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Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Settimana 1995 > Agostino Clericiagostino clerici: AGOSTINO VESCOVO, TRA CHIESA E CITTÀ
Parmigianino: Agostino vescovo
AGOSTINO VESCOVO, TRA CHIESA E CITTÀ
di Agostino Clerici
Una visione teologica: le due città
Quando, sedici secoli fa', presumibilmente in una Domenica fra metà maggio e fine giugno del 395, il sacerdote Agostino venne ordinato vescovo coadiutore di Ippona, ormai da alcuni decenni il vescovo della Chiesa cattolica godeva di uno statuto particolare nel rinnovato rapporto fra Chiesa e Stato instaurato con la svolta costantiniana e, in modo particolare, con l'imperatore Teodosio che, appena 15 anni prima, nel 380, aveva dichiarato il cristianesimo religione di stato.
A noi sfugge il senso di questo cambiamento epocale e forse, nelle frettolose disamine storiche, viene meno anche quel minimo di senso critico che permetterebbe di accorgersi di come si dessero diverse posizioni ideali di fronte all'avvenuta trasformazione dei rapporti fra Chiesa e società. Non è qui il luogo per intraprendere questa ricerca. Ma è certo che la visione del vescovo di Ippona non può essere considerata come un capitolo della esaltazione dello Stato costantiniano quale si trova ad esempio in Eusebio di Cesarea. Costui poté definire l'imperatore come "il vescovo esterno". Il vescovo di Cagliari, Lucifero, attesta anche l'espressione "episcopus episcoporum."
Il pericolo maggiore di questa posizione è - e di fatto fu - il servilismo di alcuni vescovi nei confronti dell'impero romano. Sono significative a questo proposito le parole pronunciate da Osio, vescovo di Cordova, al concilio di Serdica del 343: "Certi vescovi non fanno che salire le scale della corte imperiale, specie gli africani. Certuni per captare onorificenze e vantaggi temporali a beneficio di qualche persona, presentano a corte infinite istanze per cose disparatissime, per fatti indifferenti al bene della Chiesa e a quello dei poveri, degli orfani e delle vedove."
Agostino, pur occupando una delle 430 sedi episcopali dell'Africa, non era su questa linea, non correva simili rischi di integrazione fra Chiesa e Stato, anche se la sua posizione prendeva nettamente le distanze anche dall'estremo opposto, quella allergia radicale nei confronti dello Stato - quella che, con termine moderno, chiameremmo "anarchia" - che in Africa aveva trovato nel donatismo il suo campione. Il vescovo di Ippona teneva un rapporto franco con le autorità politiche, e nel suo epistolario troviamo lettere indirizzate ai funzionari dell'impero in cui non mancano i toni della protesta ferma e convinta. Ma era pur sempre consapevole della necessità di un dialogo e di una collaborazione, in cui egli portava ostinatamente le esigenze del Vangelo.
Per cogliere appieno la concezione che Agostino aveva dei rapporti fra Stato e Chiesa, dobbiamo considerarla come un corollario della sua teologia della storia, così come viene formulata in modo particolare nelle pagine del De civitate Dei. Volendo riassumere ai minimi termini la visione agostiniana, l'idea centrale è quella delle due città, la civitas Dei e la civitas terrena.
La nostra mentalità - tutta istituzionale e imbevuta dei concetti della moderna filosofia della storia - ci farebbe subito concludere ad una frettolosa identificazione delle due città con la Chiesa e lo Stato. Nulla di più lontano dal pensiero agostiniano, che ha una visione più complessa e completa della Chiesa e riconosce un valore positivo allo Stato, il che sarebbe impossibile se lo Stato ipso facto coincidesse con la civitas terrena.
La dottrina delle due città rappresenta un'acuta trascrizione sul piano sociale del dualismo morale tipico dell'uomo, che con la sua volontà può orientarsi verso il bene e verso il male. Sono celebri le parole con cui Agostino radica le due città dentro le scelte di ciascun uomo: "Due amori diedero origine a due città, alla terrena l'amor di sé fino all'indifferenza per Iddio, alla celeste l'amore a Dio fino all'indifferenza per sé."
Si capisce, allora, che le due civitates agostiniane siano da considerarsi come due entità mistiche e non storiche. Se dovessimo usare un linguaggio teologico preciso, dovremmo parlare di realtà escatologiche, non nel senso che esisteranno solo alla fine della storia, ma nel senso che riguardano il fine della storia e che, semmai, solo al termine della storia avranno confini precisi e precisabili.
La storia come "confusione" e "mescolanza"
Il tempo della storia - quello in cui gli uomini vivono, per intenderci, in una determinata Chiesa e in un determinato Stato - è caratterizzato da una apparente confusione delle due città. Scrive il vescovo di Ippona già nel primo libro del De civitate Dei: "Le due città non sono riconoscibili (perplexae) in questo fluire dei tempi e sono fra di loro commischiate (permixtae), fino a che non siano separate dall'ultimo giudizio."
Questa mescolanza inestricabile è uno dei principi fondamentali della teologia cristiana della storia e rappresenta un criterio di grande prudenza valutativa nel giudicare il "dentro" e il "fuori " in riferimento alla definitiva appartenenza alla civitas Dei. Si può essere fisicamente e istituzionalmente dentro la Chiesa ed essere fuori della civitas Dei, e viceversa. Il principio della mescolanza non doveva far sentire i fedeli che affollavano le basiliche troppo sicuri nel giudicare certa la loro appartenenza alla civitas Dei in forza dell'appartenenza alla Chiesa, e nemmeno nel giudicare l'esclusione di altri dalla civitas Dei a motivo della loro assenza dalla Chiesa.
