fra il potere ecclesiastico cioè e quello imperiale, è la controversia che si sviluppò per il possesso della Basilica Porziana, di proprietà cattolica, ma che gli ariani rivendicavano per sè in nome del diritto a esprimere liberamente la loro fede religiosa. I rapporti all'interno del clero milanese avevano mostrato segni di inasprimento dalla fine del 384 quando a Milano era giunto il vescovo ariano di Durostodonum Mercurino Aussenzio. Dopo essere stato deposto da Teodosio, egli cercava di riorganizzare la sua Chiesa a Milano, dove era ospite della corte imperiale di sentimenti filoariani.

Forte di questo appoggio la corrente ariana del clero milanese chiese per sè una Basilica dove celebrare i propri riti. Una prima richiesta ufficiale della corte fu fatta all'inizio del 385, ma Ambrogio oppose un netto rifiuto. Allontanatasi la corte da Milano ad Aquileia, la questione decadde, tuttavia verso gennaio del 386 una costituzione imperiale datata il 23 di quel mese, riconsiderò in toni minacciosi e perentori la richiesta, sostenendo la libertà di culto per gli ariani e minacciando la pena di morte a chiunque tentasse di impedirla. La basilica dove gli ariani avrebbero voluto esercitare il loro culto era la Basilica Porziana, che alcuni storici identificano con la chiesa attuale di San Vittore al Corpo, altri invece con S. Lorenzo. Ambrogio reagì in modo fulmineo ed energico: occupata la basilica col popolo, lo intratteneva con i suoi inni e le sue omelie per incoraggiarlo a resistere all'assedio dei soldati. Rispondendo a Valentiniano II in una lettera del marzo 386, Ambrogio si rifiuta di discutere la controversia e ricorda a suo sostegno una disposizione di Valentiniano I, in base alla quale nelle questioni riguardanti la religione, i sacerdoti dovevano essere giudicati solo da sacerdoti. Argutamente Ambrogio invita Aussenzio e i suoi giudici a venire senza paura in chiesa e li sollecita ad ascoltarlo insieme con il popolo. Se il popolo, dopo avere ascoltati entrambi, riterrà Aussenzio e i suoi, migliori di Ambrogio, segua pure la sua fede. Questa proposta rivela che il popolo aveva già scelto e che Ambrogio non poteva andare a un pubblico incontro di fronte all'imperatore, perché sia i vescovi (pro-babilmente quelli delle città vicine, di cui Ambrogio aveva chiesto l'appoggio), sia il popolo non glielo avrebbero permesso. La loro linea comune infatti sosteneva l'idea che le discussioni riguardanti la religione dovevano essere fatte nell'assemblea, davanti al popolo.

"D'altra parte - conclude Ambrogio - io non posso mettermi a questionare a palazzo, perché gli intrighi di palazzo nè li cerco nè li conosco." La stessa questione viene affrontata da Ambrogio in una lettera alla sorella Marcellina. Il tono familiare dell'epistola, lontano dallo spirito ufficiale delle cancellerie, ci offre una nuova prospettiva per valutare i fatti, certamente più immediata e fresca nel racconto. La lettera è dell'aprile del 386 e già in apertura chiarisce che i termini della controversia si erano allargati e che ora il problema non riguardava ormai più solo la Basilica Porziana, che si trovava fuori delle mura della città, ma anche la Basilica Nuova, che sorgeva entro il perimetro delle mura ed era la Basilica Maggiore. Questa Basilica detta Nova per distinguerla dalla Vetus che sorgeva vicino al battistero di Santo Stefano, nell'area del Duomo, corrisponderebbe alla chiesa di S. Tecla, che si trova sempre nella medesima area presso l'attuale Duomo. I fatti sono narrati da Ambrogio con estrema concisione e il loro prorompente sviluppo esprime bene la drammatica escalation che le due parti in contrasto riuscirono a provocare. Alla richiesta della corte imperiale di consegnare la Basilica, Ambrogio aveva obiettato che "un vescovo non può cedere un tempio che appartiene a Dio." Il giorno dopo si recò sul posto il prefetto del pretorio e cercò di fare opera di persuasione "perché almeno ci ritirassimo dalla basilica Porziana.

