Percorso : HOME > Archivio News > 2022 > Per non dimenticare

Archivio news:  Per non dimenticare

La locandina della manifestazione

La locandina della manifestazione

 

 

PER NON DIMENTICARE

Giovedì 3 febbraio 2022

ore 21

Oratorio Maschile di Cassago

 

 

 

INCONTRO - MEMORIA

A cura di Ivano Gobbato e Ettore Fiorina

 

Con letture da "Il mendicante di Gerusalemme" di Elie Weisel

 

Mercoledì 27 gennaio ricorre "il Giorno della Memoria" in ricordo dello stermino del popolo ebraico e dei deportati italiani nei campi nazisti. Per non dimenticare gli orrori di quella tragedia viene proposta una serata di riflessione su quegli eventi.

La rivisitazione viene proposta attraverso una lettura con gli occhi di Elie Weisel, che nel suo libro ripercorre i tragici avvenimenti alla luce del ritorno ebraico a Gerusalemme nel 1967 e la possibilità dopo millenni di rivedere il Muro Occidentale di Gerusalemme.

All'indomani della Guerra dei sei giorni, Wiesel vede sfilare migliaia di uomini e donne, "in uno strano raccoglimento". E confusi tra quei volti prendono vita i personaggi di questo romanzo, composto di getto in quell'anno, come un impetuoso flusso di coscienza nel quale si mescolano la realtà e la finzione, la memoria e il desiderio. "I pazzi muti e i mendicanti sognatori, i maestri e i loro discepoli, i cantori e i loro alleati, i giusti e i loro nemici, gli ubriachi e i cantastorie, i bambini morti e immortali, sì, tutti i personaggi di tutti i miei libri mi avevano seguito per fare atto di presenza e testimoniare al mio posto, attraverso di me!".

In un ritmo incalzante, si intrecciano le memorie della diaspora, la tragedia della Shoah, i combattimenti per Gerusalemme. Sullo sfondo la grande tradizione spirituale ebraica e una Gerusalemme crepuscolare, il cui tramonto "brusco, selvaggio, stringe il cuore per poi calmarlo".

 

 

 

 

INTERVENTO DI IVANO GOBBATO

 

Associazione storico-culturale Sant'Agostino di Cassago Brianza

PER NON DIMENTICARE

giovedì 3 febbraio 2022, ore 21, Oratorio Maschile di Cassago

 

Buonasera a tutti. L'ultima volta che ci siamo incontrati avevamo parlato di Sant'Agostino da "principianti", partendo dall'ABC anche a rischio di dire cose arcinote per i cultori della materia pur di tentare di trovare alcune note accessibili anche per quelli meno ferrati. Aveva funzionato, e quindi perché non riprovarci stasera? Tanto più che quando si affrontano cose come il concetto di "Memoria" (con la maiuscola) il rischio di dire sciocchezze è assai grande. Partiamo quindi dalle cose più elementari, elementari proprio nel senso della scuola elementare, come l'uso dei verbi, il significato delle parole e il valore dei numeri.

Sul primo punto - i verbi - ho chiesto aiuto a una cara amica che di mestiere è insegnate alle scuole, appunto, elementari, domandandole in che classe si spiega la differenza che corre tra il passato prossimo e il passato remoto. Lei per prima cosa mi ha bacchettato: "Non si dice più scuola elementare da quel dì, si dice scuola primaria". Poi mi ha detto che la differenza tra le due forme di passato più comuni nel nostro linguaggio (lasciando quindi perdere imperfetti e trapassati) si affronta in terza. Terza primaria. Pressappoco, quindi, a otto anni.

Naturalmente la differenza la conosciamo tutti quanti ed è uno di quei concetti che non si dimenticano come capita invece di dimenticare altre cose imparate appunto alle elementari (primarie) dalle poesie alle misure della piramide di Cheope. Ripassiamola: il passato prossimo indica un'azione che accade in un momento del tempo vicino ("Oggi a pranzo ho mangiato un piatto di pasta al sugo") mentre il passato remoto in un momento decisamente più lontano ("Cinque anni fa andammo in vacanza alle Cinque Terre").

