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Lanfredo Castelletti: il paesaggio della brianza in età romana

 Pieguzza: seme d'uva rinevnuto nella seconda vasca di età romana

Pieguzza: semino d'uva rinvenuto nella vasca di età romana

 

 

 

IL PAESAGGIO DELLA BRIANZA IN ETÀ ROMANA

di Lanfredo Castelletti

 

(Laboratorio di Archeobiologia-Musei Civici di Como)

 

 

Come ricostruire i paesaggi antichi

L'archeobiologia è una disciplina scientifica che applica le conoscenze biologiche all'archeologia. Essa studia principalmente la natura e l'origine dei resti organici, che si scoprono in un deposito archeologico. Indagini di questo tipo, condotte sui reperti affiorati alla Pieguzza nel 1984 in occasione della scoperta di una concimaia romana, hanno permesso di effettuare una credibile ricostruzione della sua natura e della sua destinazione. La tipologia dei reperti organici ha inoltre fornito indispensabili informazioni per individuare l'aspetto locale del paesaggio in età romana.

Durante gli scavi erano stati raccolti tre campioni di terra: due furono prelevati all'esterno della vasca e nella terra di morena, e non contenevano nulla di interessante, mentre il terzo fu preso direttamente dentro la concimaia. La terra fu sottoposta a setacciatura sotto getto d'acqua su setacci a maglie di diverse dimensioni e il materiale recuperato è stato analizzato al microscopio presso il Laboratorio di Archeobiologia dei Musei Civici di Como.

L'esame dei resti organici ha evidenziato ossa di animali, semi e carboni. La dottoressa Polydora Baker ha studiato le ossa degli animali di grossa taglia ed ha scoperto che dei 20 frammenti recuperati cinque appartengono al maiale, due appartengono a capre o pecore, sei al bue, altri sei a ungulati di medie dimensioni e infine, l'ultimo, a un gallinaceo domestico.

Di questi frammenti ossei, sedici portano segni di macellazione e provengono tutti da individui giovani o immaturi. La tipologia di questi reperti ci dà un interessante spaccato della dieta di quel tempo e dell'importanza che aveva il maiale nell'economia antica. La dottoressa Silvia Di Martino ha studiato invece i resti di micromammiferi, che ha determinato appartennero a rane e a topi, probabilmente topi campagnoli.

Per quanto riguarda i semi, di particolare interesse apparvero i semi o vinaccioli di vite (Vitis vinifera L.), che non erano carbonizzati. Si erano conservati invece grazie ad un processo chimico-fisico tipico dei depositi organici confinati in cisterne, latrine o concimaie, che conduce alla loro mineralizzazione ad opera di fosfati prodotti dalla presenza di ceneri e di ossa. Altri "semi" sono riferibili a noccioli di ciliegia o amarena, che, come i precedenti, derivano da un probabile uso umano.

Inaspettatamente furono scoperti anche chicchi mineralizzati di granturco (Zea mays L.), pianta che da noi inizia ad essere coltivata nel XVIII secolo e non può pertanto essere riferita all'età romana.

La questione è di estremo interesse perché apre un nuovo orizzonte alle indagini sui depositi di tipo organico ed impone una maggiore attenzione nella valutazione dei risultati degli esami archeobiologici. La presenza di semi di granturco nella concimaia della Pieguzza può tuttavia essere spiegata con una certa plausibilità.

All'interno della concimaia, ormai riempita di detriti e di terra, s'è annidato, in un momento non precisato degli ultimi tre secoli, un nucleo di topi campagnoli, che ha immagazzinato dei semi fra cui i chicchi di granturco. Qui essi hanno subito il medesimo processo di mineralizzazione che aveva precedentemente coinvolto i semi già esistenti nella concimaia.

La presenza dei semi di granturco non inficia l'antichità della concimaia e dei suoi reperti che risalgono a circa duemila anni fa.

All'interno della concimaia sono stati rinvenuti anche frammenti di carbone, che presumibilmente provengono da ceneri buttate al suo interno in età romana e che sono riferibili a due tipi di alberi, la quercia (Quercus sp. di tipo caducifoglio) e il castagno (Castanea sativa (L.) Mill.).

 

Le trasformazioni del paesaggio a partire da 15.000 anni fa

Queste brevi considerazioni a carattere locale mi permettono di entrare nel vivo dell'argomento di questo contributo che tratta la ricostruzione del paesaggio della Brianza in età romana.