Desiderio sempre risorgente lungo la bimillenaria storia della Chiesa. Desiderio che Agostino considera pericoloso, perché vorrebbe cancellare un dato di fatto ineliminabile e necessario. Infatti, con tale confusione bisogna fare continuamente i conti, accettandola come una prova che durerà sino alla fine del mondo. Il vescovo di Ippona, sempre così prolifico di immagini nella sua predicazione, si serve di diversi paragoni per illustrare la situazione dei cittadini della civitas Dei mischiati a quelli della civitas terrena.
A partire dalla parabola evangelica del buon grano e della zizzania, Agostino ricorda al buon cristiano che "la paglia sarà mescolata con te nel tempo presente, finché ti trovi nell'aia, non lo sarà quando ti troverai nel granaio."
Quando il donatista Petiliano si atteggia a giudice e inquisitore, il vescovo di Ippona gli ricorda con umiltà e insieme con fermezza: "Sono un uomo sull'aia, paglia se sono cattivo, grano se sono buono. Ma in ogni caso il vaglio non è la lingua di Petiliano! "
Altrove la Chiesa è paragonata "all'amica di Cristo, situata in mezzo a figli stranieri come un giglio fra le spine."
Altrettanto bello e plastico il paragone della Chiesa che attraversa questo secolo come i discepoli sulla barca mentre Cristo cammina sulle acque: "sebbene, infatti, questa barca sia sbattuta dai turbini delle tentazioni, vede tuttavia il Signore glorioso camminare sopra tutti i rigonfiamenti del mare, cioè al di sopra di tutti i poteri di questo mondo."
Sempre collegato ad un episodio evangelico - quello delle due pesche miracolose, prima e dopo la resurrezione - e all'esperienza quotidiana dei pescatori di Ippona, c'è poi l'immagine della rete piena di ogni specie di pesci: "quella prima retata di pesci rappresentava i buoni e i cattivi di cui ora la Chiesa è formata; la seconda, invece, rappresenta soltanto i buoni che formeranno definitivamente la Chiesa, quando, alla fine del mondo, sarà compiuta la resurrezione dei morti."
La visione armoniosa che Agostino ha delle vicende umane alla luce della Provvidenza divina compare mirabilmente in quell'altro paragone tratto dall'arte della pittura. "Os-serva un pittore. Davanti a lui sono disposti vari colori, ed egli sa dove debba applicare ciascun colore. Certamente il peccatore volle essere di colore nero ... A quante cose il pittore non dà precisione servendosi del nero? Quanti particolari non rende con esso il pittore? In nero i capelli, le sopracciglia, la barba ... Il pittore, insomma, sa dove applicare il colore scuro per dare risalto al dipinto."
Il vescovo e le autorità dello Stato
Nel comporre l'affresco della sua Chiesa d'Africa e della sua città, Ippona, il vescovo Agostino sapeva dare pennellate precise e trovare il posto per ogni colore, la giusta collocazione ad ombre e luci.
Chiesa e città. Perché il vescovo sul finire del terzo secolo dell'era cristiana non era soltanto una autorità religiosa. Egli godeva di grande fiducia presso la gente e persino i pagani si rivolgevano spesso al vescovo per risolvere i propri problemi di giustizia. Erano soprattutto i più deboli a cercare nell'arbitrato del vescovo una tutela dei propri diritti di fronte ai soprusi dei potenti.
Un lavoro immane, cui Agostino non si sottrasse mai, anche se, d'indole contemplativa qual era, non nascose la fatica di quelle intere mattinate passate nel secretarium della basilica a risolvere l'infinita casistica offertagli dai suoi fedeli e le liti interminabili a cui i cittadini di Ippona dovevano essere particolarmente avvezzi. Il vescovo, nel compimento della audentia episcopalis, era visto come un giudice imparziale e soprattutto benevolo: si preferiva pertanto ricorrere alla sua medicina che non ai farmaci dei tribunali civili. Spesso il vescovo stesso era costretto a fare anticamera da qualche funzionario statale per risolvere i problemi dei suoi fedeli. Una forma di clientelismo? Cultura della raccomandazione? Un abuso di autorità per ottenere piaceri? Qualcuno ad Ippona forse lo pensava.
Il biografo Possidio ci riferisce come si comportasse Agostino quando veniva richiesto di raccomandare qualcuno presso personaggi influenti: "Sappiamo anche che, pur richiesto da persone a lui molto care, non scrisse lettere di raccomandazione alle autorità civili; a tal proposito soleva dire che si doveva osservare la massima di un saggio, del quale è scritto che, in considerazione del suo buon nome, non aveva concesso molto agli amici; e di suo poi aggiungeva che per lo più il potente che concede qualcosa preme per il contraccambio. Quando poi, pregato, vedeva che era necessario intervenire, lo faceva così dignitosamente e discretamente che non soltanto non risultava fastidioso o molesto, ma addirittura era oggetto d'ammirazione."