Ma il popolo - ricorda Ambrogio - protestò vivacemente, tanto che il prefetto se ne dovette andare, ammonendo che avrebbe fatto rapporto all'imperatore." Nei giorni successivi all'intervento del prefetto, la tensione continuò a salire. La domenica seguente, mentre durante la messa gli inviati della corte cercavano di stendere i veli nella Basilica Nova, per indicarne la requisizione, un sacerdote ariano di nome Castulo, fu aggredito e sequestrato dalla folla. Potè essere liberato solo perché intervenne Ambrogio. Durante la settimana santa del 386 la corte cercò con ogni mezzo di staccare e dividere il popolo da Ambrogio e lo fece colpendo con multe salatissime i commercianti. Le minacce però ottennero l'effetto di esasperare la protesta popolare. Con i soldati da una parte e il popolo in tensione dall'altra, il conflitto d'interessi poteva provocare da un momento all'altro un massacro. "Io inorridivo - ricorda Ambrogio alla sorella - sapendo che erano stati inviati degli armati ad occupare la basilica. Durante la requisizione poteva accadere qualche scempio, che avrebbe avuto come conseguenza la rovina di tutta la cittadinanza. Chiedevo al Signore la grazia di non sopravvivere al rogo di una città così grande, anzi al rogo di tutta l'Italia." L'imperatore aveva spedito un contingente di Goti ed Ambrogio, memore della sua antica autorità civile d'un tempo, li affronta direttamente e rimprovera loro: "L'autorità di Roma vi ha presi al suo servizio, perché diveniste complici di pubblici disordini ? " Ma all'alba del mercoledì santo 1 aprile 386, la situazione muta rapidamente.

Mentre il popolo era ancora riversato in massa in tutte e due le basiliche, la Nova e la Vetus, per ascoltare le letture, la resistenza delle truppe gote che circondavano gli edifici comincia a vacillare. Si sparge la voce che alcuni di essi hanno avvisato l'imperatore che gli avrebbero obbedito solo se l'avessero visto con i cattolici alle sacre funzioni. Ambrogio sottolinea poi che molti di loro cominciarono a unirsi ordinatamente al popolo, affermando che erano venuti per pregare e non per usare le armi. L'improvviso voltafaccia dei militari esaspera la corte che accusa Ambrogio di essere un usurpatore dell'autorità imperiale, letteralmente un tyrannus. Un nuovo colpo di scena modifica l'esito del conflitto: inaspettatamente il giorno del giovedì santo, mentre Ambrogio sta commentando al popolo riunito nella basilica il libro di Giona e ricorda che Dio aveva allontanato la distruzione che sovrastava Ninive, si diffonde la notizia che Giustina aveva impartito ai soldati l'ordine di ritirarsi e ai funzionari quello di restituire ai mercanti le somme, che erano stati costretti a pagare. L'esultanza del popolo e di Ambrogio è grande e scoppiano irrefrenabili gli applausi. Ricorda Ambrogio nella sua lettera alla sorella che anche i soldati si comunicavano contenti la notizia e si accostavano all'altare fraternizzando e recando il segno della pace. "Allora compresi - conclude Ambrogio - che il Signore aveva ucciso il verme antelucano, affinché tutta la città fosse salva." Agostino, che pure fu un testimone eccellente di quei fatti, purtroppo non ci ha lasciato un gran ricordo nelle sue opere di questa occupazione delle basiliche.

Egli ne parla senza particolare interesse: "Era passato un anno o poco più - scrive nelle Confessioni - da quando Giustina aveva preso a perseguitare il tuo Ambrogio" e l'occasione gli fornisce lo spunto per rammentare la decisione di Ambrogio di introdurre a Milano " l'uso di cantare inni e salmi al modo degli orientali." Anche Paolino conferma quest'uso: "In questa occasione - scrive - per la prima volta si cominciarono a cantare nella chiesa milanese antifone ed inni e a celebrare le vigilie, un uso questo, che, praticato devotamente, è vivo tuttora non solo in questa chiesa ma in quasi tutte le province d'Occidente." Nelle Confessioni una eco dei rapporti precari fra Ambrogio e la corte imperiale filoariana di quel tempo si affaccia nell'episodio del ritrovamento, nel giugno del 386, dei corpi dei martiri Protaso e Gervaso, avvenuto poco dopo lo scontro per il possesso delle basiliche. Agostino ne parla nelle Confessioni (IX, 7, 16) e qualche anno dopo sia nel Sermone 286 che nella Città di Dio (22, 8). Nella descrizione della scoperta dei corpi dei martiri e dei miracoli che avvennero, Agostino esprime insolitamente un giudizio della situazione politica che si era creata a Milano: "In quei giorni - scrive nelle Confessioni - una tua rivelazione al tuo vescovo Ambrogio gli aveva indicato il luogo dove giacevano sepolti i corpi dei martiri Protaso e Gervaso.

