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Francois decret: LA sopravvivenza del pensiero agostiniano in africa

 Resti del battistero dove officiava sant'Agostino a Ippona

Resti del battistero di Ippona

 

 

 

LA SOPRAVVIVENZA DEL PENSIERO AGOSTINIANO NELLE TERRE DEL NORD AFRICA E LA SITUAZIONE DELLA CRISTIANITA' FINO AI PRIMI SECOLI DEL MAGREB ARABO

di Francois Decret

 

 

 

Nel primo terzo del quinto secolo, il cristianesimo aveva raggiunto il suo massimo sviluppo nelle quattro grandi province dell'Africa del Nord, estese fra Leptis Magna, capitale della Tripolitania, a est e, a ovest, Sala, l'attuale capitale del Marocco, Rabat, sulla costa atlantica, all'estremità meridionale dell'antica Mauretania Tingitana. Se si potesse paragonare alla marea la diffusione della cristianizzazione in queste province estese lungo un litorale di 2500 chilometri - ma la marea è molto debole nel Mediterraneo -, si direbbe che era il tempo dell'alta marea.

Però, dopo il flusso, viene sempre il tempo del riflusso. E nel 430 quando moriva Agostino, questo tempo stava per cominciare. In realtà, fin dall'inizio del quinto secolo per lo meno, la situazione della Chiesa si era progressivamente degradata.

La "Catholica" era diventata un "affare" molto importante, con il carattere ambiguo di questo termine. Certo, è difficile presentare una valutazione statistica precisa in un mondo romano e in province di cui conosciamo male lo sviluppo demografico. Sia pure con le debite riserve in questo campo, si può tuttavia ammettere che la superficie globale delle province romane africane aveva raggiunto, nella sua massima estensione, circa 350000 chilometri quadrati mentre si può valutare in 6 milioni di abitanti circa la popolazione globale della Berberia romana. Quanti cristiani poteva contare questa Africa? E' un problema del tutto insolubile.

Però è chiaro che la situazione variava molto fra, da una parte, le città - molto romanizzate e dunque cristianizzate - e, dall'altra, le campagne e le regioni dell'interno e meridionali, in cui l'opera di Roma e quella della Chiesa - sempre strettamente legate - rimanevano deboli, scarse, se non inesistenti. Parlando di Ippona, in un sermone scritto nel 400, Agostino osserva che nella sua città episcopale ci sono molte case senza pagani, ma all'inverso, non ci sono case senza cristiani ("Sermone" 302, 21, 19). Tuttavia, nel 419 - cioè una diecina d'anni prima dell'arrivo dei Vandali, in una lettera indirizzata al vescovo di Salone, in Dalmazia - l'Ipponense scrive: "Qui, da noi, in Africa , ci sono innumerevoli tribù di barbari, ai quali il Vangelo non è stato ancora predicato, come è facile informarsi dai prigionieri che arrivano nelle nostre città e vanno" "ad aumentare il numero degli schiavi dei Romani". (Epist. 199, 12, 46).

Per gli abitanti della regione nord-orientale dell'Africa - cioè l'attuale Tunisia settentrionale e centrale, il Costantinese e le pianure litoranee dell'Algeria fino a Cesarea (Cherchell) - territori profondamente romanizzati, le popolazioni delle tribù meridionali e montanare erano considerate barbare, al pari dei popoli delle pianure del Danubio e dei litorali del Baltico. Per Agostino, che traduceva il pensiero di tutta la Chiesa, l'accettazione dell'autorità romana costitutiva, in un certo senso, la premessa dell'evangelizzazione. Fatte queste osservazioni sulle differenze che caratterizzavano la diffusione del cristianesimo in relazione alle diverse regioni e al loro grado di romanizzazione, si può ritenere che la metà della popolazione globale dell'Africa fosse cristiana - sia cattolica, sia scismatica - cioè probabilmente circa 3 milioni di anime. Se qualsiasi statistica sull'importanza reale della cristianità africana all'epoca di Agostino è una impresa congetturale, siamo invece molto bene documentati sull'apparato e le strutture ecclesiastiche, cioè il numero dei vescovati nelle province.