L'epistolario ci offre un campionario di litterarum intercessus che ora non possiamo qui prendere in considerazione. È, comunque, evidente che il vescovo di Ippona tenne un rapporto epistolare con diversi funzionari statali, come i commissari imperiali Marcellino e Ceciliano, il governatore generale dell'Africa Macedonio, i conti d'Africa Valerio e Dario, il comandante delle truppe Bonifacio.
Agostino stesso un giorno ne parlò durante l'omelia ai suoi fedeli nella basilica di Ippona: "Spesso si dice di noi: E' andato da quell'autorità; che cosa ha da spartire un vescovo con quel tizio? Eppure voi tutti sapete che sono le vostre necessità a costringerci ad andare dove non vogliamo; e lì spiare il momento buono, stare in piedi alla porta, attendere quanti vogliono entrare, degni o indegni, farsi annunziare, e talvolta a stento farsi ricevere; e poi sopportare umiliazioni, supplicare, per ottenere qualche volta e altre volte andarsene amareggiati."
Agostino tollera questa pratica per il bene della sua gente, non vuole però esservi costretto, e non vuole poi esser fatto passare per un frequentatore accomodante delle stanze del potere.
Quel giorno - era la festa di san Lorenzo - il dialogo con la comunità di Ippona fu franco e sincero. Agostino, con la lingua fuori dai denti, continuò così: "Chi vorrebbe tollerare di queste cose, se non vi fossimo obbligati? Ci si lasci liberi, non possiamo tollerare tali cose, nessuno ci costringa: ecco, ci sia concesso, dateci riposo da questa responsabilità. Vi preghiamo, vi scongiuriamo, nessuno ci costringa: non vogliamo avere a che fare con le autorità: Dio sa che vi siamo costretti. E il nostro comportamento con le autorità è quello stesso che dobbiamo avere verso i cristiani, se al potere troviamo dei cristiani; come pure, con i pagani in autorità, è quello stesso che dobbiamo avere verso i pagani: volendo bene a tutti. Ma - si dice - che ammonisca le autorità perché agiscano rettamente! Dovremo ammonire alla vostra presenza? Sapete se abbiamo ammonito? Voi non sapete se l'abbiamo fatto, né se non l'abbiamo fatto. Da parte mia so questo: non sapete e giudicate temerariamente. Tuttavia - vi scongiuro, fratelli miei - quanto alle autorità mi si può dire: Lo dovrebbe ammonire e farebbe cose buone. Ed io rispondo: L'ho fatto e non mi ha dato retta ed ho ammonito là dove tu non hai udito."
Insomma, il vescovo di Ippona viveva questo rapporto con le autorità come un corollario della funzione paterna verso il popolo che gli era stato affidato. Un dovere fondato sulla carità pastorale: "sit amoris officium pascere dominicum gregem."
Anche i suoi rapporti con il potere politico dello Stato romano rientrano nella "necessitas caritatis " propria di coloro che hanno ricevuto sulle spalle il fardello del ministero episcopale.
Il programma del buon politico
Prima di dedicare un po' di attenzione a due lettere che il vescovo di Ippona indirizza a un proprietario terriero disonesto e a un vescovo troppo zelante, mi sembra opportuno analizzare un testo che Agostino scrisse a Cassiciacum fra il dicembre del 386 e il marzo del 387, prima di ricevere il battesimo. Fa parte del secondo libro del De Ordine e può essere considerato un manifesto del curriculum educativo del giovane, in modo particolare di colui che dovrà poi rivestire cariche nella pubblica amministrazione. Ecco il testo, diviso nelle quattro parti di cui diremo:
1. "I giovani che si applicano a questa disciplina devono vivere in maniera da astenersi dai piaceri carnali, dalle lusinghe della tavola e dai peccati di gola, dal culto esagerato della propria persona e da una esasperata attenzione al modo di vestire, dalle frivole occupazioni nei giochi, dal torpore dell'ozio e della pigrizia, dalle rivalità suscitate dalla gelosia, dalla facile denigrazione e dall'invidia, dall'ambizione agli onori e ai poteri e perfino dal desiderio smodato di ricevere lodi e acquistarsi fama. Siano convinti che l'amore al denaro è sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione. Non agiscano né da codardi né da temerari.
2. Nei confronti delle colpe dei soggetti cerchino di superare l'ira o la frenino in maniera da poterla considerare superata. Non portino odio ad alcuno. Trovino rimedio ad ogni vizio. Si guardino, nell'usare la sanzione, da ogni eccesso e, nel perdonare, da ogni difetto. Non puniscano se non giova al meglio, non siano indulgenti se può volgere al peggio. Considerino come familiari coloro che devono governare. Si mettano al loro servizio in maniera di vergognarsi di avere potere su di loro, e usino il potere nei loro confronti in maniera da provar piacere nel servirli. Verso le altrui mancanze, non siano gravosi con chi ha peccato senza volerlo. Evitino con molta prudenza le inimicizie, e, quando nascono, le sopportino di buon animo e, quanto prima è possibile, s'impegnino a farle cessare. Quando si entra in contatto con gli uomini e si stabilisce un rapporto di convivenza con le persone, basta tener presente il detto popolare: non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te.
3. Non entrino nelI'amministrazione dello Stato se non hanno raggiunto la piena formazione e si adoperino per raggiungerla nell'età in cui possono essere senatori o, meglio ancora, in gioventù. E se qualcuno ha avuto una vocazione tardiva, non s'illuda che questi consigli non lo riguardano poiché li osserverà in età avanzata con più facilità.