Poi nell'uso "reale" della lingua le cose sono un po' diverse - noi al nord usiamo sempre il passato prossimo, al sud l'uso del passato remoto è assai più comune - ma grossomodo ce lo ricordiamo. Il fatto è che questa cosa non è del tutto vera, o almeno non è del tutto precisa. In realtà la differenza tra l'uso delle due forme di passato è molto più sottile di così, e ha implicazioni che vanno molto più nel profondo. Nel senso che non dovrebbe essere tanto il momento in cui un fatto che raccontiamo è avvenuto a determinare la scelta per il passato prossimo invece che per il passato remoto, ma se quel fatto che raccontiamo ha ancora - o viceversa non ha più - un legame con il presente. Detta così sembra una cosa difficile, invece è estremamente facile. Basta un esempio: è più corretto dire che l'Associazione Sant'Agostino nacque il 27 ottobre 1967 o che l'Associazione Sant'Agostino è nata il 27 ottobre 1967? Apparentemente la scelta corretta è quella del passato remoto, si tratta di un fatto accaduto quasi cinquantacinque anni fa, e invece no, o almeno non del tutto. Perché l'Associazione Sant'Agostino continua a esistere: quel fatto non è concluso ma continua a esserci nel nostro presente. Sicché utilizzare il passato prossimo non solo è corretto, ma "porta" un significato profondo.

Se invece dicessi che Sant'Agostino è nato il 13 novembre dell'anno 354 dopo Cristo, commetterei un errore non tanto perché la nascita di Agostino è avvenuta molto tempo fa, ma perché Agostino è morto, la sua vita si è conclusa, e il legame diretto di quell'esistenza umana con il presente è spezzato. Può sembrare una questione poco interessante, tecnica, non particolarmente importante, ma forse non è così. Perché tanto per cominciare riflettere su tutto questo ci mostra come il nostro linguaggio abbia proprietà molto più complesse di quelle che usiamo normalmente. Somiglia un po' ai nostri telefonini, quelli che noi (i ragazzi no, diciamo noi "più agée") magari usiamo solo per telefonare o per mandare messaggi ma che invece sono autentici prodigi, macchine fotografiche sofisticatissime, aggeggi con cui potremmo montare interi film.

Ma soprattutto perché significa che la nostra lingua è fatta non per specificare semplicemente se un fatto è accaduto in un tempo più o meno vicino a noi, ma se quel fatto ha ancora - o non ha più - un legame con il nostro presente. Ecco, la Memoria, con la maiuscola, è esattamente questa cosa: non tanto il ricordare ciò che è avvenuto anni, decenni o secoli fa, non tanto non dimenticare tutto ciò, ma piuttosto riconoscere il filo rosso che lega noi (proprio noi, con le nostre vite di ogni giorno, ovvero io, ovvero ciascuno di voi) agli eventi del passato. Quindi, primo punto da fissare: non stiamo semplicemente ricordando una tragedia del passato, ma stiamo cercando di osservarne il legame con la nostra vita di ogni giorno e con il nostro presente. Quello di cui stiamo parlando questa sera non è quindi un passato remoto, anche se i fatti sono accaduti ottant'anni fa.

È al contrario un passato estremamente prossimo, e ci riguarda. Come scrisse alla fine del Settecento Novalis, uno dei maggiori rappresentanti del romanticismo tedesco, "Ogni ricordo è un presente". Perché se riteniamo che quel legame sia spezzato, se pensiamo che fare Memoria della Shoah sia come ricordare le Crociate, o la costruzione delle piramidi, se non cogliamo il senso profondo che l'espressione stessa "fare Memoria" contiene, allora perdiamo un pezzo importante, rischiamo di non cogliere il senso dell'anniversario che ogni 27 gennaio ci viene messo davanti, e comunque togliamo all'azione della Memoria gran parte della potenza che ha. Il che ci porta al senso che questa parola, "Memoria" contiene.

