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Vittorino Grossi: GLI SCRITTI DI AGOSTINO PRESBITERO (391-396)

 miniatura medioevale che raffigura sant'Agostino

Sant'Agostino: miniatura medioevale

 

 

 

GLI SCRITTI DI AGOSTINO PRESBITERO (391-396)

LE MOTIVAZIONI PRINCIPALI

di Vittorino Grossi

 

 

A Cassiciacum, l'oasi della pace e della serenità, come lo indica Agostino nelle sue Confessioni (9,3,5), il mondo moderno, fattosi compagno di viaggio dell'Ipponate, volge anch'esso il suo sguardo di speranza. Agostino, dopo cinque anni vissuti in Italia (385-390) durante i quali approdò al battesimo nella Chiesa cattolica, venne chiamato nell'anno 391 dal vescovo Valerio di Ippona ad aiutarlo come presbitero (1). La sua nuova situazione incise profondamente nel suo dialogo con la vita, maturando soprattutto la sua stima per i valori cristiani della gente comune.

Ne conseguì anche per lui una più vasta comprensione del ministero presbiterale in riferimento al popolo di Dio. Da una vita infatti di ricerca di Dio o della Sapienza iniziata con amici nella sua casa paterna di Tagaste (il primo avvio di un monastero agostiniano) egli, con la chiamata al presbiterato, percepì l'importanza della dimensione ecclesiale di tale ricerca.

 

Intravvide in concreto:

1. la statura morale e teologica necessaria al ministero presbiterale;

2. l'Ecclesia e il bene della sua pace (l'unità dei credenti) per assolvere alla sua missione nel mondo degli uomini;

3. l'importanza della Bibbia quale libro del presbitero come dell'intera Ecclesia che non può andare soggetto ad essere privatizzato da chicchessia.

 

Gli scritti del periodo del presbiterato di Agostino (cinque anni, dal 391 al 396) hanno come motivazione di fondo tali tre elementi: tredici opere tra quelle conservateci che egli menziona nel primo libro delle Revisioni (I, 14-27 dal De utilitate credendi al De mendacio; il secondo libro è dedicato ai suoi scritti da vescovo, 77 opere). Ad esse vanno aggiunti due libri (II e III) del De libero arbitrio, scritti appunto quando già era presbitero (Retr. I, 9). Possediamo la sua opera da presbitero pressocchè integralmente, se si eccettuano alcuni scritti antidonatisti, frutto di circostanza più che di qualche peculiare spinta interiore (l'anima della produzione letteraria agostiniana) (2). Se per i suoi scritti da catecumeno Agostino nota che si possono leggere ancora utilmente, purchè si perdonino alcuni difetti o almeno non ci si attacchi a qualche errore in essi contenuto; per l'insieme delle sue opere egli suggerisce di imitarlo non quando si sbagliò bensì nel suo migliorarsi man mano che andava scrivendo.

Per aiutare il lettore in tale cammino egli si sforzò nelle Revisioni di annotare i suoi scritti secondo il loro tempo cronologico (3). Dell'intera opera di Agostino, divisa nell'Indiculum di Alipio in tre blocchi (trattati, lettere, sermoni), si aveva una copia nella biblioteca d'Ippona, anzi emendatoria exemplaria (cioè manoscritti garantiti) che, stando a quanto ci riferisce Possidio (Vita Augustini, 18), erano messi a disposizione di tutti, anche di quanti ne chiedessero una copia personale. Se il blocco delle opere è costituito fondamentalmente da quello relativo alla polemica manichea e donatista, in vista di un vissuto cristiano possibile a tutti in un continuo sforzo di pace, le preoccupazioni che da esse emergono sono principalmente tre:

1. delineare l'immagine di un presbitero con i relativi compiti;

2. cogliere l'importanza dell'unità dell'Ecclesia per la sua missione;

3. prendere coscienza della natura peculiare del libro sacro, la Bibbia.

Questa triplice tematica costituisce la filigrana della produzione letteraria agostiniana del tempo del presbiterato e brevemente la delineiamo in questa nota.

 

1. Immagine e compiti di un vescovo e di un presbitero

Nel discorso inaugurale del concilio d'Ippona del 393 Agostino delineò l'icona di un vescovo come di un presbitero della Chiesa di Dio, che noi oggi indicheremmo in quella di un pastore capace anche di essere teologo (4). Per l'Ipponate le preoccupazioni di un presbitero e di un vescovo si concretizzavano nell'essere attenti ad una triplice vigilanza:

a) snidare nel popolo cristiano le ragnatele dell'errore che si possono nascondere anche nella spiegazione del simbolo di fede;

b) proporre la verità cristiana nella linea di una medicina che dona salute, commisurandola cioè alla reale possibilità di recezione da parte dell'uomo cui viene rivolta;

c) conservare la loro fedeltà alla gente soprattutto nei momenti difficili.

 

a) Il pastore teologo

La realtà di un pastore teologo coincide in Agostino con quel credente che lui chiama "uomo spirituale" (5), i cui compiti coincidono con le responsabilità proprie di un intellettuale o di un uomo di cultura. All'uomo spirituale (noi diremmo al teologo o generalmente all'intellettuale) compete, secondo Agostino, quell'ufficio di vigilanza nel tessuto dei rapporti umani, che non consente alle sottigliezze della ragione di nascondere i propri veleni e, talvolta, anche all'interno delle verità più assodate come nel caso del Simbolo di fede dei cristiani. Il lavoro pastorale teologico, che qualifica gli addetti quali "docti et spirituales viri" perchè capaci di comunicare ad altri la propria fede (6), si svolge, per l'Ipponate, sulla base di due tonalità che condizionano o meglio fanno la sostanza stessa del ministero ordinato.

La prima è nel rispetto del lavoro altrui in tale campo. Chi opera nel settore intellettuale sa infatti quanto sia facile cadere nei tranelli della ragione, e come sia difficile liberarsene; ed inoltre, quanto costi nella vita guadagnarsi un briciolo di verità (7). Il secondo presupposto è nell'attitudine dell'intellettuale che "preferisce imparare piuttosto che insegnare" e "s'informa prima di dire qualcosa" per non cadere nella parzialità della ricerca e quindi nell'errore (8).

