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Agostino Clerici: RAPPORTI SOCIALI E CORREZIONE FRATERNA IN SANT'AGOSTINO

 Affresco di sant'Agostino opera del pittore Bianchi

affresco di Bianchi con sant'Agostino

 

 

 

RAPPORTI SOCIALI E CORREZIONE FRATERNA IN SANT'AGOSTINO

di Agostino Clerici

 

 

 

Premessa

Oggi non è di moda parlare di correzione fraterna, e non è facile trovare chi faccia correzione fraterna. Forse non se ne parla proprio perchè è scomodo e difficile praticarla e accettarla. La correzione fraterna non fa più parte del cammino educativo dei singoli, dei gruppi e delle comunità cristiane, tanto è vero che di fronte ai piccoli o grandi dissidi che sorgono all'interno del pluralistico mondo ecclesiale ci si scopre impotenti o prepotenti, due eccessi che segnalano comunque scarso senso di comunione, poca disponibilità a lasciarsi correggere fraternamente e soprattutto l'incapacità a impostare coraggiosamente e serenamente una prassi di carità nella verità.

Proprio il rapporto fra carità e verità fu uno degli assilli pastorali più gravi del sacerdote e poi vescovo Agostino. Non un problema cattedratico, ma nemmeno una semplice questione di geometria pastorale. A mano a mano che cresceva la sua esperienza di Pastore della Chiesa cattolica nel tessuto concreto della società nordafricana a cavallo fra il quarto e il quinto secolo, Agostino si trovava a verificare quanto fosse inutile imporre una verità, e quanto poco fosse segno di vera carità il voler sottacere per amore di quieto vivere. Il pensatore divenuto pastore, senza per questo aver rinunciato all'uso dell'intelletto, si accorse che nei diversi contesti sociali in cui si trovava a operare era indispensabile ogni volta costruire un equilibrio sempre nuovo fra carità e verità.

Si accorse che non era la stessa cosa predicare alla sua comunità di Ippona e parlare ai fedeli di Cartagine, che un conto era polemizzare con i manichei, un altro conto impostare un proficuo dialogo con la chiesa donatista, e diverso ancora correggere gli errori di Pelagio e di Giuliano. Lo imparò a sue spese, magari commettendo qualche errore, da focoso africano qual era, ma non venne mai meno, almeno nelle intenzioni, al dovere di coniugare la carità-verità non nella teoresi dei bei principi, ma in "situazione". Agostino polemista non usa mai le stesse armi dialettiche e la stessa strategia pastorale: ha sempre davanti agli occhi persone concrete, situazioni determinate che s'impegna a conoscere a fondo nella loro peculiarità e singolarità. Certamente la verità cristiana è la stessa, ma diverso è il modo di veicolarla e di correggerne le deviazioni. Qualche accenno all'atteggiamento di Agostino nei confronti dei manichei, dei donatisti e dei pelagiani può aiutarci a capire meglio.

 

AGOSTINO E I MANICHEI

La controversia manichea tenne impiegato Agostino dal 388 al 405 circa, prima a Roma, poi a Tagaste e ad Ippona, da semplice convertito, da sacerdote e poi da vescovo. Egli era stato manicheo, anche se mai era entrato a far parte degli eletti e quindi conosceva bene la setta che si rifaceva agli insegnamenti di Mani. Nei confronti dei manichei il pastore Agostino si sentì in dovere di difendere strenuamente quello che è stato definito il "messaggio della bontà delle cose" (1): la dottrina manichea era di stampo chiaramente dualistico, nella contrapposizione pericolosa fra due principi originari del Bene e del Male, e l'uomo, nella soluzione della questione del male morale, era deresponsabilizzato. Agostino, non appena diventato vescovo, decide di confutare il catechismo manicheo, la cosiddetta "Epistula fundamenti". Mani non ha titolo alcuno per chiamarsi a Gesù Cristo, al contrario della Chiesa Cattolica che invece ne può vantare molti.

La polemica del vescovo di Ippona è però attenta più che altrove alla dimensione psicologica. Infatti, rivolgendosi ai manichei, insinua dolcemente che "forse anche voi avete aderito più con imprudenza che con malizia", quasi a voler mitigare la gravità della colpa. Dice poi di continuare a "domandare al solo vero Dio che mi doni uno spiri- to tranquillo e pacifico, maggiormente preoccupato della vostra correzione che della vostra rovina" (2). Infine, non si sottrae dal ricordare il proprio passato manicheo e questa sua sofferta esperienza nell'errore gli spalanca una prospettiva di longanimità e di umiltà.

Ai manichei confessa: "Siano duri con voi coloro che ignorano con quale fatica si trova la verità e quanto difficilmente si eviti l'errore ... Siano duri con voi coloro che non sanno quanto costi guarire l'occhio dell'uomo interiore, in modo da renderlo capace di vedere il suo sole ... Siano duri con voi coloro che ignorano al prezzo di quali sospiri e gemiti si può giungere alla comprensione sia pur minima di Dio ... Con voi siano duri, infine coloro che mai sono caduti nello stesso errore nel quale si accorgono che voi siete impigliati. Quanto a me ... che così lentamente mi sono sottomesso al medico clementissimo che mi chiamava con parole dolci a dissipare la nebbia che m'offuscava la mente .. io che ho cercato avidamente ascoltato attentamente e temerariamente creduto a tutte le invenzioni alle quali una lunga abitudine v'incatena ... come potrei io trattarvi duramente? ... Io debbo avere tanta pazienza con voi, quanta ne ebbero con me, che parteggiavo con cieca rabbia per i vostri errori, coloro che mi stavano vicini" (3).

C'è in questo brano quella che nel mio libro sulla correzione fraterna ho definito "antropologia della conversione" (4): Agostino è cioè convinto che bisogna correggere con amore, perchè tale è il metodo che Dio ha usato con lui. Detto in altre parole: la misericordia sperimentata diventa criterio di misericordia nei confronti degli altri. Questo non significa svalutare le esigenze della verità: la misericordia nel correggere ha come suo fine la guarigione dell'uomo malato e, siccome la posta in gioco è la salvezza, non è permessa alcuna concessione al pressapochismo. Agostino chiarisce in che modo un dialogo possa essere veramente fruttuoso: non deve esserci spirito di reciproca ostilità e non bisogna credere di avere già la verità in tasca.

