affresco in sant'Agostino a Rieti
I CICLI PITTORICI TARDOMEDIOEVALI DELLA CHIESA REATINA DI SANT'AGOSTINO: UN INTERVENTO DI RECUPERO UN'IPOTESI ATTRIBUTIVA
dott. ssa Ileana Tozzi
Intorno alla metà del XIII secolo, s'insediarono a Rieti le comunità religiose dei Francescani, dei Domenicani, degli Agostiniani: l'Ordine dei Minori, attratto dalla memoria della presenza del Fondatore presso l'hospitale di Santa Croce, si stabilì a sud lungo il corso del Velino nel sestiere di porta Romana de suptus, mentre i membri dell'Ordine dei Predicatori e dell'Ordine degli Eremitani disposero i loro conventi ai margini del nucleo più antico della città, nell'area di espansione ridisegnata a nord dal tracciato delle nuove mura, gli uni nei pressi della chiesa dei SS. Apostoli, lungo la via Spoletina, gli altri nei pressi della piazza del Leone, che era al tempo il cuore amministrativo, politico ed economico cittadino.
Caratterizzate da un impianto ad aula basilicale, atto ad accogliere i fedeli perché fossero indottrinati attraverso la predicazione e l'osservazione della Biblia pauperum costituita dai cicli pittorici che si snodavano lungo le pareti, le chiese mendicanti vennero così erette negli spazi di nuova espansione, dove si venivano addensando in alloggi di fortuna le frange più deboli della popolazione, costituite soprattutto dai campagnoli irresistibilmente attratti dalla città, che si era data l'assetto di libero comune fin dall'ultimo quarto del XII secolo.
A costoro, i religiosi offrirono assistenza spirituale e conforto materiale, favorendone peraltro l'integrazione nella società. Dalle fonti documentarie, si ha notizia della presenza degli Agostiniani a Rieti fin dal 1252, a pochi anni di distanza dalla fondazione dell'Ordine costituitosi nel 1244: già però gli Eremitani, dal cui nucleo trasse origine la nuova congregazione religiosa, erano presenti in città e possedevano un loro sito nella pianura ai piedi dello sperone di travertino su cui sorgeva la Reate sabino-romana. Gli Agostiniani dunque si stabilirono nel più antico complesso, ma la struttura della chiesa fu edificata ex novo, secondo gli orientamenti e le esigenze dell'Ordine: l'interno è a navata unica, ampio e illuminato da eleganti bifore, la volumetria di raffinato equilibrio è movimentata dalle tre absidi poligonali, scandite di lesene. Sulla facciata prospiciente all' antica piazza del Leone, caratterizzata dal coronamento orizzontale lievemente in aggetto, tipico della coeva architettura religiosa abruzzese, si apre il portale impaginato da due serie sovrapposte di agili colonnine, legate da una mensola finemente scolpita; nella lunetta a tutto sesto è un affresco della metà del XIV secolo raffigurante la Madonna in maestà, Sant'Agostino e San Nicola di Bari. Il dipinto, di scuola umbro-toscana, è datato 1354: la scritta che scorre sull'architrave consegna ai posteri il nome del committente; Nicola Ungaro.
Il timpano reca inscritto, in un bassorilievo a cornice rettangolare, il simbolo dell'Agnus Dei. La sobria, equilibrata volumetria del corpo principale della chiesa si anima nel movimento armonico delle tre absidi a base ottagonale, sovrastate dalla mole del campanile, ingentilita dai due ordini delle bifore a tutto sesto, che svetta dalla cerchia di mura quasi come una torre di guardia. All'interno, le pareti della chiesa furono interamente affrescate, secondo l'intento didascalico proprio degli Ordini Mendicanti, proponendo ai fedeli frequentatori della comunità religiosa una ricca serie di immagini devozionali in cui ricorrono le storie della Bibbia e dei Vangeli, le icone mariane, le vite ed i miracoli dei Santi. La decorazione ad affresco dovette proseguire incessantemente dal XIV al XV secolo, spesso sovrapponendo ai dipinti più antichi altri strati di pittura per offrire nuovi spunti di meditazione e devozione. Così s'individuano importanti frammenti che propongono ai fedeli l'immagine della Madonna, a volte raffigurata in Maestà, seduta su di un trono, recante in grembo il Bambino Gesù, a volte rappresentata come Madonna delle Grazie, l'ampio mantello teso ad offrire tutela ai suoi figli.