4. In ogni genere di vita, luogo e tempo, abbiano degli amici o si adoperino per averli. Rendano omaggio alle persone degne anche se queste non si sognano nemmeno di sollecitarlo. Non si preoccupino dei superbi e tanto meno lo siano. Vivano nella maniera che si addice al loro stato. Onorino, meditino e cerchino Dio fondati sulla fede, la speranza e la carità. Desiderino quella tranquillità che assicura a sé e agli amici lo svolgimento ordinato delle occupazioni di ciascuno, e ricerchino, per sé e per quanti possono, una buona coscienza e una vita serena."
Colpisce in questo programma di vita la triplice ripartizione dei precetti. C'è un primo livello che riguarda la moralità personale, un secondo che concerne i rapporti con gli altri e, infine, una terza serie di precetti che riguardano la partecipazione alla vita pubblica. Il testo termina poi con una parte generale che riguarda ogni genere di vita, luogo e tempo.
Lasciamo in ombra i problemi circa la più o meno univoca derivazione pitagorica di questo programma e il suo essere la trascrizione dell'etica sociale classica. Qui è importante sottolineare come Agostino già avesse chiara l'idea che può accedere all'amministrazione dello Stato solo chi ha raggiunto una piena formazione umana e sociale. Per lui il politico è il perfetto nella scala dell'educazione morale e civile: "rempublicam nolint administrare nisi perfecti."
Come si vede, colui che diventerà vescovo di Ippona, in questo scritto del periodo della conversione è molto esigente. Per lui la politica non è soltanto questione di tecnica amministrativa e giuridica, ma è una "vocazione" cui si converte in modo autentico solo chi ha ricevuto una educazione morale e sociale completa: solo così il servizio allo Stato assurge a forma di carità.
In un periodo come il nostro, in una situazione come quella italiana degli ultimi anni, in cui è venuta a galla la cosiddetta "questione morale", è importante recuperare questo programma del giovane Agostino che, lungi dal ridurre la moralità al rispetto di uno soltanto dei comandamenti - non rubare - , ne allarga il respiro alla rettitudine della persona nei suoi rapporti con se stesso e con gli altri.
Se Agostino avesse aperto ad Ippona una "scuola di politica" - e tale nome, come vedremo, è alquanto lontano dalla sensibilità del vescovo di Ippona - , questa sarebbe somigliata molto ad una scuola di umanità, ad una scuola di socialità, ad una esperienza di vita di un gruppo di discepoli guidati da un maestro. Come dai monasteri creati ad Ippona, quello dell'orto e quello dei chierici, uscirono sacerdoti e vescovi per la Chiesa d'Africa, così da una scuola di politica sarebbero usciti amministratori della cosa pubblica, funzionari statali e uomini politici degni di questo nome.
Il vescovo di Ippona, infatti, nutriva stima nei confronti di chi rivestiva una carica pubblica. Quando il comandante dell'esercito, Bonifacio, rimasto vedovo, espresse il desiderio di farsi monaco, Agostino lo dissuase: era più importante che continuasse a difendere le popolazioni dalle incursioni dei barbari, era quello il suo compito primario come uomo e come cristiano. Ma quando lo stesso Bonifacio si allontanò da una vita moralmente e religiosamente corretta - sposò per motivi politici una ricca ereditiera ariana e si circondò di numerose concubine - il vescovo di Ippona gli scrisse una lettera molto dura invitandolo a conversione.
Un proprietario disonesto e un vescovo ... troppo zelante!
Certo, Agostino stava con i piedi per terra. Sapeva che la realtà della politica era piena di funzionari che di quel ricco programma educativo avevano assunto ben poco. Uno di questi è Romolo, proprietario di un latifondo imperiale, il quale, dopo aver riscosso l'imposta dai coloni attraverso un suo amministratore, pretende di riscuoterla una seconda volta di persona. Agostino - che lo ha battezzato - gli scrive una lettera minacciosa, anche perché aveva cercato di incontrare Romolo ma questi si era sottratto al dialogo, vomitando anche insulti all'indirizzo del vescovo. "La verità talora è dolce, talora amara - esordisce Agostino nella sua lettera -. Quando è dolce, perdona; quando è amara, guarisce. Se non rifiuterai di bere la medicina che ti porgo in questa lettera, ti renderai conto di quanto ti ho detto. Dio voglia che gli insulti rivoltimi da te, non t'arrechino alcun danno come non l'arrecano a me! Voglia inoltre Dio che l'ingiustizia da te commessa verso individui infelici e poveri, almeno non ti nuoccia più di quanto nuoce a coloro che la subiscono da parte tua! ... A te queste colpe sembrano lievi, quasi un'inezia, mentre sono tanto gravi che, quando avrai vinto la tua cupidigia e potrai esaminarle attentamente, bagnerai di lacrime la terra per ottenere misericordia da Dio. Se invece sono io nel torto ritenendo che è ingiusto esigere due volte l'imposta da persone che possono pagarla a malapena una volta sola, fa' ciò che vuoi; se invece capisci che è ingiusto, fa ciò che è giusto, fa' quello che Dio comanda e che io prego che tu faccia."
La lettera, tutt'altro che generica, entra nei particolari della vicenda e si conclude con un ulteriore invito alla conversione: "Temi Dio se non vuoi rimanere ingannato. Chiamo Dio a testimonio sulla mia anima (cfr. 2 Cor 1,23) che parlo così, preoccupato più per la tua sorte che per quella di coloro per i quali ti do l'impressione d'intercedere."