Egli, il vescovo di Ippona, ascolterà i manichei "come se mi foste sconosciuti ... come se fosse la prima volta", con animo aperto e disponibile, ma aggiunge: "va da sè che non pregherò con voi e non celebrerò le vostre riunioni e non prenderò il nome di manicheo fintantochè non mi abbiate fornito una chiara spiegazione senza alcuna confusione, di tutte quelle realtà che riguardano la salvezza dell'uomo" (5). Agostino e i donatisti La questione è assai complessa e qui è possibile soltanto procedere per accenni. Una premessa è importante: Agostino nutrì nei confronti della setta di Donato la stessa fiducia nella forza della verità e usò la stessa carica di amore che caratterizzarono la sua polemica con i manichei.

Ma il donatismo non era il manicheismo: a differenza degli altri movimenti di pensiero, aveva un sostrato sociale - oggi diremmo una valenza politica - che superava il suo significato puramente religioso e teologico. Il donatismo nell' Africa del nord minava non solo l'unità della Catholica, ma anche l'ordine pubblico: i "circoncellioni" erano una sorta di vera e propria "associazione a delinquere" che portava il terrore anche in mezzo agli stessi donatisti. Inoltre Agostino sapeva di avere a che fare con cristiani scismatici che accampavano la pretesa di essere l'unica e vera Chiesa cattolica: la loro teologia indeboliva il cuore dell'esperienza cristiana, anche se molto spesso erano l'ignoranza e il terrore a trattenere il cristiano nordafricano entro le comunità donatiste. Una situazione complessa dunque e in evoluzione, che domandava coraggio e sensibilità.

Anche quando appoggiò l'uso del braccio secolare per risolvere la controversia donatista - e non fu subito così, ma soltanto dopo il 405 - il vescovo di Ippona non si illuse che questo bastasse a ritrovare l'unità della Chiesa: la legge imperiale offriva ad una popolazione impaurita l'occasione per trovare il coraggio di abbandonare lo scisma, anche se questo fatto non esimeva la Chiesa cattolica da un grave impegno di educazione e di istruzione religiosa, perchè nessuno può credere contro la sua volontà. L'opera di correzione del vescovo di Ippona nei confronti dei donatisti fu sempre ispirata dal precetto della carità: Agostino dimostrò sempre un cuore equilibrato e non credette mai ad una correzione che non avesse come scopo la salvezza dell'uomo, tanto da intervenire più volte presso il potere politico per raccomandare il senso dell'umanità e per escludere ogni ricorso alla pena di morte (6). La Catholica deve contraddistinguersi per il suo "spirito di dolcezza interiore" (7), la sua saggezza si fonda sul trinomio fermezza, misericordia, pazienza.

Agostino sa che il confine fra correzione e persecuzione è tenue: anche colui che agisce per impedire il male può comportarsi come un persecutore se, nel riprendere, supera la misura imposta dalla gravità della colpa (8). Ne viene un invito alla moderazione, non disgiunto però dalla preoccupazione di non cedere alla negligenza: la giustizia deve essere affiancata dalla carità, così da non lasciare spazio a sentimenti di vendetta (9). Nella drammatica vicenda donatista il vescovo di Ippona non si stancò mai di ricordare che ogni forma di correzione che voglia essere fraterna ed efficace non può non sfuggire al controllo della carità come suo principio ispiratore (10). Non solo. Egli si impegnò anche a fare di tale verità un programma per la sua stessa azione pastorale.

 

AGOSTINO E I PELAGIANI

La polemica fra Agostino e il complesso fenomeno pelagiano viene spesso ridotta all'asprezza che caratterizzò la fase finale e incompiuta della polemica, quella con il vescovo di Eclano Giuliano. Si dimentica così che il dibattito era cominciato con toni pacati e con grande rispetto. Come già nei confronti di manicheismo e donatismo, Agostino ha di mira gli errori dottrinali e non le persone ed evita di giudicare gli uomini in base alle loro dottrine. Verso Pelagio, poi, il vescovo di Ippona mostrò una particolare benevolenza, tanto che nella prima opera antipelagiana lo definisce "uomo santo e cristiano di non poca perfezione .. buono e lodevole" e si rifiuta di credere che "quest'uomo che è cristiano in maniera tanto egregia" possa condividere errori così contrastanti con la verità cristiana (11). Anche nel vivo della polemica con Giuliano, quando i toni già sono accesi, Agostino si rivolge al "diletto figlio Giuliano " (12), quel "nostro compagno nella milizia di Cristo" (13), che aveva desiderato conoscere, tanto da chiedere al padre di lui, Memorio, di volerglielo inviare a Ippona. Quando la polemica degeneròin diatriba e Giuliano cominciò a servirsi dell'arma della calunnia e della diffamazione, Agostino, ormai ultrasettantenne, si sent in dovere di ribattere. Giuliano aveva osato offendere la memoria di sua madre e Agostino rispose con decisione: "Mia madre non ti ha fatto alcun male, non ha mai disputato contro di te e tu hai lacerato con ingiurie la sua memoria! Questo è segno che sei stato vinto dal cattivo genio della maldicenza ... Io invece reputo degni d'onore i tuoi genitori, cattolici cristiani, e mi rallegro con loro che siano morti prima di vederti eretico" (14). Come si può vedere, la risposta del vescovo di Ippona è pronta e arguta, ma non ricorre a sua volta all'offesa dell'avversario: Agostino dimostra la padronanza del vero polemista, anche in questa occasione, in cui aveva perduta ogni speranza di persuasione dell'avversario e non gli restava altro dovere che la difesa della fede. Negli ultimi anni della controversia pelagiana, Agostino fu impegnato anche da alcuni monaci di Adrumeto. Ce ne occupiamo brevemente, perchè motivo della discussione fu proprio la prassi della correzione fraterna. Alcuni monaci, un po' sprovveduti in teologia, avevano male interpretato una lettera di Agostino al presbitero romano Sisto e ne trassero l'infelice e semplicistica conclusione che egli, predicando la grazia, negasse il libero arbitrio. Venuti a Ippona, incontrarono un vescovo pienamente disponibile a risolvere i loro dubbi e munifico di spiegazioni. Tornati a Adrumeto con una ricca documentazione sul pelagianesimo e con il trattato "De gratia et libero arbitrio", non portarono ancora la pace fra le mura del monastero: i soliti superficiali leggendo quelle pagine del trattato in cui Agostino insisteva sulla necessità della preghiera, giungevano a fargli affermare che la correzione fraterna è inutile, perchè "non bisogna correggere nessuno se non osserva i comandamenti di Dio, ma pregare per lui perchè li osservi" (15).