In occasione della cosiddetta Conferenza di Cartagine, la quale, nel giugno del 411, riunì cattolici e donatisti per iniziativa dell'imperatore Onorio, si presentarono 279 donatisti e 286 cattolici. Occorre aggiungere che parecchi vescovi delle due parti, per varie ragioni, non avevano potuto presentarsi a questa Conferenza e che, d'altra parte, dei vescovati, sia cattolici che donatisti, erano allora vacanti. Tutto compreso, si può ritenere il numero complessivo di 470 vescovi cattolici e 400 donatisti. In totale, si ottiene il numero enorme di 870 vescovati. Parecchi centri urbani possedevano due vescovi, uno per ognuna delle comunità rivali. Queste cifre mostrano chiaramente quanta importanza l'istituzione episcopale aveva assunto in Africa grazie in particolare alla contro-Chiesa costituita dal donatismo.

Tali proporzioni considerevoli erano sconosciute nelle altre regioni della cristianità, anche se, certo, il territorio dei vescovati africani e il numero dei fedeli erano, almeno per alcuni, molto limitati e circoscritti. Alla stessa epoca, per esempio, in Gallia esistevano solo un centinaio di vescovati e l'Egitto raggiungeva appena questo numero. Ma in Africa il compito del vescovo - la sarcina episcopalis come diceva Agostino - non si limitava al solo ufficio proprio religioso. Oltre alla sua competenza giuridica - audientia episcopalis - , l'organizzazione materiale della Chiesa africana rappresentava una reale potenza economica. Risulta dunque molto difficile distinguere l'autorità propria religiosa da quella politica, nel senso etimologico di questa parola. Tuttavia è fuori dubbio che quest'ultima si stava sempre più allargando. Questa importante componente politica che caratterizzava le strutture ecclesiali provocava, di riflesso, una degradazione del senso religioso nel clero.

Chierici, diaconi, sacerdoti ed anche vescovi, si erano compromessi in una amministrazione ecclesiastica talvolta molto sospetta. Era il caso, per esempio, di un certo Paolo, vescovo della borgata Cataqua (provincia di Bizacena), di cui Agostino si sforzò di risolvere la situazione riguardo al fisco imperiale: speculatore, nei debiti fino al collo, questo vescovo aveva acquistato un latifondo, che aveva fatto registrare come proprietà della Chiesa per non pagare le tasse, e spillava denaro dalla cassa diocesana. Alcuni chierici occupavano anche funzioni di amministratori di importanti proprietà fondiarie nelle quali lavoravano braccianti agricoli e schiavi. Queste proprietà si estesero parecchio, tanto che fu necessario costituire un corpo di chierici ragionieri per amministrarli e un altro di consiglieri tecnici per risolvere i problemi di ogni genere che nascevano.

I concili africani dovevano continuamente regolamentare le attività di un clero impegnato in affari che lo sviavano dal suo proprio incarico spirituale e lo trascinavano in continui viaggi, fino alla corte imperiale in Italia, ingrossando così il numero degli intriganti per sollecitare favori, migliorare il bilancio ecclesiastico, intervenire nei processi. Molti chierici parevano meglio dotati per la speculazione che per il sacerdozio. Diventata strumento di potenza, la Chiesa cattolica si allontanava dalla sua missione, quella che, due secoli prima, gli africani Tertulliano e Cipriano avevano voluto instaurare.

E la grande Chiesa africana, quella dei confessori e dei martiri, si mutava in una specie di deserto spirituale. Così, riprendendo gli antichi costumi del paganesimo, i fedeli andavano regolarmente nei cimiteri ad offrire pasti funerari sulle tombe dei defunti delle loro famiglie. I giorni festivi prendevano l'aspetto di fiere. E con l'aiuto del generoso vino africano, si aggiungevano molti altri scandali, e questo sotto gli occhi beffardi dei pagani che accusavano i cristiani di adorare i loro morti.

"Ne conosco molti,"- scriverà Agostino in un suo trattato (De moribus ecclesiae catholicae, 34,75) - "che offrono dei pasti ai cadaveri, che si seppelliscono sopra di loro dopo averli sepolti, e che mettono le loro voracità e le loro ubriachezze sul conto della religione". La formazione cristiana dei laici e di numerosi pastori era molto mediocre. Agostino, è dovuto spesso intervenire per fornire un minimo d'istruzione religiosa: "Non dobbiamo immaginare Dio sotto un'apparenza umana. Quando si dice che siede, non immaginate che pieghi le ginocchia" (De fide et symbolo, 7, 14).