Alla serietà del lavoro professionale intellettuale Agostino aggiungerà poi la coscienza di potersi sbagliare (9) - un'autocoscienza che in un ministro della Chiesa sa di tragicità sapendo egli di parlare e di incidere anche nelle generazioni future (10) - e quindi la necessità di sottoporre a continua verifica i propri risultati (11).

Il pastore-teologo, pur nei limiti del suo lavoro, è "l'uomo spirituale" che consente ai cristiani di non smarrire il senso della propria esistenza, anzi riannoda i fili sparsi del loro esistere, soggetto a dissolversi nella frammentarietà del tempo (12). Egli crede al suo lavoro perchè, per esso, la misericordia divina fa sì che i fedeli non solo ascoltino e credano ma anche conoscano e comprendano la fede cattolica (13), come loro stessi hanno meritato di conoscerla e di comprenderla.

Nel ministero della sua parola, detta o scritta, il pastore-teologo mostra almeno le difficoltà delle questioni se proprio non riesce ad eliminarle (14) e, per tale lavoro, è da stimarsi "un uomo di bene" (15).

 

b) Il modo di proporre la verità

La parola "teologica" poi, non è per Agostino un mero frutto intellettuale con finalità a sè stante, dato che essa ha un'intrinseca connessione con il ministero pastorale. La sua intenzionalità infatti, nascendo dalla carità di Cristo, è di giungere all'interlocutore come parola rivolta a lui "in modo adeguato e utile".

Scrisse l'Ipponate a proposito di una sua risposta ai monaci provenzali nell'anno 428: "(Dio) possa portare loro il nostro affetto e il ministero della parola. Chissà che Dio non dia loro l'illuminazione richiesta (per mezzo della preghiera) per la disponibilità di servizio che ci fa servitori nella libera carità di Cristo ? " (16).

Agostino era convinto che il modo di porgere la verità sia tanto importante quanto la stessa verità. Tra teologia e pastorale, in altri termini, c'è una connessione tale che, se non viene rispettata, compromette l'essenza stessa della verità cristiana di essere sempre salutariter. A tale proposito egli nota, ad esempio, il male che potrebbe produrre nell'uditore una non accorta spiegazione della predestinazione, benchè non si dica il falso. "Non sarebbe salute per l'infermità umana" (17). Enuncia quindi il principio pastorale nel proporre la verità: l'uditore sia "quadam suavitate coaptandus " (18).

 

c) La fedeltà del presbitero al popolo di Dio

Sulla fedeltà richiesta al presbitero per la propria gente, abbiamo l'espressa volontà di Agostino raccolta da Possidio, mentre Ippona stava per soccombere sotto l'incalzare dei Vandali: "Quando tutti, vescovi e ecclesiastici e laici, conoscono egualmente il pericolo, chi ha bisogno degli altri non sia abbandonato da coloro di cui ha bisogno. Tutti transmigrino in località sicure, o se alcuno è costretto a rimanere non venga lasciato solo da chi ha il dovere di soccorrerlo nei suoi bisogni di membro della Chiesa. Così sopravvivano insieme, o insieme sopportino quanto il Padre di famiglia vorrà loro imporre ... Se alcuni abbandonarono le loro comunità, ecco, questo noi diciamo che non si deve fare ... La fuga ci è imposta, a noi ministri di Cristo, dalle località dove stiamo sotto l'incalzare della persecuzione quando non c'è più il popolo di Cristo a cui prestare il nostro ministero, oppure il ministero necessario può essere fornito da altri che non hanno ragione di fuggire. Dobbiamo temere la corruzione della sensibilità interiore e la perdita della purezza della fede, più che lo stupro violento della carne delle donne.. Dobbiamo temere l'estinzione delle pietre vive da noi abbandonate più che l'incendio davanti a noi delle pietre e del legname degli edifici terreni ; dobbiamo temere l'estinzione delle membra del corpo di Cristo private del nutrimento spirituale, più che la tortura delle membra del nostro corpo investite dalla violenza nemica ...

Quando mancano le vie di scampo quale concorso allora in chiesa di gente d'ogni sesso ed età: chi invoca il battesimo, chi la riconciliazione, chi l'esecuzione stessa della penitenza, tutti poi il conforto, la preparazione e la distribuzione dei sacramenti. Se venissero a mancare i ministri, quale rovina !... Presenti invece i ministri, ognuno con le forze che Dio gli fornisce, tutti ricevono soccorso: gli uni hanno il battesimo, gli altri la riconciliazione, nessuno è privato della comunione del corpo del Signore, tutti sono consolati, edificati, esortati a pregar Dio, il quale ha il potere di allontanare ogni motivo di timore : tutti sono preparati all'una e all'altra sorte: se non può questo calice passar via da loro, sia fatta la volontà di Colui che non può voler nulla di male " (Vita Augustini, 30, 11-31).

 

2. Unità dell'Ecclesia e missione

La questione "donatista", così denominata da uno dei suoi fautori, il vescovo di Casa Nuova Donato (Ep . 49, 3) (19), fu nel secolo IV e primo decennio del V una vicenda circoscritta alla Chiesa africana. Essa tuttavia fu un fenomeno molto complesso (20). Vi confluirono elementi religiosi e sociali all'alba di un nuovo assetto del cristianesimo a motivo della libertà religiosa raggiunta con l'editto di Costantino che pose, a sua volta, all'interno della stessa comunità cristiana la questione della libertà religiosa. Storicamente il donatismo prese l'avvio dalla persecuzione di Diocleziano (303-305), durante la quale alcuni cristiani, per lo più vescovi, si macchiarono del crimine di consegnare i libri sacri alle autorità civili (i traditores da tradere = consegnare oltre che tradire). Da alcune parti si sostenne che tali traditores a causa del loro crimine, avevano perso ogni potere spirituale e quindi erano da ritenere incapaci di ordinare altri vescovi o presbiteri.