Nulla era più lontano dal vero pensiero del vescovo di Ippona, il quale non si perse d'animo e dettò un altro trattato, il "De correptione et gratia" per cercare ancora una volta di far luce in una " questione assai difficile e che solo pochi possono capire" (16). La densità teologica di questo trattato ne fa a ragione un'opera fondamentale per la dottrina agostiniana della grazia. Ma è pure interessante notare come, nella fitta trama teologica, si intreccino anche pagine pastorali sulla prassi della correzione fraterna e sul rapporto fra correzione, preghiera e precetti, che ci ricordano l'origine occasionale del trattato. Non ci è qui possibile analizzare queste pagine (17). Basti una lucida affermazione agostiniana, una di quelle frasi sintetiche che bene esprimono la complessità e l'integralità del suo pensiero: "O uomo, dal precetto impara che cosa tu devi avere; dal rimprovero impara che quello che non hai è per colpa tua; dalla preghiera impara da dove puoi ricevere ciò che vuoi avere" (18). La correzione è necessaria perchè il male non è il frutto di un oscuro fatalismo o di una predestinazione divina, ma è causato direttamente dalla volontà dell'uomo, dal suo libero arbitrio: se l'uomo è libero, è pure responsabile del male che compie, ed è quindi passibile di correzione, in quanto, con il male, ha contravvenuto al suo "dover essere".

Ma se la correzione è un dovere di carità esigito dal fatto stesso che il male è opera della volontà umana, è pur vero che spetta a Dio e alla sua grazia renderla efficace. Ecco allora la necessità della preghiera unitamente al rimprovero. Per il vescovo di Ippona, sbaglia sia chi si esime dal correggere affidando alla sola preghiera la collaborazione alla salvezza dell'umanità, sia chi pone in se stesso e non nella grazia di Dio l'efficacia della propria riprensione. Quando, in spirito di carità, operiamo una correzione fraterna, siamo sempre argilla nelle mani del vasaio (19). Agostino e la sua diocesi Non dobbiamo pensare che l'attività di Agostino, sacerdote e vescovo, fosse ridotta a questi tre grandi ambiti polemici. E' vero che manicheismo, donatismo e pelagianesimo impegnarono moltissimo il vescovo di Ippona ed egli dimostrò in queste controversie una sollecitudine dottrinale e pastorale notevole. Ma non deve passare sotto silenzio la sua operosità in contesti più quotidiani, in cui Agostino veniva a contatto con i diversi ambienti ecclesiastici e civili e con problematiche più attinenti all'esigenza personale e ai rapporti comunitari. In tali ambiti egli esercitò sempre il suo ministero con un senso spiccato della corresponsabilità, così da non risparmiare un'azione correttiva ogni volta che ne rilevasse la necessità.

Agostino pur proponendo a tutti la correzione fraterna, le attribuiva una doverosità tutta particolare per tutti coloro che sono investiti di autorità. Egli si sentiva pastore del gregge: "Debbo essere sollecito principalmente per la Chiesa che mi è stata affidata - scriveva al proconsole Apringio - del cui benessere sono servitore e a cui desidero non tanto presiedere quanto servire" (20). Era consapevole che la dignità episcopale comportava una grave responsabilità e sapeva che non mancavano purtroppo pastori giunti alla cattedra più per ambizione che per amore del gregge. "Essi hanno il titolo - diceva con parole durissime - occupano la cattedra, ma sono come gli spaventapasseri nelle vigne" (21). Nella vigna del Signore urgeva invece una presenza vigile e premurosa, fatta di pazienza ma anche di puntuale coraggio.

Possiamo riassumere in quattro gli ambiti di presenza in cui il vescovo era chiamato ad esercitare il suo ministero pastorale:

1. La mensa della Parola, che diventava spesso occasione di parenesi ed edificazione morale.

2. Il servizio presidenziale, che comportava l'esercizio della carità pastorale nei confronti del clero, dei monaci e delle monache nonchè dell'intera comunità.

3. Il ministero della riconciliazione, in modo particolare quella che Agostino stesso chiama "correptio secreta".

4. L'esercizio della funzione giudiziaria riconosciuta al vescovo o "audientia episcopalis", un compito che occupava mattine intere.

 

1. "Dispensator Verbi"

In un tempo in cui il parlare era ancora il più diffuso mezzo di comunicazione, per un popolo che solo attraverso la parola del suo vescovo poteva gustare la Parola di Dio, Agostino volle essere un altoparlante generoso e sempre pronto a risuonare con la competenza del teologo ma anche con la preoccupazione che caratterizza ogni educatore, quella di farsi capire della sua gente e di esortarla ad abbandonare le vie del male per imboccare la strada maestra tracciata da Gesù Cristo. Per questo le omelie del vescovo di Ippona contengono spesso vere e proprie correzioni, che intendevano raggiungere ogni cuore e ogni coscienza, con una forma pubblica e segreta allo stesso tempo. Nel sermone tenuto a Milevi fra il 408 e il 409 - a commento del brano del vangelo di Matteo che riguarda la correzione fraterna (cfr. Mt.18, 15-18) - Agostino ricorda al suo uditorio che anche un rimprovero generico voleva essere una correzione che spingeva le coscienze a penitenza: "Ti giovi il rimprovero che ti faccio anche adesso in segreto. Io infatti parlo in pubblico, ma rimprovero in segreto.