Anzitutto bisogna definire cosa si intende per paesaggio. Da un punto di vista archeologico il paesaggio non ha un semplice valore estetico, ma ha una pluralità di valori e di significati.

Il paesaggio è costituito da tutto il mondo percettibile nelle sue funzioni, nella sua dinamica, nelle sue trasformazioni per effetto di numerosi fattori. Il paesaggio è pertanto in continuo divenire e i tempi di questa trasformazione si possono misurare nel volgere di secoli per il passato e nell'arco di pochi anni per il presente, al ritmo dell'incalzante impatto esercitato dalla moderna tecnologia.

Le attuali metodologie scientifiche ci permettono di seguire tali trasformazioni in tutti i loro dettagli, come abbiamo brevemente accennato per la Pieguzza.

Per tracciare un quadro storico del paesaggio in età romana bisogna necessariamente rifarsi alle età precedenti, poiché hanno dettato la storia successiva.

La nostra ricostruzione inizia da circa 15.000 anni fa, quando i ghiacciai dell'ultima glaciazione, che ha interessato anche questa regione, iniziarono la loro ritirata. I ghiacciai ritirandosi hanno lasciato delle morene, in genere distribuite in modo disordinato per la presenza di rocce affioranti preesistenti. In una parola si è modellato allora in forma definitiva il volto collinare della Brianza.

Sul dorso spoglio di tali morene si è successivamente sviluppata una vegetazione, dapprima tipica di ambiente freddo con pino e betulla, poi via via con caratteristiche più temperate, con querce e altre latifoglie più esigenti. Di pari passo si è modificata la selvaggina, in particolare quella di grossa taglia e il cervo, con il miglioramento climatico verificatosi poco più di 11.000 anni fa, diviene insieme al cinghiale l'erbivoro più interessante per i cacciatori preistorici di stanza nel nostro territorio.

Le più antiche tracce di questi cacciatori, chiamati mesolitici, per distinguerli dai più antichi cacciatori paleolitici e dagli agricoltori della fase successiva o Neolitico, sono state rinvenute e scavate sul monte Cornizzolo, sopra Civate. Si tratta di bivacchi con poveri resti, schegge e strumenti di selce e carboni provenienti da fuochi accesi dai cacciatori.

Altri indizi sono stati trovati nella Valle del Curone e, più lontano, ad Erbonne, un paesino in comune di San Fedele Intelvi. Bivacchi di questo genere sono conosciuti in tutte le Alpi e in par-ticolare sulle Dolomiti, dove nell'ultimo decennio se ne sono rinvenuti circa un migliaio.

Lo studio dei carboni e dei pollini ci consente di ricostruire il paesaggio in cui si muovevano queste antiche popolazioni.

In pianura esso era caratterizzato da foreste di caducifoglie, querce, aceri, tigli, olmi, con un ricco sottobosco di cespugli come noccioli, cornioli e biancospini; in montagna, come sul Monte Cor-nizzolo e ad Erbonne, c'erano foreste di abete bianco, una conifera che ormai è praticamente sparita dalle Prealpi intorno al lago di Como e che è divenuta rarissima un po' ovunque nelle Alpi e negli Appennini.

Il territorio della Brianza era allora costellato di laghi e di numerose paludi, che sono state prosciugate e bonificate nel corso del tempo. Vista dall'alto, in questo periodo, la Brianza collinare sarebbe apparsa come una ininterrotta distesa di foreste, solcate da fiumi e inframmezzate qua e là da specchi lacustri e da acquitrini.

 