Su questa base, nel 311 a Cartagine, 80 vescovi della Numidia ritennero invalida l'ordinazione episcopale di Ceciliano perchè uno dei vescovi consacranti, Felice di Apthungi, fu sospettato di essere traditor. Lo deposero perciò ordinando in sua vece Maggiorino, cui successe Donato da cui prese nome l'intero movimento. La questione si polarizzò ecclesiologicamente su quale gruppo costituisse la vera chiesa: "Dove si trova la cattolica? (Optatus 1, 26); "La questione tra noi e voi è dove sia la chiesa" (Agostino, Contra litt. Petiliani 2, 73, 164). I donatisti fecero appello all'imperatore Costantino, ma questi nel 316 si pronunciò a favore di Ceciliano indicendo un editto di unione. Iniziò la dolorosa storia della chiesa africana, a causa della questione donatista, tra un editto a favore o contro per l'una o per l'altra parte, a seconda degli umori politici al potere. Nel 392 Teodosio, uno degli imperatori che più favorì i cattolici, emanò una legge che condannava all'ammenda di dieci libbre i clerici sospettati di eresia. Tra di essi vennero inclusi i donatisti colpevoli di violenze (Ep. 105, 2, 4) (21).

Agostino era presbitero della Chiesa d'Ippona da un anno. Da questa data iniziano le testimonianze dell'opera svolta da Agostino per ridare il bene dell'unità alla Chiesa africana. Il vescovo donatista Vincenzo di Cartenna ricorda il giovane presbitero d'Ippona come uno "dedito agli studi letterari ed amante della pace e dell'onestà" (Ep. 93, 13, 51) (22).

Dal 393 in poi Agostino impresse alla questione donatista un andamento che diverrà norma ideale nella Chiesa per ogni discussione al suo interno, e base di ogni incontro ecumenico posteriore. Due furono i suoi orientamenti: a) riguardo al passato sofferto dalle due parti (donatista e cattolica), rinunciare a rimproverarsi data l'inutilità per la causa dell'unione che si voleva perseguire; b) trattare la questione in sé, sulla base delle Scritture e della fiducia nella capacità umana della ragione, sottraendola a condizionamenti di potere sia manifesti che velati. Il tenore di questi due orientamenti era di circoscrivere la questione all'ambito religioso, risolvendola con mezzi propri a disposizione, evitando di volerli prendere dall'esterno, invocando ad esempio l'aiuto delle autorità civili.

Di questo periodo è la lettera 23 di Agostino (tra il 391-395), della quale citiamo il brano più significativo: "Togliamo di mezzo gli inutili rimproveri che le due parti per ignoranza, sono solite scagliarsi contro reciprocamente. Tu (donatista) non rinfacciarmi i tempi di Macario, come io (cattolico) non ti rinfaccerò la crudeltà dei circoncellioni. Se questo fatto non ricade su di te, nemmeno l'altro ricade su di me ... Trattiamo della cosa in sé, con la forza della ragione, con l'autorità delle sacre Scritture .... Chissà che il Signore, assecondando i nostri sforzi e le nostre concordi preghiere.. non comincino a sparire dalle nostre terre delle regioni africane un obbrobrio e un'empietà così grandi ... Io poi non farò questo finchè i soldati sono qui ... bensì dopo la loro partenza, affinchè tutti gli uditori comprendano che il mio proposito non è quello che gli uomini vengano costretti, contro la loro volontà, ad aderire alla comunione di chicchessia ... Da parte nostra cesserà il terrore rappresentato dal potere temporale, cessi anche da parte vostra il terrore diffuso dalle bande dei circoncellioni". (Ep. 23, 6-7) (23).

Proposte concrete di incontri tra le due parti non ebbero esito, anzi vi fu una recrudescenza della violenza che giunse ad attentati a persone - incluso Agostino - e all'uccisione del vescovo di Bagai (Ep. 185, 26-27). Fu questo uno dei periodi più sofferti cui andò incontro la Chiesa africana. Agostino ne soffriva soprattutto per la mancata festa settimanale del giorno del Signore per la sua gente d'Ippona la quale, perchè divisa in donatista e cattolica, oltre a non celebrare insieme l'eucaristia stentava persino a salutarsi.

Il presbitero d'Ippona incominciò a scrivere in continuità sulla questione: "Contro la lettera di Donato" (andata perduta, segnalata in Retr. I, 21), "Contro Adimanto" (Retr. II, 21), uno scritto che apre la serie delle confutazioni di Agostino diventando modello di tanti suoi scritti posteriori (24). Va notato comunque che la sua preoccupazione, più che confutare eretici, mirava a chiarire la dottrina cattolica, convinto inoltre che nei suoi scritti (ad esempio nel De genesi ad litteram ) più che soluzioni si trovavano questioni (Retr. 2, 24, 1). Egli infatti, ci teneva a sottolinearlo, più che godere di una vittoria retorica cercava di giungere alle anime (Retr. 1, 16 riguardo a Fortunato manicheo).

L'amore per la gente, che voleva difendere dagli inganni dei maestri della parola, lo portò a scrivere il "Salmo contro il partito di Donato": un inno religioso popolare di 22 versetti che iniziano con l'ordine delle lettere dell'alfabeto, per aiutarne la memorizzazione, con l'aggiunta di un ritornello. Per capirne la reale tensione che egli iniziò a maturare dal tempo del presbiterato riguardo all'amore per la Chiesa e al ministero dei suoi responsabili, riportiamo la sua proposta fatta all'episcopato africano, cattolico e donatista, riunito nell'anno 411 nelle terme di Cartagine per dare una soluzione alla secolare scissione della Chiesa africana, la notoria Collatio Cartaginensis del 411.

Egli richiese in caso di vittoria dell'una o dell'altra parte, che i due vescovi (cattolico e donatista), rispettando la volontà delle comunità interessate, conservassero insieme la cattedra episcopale o si dimettessero entrambi. Agostino la presentò all'assemblea, caldeggiandola nel modo seguente (Ep. 128, 3): "Perchè mai dovremmo esitare a offrire al nostro Redentore questo sacrificio di umiltà ? Non discese egli dal cielo in membra umane perchè noi fossimo sue membra ?