Faccio arrivare il suono delle mie parole alle orecchie di tutti, ma voglio incontrarmi solo con la coscienza di alcuni ... Pubblica è la riprensione, ma segreta è la correzione". (22). Quante volte nelle omelie di Agostino s'incontrano esortazioni, rimproveri, moniti e correzioni. Qualche volta i fedeli applaudono. Forse non hanno ben capito che il vescovo vuole mettere in guardia proprio loro: "Quando io rimprovero in pubblico - aggiunge allora Agostino - un gran numero di voi, tutti mi applaudono, ci fosse almeno qualcuno che mi ascoltasse! A me non piace chi mi loda a parole ma nel cuore non mi stima.

Ebbene, quando mi lodi e non ti correggi, rendi una testimonianza contro di te" (23). Un'altra volta a Ippona aveva ricordato quanto è breve la vita terrena e si lamentava del fatto che nessuno si lasciasse convincere da tale constatazione ad una pronta conversione. Voleva essere un rimprovero anonimo, ma ciascuno nella Basilica lo sent come rivolto al vicino, fu così che tutti applaudirono. Ma Agostino non era tipo da lasciarsi lusingare facilmente: quell'applauso generale era fuori posto. Incalzò subito: "Vi piacciono queste parole, io però voglio i fatti. Non vogliate rattristarmi col vostro cattivo comportamento, perchè la mia gioia in questa vita non è se non la vostra buona vita" (24).

Una delle piaghe del cristianesimo africano era la sopravvivenza di alcune pratiche pagane legate al mondo della magia e della superstizione. Bastava poco per risvegliare l'istinto pagano assopito dentro l'animo divenuto cristiano. Il vescovo d'Ippona più volte nei suoi sermoni sgrida la sua gente per le frequenti ricadute sul terreno delle superstizioni. Ecco un esempio: "Quando tutto va bene, tu benedici il Signore: Dio ti concede un figlio che hai desiderato tanto, tu benedici il Signore. Tua moglie ha parti felici e tu benedici il Signore. Tuo figlio è malato e guarisce e tu benedici il Signore.

Però quando tuo figlio era malato, sei andato dall'indovino e hai fatto uso di sortilegi." (25) In certi giorni dell'anno in cui cadevano le feste pagane le cattedrali rischiavano di rimanere vuote, oppure piene di gente che non aspettava altro che uscire per gettarsi nel fuoco di ben altra "liturgia". Bulla Regia era la città natale delle sante Felicita e Perpetua, ma era soprattutto famosa per le sue prostitute, così numerose da essere richieste a Cartagine per la festa della dea Flora e da essere ... esportate fino a Ippona. Un giorno, passando di l nella solennità dei Santi Maccabei, diretto a Cartagine, Agostino non risparmiò il suo rimprovero: "Fratelli di Bulla, non vi vergognate che solo presso di voi si vende immoralità? O magari provate soddisfazione persino a far commercio di immoralità, oltre a frumento, vino, olio e tutte le altre cose poste in vendita nelle piazze? Arriva una persona nuova a Bulla, e subito si dice: 'Che vieni a cercare? Mimi o prostitute?' Ve ne gloriate? Non so se possa trovarsi un'infamia maggiore" (26).

 

2. La "sentinella" del gregge

Nella concezione agostiniana del ministero pastorale del sacerdote e del vescovo, servizio e autorità sono strettamente congiunti: "praeesse est prodesse", presiedere è servire. La correzione dei fratelli da parte del superiore è considerata come una forma di servizio. Il pastore, quello vero, incarna la figura profetica della "sentinella": la sua salvezza personale s'intreccia con quella dei fedeli affidati alla sua cura. Il suo silenzio è rovina per sè e per il gregge. La sua parola, puntuale e coraggiosa, è strumento di salvezza per tutti. Agostino sa che a lui è stata affidata la "diligentia corripiendi" (27) e che deve esercitarla con saggezza ed equilibrio: pazienza, correzione e consolazione sono gli ingredienti da dosare sapientemente. La "sentinella" pazienta, perchè non vuole anticipare il giudizio di Dio, ma pazientare non significa essere negligenti: la sua correzione non è però mai astiosa, non ha come scopo l'allontanamento e la perdizione del peccatore.

Con grande tatto e sensibilità profonda Agostino parla appunto di consolazione: "In effetti uno ,forse a motivo della correzione, comincia a scoraggiarsi e si turba, allora è necessario consolarlo ... Se lo fece vacillare la debolezza, lo accolga nel suo seno la carità" (28). Rivolto ai fedeli di Ippona, Agostino mise a nudo, un giorno, il suo anelito più profondo: "Che cosa voglio? Cosa desidero? Cosa bramo? Perchè parlo? Perchè seggo qui? Perchè vivo, se non con questa aspirazione, che insieme noi viviamo in Cristo? Questa è la mia brama, questo il mio onore, questa la mia conquista, questa la mia gioia, questa la mia gloria. Però se tu non mi ascolti, ma io non avrò taciuto, la mia anima l'ho messa in salvo. Solo che io non voglio esse- re salvo senza di voi" (29).

Da tale senso della corresponsabilità scaturiva in lui la sollecitudine e talvolta la vivacità della correzione: "E' nostro dovere non starcene muti " (30). Molteplici sono le vicende in cui il vescovo di Ippona fece sentire la sua voce autorevole, sia nella sua qualità di vescovo nei confronti del clero e dei fedeli, sia nella sua qualità di superiore e responsabile delle comunità monastiche maschile e femminile. Prendiamo in considerazione, a mò di esempio, il caso che attorno al 423-424 interessò il monastero femminile di Ippona, fino a poco tempo prima affidato alle cure della sorella di Agostino.

All'interno della comunità era sorto un dissidio che si era ben presto trasformato in una rivolta da parte di alcune monache nei confronti della superiora Felicita. Il vescovo di Ippona indirizzò una lettera (31), ma non ottenne l'effetto sperato. Fu allora invitato a presentarsi di persona per dirimere la questione, ma prefer esprimere il suo dolore e il suo invito all'unità con una seconda lettera (32). La prima delle due epistole è significativamente indirizzata così: "Agostino e coloro che sono con lui salutano nel Signore la dilettissima e santissima madre Felicita, il fratello Rustico - doveva essere il direttore spiritua- le - e le sorelle che sono con essi ". Non deve sfuggire l'importanza di tale indirizzo.