In altri lacerti, si riconoscono tratti cospicui della Leggenda aurea del Domenicano Jacopo da Varagine o dei numerosi testi agiografici proposti alla lettura ed alla meditazione nel corso dell'età medievale. In particolare, nelle absidiole ottagonali sono rappresentate le scene salienti della vita dei Santi dell'Ordine Agostiniano, tra cui riconosciamo in particolare San Nicola da Tolentino. Fra il XVII ed il XVIII secolo, mutato il gusto e filtrati nella mentalità collettiva tanto dei religiosi, quanto dei laici i dettami emanati dalla venticinquesima ed ultima seduta del Concilio di Trento confermando il valore intrinseco alla rappresentazione del sacro ma mettendo altresì in guardia contro ogni possibile superstizione e deviazione estetizzante, gli antichi affreschi vennero scialbati e coperti da sovrastrutture in gesso e in muratura. La chiesa assunse un nuovo, rigoroso ordine funzionale, suddividendo organicamente lo spazio attraverso la costruzione di due avancorpi che, a destra e sinistra, erano intercalati da un arcone a sesto ribassato che dava inizio alla serie degli altari - tre per ogni lato, di uguali dimensioni e decorazione plastica - su cui vennero collocate alcune tele di buona fattura. Fra queste, ricordiamo ad esempio la Vergine con il Bambino Gesù, Sant'Agostino e Santa Monica, realizzata nel 1599 da Gian Giacomo Pandolfi, l'Estasi di Santa Rita da Cascia, opera del cavalier Lattanzio Niccoli (1643), mentre nel transetto è la Strage degli innocenti di Ludovico Carosi (1712).
Queste ed altre tele conservate presso la chiesa di Sant'Agostino costituiscono un interessante compendio dell'arte locale fra il manierismo ed il barocco, insieme ad opere provenienti dalle più antiche parrocchiali di San Leopardo e di San Giuseppe. La basilica degli Agostiniani, profanata e ridotta a magazzino sul finire del XIX secolo per effetto delle leggi eversive postunitarie, lesionata dal violento terremoto del 1898, fu infatti scampata al degrado grazie al tempestivo intervento di monsignor Bonaventura Quintarelli, vescovo di Rieti, che nel 1901 vi trasferì il titolo di parrocchia per gli abitanti del popoloso rione di porta Conca. Fin da allora, ebbe inizio il lento e graduale recupero dei preziosi manufatti artistici che la comunità degli Agostiniani aveva secolarmente conservato, nonché il consolidamento ed il ripristino del complesso architettonico. Mentre gli edifici conventuali subirono radicali interventi di trasformazione per ospitare adeguatamente gli alunni del Convitto Municipale, la chiesa è stata progressivamente riportata alla originaria struttura, appesantita nel corso dei secoli da una serie di controsoffitti, volte e soppalchi grazie al paziente lavoro di recupero intrapreso intorno alla metà del XX secolo dal parroco del tempo, monsignor Bruno Bandini, proseguito con solerzia dall'attuale parroco, monsignor Salvatore Nardantonio. La progressiva ripulitura delle pareti dalle sovrastrutture manieriste, barocche e neoclassiche sta rivelando un autentico palinsesto della pianura tardomedievale, il cui studio sistematico consentirà di scrivere un'inedita pagina della locale storia dell'arte sacra. Sostanzialmente ben conservati, ricompaiono infatti importanti lacerti di cicli pittorici ispirati alla spiritualità dell'Ordine Agostiniano, modellati sull'esempio della lezione di Cavallini, di Cimabue, di Giotto. È stata così riportata alla luce la complessa decorazione parietale inclusa nell'arcone a cornu Epistulae. Addossato alla parete d'ingresso, è un bel San Michele arcangelo dalle ali policrome che combatte il demonio, raffigurato nelle forme mostruose tipiche dei bestiari medievali.