Con la stessa forza il vescovo di Ippona interviene quando ad essere lesa è la dignità di qualche autorità. Lo fa, ad esempio, scrivendo al vescovo Ausilio che aveva scomunicato il conte Classiciano con tutta la sua famiglia per una questione controversa di asilo concesso dal vescovo ad alcuni individui che non lo meritavano.
Oggi potrebbe dirsi che Classiciano svolgeva le funzioni di Pubblico Ministero. Egli era intervenuto in un processo di affari in cui i debitori insolventi avevano fatto ricorso a un fideiussore e giurato sul Vangelo che avrebbero regolato il debito. Non avendo mantenuto l'impegno entro la data fissata, furono da Classiciano perseguiti per menzogna e per danno al garante. Essi allora si erano rifugiati in chiesa, e lì si recò il comes con i suoi soldati per chiedere al vescovo di non difendere quegli spergiuri.
La questione dell'asilo nelle basiliche cristiane era controversa. Prima che lo Stato riconoscesse formalmente quel diritto, i vescovi esercitavano il diritto di intercessione presso i tribunali: quali ministri del perdono e della protezione dei deboli, li ospitavano nelle chiese più che altro per sottrarli alla prepotenza e alla vendetta di una giustizia pubblica o privata troppo frettolosa, e poi per intercedere per loro presso le autorità. Il vero scopo dell'asilo concesso dai vescovi nelle chiese era quello di tentare una conciliazione fra le esigenze di una disciplina sociale giusta e la pietà anche verso l'uomo colpevole.
Pur consapevole della complessità della questione, Agostino - cui si era rivolto Classiciano - scrive ad Ausilio invitandolo a spiegargli su quali basi scritturistiche abbia potuto scagliare l'anatema sul figlio, sulla moglie e su tutta la famiglia di Classiciano a motivo della sua sola presunta colpa: "Se per caso il Signore ti ha rivelato quanto sia giusto il tuo modo d'agire, non disprezzo affatto né la tua giovane età né la tua dignità episcopale ancora nel suo noviziato: eccomi pronto, io vecchio, a imparare da un giovane; io vescovo già da tanti anni, da un collega che non ha ancora un anno di carica; a imparare come possiamo dare una spiegazione plausibile a Dio e agli uomini, qualora con un castigo spirituale puniamo delle anime innocenti a causa d'una colpa altrui."
Agostino giudica che sia fuori misura anche la scomunica comminata al comes: "Se è vero quanto Classiciano mi riferisce nella sua lettera - scrive al collega Ausilio - non doveva essere punito con un tale castigo neppure lui solo nella sua famiglia."
Comunque, dimostra di voler rimettere la soluzione del caso alla coscienza del vescovo Ausilio: "Ti chiedo solo di concedere il perdono a Classiciano, che te lo domanda, qualora tu lo abbia riconosciuto colpevole; se invece tu saggiamente riconosci che non ha commesso alcuna colpa, per il fatto ch'egli giustamente esigeva che la fede data si doveva mantenere nella casa della fede, perché non venisse violata là dove la si insegna, fa' quello che deve fare un uomo consacrato a Dio."
Gli avverbi dicono in modo chiaro da che parte sta Agostino: Ausilio sarebbe saggio se riconoscesse l'innocenza di Classiciano, il quale si è comportato giustamente.
Inoltre, il vescovo di Ippona, da abile diplomatico, suggerisce al collega nell'epi-scopato il modo elegante di correggere l'errore commesso: "Non devi neppure pensare che, per il fatto che noi siamo vescovi, non possiamo essere sorpresi da moti di reazione ingiusti, ma pensiamo piuttosto che, per il fatto di essere uomini, noi viviamo assai pericolosamente fra i tranelli delle tentazioni. Strappa quindi i processi verbali ecclesiastici, che hai redatti forse in preda a un turbamento un po' troppo vivo, e torni fra voi la carità con cui eri unito a lui fin da catecumeno. Lascia star la lite e fa' tornar la pace per non perdere un uomo tuo amico e non far rallegrare per causa vostra il diavolo vostro nemico."
Da una lettera che Agostino successivamente inviò a Classiciano sembra proprio che il vescovo Ausilio fosse rimasto irremovibile nel mantenere la scomunica al comes e a tutta la sua famiglia. Ma anche il vescovo di Ippona non si rassegna: egli è convintissimo che quella scomunica è profondamente ingiusta, soprattutto perché va a colpire persone innocenti. Rassicura, pertanto, Classiciano che è suo desiderio trattare la questione in un concilio della Chiesa africana e, se necessario, scrivere alla Sede Apostolica perché sia stabilita una norma sicura. Intanto consiglia il comes di domandare perdono al vescovo: "Ti prego di perdonarmi se mi riserbo di ascoltare con la massima benevolenza anche l'altra parte e non credo facilmente alla tua Eccellenza contro la Santità del vescovo. Tu non perdi certamente nulla, anzi al contrario acquisti moltissimo in virtù di una religiosa umiltà, domandando perdono al vescovo caso mai nell'alterco, che dici di aver avuto con lui, hai pronunciato qualche frase che non conveniva né che tu pronunciassi né che egli ascoltasse."