Al peso che si porta dentro. Perché le parole sono un po' come degli strumenti, come degli attrezzi da lavoro, e condividono con gli attrezzi la semplicità dell'uso: un martello è un martello, l'uso che se ne deve fare è chiaro. Ma semplice non significa banale, scontato. Le parole, pur essendo oggetti semplici, contengono una profonda complessità, e "Memoria" non fa eccezione.

State a sentire.

 

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici:

considerate se questo è un uomo

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare.

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d'inverno.

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

stando in casa e andando per via,

coricandovi alzandovi;

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.

 

Queste sono le parole più celebri di Primo Levi, scontate - immagino - ogni volta che si rievochi la tragedia della Shoah, dello sterminio. Vorrei però che prestassimo attenzione a una frase in particolare tra quelle di questi versi tanto famosi, quando Primo Levi lancia un ammonimento che se vogliamo stare ai fatti è esattamente questo: "Meditate che questo è stato". Perché il verbo che utilizza non è "Ricordare", è un altro.

È infatti il verbo "Meditare", il che è molto diverso.

Alla fine è sempre la questione della grande complessità che sta contenuta dentro a quegli oggetti tutto sommato semplici che sono le parole. Lo si diceva prima: sono come degli attrezzi le parole, nel senso che come gli attrezzi ognuna ha un proprio uso specifico, un proprio scopo, una propria finalità. Ognuna porta in sé un significato peculiare che non è identico a quello di un sinonimo. Qui la parola è "Meditare".

Questo per Primo Levi è fare Memoria. Indica infatti una sorta di misurazione da fare attraverso la mente, un riconsiderare qualcosa soffermandovi sopra il pensiero a lungo e profondamente. Allora non è una banale rievocazione di qualcosa che è successo ma un agire: richiede uno sforzo, implica un impegno, dice che c'è un'azione che si deve compiere. Parla di una responsabilità. Se intendessimo invece un semplice "Ricordare", parleremmo di scatole, non di parole. Contenitori insomma, che si possono anche lasciare chiusi, che si possono anche riporre accantonandoli in un qualche luogo buio fosse anche della Storia (nel senso della Storia con la maiuscola). Perché fare questo alla Storia, trattarla come un insieme di fatti privi di un legame diretto con il presente, può condurre alla banalità. Anche alla banalità del male.

Anche qui può essere utile fare un esempio, non sembri blasfemo. La parola "Memoria" è una parola che dovrebbe suscitare qualcosa nell'animo dei cattolici, che la sentono ripetuta ogni volta che partecipano a una messa. C'è un punto della celebrazione in cui il sacerdote, infatti, dice "Fate questo in memoria di me". Per il credente cattolico il significato di queste parole è di una profondità enorme. Perché in quel punto della celebrazione non si parla di qualcosa che viene semplicemente riproposto, rievocato, appunto "Ricordato" ma di un fatto che si ripete, che accade ancora, che non smette di accadere e che quindi è intrecciato e avvinto al presente.

Ecco, in termini laici "Fare Memoria" è qualcosa di simile: non soltanto non permettere che un evento si perda e si dimentichi, ma coglierne il legame diretto con il presente. Passato prossimo quindi, non passato remoto. Difatti, a volte può essere che ci si domandi il perché, la ragione per cui alla Shoah viene dedicato un giorno specifico, che si consideri questa tragedia della nostra Storia come diversa dagli altri immani massacri di cui pure la Storia è costellata. Anche in altri momenti in fondo sono state uccise persone a milioni, e anche in altri luoghi qualcuno è stato assassinato perché ritenuto in qualche modo "inferiore".