L'invito alla correzione si radica nella comunità di chierici che vive attorno ad Agostino: sono essi, per mano del vescovo, a ricordare alle "sanctimoniales" della stessa città il difficile ma necessario dovere della correzione fraterna. Nel corso della lettera, il vescovo di Ippona ricorda che bisogna operare la correzione per non rischiare che la negligenza conduca alla rovina definitiva e aggiunge che "talora i dissensi sono provocati dalla carità verso i nostri fratelli" (33): l'importante è che chi rimprovera sia mosso da retta intenzione e non agisca con spirito di vendetta o con animo orgoglioso.

"Può darsi, anzi accade spesso, che nel ricevere il rimprovero uno si rattristi, anzi vi si opponga ribattendo le proprie ragioni, in seguito, però, riflette nel silenzio della sua anima, ove non c'è altri che Dio e lui stesso, e non teme di dispiacere alla gente per il fatto di ricevere una reprimenda, ma teme solo di dispiacere a Dio per il fatto che egli non si emenda, può accadere inoltre che in seguito si astenga dal male di cui è stato rimproverato e, nella stessa misura che ha in odio il proprio peccato, ami il fratello che si accorge essere stato soltanto nemico del suo peccato." (34)

Può accadere ... dice Agostino dall'alto della sua esperienza, e aggiunge una preghiera perchè le monache mettano in pratica questi ammonimenti.

Ma così non accadde, se nel 424 il vescovo riprese la penna per indirizzare un'altra lettera, che ritorna più energicamente sul dissenso scoppiato nel monastero femminile: "La severità è pronta a punire le trasgressioni che può incontrare - esordisce il vescovo - anche se la carità non vorrebbe trovare trasgressioni da punire." (35)

La situazione si era effettivamente complicata: il dissenso era degenerato in aperta rivolta, sino alla richiesta di sostituzione della madre, il presbitero Rustico era stato fatto passare come il sobillatore delle monache e aveva rassegnato le dimissioni dall'incarico di direttore spirituale. Agostino è profondamente addolorato. Confessa che, in mezzo ai molteplici scandali del mondo, ha sempre cercato e trovato la consolazione al pensiero di una comunità di monache così numerosa, e ora si trova a dover constatare che lo scandalo si è impadronito anche di quella comunità: "Considerate quale sventura - scrive - sia il fatto che, mentre ci rallegriamo dei donatisti nell'unità della Chiesa, dobbiamo piangere scismi nell'interno del monastero. Perseverate nel buon proposito e non avrete più desiderio di cambiare la preposita." (36)

Non sappiamo come si sia conclusa la vicenda a cui si riferiscono le due lettere prese in considerazione. Solo sappiamo che nel dicembre del 425, poco più di un anno dopo questi fatti, il vescovo di Ippona fu nuovamente chiamato a dipanare la matassa, questa volta nel monastero dei chierici. Gli ultimi anni della sua vita restarono così segnati dalle difficoltà che vennero a crearsi negli ambiti più strettamente religiosi della comunità di Ippona. Circa il dissenso scoppiato nel monastero femminile, un passo del discorso 355 ci lascia intendere che forse la situazione si era normalizzata. Probabilmente l'invito alla concordia che chiudeva la lettera 211 aveva fatto meditare le monache di Ippona, molto più che la presenza stessa del vescovo, da esse reclamata. Leggendo attentamente le parole che chiudono la lettera, possiamo immaginare come esse abbiano potuto decantare negli animi delle vergini, fino a portarle alla pace: "Calmi Iddio e riconcili i vostri animi, non prevalga in mezzo a voi l'azione del demonio, ma "trionfi nei vostri cuori la pace di Cristo" (1 Giov. 3, 8).

Non vogliate correre verso la perdizione per il dolore dell'animo, perchè non si compie quel che desiderate, o per il rimorso e la vergogna d'aver desiderato una cosa che non avreste dovuto desiderare, ma piuttosto pentitevi e tornate alla virtù; non abbiate però il pentimento di Giuda, il traditore, ma piuttosto le lacrime di Pietro, il pastore." (37)

Davvero Agostino mise in pratica quel trinomio di carità pastorale, che accanto alla correzione vede coniugare la pazienza e la consolazione.

 

3. Ministro della riconciliazione

Agostino esercitava anche, nella sua qualità di vescovo, il ministero della riconciliazione: alcuni testi fanno riferimento ad una forma penitenziale distinta sia dalla recita quotidiana del Padre Nostro - la cosiddetta "penitenza quotidiana" - sia dalla "grande penitenza" a cui ci si poteva accostare una volta soltanto in vita. Si tratta di una "correptio secreta" che il vescovo operava nei confronti dei peccatori, al fine di spingerli al pentimento. Evidentemente questa forma di correzione fraterna comportava una prassi penitenziale molto simile alla nostra confessione individuale, anche se non si può propriamente farla rientrare in uno schema simile. I motivi che spingevano Agostino a tale "correptio secreta" erano almeno due: in primo luogo evitare il pettegolezzo che poteva scatenarsi con il rendere pubblici peccati e peccatori; in secondo luogo, sottrarre il peccatore pentito ad una giurisdizione civile troppo spesso sbrigativa. In una parola, ancora una volta prevale un criterio pastorale ispirato alla carità e ben lontano dall'indifferenza: nè rigorismo, nè lassismo.

La correzione segreta poteva sfociare nella "grande penitenza", se il vescovo lo riteneva opportuno e se il peccatore era in condizione di affrontarla con profitto per la sua situazione spirituale. Ma il più delle volte Agostino, il quale non nascondeva le sue perplessità nei confronti della "penitenza pubblica", sembra prediligere una procedura più discreta a base di altre medicine correzionali ("quibusdam correptionum medicamentis") (38).