Per tanti anni li avevi serbati incorrotti nel tesoro del tuo segreto e al momento opportuno li portasti alla luce per domare la rabbia di una donna, regale però. Portati alla luce ed esumati, durante il solenne trasporto alla basilica ambrosiana non solo si produssero guarigioni, riconosciute dagli stessi demòni, di persone tormentate da spiriti immondi, ma un cittadino notissimo in città, cieco da molti anni, chiesta e saputa la causa dell'agitazione festosa del popolo, balzò in piedi e si fece portare dalla sua guida sul posto. Là giunto, ottenne di entrare e toccare col fazzoletto la bara ove giacevano, morti di morte preziosa ai tuoi occhi, i tuoi santi. Appena compiuto quel gesto e accostato il panno sugli occhi, questi si aprirono istantaneamente.

La notizia si divulgò, salirono a te lodi fervide, fulgide, e l'animo della tua nemica se non si volse alla salvezza della fede, tuttavia moderò il suo folle furore di persecuzione." Da questo brano si deduce che i rapporti conflittuali tra Ambrogio e l'imperatrice filoariana Giustina sono ancora vivi fra 17 e il 19 giugno del 386 al momento della scoperta e della deposizione dei martiri, nonostante la risolutiva conclusione della controversia delle basiliche. La scoperta ambrosiana dei corpi dei martiri che ebbe una risonanza enorme in Milano, va forse letta soprattutto in chiave antiariana e anti imperiale, come acutamente sottolinea Agostino. Questa chiave di lettura è sostenuta anche da Ambrogio nella sua lettera a Marcellina, quantunque, ricordando l'episodio, non citi mai esplicitamente Giustina. Nei sermoni che Ambrogio pronunciò nella circostanza del ritrovamento ritorna lo stesso concetto: mentre ringrazia il Signore Gesù dell'accaduto, Ambrogio spiega che il Signore "ha suscitato l'aiuto di tali martiri - ricorda nella Lettera 22 - perché in questo tempo la Chiesa ha bisogno di maggiori difese ... Tali sono i difensori che desidero, tali i soldati che ho, non saeculi milites, sed milites Christi."

Il linguaggio che Ambrogio usa in questo contesto fa ricorso ad una terminologia precisa e tipica del gergo politico del suo secolo: accenna all'invidia, nel senso classico di ostilità politica, di praesidia, di milites, di stipatores. "Aperuit oculos nostros Dominus - conclude Ambrogio - videmus auxilia quibus sumus saepe defensi; non videbamus haec, sed habebamus tamen ... patronos habebamus et nesciebamus." Ambrogio polemizza dunque con quanti negano i miracoli e i meriti dei martiri: anzi paragona esplicitamente gli ariani increduli ai giudei che non avevano creduto ai miracoli di Cristo. Paolino nella sua Vita Ambrosii (15, 2) ricorda implicitamente questa presa di posizione degli ariani ospitati a da Giustina, i quali andavano vociferando che Ambrogio stesso si era procurato col denaro uomini che si fingessero indemoniati. In un altro discorso, ripetuto nella medesima lettera a Marcellina, Ambrogio, consapevole di queste critiche, cerca di confutarle. Vari autori moderni hanno accolto e condiviso le critiche degli ariani, tacciando di demagogia, o addirittura di truffa, il comportamento di Ambrogio in questa circostanza. Torna utile a questo proposito e in questo contesto la testimonianza proprio di Agostino, un intellettuale acuto e dotato di vivo senso critico, che non poteva essere era facile preda dell'entusiasmo che eccitava le folle. Agostino pur non ignorando la eccezionale tempestività politica di quel ritrovamento e di quei miracoli ne accetta l'autentico carattere miracoloso. Lo accetta in particolare nelle testimonianze del De Civitate Dei e del Sermone 286 che si sviluppano in un contesto molto critico nei confronti dei miracoli in genere. Le due testimonianze di Agostino, che viveva a Milano nel 386, e di Paolino, che nella sua biografia ambrosiana ricorda come il cieco allora risanato, di nome Severo, prestasse ancora servizio presso la basilica ambrosiana, sono del tutto attendibili ed escludono qualsiasi manipolazione o sospetto circa gli intenti di Ambrogio.