E noi avremmo paura di discendere dalle nostre cattedre per scongiurare il pericolo che le stesse sue membra siano dilaniate da una crudele divisione ? Per quanto ci riguarda, a noi basta solo essere cristiani fedeli e ubbidienti: cerchiamo dunque di esserlo sempre. Noi siamo ordinati vescovi per servire le comunità cristiane, facciamo dunque, per ciò che concerne il nostro episcopato un'opera che sia utile ai fedeli di Cristo per la pace cristiana. Se siamo servi utili perchè pregiudicheremo gli interessi eterni del Signore per amore delle nostre dignità temporali ? La nostra dignità episcopale sarà più fruttuosa per noi se deponendola, avremo radunato il gregge di Cristo che, conservandola, essere causa della sua dispersione. Con quale mai sfrontatezza potremo sperare l'onore promesso nei secoli futuri da Cristo, se il nostro onore ecclesiastico impedisce in questo modo l'unità di Cristo ? ". La proposta venne accettata dai circa 300 vescovi presenti, solo due furono contrari.

 

3. LA BIBBIA IL LIBRO DELL'ECCLESIA

La conversione di S. Agostino al cristianesimo nelle Chiesa cattolica fu anche un problema di recezione delle sacre Scritture, prima che esse divenissero la sua guida. Giovane di 19 anni (due anni prima gli era morto il padre Patrizio), dopo aver letto l'Ortensio di Cicerone, Agostino fu preso dall'amore per la filosofia per "la sapienza in sè" al di là delle varie scuole filosofiche. Si meravigliava però che tra quelle pagine, che pur parlavano di sapienza, non vi si trovasse il nome di Cristo "quel nome del Salvatore mio, devotamente succhiato nel latte stesso di mia madre e conservato teneramente nel profondo del mio cuore ancora piccolo" (Confessioni 3, 7, 8). Fu la ricerca del nome di Cristo a indurlo a leggersi le Sacre Scritture. L'impatto del giovane retore con la semplicità del racconto biblico fu però molto duro.

Solo qualche anno più tardi egli poi capì che le disposizioni per leggere la Bibbia non sono quelle linguistiche. "Mi proposi - scrive Agostino nelle Confessioni (3,5,9) - di rivolgere la mia attenzione alle sacre Scritture per vedere come fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l'ingresso o piegare il collo ai suoi passi. Infatti i miei sentimenti, allorchè le affrontai, non furono quali ora che parlo (tra i quarantatrè-sei anni, quando cioè scrisse le Confessioni essendo già vescovo, tra il 397-400). Ebbi piuttosto l'impressione di un'opera indegna del paragone con la maestà ciceroniana. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi. Quell'opera è invece fatta per crescere con i piccoli ma io disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande".

Accanto alle difficoltà linguistiche di stile ne dovette affrontare una più grande: le Scritture gli sembravano un libro grossolano nello stesso linguaggio che usava per trattare di Dio, paragonato ad un vasaio. Si faceva di Dio, in altri termini, nel libro religioso della Bibbia tanto conclamato, un uomo a livello di corporeità. Un libro su Dio cioè, si diceva già allora, che era infetto di antropomorfismo. Agostino ne ebbe una vera ripugnanza. A leggere in tal modo le Scritture sacre Agostino vi era stato educato dai manichei. Essi avendo una visione del mondo piuttosto negativa soprattutto per quanto riguardava la materia e quindi il mondo sensibile in generale, portarono tale dualismo nella lettura della Bibbia, aggiudicando l'Antico Testamento al principio del male, in Dio creatore della materia; mentre il Nuovo Testamento era frutto del principio del bene.

Tale distorsione interpretativa della Bibbia li portava a riconoscere come autorità solo le Scritture del Nuovo Testamento. Ci volle del tempo perchè Agostino potesse liberarsi da tale mentalità, che discriminava in modo netto la Bibbia dei giudei e la Bibbia dei cristiani. Ottenuto a Milano, nell'autunno del 384, l'insegnamento della retorica il giovane retore africano entrò nei circoli intellettuali milanesi. Andava ad ascoltare le omelie di S. Ambrogio, noto per la sua oratoria; iniziava a leggere i neoplatonici tradotti in latino dal retore romano Mario Vittorino; visitava qualche volta un presbitero di Roma molto stimato a Milano, Simpliciano. Agostino cominciò ad ascoltare un discorso nuovo in fatto di lettura delle sacre Scritture. Queste cioè non andavano lette alla lettera, ma alla luce di un senso spirituale capace di dare vita a chi riesce a coglierlo.

Di quella sua scoperta egli ha lasciato scritto nelle Confessioni (6, 4, 6): "Io mi rallegravo anche a proposito degli antichi scritti della Legge e dei Profeti: non mi si domandava più di leggerli con l'occhio che prima vi trovava un'aria assurda, quando io incriminavo i tuoi santi come se essi la pensassero così; ma in realtà essi non la pensavano così; e come se raccomandasse una regola con la più grande cura, spesso nei suoi discorsi al popolo Ambrogio diceva una cosa che io ascoltavo con gioia: "La lettera uccide, ma lo spirito vivifica" (2 Cor. 3, 6); e allo stesso tempo, nei testi che sembravano contenere alla lettera una dottrina perversa, egli sollevava il velo mistico e scopriva un senso spirituale, senza dir nulla che mi potesse urtare".

Agostino non si innamora ancora dei contenuti della Bibbia, ma inizia ad amarne la lettura: legge la letteratura giovannea (vi ritrova dentro le categorie del platonismo); le lettere paoline (Conf. 7, 21, 27; Contra Academicos 2,2,5); fa fatica a leggere Isaia (Conf. 9, 5, 13); utilizza i Salmi per la preghiera e momenti meditativi (Conf. 9, 5, 13; De Ordine 1, 8, 22).