Ascoltiamo un passo del discorso tenuto a Milevi: "Dobbiamo rimproverare in segreto e in segreto biasimare, per evitare che volendo rimproverare in pubblico, sveliamo la persona. Noi desideriamo solo rimproverare e correggere: che fare se un nemico cerca di sentire il peccato per punire la persona? Un vescovo per esempio conosce un non so quale omicida ma non lo conosce nessun altro. Io voglio rimproverarlo dinnanzi a tutti ma tu cerchi di formulare un'accusa al tribunale contro di lui. Io non svelo il suo peccato ma neppure rimango indifferente, io lo rimprovero in segreto : io pongo davanti ai suoi occhi il giudizio di Dio, metto paura ad una coscienza ferita, lo spingo al pentimento. Dobbiamo essere dotati di questa carità. Ecco perchè talvolta ci si rimprovera che diamo l'impressione di non rimproverare o si pensa che noi sappiamo ciò che invece non sappiamo o che ci rifiutiamo di dire ciò che sappiamo. Ma forse so anch'io ciò che sai tu, eppure non rimprovero alla tua presenza perchè desidero curare, non accusare." (39)

 

4. Giudice equo e paziente

La giornata del vescovo di Ippona si apriva con la celebrazione eucaristica attorno a cui si riuniva la comunità in tutte le sue espressioni. Ma subito dopo cominciava per Agostino il tempo dei processi. Fu Costantino a riconoscere alla Chiesa la competenza civile, e in Africa persino i pagani si rivolgevano al vescovo per risolvere i propri problemi di giustizia. I tribunali civili erano oberati di lavoro, quindi lenti e ricorrevano facilmente a pene inumane. Il tribunale del vescovo - Agostino era assistito dal suo clero - era imparziale, gratuito e assicurava una giustizia rapida, le cui pene arrivavano al massimo alla fustigazione del delinquente. Il vescovo di Ippona godeva fama di tenere sempre la porta aperta, anche se intere giornate spese in processi lo debilitavano e gli facevano risorgere la mai sopita vocazione contemplativa e l'invidia per la pace del monastero. Certamente questa prassi permetteva ad Agostino di venire a contatto con la quotidianità dei suoi fedeli e di conoscere i dettagli più insignificanti di affari e questioni intricate concernenti testamenti, eredità, delimitazioni di confini, un terreno che sapeva accendere il cuore dei focosi abitanti di Ippona, dei marinai e dei contadini.

Una vera e propria palestra di servizio, un ufficio di giustizia e carità a cui Agostino non si sottrasse mai, anche se confessava: "Chiamo Cristo a testimonio delle mie parole, che per quanto riguarda il mio comodo preferirei molto più lavorare con le mie mani ogni giorno ad ore determinate, come si fa nei monasteri bene governati ed avere poi le altre ore libere per leggere e pregare o per studiare la S. Scrittura, anzichè soffrire il tormento e le perplessità delle questioni altrui, nelle quali pur bisogna intervenire o per dirimerle col giudizio o per finirle col proprio intervento ... Ma siamo servi della Chiesa e servi soprattutto dei membri più deboli di essa" (40). Parole dure il vescovo di Ippona riservava a quella gente indiscreta e malvagia che lo andava a disturbare per interessi poco puliti. Ascoltiamo Agostino: "Alcuni vivono così male da chiedere e pretendere dal vescovo consigli per impossessarsi di un podere altrui. Talvolta è capitato anche a noi ... Molti, credendo di farci piacere, ci chiedono cattivi consigli: consigli per mentire ed ingannare. Ma nel nome di Cristo, piaccia al Signore quanto affermiamo, nessuno di chi ci ha provato ha trovato in noi ciò che sperava; giacchè noi, e lo voglia colui che ci ha chiamato, siamo pastori, non mercenari." (41) C'erano poi alcuni individui che opprimevano i poveri e si prendevano gioco delle severe sentenze del vescovo.

Agostino non aveva paura di biasimare questo comportamento nel momento del sermone, quando la gente affollava la Basilica: "I cattivi, se ci mettono alla prova dandoci modo di praticare i comandamenti, ci distraggono dal penetrarne le profondità. E questo non soltanto quando ci perseguitano o vogliono attaccar brighe, ma anche quando ci onorano e ci rispettano, esigendo però da noi come contropartita che ci prodighiamo a soddisfare le loro voglie viziose e affariste spendendo il nostro tempo in tali attività. Lo fanno anche (perchè no?) quando opprimono i deboli, costringendoli in tal modo a ricorrere a noi perchè ne patrociniamo la causa ... Implorano e strepitano finchè non ci abbiano costretti a occuparci delle cose che stanno loro a cuore, sottraendoci dalla meditazione dei comandamenti di Dio che sono il nostro amore ... Ci perdonino lo sfogo i fedeli che vivono nell'obbedienza e solo di rado ricorrono a noi per cause d'ordine temporale, adattandosi poi con tutta arrendevolezza alle nostre sentenze. Costoro certo non ci assillano con le loro querele ma piuttosto ci consolano con la loro docilità. Ci sono però di quelli che si comportano con ostinata pervicacia e, dopo aver oppresso i buoni, se ne infischiano anche delle nostre sentenze. Costoro veramente ci fanno perdere tempo: quel tempo che avremmo potuto, o dovuto, spendere nelle cose di Dio." (42)

Anche in questo caso Agostino dimostra di essere uomo schietto e pastore solerte, capace di modulare la ricchezza della sua parola per metterla a servizio dell'intendimento pastorale: mentre sferza, consola, perchè c'è davanti a lui chi ha bisogno di essere rimproverato e chi invece di essere rincuorato. Agostino sacerdote e i cardini della correzione fraterna Abbiamo percorso velocemente alcuni ambiti pastorali, cercando di mostrare la "dottrina" agostiniana sulla correzione fraterna in azione, nel vivo della poliedrica società nord-africana. Non si è voluto certo esaurirli: basta aprire l'epistolario agostiniano per trovare altri esempi di correzione. Fra tutti, per la sua vivacità e per l'importanza dell'interlocutore, si segnala lo scambio di lettere fra Agostino e Girolamo: il temperamento agguerrito e gagliardo del dalmata fu, al termine, smorzato e quasi addolcito dalla coraggiosa umiltà del vescovo di Ippona. Ma qui non c'è il tempo di affrontare la diatriba fra i due Dottori della Chiesa. Prima di concludere - visto che il presente Convegno prende spunto dal sedicesimo centenario dell'ordinazione presbiterale di Sant'Agostino - mi sembra utile indicare, sul tema della correzione fraterna, due testi che possono essere considerati programmatici e che risalgono agli anni del presbiterato, dal 391 al 395.