L'agricoltura più antica

Verso il 4.500 a. C. circa (la data è largamente ipotetica e basa su analogie con zone vicine) arrivarono i primi agricoltori, che portarono con sé le sementi dei cereali e gli animali domestici, oltre alle conoscenze sul modo di fabbricare le case, modellare l'argilla per i vasi ecc. Abbiamo le prove della loro presenza in Val Curone, presso Montevecchia. Gli agricoltori cominciarono ad aprire radure nelle foreste, per far posto a campi, orti e spazi per le case, aie e recinti per il bestiame. Queste radure, inizialmente di limitate dimensioni, dopo lo sfruttamento erano abbandonate, tanto che la foresta si richiudeva, pur lasciando una sorta di cicatrice. E' in questo periodo che l'uomo comincia a diventare il principale responsabile della trasformazione del paesaggio. Le tracce di questi agricoltori non sono numerose nella nostra zona, rispetto ad altre. Questa penuria può essere interpretata come il segno di una situazione del territorio non favorevole dal punto di vista agronomico. Dobbiamo porre attenzione a questo fatto perché si tratta di uno degli elementi che condizioneranno la storia delle nostre terre nei successivi seimila anni, sino a influenzarne la storia economica recente. Accanto alla foresta coesistevano le zone umide, che furono sfruttate sino all'età del Bronzo da comunità di agricoltori che praticavano anche la pesca nei laghi e la pastorizia sulle vicine montagne.

L'età del Bronzo antica coincide con l'epoca delle "palafitte" e sono noti gli abitati trovati durante l'estrazione di torba nell'Ottocento in Comarcia e nei Pascoli di Bosisio e di Molteno, oltre che presso l'Isola dei Cipressi sul Lago di Pusiano. Questi uomini praticavano la pastorizia sul Monte Cornizzolo, là dove 4.000 anni prima si erano accampati i cacciatori mesolitici, mentre in prossimità del lago un'economia mista a base di agricoltura, caccia e pesca concedeva loro la possibilità di sopravvivere. Non sono noti tuttavia grandi insediamenti, come si verifica nella zona del Garda, il che rafforza l'immagine di un territorio non particolarmente ricco di risorse e di altre attrattive economiche come il commercio e quindi non in grado di sviluppare significativi nuclei demografici. Tuttavia l'uso di strumenti di bronzo e in particolare di asce, più efficienti rispetto a quelle di pietra, rende più intensa l'attività di diboscamento. Intorno al 900-800 a. C. alle soglie dell'età del Ferro, si notano i segni di una radicale trasformazione del territorio, poiché la Brianza e il Comasco diventano un centro di richiamo grazie allo sviluppo dei traffici da e per le regioni a Nord delle Alpi. Dall'Etruria e dalla Magna Grecia affluivano prodotti di metallo, ceramiche di lusso, vino e altri prodotti e dal Nord provenivano materie prime. Forse proprio vicino a Cassago, intorno al VI secolo a. C. si snodava l'importante via commerciale che faceva capo al Forcello, presso Mantova, un insediamento etrusco al di qua del Po. Questo itinerario attraverso tappe giornaliere di una trentina di km per via d'acqua e per terra, conduceva a Como. Da qui la strada proseguiva per i grandi passi delle Alpi centrali come il Lucomagno e lo stesso Gottardo, a torto un tempo ritenuto di frequentazione più recente.

Il paesaggio in età romana

La ricostruzione del paesaggio che abbiamo delineata sin qui è stata sviluppata attraverso un'indagine ad ampio raggio che ha utilizzato diverse fonti, come lo studio dei pollini, dei carboni, dei semi preistorici nonché la distribuzione e le caratteristiche degli abitati. In particolare la vegetazione è stata ricostruita sulla base dello studio dei pollini e dei carboni. Utilizzando i diagrammi pollinici, ricavati da trivellazioni condotte sul fondo dei laghi della regione si è verificato, per esempio, il grande sviluppo dell'abete bianco dal 6.500 al 3.000 a. C. seguito dopo il 3.000 a. C. da un incremento delle foreste di faggio. I carboni, provenienti da focolari o da incendi e recuperati negli strati archeologici, dimostrano che un'altra pianta comunissima oggi, il castagno, appare relativamente tardi nel I-II secolo d. C. e si diffonde ad opera dell'uomo nel IV-V secolo.