Ecco, "Meditare" su tutto questo significa anche cogliere il senso di questa diversità profonda e irriducibile: riconoscere nella Shoah l'unicum che essa è stata. Non naturalmente per il numero spropositato di morti che ha implicato, o per le tragedie personali che si sono compiute: di fatti simili purtroppo, appunto, la Storia è colma. Eppure la Shoah è un fatto unico che non era mai accaduto prima e che non si è mai ripetuto nonostante mai sia cessato il massacro di chi viene percepito come "altro": è qualcosa che tutti sappiamo. "Meditare" che questo è stato significa quindi tenere a mente che per la prima volta nella Storia sono state costruite delle fabbriche il cui scopo era esclusivamente la produzione di cenere, l'annientamento di esseri umani. La differenza che passa tra un campo di concentramento come Mauthausen o Dachau - peraltro a propria volta terribili e dediti alla distruzione dell'altro attraverso il lavoro schiavo - esistettero infatti campi come Sobibor o Treblinka, in cui chi arrivava veniva immediatamente mandato al gas e alla cremazione.

Senza alcun passaggio intermedio, senza che nessuno potesse pensare di scampare alla morte, almeno per qualche tempo, lavorando. I superstiti di questi campi furono pochissimi, si contano sulle dita di poche mani a fronte dei milioni di persone che vi entrarono. Sino ad allora non era mai accaduto. Ma più ancora di questo: nella Storia tantissimi esseri umani sono stati uccisi perché ritenuti pericolosi, considerati oppositori politici, fedeli irriducibili di una religione che non era quella di chi deteneva il potere, perché ritenuti selvaggi e persino inferiori, "sottouomini". Ma gli ebrei non erano considerati semplicemente "inferiori" dai nazisti, erano considerati alieni. Solo la loro apparenza era umana, "sembravano" umani, ma non lo erano. Non erano affatto considerati meno intelligenti, o meno forti, o meno necessari, erano invece considerati una malattia, un virus.

Hitler nel Mein Kampf chiamava gli ebrei "Funghi che prosperano in tutte le crepe dell'umanità", Himmler in due diversi discorsi - riservati agli alti ufficiali delle SS - del 4 e del 6 ottobre 1943, li definisce "bacilli". Il Mein Kampf ancora esiste e si può leggere, la registrazione di quei due discorsi tenuti a Posen, l'odierna Poznan in Polonia, esiste e può essere ascoltata: oggi con la Rete basta cercare con Google. Non sono un "segreto" per professionisti della ricerca storica, sono disponibili a tutti quelli che vogliano approfondire. Ovvero meditare.

Ovvero "Fare Memoria". E proprio per questo il virus, il bacillo, il fungo che ha solo apparenza umana ma non era considerato "uomo" poteva essere eliminato. Anzi doveva: non era raro che il nazismo definisse gli ebrei come un cancro, e dicesse che il medico non deve aver paura di incidere un tumore per eliminare le cellule cancerose, anche se sa che l'operazione causerà all'ammalato una sofferenza. Ecco, nella Storia questo non era mai successo, non era ancora successo: che un essere umano venisse ucciso non perché ci si voleva appropriare di ciò che possedeva, non perché veniva ritenuto infedele, non perché si pensava che fosse un oppositore irriducibile di una causa, di un'ideologia, di un partito, non perché lo si considerava "inferiore" e lo si riteneva poco più che una bestia da soma. Che venisse ucciso invece perché era considerato una malattia, un cancro da estirpare. Se non teniamo a mente questo non riusciremo davvero a capire cosa è stato il nazismo, cose è stata la Shoah, e neppure i pericoli che tutto questo continua a rappresentare.