La "dottrina" agostiniana sulla correzione è strettamente fondata sulla Scrittura ed è quindi già presente in germe fin da quei primi anni di ministero sacerdotale. Il che non equivale a negare uno sviluppo, non fosse altro per il continuo approfondimento del dato scritturistico da parte del vescovo di Ippona. Lo stesso contesto polemico diversificato, come abbiamo visto, influenzò certamente sull'enucleazione e sull'esplicitazione del pensiero. Ma tale influsso non va esagerato: sarebbe pericoloso confondere l'occasionalità della maggior parte degli scritti agostiniani con l'occasionalità del pensiero in essi contenuto. Ma ecco, in breve, i due testi programmatici. Il primo è contenuto nel "De Sermone Domini in monte" (391-394), opera esegetica che affronta la spiegazione del discorso della montagna di Gesù.

Agostino sostiene che c'è una punizione che può essere sinonimo di misericordia, ma "non è adatto a infliggere questa punizione, se non chi è riuscito a superare, con la grandezza del suo amore, l'odio del quale sono soliti ardere coloro, che si vogliono vendicare." (43)

Come esempio - che ritornerà spessissimo nella predicazione (44) - il sacerdote Agostino ricorre all'esperienza educativa che intercorre fra genitori e figli: "infatti non v'è chi tema che i genitori odino il proprio figlio, quando le busca perchè si è comportato male e affinchè non lo faccia più." (45)

Più avanti, egli ritorna a sviluppare la stessa idea a partire da un altro brano biblico classico, quello della pagliuzza e della trave (cfr. Mt. 7, 3). Agostino decodifica i simboli: la pagliuzza è l'ira, mentre la trave è l'odio (46). Ecco allora l'attualizzazione: "mentre puoi adirarti con un uomo e volerlo correggere, al contrario se nutri odio per lui, non è possibile che tu lo voglia correggere." (47)

Accanto alla carità, come principio ispiratore di ogni correzione che voglia essere veramente fraterna, il giovane sacerdote di Ippona accenna ad un'altra virtù necessaria, l'umiltà: la nostra preoccupazione nel fare rimproveri "sia rivolta al fare un servizio a Dio, non a noi stessi" (48), perchè la nostra fragilità ci impedisce di guardare all'altro dall'alto in basso, vista la comune debolezza della natura umana. Il secondo testo è tratto da un'altra opera esegetica di Agostino sacerdote, la "Expositio epistulae ad Galatos" (394-395). In questo caso egli parte dall'umiltà: "E' più facile - scrive - vedere ciò che è da correggere in altri e correggerlo rimproverando in modo sprezzante, che vedere ciò che è da correggere in te e lasciarti volentieri correggere, anche solo da te stesso, per non dire da altri, tanto meno alla presenza di tutti, come Pietro da parte di Paolo (cfr. Gal. 2, 11-16). Ora questo vale come grande esempio di umiltà, che è legge essenziale del cristiano: infatti mediante l'umiltà si conserva la carità." (49)

Agostino mette in guardia da uno spirito di rivalità e di contesa che spesso avvelena la giornata sin dal primo mattino: "Molti infatti non appena si svegliano già vogliono mettersi a litigare; e se non possono, preferiscono continuare a dormire." (50)

L'invito di Agostino è all'equilibrio, alla moderazione, anche in quei momenti in cui è necessario alzare la voce. Ma moderazione non significa tergiversare o rimandare: la correzione deve essere puntuale e tempestiva. L'immagine a cui Agostino ricorre - anche questa assai ricorrente nella predicazione del vescovo di Ippona (51) - è quella del chirurgo, la cui mano non desiste e il cui animo non si commuove nemmeno di fronte alle grida e agli strepiti dei pazienti, perchè egli sa che sta agendo per risanare. Ecco allora ripresentarsi l'insegnamento della carità, come presupposto essenziale: "mai dobbiamo intraprendere la correzione di una colpa altrui, se prima non abbiamo esaminato la nostra coscienza, l'abbiamo interrogata e ci siamo dati con sincerità davanti a Dio questa risposta: lo faccio per amore! " (52)

Nel libro che stiamo considerando, appare per la prima volta una di quelle frasi sintetiche che hanno fatto la fortuna di Agostino anche sulla bocca dei più inesperti, un aforisma che racchiude tanta parte del suo pensiero e della sua strategia pastorale: "Ama e fà quello che vuoi." (53)

Si legge: "Ama, e poi d quello che vuoi: e quella parola che, a prima vista, sembrerebbe un'ingiuria non sarà tale, se ti ricorderai e ti persuaderai nell'intimo che ti sei armato della spada della parola di Dio solo perchè vuoi liberare l'uomo dall'assedio dei vizi." (54)

Purtroppo non è sempre così: il nostro proposito è buono, ma nella correzione rischia di prevalere in noi un sentimento di rivalità. Che fare? Il consiglio del giovane sacerdote Agostino, così come lo troviamo tra le righe di questo trattato esegetico degli anni del presbiterato, è quasi un programma di vita: "ricordiamoci che non dobbiamo insuperbire alla vista dei peccati altrui, perchè noi stessi cadiamo in peccato e proprio nel momento in cui vorremmo correggere quelli degli altri: infatti, più facilmente la collera di colui che sbaglia ci rende iracondi, di quanto la sua miseria ci faccia misericordiosi." (55)

La "dottrina" agostiniana sulla correzione fraterna Dopo aver visto alcuni contesti polemici, alcuni ambiti pastorali e i cardini presenti nei primi anni di ministero sacerdotale, è giunto il momento di presentare una griglia di lettura, che possa offrire uno schema sintetico della "dottrina" agostiniana circa la correzione fraterna. Essa è frutto di un lavoro di analisi di parecchie opere e sermoni del Dottore africano, che non può essere ovviamente qui presentata nel suo dettaglio (56). Posso garantire che si tratta di costanti del pensiero agostiniano, presenti anche nella predicazione ogni volta che il vescovo di Ippona viene sul terreno della correzione.