Numerose sono le immagini mariane, che si affiancano e si sovrappongono a testimonianza della particolare devozione coltivata dagli Ordini Mendicanti verso la Vergine, additata alla preghiera dei fedeli. Un Sant'Agostino ieratico, vestito con l'abito nero degli Eremitani, è attorniato dai religiosi che scelgono di condividerne la Regola. Una Maddalena penitente copre le nudità del suo corpo con la folta cortina dei biondi capelli ondulati. Alcune gustose, piccole scene di vita quotidiana vivacizzano la pittura parietale: uno storpio è portato al cospetto del Santo su una carretta montata su rotelle, altre figurine maschili e femminili affollano lo spazio urbano definito con pochi tratti, semplici ed efficaci. I dipinti dell'arcone sono da annoverare fra i più antichi affreschi documentati presso le chiese reatine, coevi alle Storie di Santa Maria Egiziaca ed alle Storie di San Pietro già in San Domenico, staccati e riportati su tela negli anni Venti, attualmente esposti presso il Museo Diocesano. In corrispondenza del primo altare, opportunamente ridotto dai tecnici della Soprintendenza competente alla sua struttura essenziale, sono tornati alla luce alcuni importanti dipinti di raffinata fattura risalenti ad un'epoca più tarda.
L'affresco si sviluppa su una superficie ortogonale piuttosto ampia, sormontata da una lunetta in cui è raffigurato il tema della Crocifissione. Anche in questo caso si evidenzia la corrispondenza con un affresco parietale della chiesa di San Domenico, la Strage degli innocenti del reatino Liberato di Benedetto di Cola di Rainado, datato 1444. In entrambe le opere, fa da coronamento l'immagine del Golgota, arido e deserto, su cui è eretta la croce su cui Cristo sale per la redenzione del mondo. Ma piuttosto che riferirsi alle ascendenze locali, l'opera della chiesa agostiniana sembra potersi ricondurre stilisticamente all'ambiente culturale abruzzese, ed in particolare alla scuola di Andrea De Litio il pittore marsicano nato intorno al 1420, formatosi a contatto con i maestri umbri e marchigiani della metà del secolo prima di approdare a Firenze, dove matura definitivamente la propria cifra distintiva accanto a Paolo Uccello ed a Domenico Veneziano. La personalità artistica di Andrea De Litio, che Roberto Longhi definiva come «un incantevole internazionalista di (...) seconda generazione» (1), erede e continuatore dell'opera degli umbri Ottaviano Nelli e Niccolò Alunno, dei maestri della scuola di Camerino Giovanni Boccati e Girolamo di Giovanni, si manifesta appieno nel ciclo pittorico della cattedrale di Atri, che mostra singolari punti di contatto con l'affresco reatino riscoperto in Sant'Agostino. La scena è infatti rigorosamente definita da un'impaginazione architettonica di chiara ascendenza gotizzante. Sui fondali di una città idealizzata, la figura di un Santo Vescovo, caratterizzato dalle insegne della sua dignità, s'impone all'attenzione dei laici e degli ecclesiastici che si affollano alla sua destra. In alto, entro una cortina color rosso fuoco, appare il Cristo risorto che reca in mano la croce. A sinistra, una Santa Regina riceve benevola l'omaggio dei fedeli che s'inginocchiano al suo cospetto, mentre un angelo si libra nell' aria, porgendole la palma. Le vesti dai colori squillanti, i gialli luminosi, i verdi brillanti, i rosa e gli ocra densi e caldi danno vivacità alle figure, caratterizzate quasi ritrattisticamente nei bei volti definiti con cura e finezza esecutiva esemplari.
Persino gli abiti degli Agostiniani sono di un nero brillante, che evidenzia i morbidi panneggi delle tonache appena rischiarate dal filo della cocolla bianca. Anche per l'affresco reatino potrebbe valere l'osservazione di Giulio Carlo Argan, per cui la pittura del maestro d'Abruzzo si caratterizza attraverso l'adozione di una «prospettiva multipla e frammentaria, impiegata come uno strumento insieme visivo e mentale» (2): a queste osservazioni, motivate dalla evidente coincidenza delle modalità stilistiche e formali, dovrà seguire un minuzioso spoglio dei documenti d'archivio prima di poter formulare un'ipotesi attributiva scientificamente fondata. Allo stato attuale dei lavori, non si può che riflettere sulle suggestioni di una corrispondenza che lega le città attraversate dalla via degli Abruzzi come tappe obbligate di un itinerario storico-artistico che si estende fino a comprendere sinecisticamente l'esperienza culturale maturata nell' ampio bacino dell' Italia appenninica.
(1) R. LONGHI, Fatti di Masolino e di Masaccio e altri studi sul Quattrocento, in Opere complete di Roberto Longhi, vol. VIII, tomo I, Firenze 1975, p. 56.
(2) O. C. ARGAN, cit. in Associazione Culturale Marsicana, Andrea De Litio, i luoghi e le opere, Pescara 2002, p. 24.