Alle soglie dell'età romana i boschi della Brianza appaiono dunque modificati rispetto al loro aspetto originario e ridotti nella loro estensione per la competizione dell'agricoltura romana, in genere caratterizzata da una buona organizzazione del territorio e specializzazione delle colture. La nostra ricostruzione per il periodo della romanizzazione (III-II secolo a. C.) a tutta l'età imperiale non può affidarsi a dati concreti. I motivi dipendono esclusivamente dalla mancanza di scavi archeologici relativi a questo periodo, se si eccettuano le recenti ricerche sulla villa rustica di Pontelambro dalle quali sembra emergere l'importanza della viticoltura nella collina alto-briantea. L'unico insediamento che è stato studiato a fondo è quello di Monte Barro, in comune di Galbiate, che tuttavia si riferisce a un periodo più recente (V-VI secolo d. C.). Tuttavia è plausibile che il paesaggio che emerge dai dati relativi a Monte Barro non si discosti molto da quello di età propriamente romana. Le ricerche di ecologia antica sembrano dimostrare che le drammatiche testimonianze degli scrittori del tardo impero i quali dipingono, soprattutto per la Pianura Padana, un paesaggio letteralmente aggredito dalla foresta, vadano accolte con qualche cautela. L'insediamento dei Goti di Monte Barro ha permesso di verificare numerosi elementi per la ricostruzione del paesaggio. Si è constatato, per esempio, che per gli usi di carpenteria, per le costruzioni di edifici, per mobili, per legna da ardere si usava pressoché esclusivamente legno di castagno. Questo significa che a Monte Barro e probabilmente in tutta la Brianza, come dimostrano i ritrovamenti analoghi di Pontelambro e le tracce di carbone nella concimaia della Pieguzza, esistevano estesi boschi di castagno. Gli stessi che Cassiodoro ricorda nelle sue Variae (XI, 14) con un'immagine suggestiva come "capelli sulle cime delle montagne".

Questi boschi di castagno erano diffusi anche in pianura come dimostrano ritrovamenti di carboni in scavi archeologici a Pavia e come attestano numerosi documenti medioevali che parlano di castagneti nel bel mezzo della Pianura Padana. Il castagno è una pianta coltivata che l'uomo ha diffuso prendendola secondo alcuni dai Balcani, secondo altri dall'Italia, dove era probabilmente spontanea, ma assai rara. La sua diffusione ha coinciso con la crisi dell'agricoltura in un momento in cui era difficile gestire tale attività sulla scia della tradizione romana. Questa pianta, che non richiedeva molte cure e impiego in mano d'opera, poteva costituire una integrazione alimentare non indifferente nell'economia contadina oltre a fornire legname, corteccia, rami e foglie da lettiera. Siamo perciò certi che le colline brianzole erano coperte da selve e da cedui di castagno, da legname e da frutto. Frutti di castagno sono stati trovati in quantità nella dispensa del grande edificio di Monte Barro.

Per l'alimentazione oltre alle castagne si faceva largo consumo anche di altri prodotti. Sempre grazie a Monte Barro siamo in grado di ricostruire la tipologia delle piante utili e coltivate dei campi. La vite costituiva un elemento irrinunciabile, la cui tradizione si è mantenuta in Brianza per lunghi secoli. Il declino di questa coltivazione si è verificato con la diffusione dalla fillossera e la concorrenza di vini non locali, nel secolo scorso. L'olivo era certamente presente, anche al di fuori della zona rivierasca lariana (ancora oggi ci sono piante di olivo a Montevecchia e sul versante sud del Monte Barro) ed è d'altronde ricordato da Cassiodoro nel passo citato. A Monte Barro si è scoperto il lino, una pianta che era diffusa sino a poco tempo fa in Brianza e che era usata anche a scopo alimentare sotto forma di olio. I numerosissimi semi carbonizzati venuti alla luce ci testimoniano che il lino non era utilizzato solo come pianta tessile.

Tra i cereali troviamo l'orzo, i cui chicchi a Monte Barro hanno un aspetto diverso dall'odierno, appaiono più piccoli e denunciano un calo nell'impiego delle tecniche agricole. Contrariamente alle altre regioni del Nord, dove si diffonde l'uso della coltivazione della segale, in Brianza permane la consuetudine di coltivare il frumento, nonostante le maggiori esigenze per la crescita, proprie di questa graminacea. Tuttavia, anche se scarsa, esisteva la coltivazione della segale. Tra le piante infestanti si scoprono il fiordaliso, la veccia, il velenoso gittaione (Agrostemma githago), che veniva macinato con i cereali e consumato con effetti deleteri per l'organismo.

Sono particolari che suggeriscono campi poco curati, mal concimati, destinati al consumo locale per la sussistenza, con la rapida perdita delle conoscenze della tecnica agronomica romana, legata a un mercato molto articolato e spesso esigente. Il paesaggio urbanizzato di età romana a poco a poco si sgretola con la scomparsa dei grossi nuclei produttivi delle ville rustiche. Accanto alle colture in declino si intensificano proporzionalmente le attività miste agro-silvo-pastorali.