Essendo ancora semplice sacerdote, in questa occasione Agostino non si rivolge a dei fedeli un po' attardati nella fede dei semplici, ma parla ai vescovi riuniti in concilio a Ippona, nell'ottobre del 393. Questi vescovi erano anche veri e propri "rudes", per prendere il suo termine, che avevano, pure loro, bisogno di essere catechizzati. Così, nel quarto e nel quinto secolo, nonostante gli sforzi e qualche successo di Agostino e di altri autentici pastori - i più conosciuti dei quali erano tra gli amici dell'Ipponense e si collocavano nella tradizione di Cipriano -, la Chiesa africana non poteva essere un modello per la cristianità. Il grande scisma donatista, in particolare, le aveva inferto un colpo funesto.

Certo, il movimento di Donato era uscito condannato - ma non ancora domato - dalla Conferenza di Cartagine nel 411, mentre l'editto imperiale del 412 portava sentenza di morte per lo scisma. Ma l'Africa cristiana sarebbe rimasta per sempre dilaniata e la tunica stracciata non sarebbe mai più stata ricucita. In realtà, la Chiesa africana non pativa solo una crisi di autorità spirituale. La sua non era soltanto anemia, come un corpo cresciuto troppo precocemente. Scisma ed eresia rappresentavano il suo male profondo e la minavano, la rodevano dall'interno. La Città terrestre si era sviluppata a danno della Città celeste e le ombre avevano finito per spuntarla sulla luce via via che l'istituzione ecclesiale si impiantava nella cristianità. Tale era dunque la gloria effimera della "Catholica" africana, fragile come un miraggio e che, lentamente, stava sciogliendosi e svanendo. I Vandali ariani erano già arrivati sotto le mura di Ippona, mentre, nella stanchezza degli ultimi mesi della sua vita, Agostino non la smetteva più di polemizzare con il pelagiano Giuliano di Eclano.

Originarie delle rive del Baltico, le tribù vandale erano emigrate verso regioni più fertili. Nel 409, giungevano in Spagna e venti anni dopo, nella primavera del 429, passavano in Africa. Gli invasori attraversarono lo stretto di Tarifa approdando a Tingis e Septem, le attuali città di Tangeri e di Ceuta nel nord del Marocco. Il vescovo e storico Vittore di Vita scrive che, sotto gli ordini di Genserico, personalità di molta risolutezza e abilità politica, i Vandali erano ottantamila e comprendevano non solo gli uomini in grado di portare le armi - i quali potevano essere all'incirca quindicimila -, ma anche vecchi, ragazzi, donne e servi. Le popolazioni indigene delle campagne, già da molto tempo avviate all'indipendenza, beneficiarono dell'invasione e poterono trarre dall'occasione un nuovo motivo per rompere ancor più ogni rapporto di sottomissione nei riguardi delle autorità romane. Quanto agli abitanti romani o africani romanizzati delle città, la loro resistenza fu frammentaria e non potè arrestare la marcia dei barbari. Fu in queste condizioni che, nell'ottobre del 439, Cartagine venne conquistata con il triste epilogo di distruzioni ed eccidi, i quali, secondo Vittore di Vita furono qui tanto più violenti e feroci quanto più nobile era la vittima.

Tuttavia, i Vandali occuparono solo una parte dell'ex-Berberia romana: al nord-est, la Procunsularis e la Numidia, e al centro, il litorale della Mauretania, una superficie globale cioè di circa 100000 chilimetri quadrati, appena la terza parte delle province romane al tempo della loro massima estensione. Ciò nonostante, dal punto di vista dell'Impero e della Chiesa stessa, questa occupazione rappresentava un evento considerevole. Roma aveva perso uno dei punti di forza essenziali della sua economia. Per conto suo, di fronte all'irruzione di queste orde convertite nel terzo secolo all'eresia ariana, - la quale negava la divinità del Verbo - la Chiesa cattolica perdeva il suo appoggio naturale. Quando, il 28 agosto del 430, Agostino morì, la sua città episcopale stava già assediata da quattro mesi. Ippona resistette ancora circa un anno e con successo: l'assedio durò quattordici mesi. Il secolo vandalo cominciava. Si potè allora vedere quanto erano legati e strettamente connessi gli interessi dell'Impero e quelli della Chiesa e come, caduto uno dei due associati, l'altro considerava che fosse suo dovere sforzarsi di difendere come meglio poteva l'eredità e il comune patrimonio.