Ecco la griglia:

1. il presupposto essenziale della correzione è la carità.

2. il fondamento teologico è dato dalla constatazione che Dio stesso corregge colui che ama: in lui si attua il connubio perfetto di una misericordia severa e di una severità misericordiosa, a cui deve ispirarsi anche la nostra pedagogia.

3. il principio universale è "Ama l'uomo, odia il peccato !": l'uomo non deve odiare il suo simile a motivo dell'odio che nutre per il peccato, nè deve amare il peccato a causa dell'amore che nutre per l'uomo.

4. il fondamento antropologico è l'umiltà, legge essenziale del cristiano: questo significa per Agostino esortare all'autocorrezione e alla disponibilità a ricevere la correzione prima ancora di offrirla.

5. la fecondità della correzione sta nella preghiera, perchè correggendo, l'uomo fa prima di tutto un servizio a Dio: la correzione va accompagnata alla preghiera e, talvolta, si conclude nella preghiera, nella consapevolezza che è Dio a rendere efficace l'agire umano.

6. il dovere della correzione non è un dovere assoluto, ma relativo alla carità e alle situazioni concrete: vi sono motivi che dispensano dall'obbligo della correzione senza rendersi colpevoli di negligenza (l'attesa di un tempo più opportuno, il dubbio ragionevole che l'aiuto non venga accolto, il rischio di provocare scandalo nei deboli, il timore che qualcuno si perda a motivo della correzione).

7. il ruolo dell'autorità è certamente importante, perchè l'essere costituiti in autorità comporta un supplemento di responsabilità nei confronti di coloro che ci sono affidati.

8. il campo semantico, ovvero le immagini usate da Agostino per facilitare l'apprendimento del suo insegnamento e per attualizzarlo: sono sostanzialmente tre (la pagliuzza e la trave, il medico che risana, il padre che corregge). Conclusione Stiamo ricordando il giovane sacerdote Agostino e abbiamo appena visto come in quegli anni di intensa preparazione e di ministero presbiterale egli abbia gettato le fondamenta del suo pensiero e della sua azione pastorale, anche in tema di correzione fraterna. Ci piace allora concludere con un'affermazione dell'ultimo Agostino, troppo spesso presentato a fosche tinte come l'uomo angustiato dall'oscura dottrina della predestinazione.

Forse perchè seppe per esperienza cosa significa essere in ricerca, forse perchè visse intensamente sulla strada del ritorno, Agostino amava la sua vita e quella di ogni uomo come un dono della grazia divina e insieme laboratorio dell'umana libertà. Ecco perchè ai monaci di Adrumeto si rivolse in tutta chiarezza con queste parole cariche di tensione eppure intrise di una grande serenità: "Non sapendo in effetti chi faccia parte del numero dei predestinati e chi no, noi dobbiamo avere un tale spirito di carità da volere che tutti gli uomini siano salvati." (57)

Come ad affidare alla responsabilità dell'uomo quello che la misericordia di Dio già vuole.

 

 

Note

1. Cfr. A.TRAPE', S. Agostino: l'uomo, il pastore, il mistico, Fossano 1987, 205

2. C. ep. Man. 1, 1

3. C. ep. Man. 2, 2 - 3, 3

4. Vedi: A. CLERICI, La correzione fraterna in S. Agostino, Palermo 1989, 51

5. C. ep. Man. 3, 4

6. Cfr. ep . 133, 2 a Marcellino; ep. 139, 2 a Marcellino; ep . 134, 2-4 ad Apringio

7. C. lit. Pet. III, 4, 5.

8. Cfr. c. Adim. 17, 5; Cresc. 3, 51, 57; cath. fr. 20, 53; c. ep. Parm. 1, 1.

9. Cfr. c. Adim. 17, 5; f. et op. 5, 7; s. 13, 9; s. 5, 2; s. 114/A; s. 77/C.

10. Cfr. civ. 1, 9, 2; Cresc. 3, 51, 57; ep. Io. tr. 6, 2, 10.

11. Cfr. Pecc. mer. 3, 1, 1 e 3, 5, 6.

12. C. Iul. 3, 1, 1.

13. Ep. 101, 4.

14. C. Iul. imp. 1, 68

15. Retr. 2, 67

16. Ep. 214, 6

17. Vedi: A. CLERICI, op. cit., 89-104

18. Corrept. 3, 5

19. Cfr. Corrept. 5, 8

20. Ep. 134, 1

21. S. 340/A, 6

22. S. 82, 9, 12

23. S. 82, 12, 15

24. S. 17, 7 25. En. Ps. 133, 2

26. S. 301/A, 7

27. S. 47, 6

28. S. 77/C

29. S. 17, 2

30. S. 46, 20

31. Cfr. Ep. 210

32. Cfr. Ep. 211

33. Ep. 210, 2

34. Ibidem

35. Ep. 211, 1

36. Ep. 211, 4

37. Ibidem

38. F. et op. 26, 48

39. S. 82, 8, 11

40. Op. mon. 29, 37

41. S. 137, 11, 14

42. En. Ps. 118, D. 24, 3

43. S. Dom. m. 1, 20, 63

44. Vedi: A.CLERICI, Ama e fà quello che vuoi. Carità e verità nella predicazione di Sant'Agostino, Palermo 1991, 175-195

45. Ibidem

46. Vedi A. CLERICI, op. cit. , 156-162

47. S. Dom. m. 2, 19, 63

48. S. Dom. m., 2, 19, 66

49. Exp. Gal. 15

50. Exp. Gal. 56

51. Vedi: A. CLERICI, op. cit., 162-175

52. Exp. Gal. 57

53. Vedi: A. CLERICI, op. cit., 51-88

54. Ibidem

55. Ibidem

56. Per un esame più preciso e per una documentazione della griglia che viene qui presentata, vedi i due volumi di A. CLERICI: La correzione fraterna in S. Agostino (1989) e Ama e fà quello che vuoi (1991)