Gli studi di Monte Barro hanno rilevato la grande importanza dei maiali, che rappresentano il 58% circa dei residui ossei, seguiti da capre/pecore e dai bovini. Il maiale era allevato allo stato brado nei boschi di faggi, di querce e castagni sul Monte Barro, come accadeva spesso nel nord Italia, a differenza del centro e del sud dove era allevato in recinti nelle grandi ville. Gli animali non assomigliavano ai nostri: erano più piccoli, alti 60-70 cm al garrese, piuttosto magri, pelosi, col muso verrino. La macellazione avveniva con una tecnica non documentata in Gallia e nel nord dell'Italia, ma diffusa nel centro e nel sud. L'allevamento dei suini non costituisce un fatto nuovo, ma rappresenta una caratteristica del paesaggio lombardo e comasco in particolare.

Varrone nel I secolo a. C. parla delle comacinae pernae, ossia dei prosciutti di Como. Il fatto che fossero famosi all'epoca di Varrone significa che i prosciutti o comunque l'allevamento dei maiali avevano una consolidata tradizione, che risaliva ad epoche anteriori, quando non erano ancora arrivati i Romani. Al Forcello di Mantova, già citato all'inizio, sono state trovate ossa di maiale in quantità spropositata alle dimensioni dell'abitato.

Si suppone che tali maiali fossero destinati all'esportazione, anche perché sono scarse le ossa degli arti posteriori, che servivano per confezionare i prosciutti. Questa esportazione avveniva già nel V secolo a. C. e denota la grande diffusione dell'allevamento del maiale nelle selve padane, come già attesta, all'incirca allo stesso momento di Varrone, anche il geografo greco Strabone.

L'economia complessiva del Monte Barro era diversificata e cercava di sfruttare al meglio le risorse a portata di mano secondo una filosofia economica che si intensifica con il procedere del Medioevo. Il paesaggio a mosaico del Monte Barro e di tanti altri rilievi di bassa o media altezza, in cui coesistono boschi "naturali" nella parte Nord, castagneti e coltivi sulla parte sud, con terrazzamento di alcuni pendii, è un retaggio della tecnologia agricola romana, parzialmente persasi nell'alto medioevo e ripristinata in forme più moderne in età contemporanea.

Da un punto di vista teorico il paesaggio della Brianza, negli ultimi 8.000 anni non avrebbe dovuto subire grandi modifiche. Dopo il ritiro dei ghiacciai e il miglioramento del clima, la temperatura si era stabilizzata su medie simili a quelle attuali. C'è stato un riscaldamento durante il Neolitico e diverse fasi fredde, di cui la più acuta ha avuto luogo circa un secolo fa senza catastrofiche conseguenze sull'ambiente. In età romana si è verificato un periodo un po' più caldo nei primi secoli dell'impero e un raffreddamento verso il V secolo d. C. La modificazione del paesaggio brianzolo che abbiamo delineato non è dipesa pertanto da sostanziali variazioni naturali del clima, quanto piuttosto dalla incessante e sempre più intensa attività umana. L'uomo quindi, nel bene e nel male, è stato il principale fattore di cambiamento del paesaggio della Brianza.

 

 

Indicazioni bibliografiche

 

P. BIAGI, R. CAIMI, L. CASTELLETTI, R. DE MARINIS, S. DI MARTINO, A. MASPERO 1994, Note sugli scavi a Erbonne, località Cimitero, Comune di S. Fedele Intelvi, "Rivista Archeologica dell'Antica Provincia e Diocesi di Como" pp. 5-36.

G. P. BROGIOLO, L. CASTELLETTI (a cura di ) 1991, Archeologia a Monte Barro I, Il grande edificio e le torri, Lecco.

L. CASTELLETTI, F. D'ERRICO, L. LEONI 1983, Il sito mesolitico del Monte Cornizzolo (Prealpi Lombarde Occidentali), "Preistoria Alpina" 19, pp. 213-220.

L. CASTELLETTI 1990, Storia della vegetazione e del clima negli ultimi 15.000 anni. In: F. CAIANI (a cura di) Albate, la gente e la sua storia, Como.