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PITTORI: Domenico Zampieri

Sant'Elena tra i santi Agostino e Nicola

Sant'Elena tra i santi Agostino e Nicola

 

 

DOMENICO ZAMPIERI detto il DOMENICHINO

1581-1641

Roma, chiesa di Santa Croce a Sant'Oreste

 

Sant'Elena tra i santi Agostino e Nicola

 

 

 

 

Il dipinto, un olio su tela 270x220 cm., raffigurante "Sant'Elena tra i Santi Agostino e Nicola", proviene dall'altare maggiore della Chiesa di Santa Croce a Sant'Oreste vicino a Roma. Questa chiesa si trova nelle vicinanze dell'antico Monastero Agostiniano e venne ingrandita proprio in occasione del trasferimento del Monastero ad opera della nobile famiglia Caccia. Lavori di restauro hanno messo in dubbio la tradizionale attribuzione ad Andrea Camassei. Caratteristica del dipinto è l'estrema cura della descrizione delle vesti e degli ornamenti, resi con un'evidenza quasi tattile. In particolare, il piviale indossato da Sant'Agostino, il personaggio in piedi a sinistra, è realizzato in tessuto rosso ricamato in oro, impreziosito lungo i bordi da piccole figure. Sant'Elena è rappresentata nella classica iconografia in veste di imperatrice, con scettro e corona, sorreggente nella destra la Sacra Croce, secondo la tradizione da lei recuperata in Terra Santa.

Gli abiti che indossa sottolineano il suo grado e sono stati realizzati in modo tale da rendere evidente la tipologia delle diverse stoffe: il pesante raso della veste finemente ricamato e il ricco mantello azzurro e oro ridondante di pieghe, foderato di ermellino. In ultimo, come non sottolineare la luminosità e l'effetto quasi realistico dato dalla decorazione del piviale di San Nicola. In alto una luce dorata squarcia le nubi grigie, sulle quali si posano degli angeli. Sullo sfondo si apre un paesaggio con rovine classiche. L'impianto compositivo ed iconografico, la tecnica pittorica e l'estrema cura dei dettagli, riportano alla corrente artistica bolognese particolarmente fiorente a Roma nella prima metà del Settecento, i cui principali esponenti sono i Carracci, Domenichino, Lanfranco e Albani. Un'impostazione classica di questi artisti è vivificata dall'uso di un colore e di una luce che rendono tangibili le figure e gli eventi rappresentati.

L'utilizzo di una tecnica a velature sovrapposte di colore, la tipologia dei volti (in particolare quello di Sant'Elena), l'abilità nella resa dei tessuti e dei gioielli, avvicinano il dipinto alla produzione della bottega del Domenichino, della prima metà del XVII secolo. L'opera è legata alla committenza dei Cardinali Abbati e venne usata per inaugurare ufficialmente la nuova Chiesa del Monastero voluta dal Card. Aldobrandini. Quando l'altare verrà avanzato con l'ampliamento della stessa chiesa, nel 1700 la tela troverà il suo luogo proprio nel nuovo altare, e verrà adattata a questa nuova situazione.

 

Domenico Zampieri detto il Domenichino

Pittore italiano nato a Bologna nel 1581 e morto a nel Napoli 1641. Dopo un breve apprendistato presso Denijs Calvaert, passò nell'accademia dei Carracci e al più illustre di questi pittori, Annibale, rimase sempre legato, anche dopo che entrambi si trasferirono a Roma. Qui il Domenichino si affermò come cultore di un nuovo Classicismo, meditato sull'arte di Raffaello e dell'Antico, che gli stimolava anche una volontà di riflessione teorica sul modo di rappresentare fatti e sentimenti. La prima occasione importante di dare immagine alle idee che andava elaborando si presentò al Domenichino, assistito dall'amico Gian Battista Agucchi, con l'affresco della Flagellazione di Sant'Andrea (1608) nell'oratorio di S. Andrea al Celio (di rincontro a uno di Guido Reni): l'opera si poneva come paradigma del Classicismo seicentesco, quale sarà inteso soprattutto dai francesi, e come inizio del suo successo personale. Gli anni che seguirono furono i più felici della sua attività, dediti a una pittura ritraente la realtà come simultaneo scaturire di avvenimenti dal vero, a ogni livello, drammatico e non, solenne e dimesso, ma ricomposti sul piano di un ordine ideale che governa tutte le cose. In alcuni degli affreschi nell'abbazia di Grottaferrata con le Storie di San Nilo (1608-10) e soprattutto in quelli in S. Luigi dei Francesi a Roma con Storie di Santa Cecilia (1611-14), l'artista raggiunge il culmine della nuova poetica: un mondo nuovo si schiude alla pittura, nel quale l'ideale classico di bellezza e di ordine si attua nel fervore, colorato e vario, di uno spettacolo di vita quotidiana. Ma le richieste dell'ambiente aristocratico, per il quale il Domenichino operava, non lasciavano spazio per quel tipo di compromesso tra cultura classicistica e racconto apertamente popolare. La sua Elemosina di Santa Cecilia fu accusata di volgarità per la plebaglia scandalosamente inserita in un dipinto religioso. D'altra parte, egli non era portato a rappresentare eventi eccezionali, miracoli e levitazioni, come si andava richiedendo a quel tempo. Dopo il grande impegno della Comunione di San Girolamo (1614, oggi alla Pinacoteca Vaticana), un'opera senza uguali nella sua carriera per lo studio inteso questa volta a esprimere gli affetti per forza pittorica anziché mimica, il Domenichino si rifugiò nel tema a lui sempre caro delle «storie» ambientate in paesaggi idillici, dove la sua vena lirica poteva spaziare. Ne sono esempi le Storie d'Apollo (1616 già a Frascati, ora a Londra, National Gallery), la Caccia di Diana (1617, Roma, Galleria Borghese), le Storie di Ercole (1621 ca.) del Giardino Ludovisi, ora al Louvre. Ma in lui c'era una profonda inquietudine che si esprimeva anche nei continui trasferimenti da un luogo all'altro; trasferimenti che equivalevano ad altrettante fughe: a Fano, a Bologna, di nuovo a Roma, a Napoli, a Frascati, ancora a Napoli. In questo periodo l'artista oscillava tra la naturale tendenza a rappresentare «storie» limpide e ferme, in un linguaggio da manuale del Classicismo, e l'obbligo morale a tener dietro al gusto nuovo, propagato trionfalmente da Giovanni Lanfranco e da Pietro da Cortona. La decorazione dell'abside e dei pennacchi sotto la cupola di S. Andrea della Valle in Roma (1623-28) costituisce il massimo sforzo compiuto dal Domenichino in questo desiderio di adeguarsi al nuovo gusto: ma Lanfranco gli sottrasse la commissione della cupola e Roma si estasiò per quell'impresa senza precedenti, non per le limpide partiture dell'abside, dove le Storie di Sant'Andrea si svolgono con andamenti e ritmi da arazzi di Raffaello. Dopo d'allora Domenichino accettò anche commesse di temi a lui poco consoni: estasi mistiche e ascese celesti, glorificazioni e allegorie e, per evitare la pesante concorrenza, si trasferì a Napoli (1631). Ma i pittori locali lo osteggiarono e l'impresa della decorazione della cappella di S. Gennaro nel duomo (trascinatasi per un decennio e rimasta incompiuta per la morte del Domenichino) riflette una crisi senza rimedio e la fine prematura della forza creativa di un artista le cui opere giovanili contenevano le premesse di un prestigioso avvenire.