Se non "Mediteremo che questo è stato" allora tutto potrà riaccadere di nuovo. In altre parole, quello che ricordiamo, quello che la Memoria ci porta in dono, non è passato remoto, è passato prossimo. Ora, non pensate che io non mi renda conto di dire cose note, probabilmente persino banali. Ma è proprio perché il male è banale che esso può ripetersi e riprodursi, anche oggi. E il pericolo più grande che corriamo è pensare di esserne immuni. La filosofa Hannah Arendt, che seguì a Gerusalemme, nel 1961, il processo contro Adolf Eichmann - colui che durante la guerra aveva organizzato in tutta Europa la cattura degli ebrei e il loro trasporto verso i campi - ci scrisse su un libro: La banalità del male. In esso c'è una frase che va letta. "Il male non è mai radicale ma soltanto estremo, in realtà non possiede profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero proprio perché si espande sulla superficie come un fungo. Questa è la banalità. Solo il bene ha profondità, solo il bene può essere radicale". Quindi in questa specie di ripasso "per principianti" che abbiamo intrapreso insieme prima di sentir parlare de Il mendicante di Gerusalemme di Elie Wiesel (ed è ovvio che il primo principiante, esattamente come quando abbiamo parlato di Agostino nel novembre scorso, sono io) abbiamo messo due paletti: il primo per dire che questa vicenda è passato prossimo, non remoto, e riguarda noi in specie, ha cioè un legame diretto e fortissimo con il nostro presente. Il secondo paletto lo abbiamo piantato per ricordare a tutti noi la complessità profonda di una parola come "Memoria" che implica un nostro sforzo che va ben oltre il mero "ricordo", che ci impone di meditare, di approfondire, di non permettere che tutto questo si trasformi in un evento che pensiamo di conoscere e quindi di poter riporre in qualche angolo della memoria, su uno scaffale, a prendere polvere.

L'ultimo paletto, come alle scuole elementari - o primarie che dir si voglia - dopo i tempi verbali e il significato delle parole, è quello dei numeri. Niente più dei numeri ha per noi umani un valore oggettivo. Solo che i numeri sono infidi, hanno poco a che fare con le persone, diventano presto freddi e asettici, quanto di più lontano in apparenza esista dalla Storia, o da una narrazione qualunque. Si dice sia stato Stalin - non so se la citazione sia reale o apocrifa, ma se non lo disse avrebbe potuto dirlo - a enunciare questo principio affermando pressappoco che "Un morto è una tragedia, un milione di morti è una statistica". Eppure solo i numeri possiamo usare se vogliamo provare a cogliere l'enormità del tutto, ciò di cui davvero stiamo parlando questa sera. In quanto principiante, so che non sarei stato capace di dirla con parole mie, questa cosa. Allora ho pensato di farmi aiutare da un libro. A questo servono, in fondo, i libri: a dire le cose in un modo nuovo così che possiamo capirle, interiorizzarle, farle nostre.

E facendolo diventare migliori. Stanno all'inizio di un libro scritto da Jonathan Littell nel 2006: s'intitola Le Benevole ("Benevole" nel senso di Furie, Erinni, Eumenidi: quelle della Tragedia greca di Eschilo su Oreste)

Ascoltate.

 

"Facciamo un po' di conti. Il conflitto con l'Unione Sovietica è durato dal 22 giugno 1941 alle tre del mattino fino, ufficialmente, all'8 maggio 1945 alle ore 23.01, il che fa tre anni, dieci mesi, sedici giorni, venti ore e un minuto". Ovvero, arrotondando, 46,5 mesi, o 202,42 settimane, oppure 1.417 giorni, o se preferite 34.004 ore, o ancora 2.040.241 minuti contando il minuto supplementare. Per il programma della "Soluzione finale" manterremo queste date perché prima non era stato ancora sistematizzato niente, e le perdite ebree fino ad allora vanno considerate come casuali. In questa frazione di tempo consideriamo come affidabile la cifra totale di 26.600.000 morti, dato che i rimanenti 24 milioni di decessi dei circa 50 milioni dell'intera Seconda guerra mondiale, sono da mettere a carico del periodo compreso tra lo scoppio della guerra, il 1° settembre 1939, e appunto il 22 giugno 1941, giorno dell'attacco all'URSS, e/o come avvenuti in altri teatri di guerra: Francia, Grecia, Italia, nord Africa, estremo oriente e via dicendo.