Mentre i funzionari municipali e provinciali, che avevano amministrato le città e le province in nome degli imperatori, si opposero poco alla nuova autorità politica, al contrario, il clero africano rifiutò categoricamente, in nome tanto della romanità quanto della fede cattolica, di sottomettersi all'ordine vandalo instaurato. Questo atteggiamento rifiutava tutto quello che, ai suoi occhi, rappresentava un duplice male: il dominio sia dei Barbari che degli eretici. Forti della loro posizione, di fronte a questo rifiuto radicale i vincitori pretendevano dall'intera popolazione un assoluto assoggettamento al loro potere politico e alla loro fede ariana divenuta la fede ufficiale, la Chiesa ariana essendo Chiesa di Stato.

All'indomani della presa di possesso del loro nuovo demanio, i vincitori attuarono attivamente questa politica di "vandalizzazione". Nella maggioranza delle chiese le cerimonie liturgiche erano vietate e queste chiese furono attribuite al clero ariano per il suo culto. I vescovi e preti refrattari all'autorità - fra i quali il vescovo di Cartagine - furono espulsi verso l'Italia. Il clero ariano cominciò allora la sua campagna di propaganda. Sul piano economico, i Vandali applicarono alla Chiesa, non senza qualche ragione, la stessa politica di confisca, riservata ai latifondisti. Questi furono espropriati e i loro beni, mobili e immobili, fino ai gioielli ed anche agli schiavi, vennero attribuiti ai nuovi padroni.

Stessa sorte fu riservata per i beni della Chiesa, i suoi edifici, le sue terre, i vasi sacri: tutto fu confiscato e, in particolare, a beneficio del clero ariano. Genserico non poteva accordare un favore a quelli che sospettava, per vari motivi, di collusione con il vecchio potere romano. Se gli capitò di fare qualche concessione - come accadde nel 454, un anno prima della sua spedizione contro Roma e il sacco della capitale, quando permise l'elezione di un vescovo per la città di Cartagine, la cui sede era vacante da quindici anni -, fu perchè sperava di rimando in un favore dell'avversario. Quando Unerico (477 - 484) successe al padre, la politica vandala peggiorò bruscamente. Eppure, in un primo tempo, il nuovo re sembrava voler conciliarsi i favori dei cattolici. A tal fine, nel 477, scatenò una sanguinosa persecuzione contro i manichei, sempre attivi in Africa.

Per estirpare questo bubbone, Unerico riattivò le vecchie leggi romane di Diocleziano e degli imperatori cristiani: molti manichei furono gettati alle fiamme e più numerosi ancora quelli che furono banditi. Queste misure contro la setta eretica, nota lo storico Vittore di Vita, furono favorevolmente accolte dai cattolici. Ma c'era qui una manovra perfida del Vandalo prima di sviluppare il suo piano. Nel 484, Unerico convocò in concilio tutti i vescovi cattolici ed ariani perchè ogni parte esponesse e difendesse le sue posizioni. In realtà, questo pseudo concilio altro non era che una mascherata e, nonostante le loro dichiarazioni, i cattolici erano condannati in anticipo, come già erano stati condannati i donatisti nel 411, all'epoca della Conferenza di Cartagine. Il re vandalo promulgò allora un editto di rappresaglia che si presentava come la conseguenza logica del concilio. I funzionari che rifiutavano di convertirsi alla fede ariana furono perseguiti, alcuni vescovi esiliati, molti fedeli deportati nello Hodna e ridotti in schiavitù dai Mori. Fu la repressione più feroce sopportata dai cattolici africani.