Quando divenne presbitero chiese al vescovo Valerio tempo libero per studiare di più le sacre Scritture (Ep . 21). Si procurò codici criticamente più assodati, dando le sue preferenze all'Italia rispetto alla versione latina africana; iniziò a cimentarsi con vari commenti nell'interpretarla. Sono di questo periodo (394-395) il primo tentativo di commentare la Genesi (De genesi ad litteram imperfectus liber) ma dovette arrendersi (25), la Lettera ai Romani di fronte alla quale rimase atterrito sia per la grandezza dell'opera che per la mole di lavoro richiesta (26): il commento alla Lettera ai Galati ("Expositio epistolae ad Galates, liber unus": Retr. 1, 24); il Sermone Montano (Retr. 1, 19, 1). L'opera esegetica di Agostino presbitero è segnata dalla sua polemica con i manichei nell'interpretare le Scritture, sia allegoricamente che letteralmente (Retr. 1, 18).

Sul come leggere le Scritture scriverà poi da vescovo la sua grande opera De doctrina christiana (Retr. 2, 4, 1), indicando come filigrana presente in ogni passo della Bibbia i due comandamenti del Signore: l'amore di Dio e del prossimo. Da presbitero il suo interesse per le Sacre Scritture, oltre ad una migliore conoscenza e a temi particolari legati alla polemica manichea, fu nell'avvertirle come il libro del popolo di Dio che superava la dimensione di un gruppo particolare. A Milano, a Roma come a Cartagine esistevano circoli di intellettuali che si misuravano sulle Sacre Scritture quale libro sapienziale per eccellenza.

Il rischio che esse, al tempo del presbiterato di Agostino, potessero globalmente o in parte divenire quasi espressione di qualche movimento ecclesiale e non di tutta l'Ecclesia era reale.

I manichei infatti e i donatisti tiravano dalla loro parte soprattutto le lettere dell'Apostolo Paolo (27). Agostino ridiede alle Scritture, in particolare all'Apostolo Paolo, il loro carattere di cattolicità. Le prime applicazioni che egli ne fece riguardarono la comprensione del cristianesimo, una religione per tutti, di chiara polemica antimanichea. Unico infatti è il creatore, uno l'autore delle Sacre Scritture dell'Antico come del Nuovo Testamento, eguale la possibilità di poter essere cristiani contro la divisione manichea di eletti e uditori, unica perciò la redenzione accessibile a tutti. L'Ipponate sintetizzò l'insieme della posizione cattolica contro il dualismo manicheo, enucleando Rom 7, 14 "scimus quia lex spiritualis est; ego autem carnalis sum". L'umanità viene letta da Agostino in una quadruplice condizione del suo pellegrinare: "ante legem, sub lege, sub gratia, in pace" (28). L'uomo "ante legem" è privo della coscienza del peccato; "sub lege" gli è possibile avere tale coscienza (l'aspetto positivo della legge contro la negatività manichea) e gli è anche possibile il passaggio allo stadio "sub gratia", situazione in cui la legge, grazie alla "gratia Dei per Iesum Christum Dominum nostrum" (Rom. 7, 25), può essere osservata superando l'ostacolo della concupiscenza. Gli uomini perciò si distinguono non nel modo manicheo tra eletti e uditori, ma "sub gratia" o "sub lege", cioè tra uomini spirituali e carnali. La condizione "sub gratia", l'essere cioè nel vivere cristiano, è accessibile a tutti al libero arbitrio e alla grazia di Dio (Exp. quarumdam ad Romanos 13, 18)(29).

Il commento poi ai Galati affronta direttamente il passaggio dell'uomo dalla condizione carnale a quella di spirituale, sulla base di un'assoluta eguaglianza tra gli uomini e la possibilità comune di un loro progresso spirituale. Agostino, ritornato in Africa dopo la sua conversione, ritornò ad una lettura cattolica della Bibbia e su tale terreno scrisse contro l'influenza manichea in Africa sui cristiani più eminenti. D'altra parte l'autobiografia di Mani era costituita su quella di Paolo come si ha nella lettera ai Galati; Agostino ridiede all'apostolo Paolo la predicazione della verità di Cristo che ora è della Chiesa.

 

4. Tematiche particolari

Quanto a tematiche particolari dalle opere di Agostino presbitero, ne ricordiamo alcune da due opere in particolare, il De utilitate credendi e De diversis quaestionibus, 83. L'"utilità del credere" fu la prima opera scritta da Agostino presbitero. Essa costituì nella sua evoluzione spirituale, stando all'ottica delle Revisioni (1, 14), il suo addio alla filosofia. La scrisse per l'amico Onorato con il quale aveva condiviso l'esperienza manichea dalla quale lui ancora non riusciva a liberarsi.

Agostino sentì il bisogno di aiutarlo a maturare il significato delle verità religiose, le quali appartengono all'ambito della fede e cambiano la vita quando vi si aderisce. "Se non le puoi capire - incoraggia l'amico - credile per capirle perchè quando precede la fede segue poi l'intelligenza" (De utilitate 12, 26). Per il medesimo motivo - ripeterà ancora Agostino nelle Revisioni - non è da deridere la disciplina della fede cattolica che ingiunge agli uomini di crederle (Retr. 1, 14, 1) (30).

D'altra parte, anche se la fede cristiana non ha bisogno di miracoli per credere (Retr. 1, 13, 7), come lo fu agli inizi del cristianesimo, spesso per la gente umile essi rivestono ancora la loro importanza (De civitate Dei 22, 8) e perciò non vengono ritenuti inutili. "Le 83 questioni diverse" fu l'ultima opera scritta dal presbitero Agostino. Essa fu il risultato di questioni diverse trattate con i suoi amici dal tempo della sua conversione e poi raccolte in un volume (Retr. 1,26).