La correttezza di Agostino è, come sempre, encomiabile. Ma anche la sua fermezza e il suo amore per la verità. Conclude, infatti, così la sua lettera a Classiciano: "Una cosa posso affermare chiaramente senza temerarietà: se un fedele sarà scomunicato ingiustamente, ne verrà danno piuttosto a chi farà il torto che non a chi lo subirà."
Agostino: un vescovo "politico" ?
La domanda è d'obbligo, anche se in questa sede, è possibile solo abbozzare una risposta, che si apre su ulteriori ricerche. Prima di rispondere, però, dobbiamo fare una constatazione storica importante. Al tempo di Agostino dire uomo equivale a dire cittadino: nella civiltà instaurata da Roma uno vale in quanto è cittadino dell'impero, altrimenti conta meno o non conta affatto. L'integrazione nella civitas è il metro per misurare il valore stesso dell'uomo. Ora, noi oggi siamo abbastanza lontani da questa mentalità assolutistica, ma all'inizio del quinto secolo era ancora così.
Il cristianesimo, certo, era riuscito a scardinare almeno sul piano dei valori e delle idee questa concezione, facendo del cristiano un cittadino di una civitas Dei non più riconducibile ai confini dell'impero, e di ogni uomo - anche non cittadino romano - un potenziale cittadino di questa civitas. Ma già questa terminologia usata da Agostino dimostra quanto fosse importante l'essere civis per un uomo del mondo antico.
Eppure - lo abbiamo già detto - il vescovo di Ippona non può essere annoverato fra gli esponenti di quella corrente di pensiero che avrebbe condotto, di lì a qualche decennio, a formulare una dottrina teocratica, in cui la mistica civitas Dei agostiniana viene gradatamente storicizzata nella Chiesa terrena e i suoi confini vengono a coincidere con quelli dello Stato. Una riprova di quanto sto dicendo l'abbiamo nella scelta di vita operata da Agostino: egli è un monaco chiamato a fare il vescovo e, per tutta la vita, resterà un vescovo-monaco. Il monachesimo nasce nella Chiesa, soprattutto nel quarto secolo, proprio come reazione al clima di maggiore rilassatezza che caratterizza la Chiesa costantiniana: i monaci sono coloro che rinunciano alla tranquillità della vita cristiana integrata nell'impero per ritrovare l'eroismo e il radicalismo delle origini in una nuova forma di martirio, una vita esigente segnata da regole evangeliche più precise e stringenti, al completo servizio di Cristo. Ora, Agostino è un monaco, anche se nella sua scelta monastica prevale da subito un bisogno di comunione, che gli fa preferire soluzioni cenobitiche a opzioni eremitiche; anche se, ben presto, l'originaria vocazione contemplativa viene coraggiosamente coniugata dentro una ministerialità pastorale, in cui il completo servizio a Cristo diventa completo servizio ai fratelli e alla Chiesa.
Ora che abbiamo posto il monaco-vescovo di Ippona nel suo sitz im leben, possiamo affrontare la domanda cruciale: Agostino fu un vescovo "politico" ?
Il prof. Sergio Cotta - grande studioso delle idee agostiniane sulla politica - ha risposto negativamente: Agostino non sarebbe né un estimatore, né un teorico della politica, che considera, invece, con un certo senso di distacco.
Egli non si appassiona - come farà, ad esempio, un San Tommaso - alla tradizionale discussione su quale sia il regime politico migliore. "Che differenza fa - scrive il vescovo di Ippona - il potere al quale è soggetto l'uomo che deve morire, se coloro che governano non lo costringono ad azioni empie e ingiuste? "
Non si tratta di un banale indifferentismo politico che si fonderebbe sul fatto che comunque quest'uomo a cui si comanda deve morire. La prospettiva è ben più profonda. Agostino ritiene che al centro ci sia l'uomo, o come semplice cittadino o come capo di stato, nella sua fondamentale tensione alla salvezza. Viene prima la coscienza e solo dopo le istituzioni, che sono il prodotto di esperienze e di scelte umane. Democrazia o monarchia non è, dunque, il vero problema per Agostino. Ciò che più conta è il fatto che ogni homo moriturus si gioca qui in terra la vita eterna, ed è questo l'unico vaglio corretto per sottoporre a giudizio le istituzioni e le vicende politiche di un popolo: lo aiutano a perseguire il suo fine ultimo, oppure - ad esempio, attraverso una legislazione iniqua non rispettosa della legge divina - lo allontanano?
Nella limpida e semplice concezione agostiniana secondo la quale questa vita terrena è retta dalla dialettica fra uti e frui - delle cose terrene si usa e si gode soltanto di Dio - , anche il terreno della politica rientra logicamente nell'ambito dell'uti.
Agostino non disconosce affatto l'utilità dello Stato, anzi ne sancisce lo statuto di "utilità": la struttura politica è utilis, ovvero di essa l'uomo si serve per garantire a se stesso e agli altri uomini che formano lo Stato una sicurezza in sé buona. Ma senza dimenticare che si tratta di una condizione terrena necessaria, eppure inadeguata a esprimere perfettamente la struttura profonda dell'uomo.
Posto pure che la vita politica di uno Stato sia condotta secondo giustizia, secondo spirito di sacrificio, secondo onestà - e già questo è difficile e domanda al politico una motivazione etica non comune! - , per Agostino tutto ciò realisticamente non assicura affatto la perfezione, che sta semmai nella carità e non soltanto nella giustizia.