Dettando questi provvedimenti il re vandalo tuttavia aveva solo attinto dalla legislazione bizantina le prescrizioni imperiali contro gli eretici: divieto di aprire le chiese, divieto alle cerimonie cattoliche, divieto di frequentare i sacramenti e di ordinare sacerdoti e vescovi. Ci furono molte apostasie, anche nel clero: vari vescovi, preti e diaconi acconsentirono a ricevere il battesimo ariano. La morte di Unerico pose termine a questa selvaggia persecuzione.

Tuttavia, i due nipoti che gli successero, Guntamundo (482-496) e Trasamundo (496-523), proseguirono la politica di "arianizzazione". Trasamundo condannò all'esilio cento sessanta vescovi, fra i quali sessanta furono mandati in Sardegna. Finalmente, con il regno di Ilderico (523-531), la situazione si placò. I sacerdoti e i vescovi banditi furono autorizzati a ritornare in Africa e le numerose sedi episcopali vacanti - fra le quali quella di Cartagine - furono provviste di vescovi titolari e le chiese di nuovo aperte al culto. Verso il 523, due concili regionali ebbero luogo nella Bizacena e nel 525, i vescovi poterono riunirsi a Cartagine. Tuttavia in questo concilio generale, erano solo presenti o rappresentati 65 vescovi.

Ma occorre tener conto di condizioni particolari e del fatto che, per esempio, legati da un tradizionale particolarismo regionale rafforzato ulteriormente dalla dominazione vandala, i vescovi della Numidia non provavano nessun piacere ad unirsi a quelli della Proconsularis. Ormai, la tormenta era passata e nonostante le numerose defezioni, sia nel popolo cristiano che nel clero, la Chiesa africana aveva mantenuto le sue principali posizioni. Il fatto sta che beneficiava di un forte supporto culturale e di un profondo attecchimento. Comunque sia, appena instaurato il potere bizantino e rialzato l'Impero, il clero ritrovò la speranza che la Chiesa, alleata allo Stato, avrebbe potuto di nuovo occupare un rango eminente e recuperare la sua antica potenza. Un anno dopo la vittoria dell'esercito dell'imperatore Giustiniano, 220 vescovi delle diverse province africane si riunivano per studiare in concilio i problemi posti della sconfitta dei Vandali che apriva nuove frontiere ad una Chiesa cattolica che ritrovava tutte le sue speranze. Quanto alla Chiesa ariana, presto non ne sarebbe rimasto neanche il ricordo.

La situazione dell'Africa quando sbarcarono i Bizantini nel settembre del 533 presentava problemi e aspetti vari. I Vandali non erano riusciti a creare una civiltà originale nelle regioni occupate ed a intergrarvisi. Quanto al resto del paese, era stato oggetto di un fenomeno di disgregazione. Gli abitanti, romanizzati o no, si erano costituiti in gruppi giustapposti di civiltà differenti, urbane, montanare o nomadi. I Bizantini divisero di nuovo l'Africa in sette province, come nei grandi secoli dell'Impero romano. Ma, in realtà, erede non di Roma, ma delle spoglie vandale, il nuovo potere non si estese molto oltre le regioni già controllate dai suoi predecessori. Così, al termine di una "riconquista" episodica e superficiale, la maggior parte dell'Africa era rimasta libera. Il fenomeno di "riberberizzazione" già abbozzato stava per svilupparsi ineluttabile. Tuttavia, situazione del tutto inattesa, nell'Africa liberata dall'oppressione vandala, i vescovi sarebbero presto divenuti semplici esecutori del potere bizantino. La cosiddetta questione dei Tre Capitoli è molto significativa della nuova situazione. Essendosi imbarcato in una controversia teologica sul soggetto delle due nature, divina e umana, di Cristo, l'imperatore Giustiniano voleva imporre la propria posizione, che si rivelava eretica riguardo alla fede tradizionale.