Diversi studiosi moderni sostengono che l'occupazione delle basiliche rappresenti uno degli episodi più significativi che dimostrano la volontà di Ambrogio di umiliare il potere dello stato. La presa di posizione di Ambrogio nella circostanza in oggetto è tuttavia legittima e non va configurata certo come una resistenza distruttiva dell'autorità imperiale. Durante la controversia del 386-387 lo stato non poteva assumersi il diritto di consegnare agli ariani la proprietà delle chiese dei cattolici in forza di un decreto che concedeva la libertà di culto per tutti. Lo stesso diritto romano, fondato sul principio del diritto di proprietà, non transigeva su questo punto. Un caso esemplare si era già verificato in età pagana quando, dopo la concessione ai cristiani della libertà di culto e di riunione, l'imperatore Aureliano aveva restituito alla Chiesa la casa e la chiesa occupate abusivamente dall'eretico Paolo di Samosata. Ambrogio ha dunque mantenuto una linea d'azione estremamente coerente nel rifiutare ogni invadenza dello stato nella comunità cristiana e lo aveva dimostrato proprio nel 386, quando, disapprovando il ricorso allo stato per punire colpe interne alla chiesa, aveva rotto la comunione con i vescovi della Gallia fautori di Magno Massimo, perché li riteneva colpevoli di avere sollecitato il braccio imperiale contro gli eretici priscillianisti. La lotta per le basiliche fu dunque una vera e propria lotta per la libertà e il popolo milanese ne comprese il significato vivendo il conflitto assieme al suo vescovo.

 

Considerazioni finali

Questa linea dottrinale nei confronti dell'arianesimo fu portata avanti da Ambrogio in tutte quelle occasioni che la sua carica, l'importanza e il prestigio della sede milanese lo vedevano protagonista in prima persona. Così accadde ad esempio nel 381 nel corso del concilio che si svolse ad Aquileia in una sola giornata il 3 settembre e che vide la presenza di 32 vescovi occidentali presieduti da Ambrogio e Valeriano di Aquileia.

Fu proprio Ambrogio a guidare l'intera giornata sinodale ed a sostenere l'interrogatorio dei vescovi ariani Palladio di Ratiaria e Secondiano di Singidunum. Coadiuvato da Eusebio di Bologna e in parte da Sabino di Piacenza, Ambrogio dimostrò la sua capacità di saper padroneggiare la materia trinitaria anche nelle argomentazioni più raffinate e di saper controbattere validamente i suoi avversari. Lo stesso concilio si occupò anche della situazione di alcune Chiese orientali, rispetto alle quali venero definiti alcuni pronunciamenti di cui fu animatore Ambrogio. In particolare - per quanto attiene alla questione ariana - egli si occupò di quello che riguardava lo scisma che divideva da decenni la comunità di Antiochia, che, a causa della grave confusione portata dall'arianesimo, aveva la sede episcopale contemporaneamente contesa da due o più vescovi. L'azione di Ambrogio nei confronti dell'arianesimo milanese fu alla fine decisiva. Non per nulla fu ricordato nei secoli, sia pure con una definizione poco indovinata, come "il martello degli ariani." In realtà l'arianesimo che conobbe Ambrogio ormai era in fase regressiva e durante il suo lungo episcopato andò ormai manifestando i suoi ultimi segni di vita. Anche dopo la morte di Ambrogio non si trovano manifestazioni, episodi o cenni di influsso o di azione ariana in terra milanese.

Bisognerà attendere un secolo per ritrovare a Milano una recrudescenza ariana. Solo con la venuta dei Longobardi, che invasero Milano nel 569, elementi di arianesimo si sarebbero di nuovo manifestati nella città e nella diocesi di Ambrogio.