Dalla questione 53 in poi si tratta di questioni scritturistiche, quelle precedenti prendono invece in considerazione diverse problematiche, quali: il libero arbitrio, la creazione dell'uomo e il suo deteriorarsi, il valore e il ruolo del corpo, il versetto "nato da donna", l'uomo in paragone con la bestia di cui è superiore, Cristo figlio di Dio, sull'origine del male, le possibilità della libertà, il senso del creato, la centralità dell'uomo nell'universo, l'ordo amoris, sul come nutrire la carità, l'amore per la moglie, la creazione dell'uomo ad immagine di Dio, l'oscura questione del divorzio.

 

CONCLUSIONI

Gli scritti di Agostino, presbitero della Chiesa d'Ippona, ci presentano anzitutto un Agostino maturato quanto ad orizzonte spirituale dell'umanità. Egli infatti, nella ricerca di Dio con i suoi amici entro l'orizzonte della Chiesa cattolica, maturò la visione di tale ricerca come una possibilità per tutti gli uomini e per tutti i cristiani in particolare. Tale dimensione essoterica del cristianesimo la contrappose all'esoterismo della spiritualità cristiana manichea, il cui cammino di perfezione era praticamente riservato al gruppo degli eletti, mentre altri, gli uditori, rimanevano ai margini dell'esperienza cristiana. Agostino stesso era stato ammesso tra gli uditori manichei.

Le basi di una spiritualità cristiana per tutti le maturò nella lettura paolina dell'uomo "sub lege et sub gratia", equivalente del cristiano che con la grazia può giungere ad osservare la legge percepita dalla conoscenza della rivelazione e dalla sua coscienza. L'uomo paolino "sotto la legge e sotto la grazia" venivano tradotti dai manichei in due classi; da Agostino vennero attribuiti al medesimo cristiano il quale, aiutato dalla grazia può giungere a osservare la legge. Il passaggio viene reso possibile, secondo l'apostolo, dalla grazia che non confina gli uomini in due classi che si oppongono sino ad escludersi, i carnali e gli spirituali. Se questa era la base, potremmo dire, teoretica della spiritualità di un cristiano, Agostino ne percepì anche la dimensione sociale o ecclesiale. L'ecclesialità cioè costituisce il campus, per un cristiano, di quel dono di Dio, che è il diffondersi della carità la quale consente la circolazione dei beni del regno di Dio.

Su tale dato, maturato da una ricomprensione antimanichea dell'uomo paolino "sub lege et sub gratia", Agostino impresse alla questione della separazione della Chiesa cristiana in Africa, tra donatisti e cattolici, una accelerazione che provocò un mare di contestazioni ma la portò a conclusione con la Conferenza di Cartagine nel 411.

Per Agostino non era sufficiente ammettere la comunione tra cristiani e donatisti sul piano sacramentale, occorreva anche quella sul piano della Chiesa visibile, o della comunione dei santi, o della carità. Non è sufficiente avere il battesimo, spiegava Agostino ai donatisti, occorre anche avere la grazia propria del battesimo, vale a dire la carità diffusa nei nostri cuori dallo Spirito santo che si esprime tra l'altro nella comunione ecclesiale.

La Chiesa infatti non è solo comunione di sacramenti ma anche comunione di santi. Se si è fratelli, insisteva Agostino, bisogna cercarsi, non bisogna quindi accettare la richiesta dell'altro di essere lasciato in pace. "Non mi dire - ribatteva ad un donatista - a che scopo mi cerchi se sono perduto? Ma ti cerco perchè ti sei perduto. Tu insisti " non mi cercare ". Ciò lo vuole certamente l'iniquità che ci ha divisi , ma non la carità per la quale siamo fratelli ... Cerco mio fratello e mi rivolgo al Signore per lui non contro di lui. Nè dico nella preghiera " Signore dì a mio fratello che divida con me l'eredità ma dì a mio fratello che conservi con me l'eredità" (Esposizione sul Salmo 18, II, 6).

E a un dissidente donatista rispondeva: "Chiede il dissidente : Se io ho già il battesimo cosa potrò ricevere di più dalla Chiesa? Riceverai la Chiesa che non hai, riceverai l'unità che non hai, riceverai la pace che non hai" (Ser. Denis 8, 3: MA I, 37). Ricordare Agostino in occasione del XVI centenario del suo presbiterato potrebbe dare adito a pensare che tale circostanza interessi in qualche modo solo il clero. In realtà per la comprensione che egli ebbe del ministero presbiterale la sua chiamata al presbiterato si colloca nella storia anche futura dell'insieme delle componenti della Chiesa di Dio. Egli delineò in se stesso l'icona del presbitero:

a) Un ministro a servizio della missione della Chiesa, capace di presentare all'uomo la verità cristiana come la sua salvezza e nel modo che lui sia "quadam suavitate coaptandus" (Retr. 1, 13, 1);

b) Sia attento lettore e fedele interprete delle sacre Scritture, nutrimento della sua vita teologale come di quella dei fedeli.

E' un ministero che un presbitero potrà adeguatamente assolvere maturando l'esercizio della carità di Dio e del prossimo in comunione quotidiana di vita con altri presbiteri. Agostino, fondando ad Ippona un monastero per i chierici, aprì con tale prassi una prospettiva ecclesiale nuova per il ministero presbiterale. Fondamentalmente si trattò della maturazione ecclesiale di Agostino medesimo: da un impegno di vita e di ricerca di Dio, limitato ad alcuni amici (Cassiciaco e Tagaste), egli passò ad un impegno che si trascinò dietro tutta l'Ecclesia.

c) Un presbitero capace di aiutare tutti i cristiani a vivere la vita del progresso spirituale, il grado del passaggio dall'uomo "sub lege" a quello "sub gratia".

d) Un presbitero capace di riconoscere i propri errori.

Agostino, ormai settantenne, ripensando al suo entusiasmo per le Scritture durante gli anni del suo presbiterato e giudicando le sue interpretazioni nota di essersi talvolta sbagliato. "Mi sbagliavo - nota alla revisione del "De moribus ecclesiae catholicae et manichaeorum"- perchè non conoscevo ancora bene le Scritture" (Retr.1,6,2) (31).

e) Un presbitero infine capace di servire la comunione ecclesiale.