Bisognerà, allora, condannare la politica? Niente affatto. Bisognerà fare in modo che sia giusta, trasparente, onesta, così che possa permettere utilmente agli uomini di vivere in una certa pace. Ma - come scrive il Cotta - "se la realtà pacificante della politica permette fra gli uomini una vita sine metu, il suo esser circoscritta entro il mondo terreno non permette di appagarsene. Cosa farà allora colui che ha capito la natura ambivalente della politica, inadeguata ma necessaria? ne userà, ma non ne godrà."
La politica, dunque, come mezzo, e non come fine. Si è giustamente parlato di "dis-centramento della politica" da parte del vescovo di Ippona.
Il dis-centramento è l'opposto dell'in-centramento, tipico, invece, delle nostre società postmoderne. Pur vivendo oggi una crisi della politica, attraversiamo questa crisi ancora spavaldamente convinti dell'in-centramento della politica. Abbiamo ridotto tutto a prassi politica, anche i servizi più essenziali come quello sanitario devono passare attraverso le "spartizioni " della politica.
Alla politica si è affidato tutto, anche ciò che sta al di qua del piano strettamente politico; per cui, quando gli ingranaggi della politica s'inceppano, nel guasto finisce per essere coinvolto anche il tessuto sociale, anche i rapporti interpersonali.
Ebbene, Agostino, invece di in-centrare tutto sulla politica, dis-centra la politica. Essa si colloca dentro l'esistenza umana, ma non ne è affatto né l'origine, né la forma suprema. E' una parte del tutto, una parte fra l'altro dipendente, non autonoma, che trova il suo fondamento altrove. Per dirla con il linguaggio filosofico di Jacques Maritain, è un "praticamente pratico" che ha il suo fondamento nell'etica, regno dello "speculativamente pratico."
Al centro sta l'uomo, non la città. Non è originariamente la città che rende buono l'uomo. Semmai, la città sarà più o meno buona nella misura in cui lo saranno i suoi cittadini. Essi, poi, non sono originariamente cittadini, ma uomini e donne, che pensano, decidono e agiscono. Ciascuna persona, che compone la società organizzata nello stato, con il diverso grado di responsabilità connesso alla sua età e al suo ruolo, vive la tipica dialettica uti-frui. Se usa di questo mondo in vista del godimento di Dio, ogni soggetto contribuisce a mettere nella stessa direzione la città in cui vive. Solo così potrà trasmettere i suoi valori alla città in cui vive e sperare che un giorno essi diventino i valori stessi della città. A loro volta, le istituzioni pazientemente costruite a partire da tali valori potranno aiutare i singoli soggetti a perseguirli, in quanto valori messi a fondamento della civitas stessa.
Naturalmente, può succedere e di fatto succede anche il contrario. La dinamica persona-valori-istituzioni-valori-persona può essere di segno negativo: ma anche in questo caso, è fatta salva da Agostino la centralità dell'uomo con le sue scelte e le sue decisioni.
Un giorno, durante l'omelia, citò un'espressione che doveva essere abituale sulla bocca della sua gente: "Mala tempora, laboriosa tempora." Assomiglia ad una lamentazione tipica di oggi: "Che tempi brutti viviamo! Che fatica si fa a vivere oggi!."
Ai giorni nostri, però, tale lamentarsi punta subito il dito sulla società e sulla politica: "Che brutta società la nostra! E' tutta colpa del governo, del sindaco, dell'amministrazione comunale, della regione ...". Questo accade, perché al centro abbiamo messo la politica (in-centramento) e, quindi, la riteniamo responsabile nel bene e - soprattutto - nel male di tutto quanto succede intorno a noi. Agostino, che al centro aveva messo l'uomo e la politica l'aveva posta in periferia (dis-centramento), indirizza diversamente la sua gente: "Sono tempi cattivi, tempi penosi ! - si dice - Ma cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni. I tempi siamo noi; come siamo noi, così sono i tempi ... Che cos'è allora il mondo cattivo? Non è certamente cattivo il cielo, non lo è la terra e non sono cattive le acque né ciò ch'esse contengono, i pesci, gli uccelli, gli alberi. Tutte queste cose sono buone, il mondo invece lo rendono cattivo gli uomini cattivi."
Nell'esortazione di Agostino, manca anche quella sorta di ottimismo politico che pure è presente oggi in certe visioni teologiche, le quali considerano il piano politico come un gradino che porta alla beatitudine e, quindi, ritengono che una politica nuova, tratta dalla fede cristiana e rivolta alla fede cristiana, possa essere un rimedio ideale contro la scristianizzazione e il dilagare del secolarismo.
Agostino non sarebbe d'accordo, tanto è vero che non invita la sua gente a chissà quale impegno politico, confidando in chissà quale messianismo politico e promettendo chissà quali risultati. Sprona semplicemente ciascuno ad essere buono. Semplicemente, non semplicisticamente! Essere buono significa vivere bene, e il bene vivere non è circoscritto e delimitato dall'orizzonte della politica, bensì attraversa il terreno della politica, avendo la sua origine prima e procedendo oltre.