Morti di che nazioni?

Nel 1956 Chruščëv ha parlato di 20 milioni di morti sovietici: considerato che lo stimato autore inglese Reitlinger ha parlato di 12 milioni e che Erickson, un autore scozzese altrettanto se non più stimato ha parlato di 26 milioni ecco che la cifra ufficiale sovietica sta giusto nel mezzo, milione più, milione meno. Per le perdite tedesche - solo nell'Unione Sovietica, s'intende - ci si può affidare alla cifra ancora più ufficiale e teutonicamente precisa di 6.172.373 soldati persi sul fronte orientale, cifra riportata in un rapporto interno dell'Alto Comando dell'esercito ma che comprende anche i quasi quattro milioni di feriti e i circa 1.300.000 dispersi. Diciamo quindi, per brevità, due milioni di morti, poiché qui i feriti non ci riguardano, cui va aggiunto un milione di morti civili durante l'invasione della Germania da parte dell'URSS negli ultimi mesi di guerra.

Per quanto concerne gli ebrei Eichmann, quando gli ebrei stessi hanno potuto chiederglielo direttamente, ha parlato di cinque o sei milioni, più probabilmente cinque, ma nel 1943 riconosceva che le cifre di partenza erano poco affidabili. Lo stimatissimo professor Hilberg, tuttavia, specialista della questione e poco sospettabile di partigianeria, almeno a favore dei tedeschi, alla fine di una dimostrazione lunga diciannove pagine arriva alla cifra di 5.100.000, il che corrisponde grossomodo all'opinione del defunto Tenente Colonnello Eichmann. Vada dunque per la cifra del professor Hilberg.

Il che, per ricapitolare, fa venti milioni di sovietici, tre milioni di tedeschi, cinque milioni e centomila ebrei per un totale di 26.600.000 (dato che un milione e mezzo di ebrei va ritenuto incluso tra i morti sovietici) in tre anni, dieci mesi, sedici giorni, venti ore e un minuto. Tutto ciò significa che le medie sono state di 572.043 morti al mese, 131.410 morti alla settimana, 18.772 morti al giorno, 782 morti l'ora, e 13,04 morti al minuto. Ogni minuto, di ogni ora, di ogni giorno, di ogni settimana, di ogni mese, di ogni anno nel periodo considerato, ovvero di tre anni, dieci mesi, sedici giorni, venti ore e un minuto. E chi ha sogghignato per quel minuto supplementare - effettivamente un po' da pignoli - consideri che fa comunque, sempre in media, 13,04 morti in più e immagini, se ci riesce, tredici persone che conosce uccise in un minuto. Si può fare anche un calcolo che definisca l'intervallo di tempo tra un morto e l'altro, ovvero complessivamente un morto in media ogni 4,6 secondi sul totale di detto periodo di tre anni, dieci mesi, etc. etc.

Tentate di figurarveli come se fossero lì, di fronte a voi, in fila, quegli uno, due, tre morti… uno ogni 4 secondi e sei decimi. Vedrete, è un buon esercizio di meditazione. Mi fermo qui, si potrebbe continuare a lungo. Vi invito a proseguire da soli finché non vi mancherà la terra sotto i piedi."

Grazie.

 

 

Piccola bibliografia / sitografia essenziale:

Hannah Arendt, "La banalità del male" (1963), Feltrinelli, Milano, 2019, pp. 352

Hannah Arendt - Joachim Fest, "Eichmann o La banalità del male" (1964), Giuntina, Firenze, 2013, pp. 214

Primo Levi, "Se questo è un uomo" (1947 et 1958), Einaudi, Torino, 2014, pp. 214

Jonathan Littell, "Le Benevole" (2006), Einaudi, Torino, 2014, pp. 956