La sua esperienza cristiana ha a cuore non i dissensi che incrinano l'unità ecclesiale bensì la pace della Chiesa che consente ai cristiani di godere la comune festa eucaristica nella commemorazione del giorno del Signore.

 

 

Note

 

1. Vedi Ep . 21; Ser. 355,

2. POSSIDIO, Vita Augustini, 4. 2. Tali scritti perduti sono stati raccolti, sulla base delle indicazioni contenute nelle Revisioni, da G.BARDY, (Les Révisions, BA 12, pp. 35-36).

3. Retr. Prologo 3: "Mi conforta l'aver potuto scrivere queste annotazioni per consegnarle nelle mani dei miei lettori, dalle quali non posso più ritirare e correggere quanto scrissi prima.

Non tralascio tuttavia i miei scritti da catecumeno quando, pur avendo abbandonato speranze di gloria terrena, scrivevo ancora sotto l'orgoglio proprio delle scienze umane. Essi infatti andarono in mano ai copisti e ai lettori. Quei libri tuttavia si possono ancora leggere utilmente se si soprassiede a qualche errore in essi contenuto oppure se non lo si perdona che almeno non vi si attacchi. Quanti pertanto mi leggono non mi imitino nell'errore ma nella mia ansia di migliorare. Chi leggerà i miei scritti nell'ordine cronologico in cui li scrissi potrà forse rendersi conto come io progredissi scrivendo.

Allo scopo di poter aiutare il lettore in tale cammino curerò quest'opera, nei limiti delle mie possibilità, secondo il medesimo ordine cronologico".

4. Per gli Atti di tale Concilio, vedi Concilia Africae (CCL. 149, 21-46; nn. 33-46 il Breviarium Hipponensis).

5. Per un esame più ampio di questa concezione rimandiamo al nostro contributo, La spiritualità agostiniana, in Le Grandi scuole della spiritualità cristiana (a cura di E. Ancilli), Roma 1984, pp. 159-206, in particolare pp. 189-194; e a quanto abbiamo scritto sul Lateranum N.S.54 (1988), 253-265, "Il pastore teologo. Realtà e compiti nella valutazione di S. Agostino".

6. De fide et symbolo 1, 1 : "Sub ipsis ergo paucis verbis in Symbolo constitutis, plerique haeretici venena sua occultare conati sunt: quibus restitit et resistit divina misericordia per spirituales viros, qui catholicam fidem, non tantum in illis verbis accipere et credere, sed etiam Domino revelante intelligere atque cognoscere meruerunt"; 9, 18: "Et de Patre quidem ac Filio multis libris disseruerunt docti et spirituales viri".

7. E' rimasto giustamente famoso quanto Agostino afferma in merito nel Contra ep . manichaei quam vocant Fundamenti, 2-3: "Infieriscano contro di voi (manichei) coloro che non sanno con quanta fatica si trovi la verità, e quanto sia difficile non cadere nell'errore. Infieriscano contro di voi quanti non sanno quanto sia arduo e raro superare con la serenità di una mente pia i fantasmi della carne. Infieriscano contro di voi quanti non sanno con quanta difficoltà si sani l'occhio dell'uomo interiore perchè esso possa vedere la sua luce ...Infieriscano contro di voi quanti non conoscono i gemiti e i sospiri che da ogni parte implorano di poter intelligere Dio. Infieriscano infine contro di voi quanti non sono stati ingannati dall'errore che vedono in voi. Io invece che tanto a lungo giacqui prostrato e finalmente ho potuto intravedere quella sincerità della mente che si percepisce senza il racconto di una inutile favola ... assolutamente non posso infierire contro di voi".

8. De fide et symbolo 9, 18 : "impias haereticorum mentes prius volentes docere quam nosse" . Cfr. Ep . 193,13. "prius discere quam docere". In Cipriano, Ep . 72 e 74, 10 c'è il medesimo pensiero.

9. "Sarebbe più presunzione che verità - egli scrive verso la fine della vita - dire che, alla mia età, sia giunto al punto di esprimermi che non mi sbagli mai, nelle stesse espressioni che uso (sine ullo errore scribendi)" . Cfr. De praedestinatione sanctorum 2, 55.

10. Per Agostino, vedi ad es. Conf . 2, 3, 5: "Davanti a te io racconto ciò al genere umano...e perchè ? Perchè io e il mio eventuale lettore consideriamo con quale profondità bisogna gridare verso di te" ; vedi anche e soprattutto Ivi 12, 31, 42.

11. De dono perseverantiae , 21, 55 dove affronta l'intera problematica, sino a dire: "quandoquidem arrogantius loquor quam verius, si nunc dico me et perfectionem sine ullo errore scribendi iam in ista aetate venisse".

12. L'espressione tecnica di Agostino, molto difficile da tradursi, è "dissilui in tempora". Su tempo e libertà, un tema tanto vivo anche nel dibattito culturale attuale, rimandiamo alla rivista Centauro n. 16 (Il moderno e la libertà), nn. 17-18 (Tempo e eternità), anno 1986 (Guida editori, Napoli).

13. De fide et symbolo, 1, 1: "Ai veleni degli eretici ... si oppone la divina misericordia con i teologi (per spirituales viros), i quali hanno meritato non solo di ascoltare e di credere alla fede cattolica, ma anche "Domino revelante" di capirla e di conoscerla".

14. De haer. prol. 10-12: "ut per ministerium linguae meae tanta huius rei difficultas aut ostendatur tantummodo aut, ipso etiam plenius adiuvante, tollatur". Su tale fede Agostino si accinse a scrivere, nell'ultimo anno della sua vita, il De haeresibus, rimasto incompiuto (la parte riguardante "da che cosa nasce l'eretico", corrispondente al II libro).

15. De utilitate credendi 4, 11 (dell'anno 391, data della sua ordinazione a presbitero): "Un uomo preoccupato di rendersi utile al genere umano e alla posterità è un uomo di bene".