Mentre il papa assumeva in quest'affare un atteggiamento equivoco - che rischiò di provocare uno scisma fra l'Africa e Roma -, i vescovi africani presero coraggiosamente posizione e rifiutarono di piegarsi al volere dell'imperatore, osservando che l'incarico di quest'ultimo era di far applicare i canoni della Chiesa, ma non di fissarli. La reazione di Giustiniano fu immediata. Punizioni corporali ed esilio colpirono gli oppositori. I più decisi persero la loro sede a beneficio di uomini devotissimi al principe. Alla fine la forza vinse la resistenza episcopale. La Chiesa africana era messa in riga e tutto tornò nell'ordine imperiale. Sottomesso all'autorità bizantina, il cattolicesimo aveva recuperato i suoi antichi privilegi. Riprese i suoi beni spogliati dai Vandali. Molte chiese furono restaurate, altre furono costruite, sorsero monasteri. I vescovi ripresero le proprie abitudini di riunirsi in concili per rinsaldare l'unità del corpo episcopale e rimediare ad una disciplina ecclesiastica sempre più rilassata. Il donatismo apparve di nuovo minaccioso, soprattutto nella Numidia. Beneficiando del sostegno di funzionari, i donatisti occupavano le chiese del clero ufficiale e ribattezzavano i fedeli cattolici che venivano alle loro comunità. Giustino II (565-578) continuò la politica religiosa del padre. Proseguendo in tale direzione, concesse ai vescovi una funzione di sorveglianza dei funzionari dello Stato, il che fu all'origine di conflitti nel clero e fra chierici e laici.

Una cancrena corrompeva tutto e il papa Gregorio Magno (590-602) era continuamente sollecitato a dirimere liti, controversie interminabili che agitavano un clero mediocre. In questo clima di ostilità e di decadenza, stavano nascendo anche moti insurrezionali nei principati berberi o romano-berberi, i quali erano sempre più ostili nei confronti di questi "Greci" (così chiamavano i Bizantini) che preten-devano di rappresentare la romanità, in quanto erano ormai consapevoli della loro forza di fronte ad una Africa bizantina sempre più fragile. Nel marasma generale, il popolino, la gente umile sottomessa alla nuova amministrazione, sfruttata da un fisco spietato e dalle estorsioni dei governatori, si lasciava andare a rimpiangere il tempo passato, il tempo dei Vandali. Tutto sommato, ne aveva sofferto meno rispetto a quello che doveva subire con la nuova presenza straniera. Ormai il tempo era arrivato per un nuovo dominio, e questo doveva venire dall'Oriente.

La conquista araba dell'Africa del Nord si svolse, con alternanza di sconfitte e di successi, durante più di mezzo secolo, dal 649 al 715. Non seguiremo le peripezie di queste tappe, che sono fuori dal nostro argomento. Questa avanzata araba pone un interrogativo: nel corso di questo formidabile mutamento, in cui l'Africa del Nord si è, in qualche modo, capovolta dall'area occidentale del mondo romano e cristiano all'Oriente arabo-musulmano, diventando il Magreb, quale fu il destino della cristianità africana? Il clima della conquista era stato quello del "jihad", cioè della guerra santa. I combattimenti furono condotti per sottomettere popolazioni all'Islam. Molti cristiani consideravano questa nuova religione importata come una nuova eresia cristiana che si aggiungeva a quelle già tanto numerose nell'Africa. Questo aspetto spiega perchè parecchi cristiani, per paura o per interesse, siano passati all'Islam credendo di rimanere fedeli ad una espressione diversa del cristianesimo. Ma il vero fattore di conversione alla nuova religione si spiega probabilmente col reclutamento dei Berberi nei ranghi dell'esercito vittorioso. Il reclutamento e la guerra, il "jihad " essendo un atto religioso, imponevano la necessità della conversione all'Islam, anche se questa conversione poteva essere solo formale.

D'altronde, gli Arabi stessi non erano ingannati da queste professioni di fede musulmane. I capi arabi dovettero dunque organizzare rapidamente dei centri di formazione religiosa, come Kairouan, nella Tunisia centrale, ed i "ribat" , allo stesso tempo focolai di islamizzazione e piazze d'armi (donde viene il nome di Rabat, l'attuale capitale del Marocco). E' del tutto impossibile valutare l'importanza di un tale movimento di adesione all'Islam fra gli Africani passati sotto il dominio arabo. I cristiani che rifiutavano di adottare la nuova fede erano sottomessi allo status di "dhimmi," parola araba che vuol dire "protetto". E, in qualità di stranieri che usufruivano di una protezione giuridica, dovevano dunque pagare una tassa speciale, la "djizya". Solo accettando questa disuguaglianza riconosciuta e permanente, le autorità musulmane, davanti alle quali i cristiani si impegnavano ad ubbidire, concedevano loro il diritto di dimorare in terra d'Islam e la garanzia di una protezione legale. Tuttavia i cristiani non potevano avere alcuna possibilità di accedere a qualsiasi funzione pubblica. A causa del loro status di dipendenti-protetti, i cristiani, come pure gli ebrei, non potevano dimenticare che facevano parte di una minoranza. Nondimeno, questo status non impediva loro di vivere dignitosamente nella società musulmana.