16. De praedestinatione sanctorum 1, 2. Riportiamo l'intero testo latino: "ipse (Deus) hoc quoque revelabit; tamen etiam nos impendamus eis dilectionis affectum ministeriumque sermonis, sicus donat ille quem rogavimus, ut in his litteris ea quae illis essent apta et utilia diceremus. Unde enim scimus ne forte Deus noster id per hanc nostram velit efficere servitutem, qua eis in Christi libera charitate servimus?".

17. Parlando della predestinazione in seconda persona invece che in terza persona, per l'uditore sarebbe "improbissimun, importunissimum, incongruentissimum; non falso eloquio, sed non salubriter valetudini humanae infirmitatis apposito ... Nonne et verius eadem res et congruentius dicitur?" (De dono perseverantiae 22, 61).

18. Retr. 1, 13, 1: "quanta misericordia eius per temporalem dispensationem concessa sit hominibus christiana religio, quae vera religio est, et ad eundem cultum Dei quemadmodum sit homo quadam suavitate coaptandus".

19. All'inizio il movimento era indicato come il partito di Maggiorino (Ep. 88, 1: l'Ep . 43 di Agostino traccia la storia degli inizi del movimento).

20. Sull'insieme della questione donatista e le questioni ecumeniche in gioco indichiamo qualche studio più significativo, A. PINCHERLE, La controversia donatista alla luce della dottrina del Corpo mistico di Gesù Cristo nelle opere antidonatiste di S. Agostino, Roma 1942; W. H. FREND, The Donatist Church. A movement of Protest in Roman North Africa, Oxford, 1952; O. CULMANN, The Early Church and the Ecumenical Problem, Anglican Th. Review 40 (1958) 294-301; P.R.L. BROWN, Religione e società nell'età di S. Agostino, Torino 1975, 245-263 (St.Augustine's Attitude to Religious Coercion, da Journal of Roman Studies 54, 1964, 107-116); J. MORAN, San Agustìn y la unidad de los cristianos. Archivio Th. Agustiniano 2 (1967) 535-564; E.LAMIRANDE, La situation ecclésiologique des Donatistes d'après S.Augustin Contribution à l'histoire doctrinale de l'oecuménisme, Ottawa 1972; V. GROSSI, L'iter della comunione ecclesiale nelle comunità di Tertulliano-Cipriano-Agostino, in Regno come comunione, Torino 1980, 59-100.

21. Sulla documentazione della questione si può vedere in PL. 8, 673-784: Monumenta ad Donatistarum historiam pertinentia.

22. Per un orientamento di lettura delle testimonianze agostiniane sulla questione notiamo come esse vadano distinte cronologicamente in due blocchi: il I che va dal 392 (editto di Teodosio) al 405 (editto di Onorio che decretò la soppressione dei donatisti, al quale in ultimo anche Agostino acconsentì); il II blocco dopo il 405, quando Agostino interpretò l'editto imperiale alla luce del compelle intrare del vangelo di Luca (14, 23). Spesso i lettori di Agostino, non tenendo presente questo dato, utilizzano indiscriminatamente passi dell'uno e dell'altro periodo, a scapito della comprensione sia dell'atteggiamento che del pensiero di Agostino riguardo alle componenti dell'unità della Chiesa e, nel medesimo tempo, della libertà religiosa. Noi ci occupiamo del periodo del presbiterato, per le posizioni di Agostino nel periodo posteriore : V. GROSSI, La Chiesa della carità alla prova della vicenda donatista. Nota storico-teologica , in vol. De caritate Ecclesia. Il principio amore e la Chiesa (a cura dell'ATI), Ed. Messaggero Padova 1987, pp. 282-296.

23. Va rilevato che il primo appello all'autorità civile venne fatto proprio dai donatisti, solo che avutane sentenza a loro sfavorevole vi si ribellarono. Tuttavia, benchè poi in seguito si lamentassero dei cattolici che, per una questione religiosa, si appellavano all'autorità civile, va rilevato che la questione, in tale periodo, si pose nella sua essenza come questione religiosa da risolversi al suo interno.

24. Agostino pose su fogli staccati il testo di Adimanto aggiungendovi la sua risposta che spesso divenne più ampia con aggiunta di qualche nuova risposta. Dedicò al medesimo argomento qualche discorso durante le assemblee. Preso da altre preoccupazioni lasciò inedito il lavoro, che poi pubblicò più tardi così come lo trovò. Un tipo di Responsiones che utilizzò altre volte in opere scritte poi quando era vescovo (G. BARDY, in Révisions BA 12, p. 50).

25. Retr. 1, 18: "Volevo mettermi alla prova ma sull'esercizio di come spiegare le Scritture dovetti arrendermi".

26. Retr. 1, 25 (l'Epistolae ad Romanos inchoata expositio). Le note poi, prese da discussioni con amici a Cartagine sulla medesima Lettera, vennero redatte in un libro (Retr. 1, 23) "Expositio quarumdam propositionum ex Epistola apostoli ad Romanos".

27. Vedi, AA .VV., Le Epistole paoline nei Manichei, i Donatisti e il primo Agostino (Sussidi patristici 5), Ed. Augustinianum Roma 1989.

28. M. G. MARA, Agostino e la polemica antimanichea: il ruolo di Paolo e del suo epistolario, in Augustinianum 32, 1992, pp. 1-25, in particolare la nota 20 che riporta i passi paolini utilizzati da Agostino.

29. Il passo di Rom 7, 2-25 svolse un ruolo primario nella teologia di Agostino, in particolare nell'antropologia ( vedi Maria Grazia MARA, op. cit. ). Nelle Retr. 1, 23 Agostino dà una sintesi del suo travaglio sul testo di Paolo ai Romani 7, 24.

30. Questo principio fu costante in Agostino vedi, Serm. 118, 1: "Si non potes intelligere, crede ut intelligas; praecedit fides, sequitur intellectus"; vedi anche In Io. ev. 29, 6 e Ep .120, 1, 3.

31. Degli sforzi esegetici non riusciti nel tempo del presbiterato dei quali Agostino ci dà atto nelle Revisioni, cfr. G. BARDY, Les Révisions BA 12, p. 85 ss.