Nella loro maggioranza i cristiani erano dei commercianti, ma numerosi erano anche gli artigiani. In realtà i "dhimmi" ebbero soprattutto a risentire di una reale segregazione e di un'attitudine settaria per l'influsso delle autorità religiose musulmane puritane, tali i "fuqaha". Certo, molti furono gli Africani che, invece di sottomettersi a questo status preferirono emigrare, partendo per la Sicilia, la Sardegna o l'Italia. I secoli della grande Chiesa africana erano proprio compiuti, ma la "Catholica" continuò a sopravvivere ancora qualche tempo a questo maremoto. In due lettere del 1053, il papa Leone IX rievocava l'antica epoca in cui i concili africani radunavano centinaia di vescovi, mentre ormai se ne potevano trovare solo cinque "in tota Africa". Un'altra lettera scritta nel 1076 era inviata dal papa Gregorio VII a Ciriaco, vescovo di Cartagine l'unico rimasto nell'Africa intera. Ciò nonostante, la Chiesa africana occupava sempre un posto d'onore nell'Occidente cristiano. Però oramai era il posto di un'Africa scomparsa, quella di Tertulliano, di Cipriano e soprattutto di Agostino, figure entrate nella leggenda. Spenta la gerarchia episcopale africana, qualche comunità cristiana sussistè ancora. Le ricerche archeologiche ci hanno permesso di individuarne due.

Fra il 1913 e il 1925, una squadra archeologica italiana ha scoperto 12 steli ad Engida, località situata ad una quindicina di chilometri a sud di Tripoli. Si tratta di steli con epitaffi datati dagli anni 945 al 1003. Le steli erano state poste in memoria di defunti dai nomi tipicamente romani Andreas, Petrus, Speratus, Maria. Petrus portava il titolo romano di "judex" il quale indica forse la sua funzione di rappresentante della comunità cristiana presso le autorità musulmane della città di Engida in questa seconda metà del secolo X.

Gli epitaffi recano anche iscrizioni bibliche che, davanti al destino della grande e gloriosa Chiesa africana, assumono oggi un'intensità tragica:

"In Te domine speravi, non confundar in aeternum" (Ps. 31, 2),

"Ossa arida resurgetis et vivetis et videbitis majestatem Domini" (Ez.37, 3-6),

"O vos omnes qui transitis per viam, aspicitite et videtis si est dolor, qualis est dolor meus" (La. 1, 12).

 

Tre altri epitaffi, ugualmente in cattivo latino, sono stati scoperti, fra gli anni 1928 e 1961, da ricercatori francesi e tunisini, a Kairouan (Tunisia centrale). Questi documenti, risalenti agli anni 1007, 1019 e 1046, attestano l'esistenza di una comunità, con la sua organizzazione, che esisteva ancora quattro secoli dopo la fondazione della città, cittadella dell'Islam magrebino. Una stele era posta in memoria del "senior Petrus", probabilmente il decano o il capo della comunità locale, e un'altra porta il nome di un certo Firmus, il quale aveva il grado di "lector", primo grado degli ordini nella gerarchia ecclesiastica tradizionale. Una di queste iscrizioni epigrafiche, quella del 1007 dell'era cristiana, fa anche menzione dell'anno 397 "anno infidelium", cioè dell'egira. Questo doppio riferimento alle ere cristiana e musulmana potrebbe significare che le ultime comunità cristiane si erano finalmente integrate nel loro ambiente, quello della società musulmana.

Così, proprio nel momento in cui spariva il califfato di Cordova (1031), a Kairouan, gli ultimi rappresentanti conosciuti della gloriosa Chiesa africana si fondevano nella grande corrente dell'Islam.

 

 

ELEMENTI DI BIBLIOGRAFIA

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P. ROMANELLI, Storia delle province romane dell'Africa, Roma 1959