Ecco le sue parole: "Che facciamo? Non siamo capaci di convertire una moltitudine di persone alla retta via? Ebbene, i pochi che mi ascoltano, vivano bene; i pochi che vivono bene sopportino i molti che vivono male. Sono frumento, si trovano sull'aia; nell'aia possono essere mescolati con la pula, ma non potranno averla con loro nel granaio. Sopportino ciò che non vogliono per giungere a ciò che vogliono. Perché ci rattristiamo e ci lamentiamo con Dio?... Non dobbiamo biasimare il Padre di famiglia, poiché ci è caro. E' lui che ci sopporta, non siamo noi che sopportiamo lui ! Sa lui come dirigere a buon porto ciò che ha fatto; fa' ciò che comanda e spera ciò che ha promesso."
I tempi cattivi sono ineliminabili, fanno parte del contratto della storia, di questa storia terrena in cui regna la mescolanza fra buoni e cattivi. La politica è uno strumento per regolare qui in terra questa mescolanza. Uno strumento con cui non si può pensare di risolvere tutti i problemi. Uno strumento mediano, tutto teso fra l'uomo - che è al centro - e il fine ultimo verso cui l'uomo tende, che è la beatitudine eterna.
Tutto su questa terra serve lo scopo della costruzione di una città che non è di quaggiù, la civitas Dei. Chiesa e Stato - oggi diremmo: chiese, religioni e stati - sono strumenti per l'edificazione di quest'unica città, per cui vale la pena di lavorare.
Civitas Dei, ho detto. Ma potrei anche esprimermi con quest'altra espressione agostiniana: populus Dei. Ecco - anche sotto questa accezione che meglio rende alla nostra sensibilità sociologica la nozione di una città mistica ancora in formazione nel suo pellegrinaggio terreno - appare chiaramente il dis-centramento della politica operato da Agostino. Infatti, per il vescovo di Ippona si può essere "popolo" senza ancora essere "popolo di Dio". Per essere un populus basta avere un amore in comune: tutti coloro che amano un bene che è fra loro comune costituiscono un popolo.
La politica trova, dunque, qui una propria consistenza, nel perseguimento di un "bene comune" terreno. Ma, per essere "popolo giusto" - populus Dei - bisogna seguire l'amor Dei, non un amore qualsiasi, ma l'amore di Dio. Il bene comune deve, cioè, essere Dio, affinché quel popolo sia populus Dei e quella città civitas Dei.
E' evidente - ancora una volta - come la città di Dio sfugge a ogni delimitazione ter-rena e politica. Ma è oltremodo chiaro anche quanto è strumentale il piano della politicità umana ai fini del raggiungimento della città di Dio.
La prospettiva agostiniana si segnala per la diversità radicale rispetto all'odierna tendenza a mettere fra parentesi le esigenze etiche e religiose. Oggi si dice: non importa se credi in Dio oppure no, non importa la tua morale, basta che sia provata la tua fede nello stesso bene comune terreno e lavori al suo perseguimento. Agostino poneva, invece, la fede in Dio - con tutto il bagaglio etico che ne derivava - come unico collante in grado di formare il popolo della città di Dio. Un popolo e una città politicamente non identificabili attraverso il linguaggio e con lo statuto della politica così come noi la intendiamo!
Certamente, i tempi sono cambiati. E' impossibile ritrascrivere letteralmente la posizione agostiniana in questo scorcio finale del ventesimo secolo. In uno scenario pluralistico - sia sul piano delle scelte religiose, sia su quello delle opzioni politiche - la laicità della politica è un punto di non ritorno. Lo riconoscerebbe lo stesso Agostino, se vivesse oggi in mezzo a noi.
Ma, con un linguaggio e uno statuto aggiornati, riproporrebbe inalterato lo spirito della sua proposta: mettere e tenere l'uomo al centro, tutto l'uomo e tutti gli uomini, nella certezza che lì si trova l'immagine stessa di Dio.
Sembra un'affermazione scontata, ma la realtà della nostra politica - che pure ha conquistato la laicità - dice che non è così. Tutto l'uomo significa salvaguardare anche le esigenze spirituali oltre che quelle materiali. Tutti gli uomini significa anche la vita nascente e la vita morente ...
Quel che certamente non è cambiato - e che a me sembra di grande attualità nella visione agostiniana - è la strumentalità della politica: proprio perché non è raggiungibile politicamente una unità degli uomini sull'amore di Dio - e quindi la politica non può formare il populus Dei e la civitas Dei - , il raggio d'azione della politica è circoscritto e parziale. E il politico cristiano deve accettare e far propria questa parzialità. Deve agire, consapevole del dis-centramento della politica, pur sapendo che anche il terreno della politica è un luogo di testimonianza. Per dirla con il Cotta, egli deve essere convinto che "il ‘politico' di per sé non salva, è invece salvato da qualcosa che è oltre la politica."
Conclusione
L'analisi per sommi capi della dottrina agostiniana sulla politica, quindi, ci fa rispondere negativamente alla domanda che ci siamo fatti. Se intendiamo la politica nel significato in-centrante che ha assunto oggi, Agostino non è un politico, perché egli teorizza proprio il dis-centramento della politica.
Ma potremmo anche rispondere positivamente. Se per "politico" intendiamo uno che interviene nelle questioni che attanagliano gli uomini, mentre essi sono pellegrini sulla terra, allora Agostino fu un vescovo politico. Egli fu politico nel senso dis-centrante in cui concepiva la politica. La usò, ma non ne godette!
Un giorno, mentre parlava della costruzione dell'edificio della fede cristiana sul fondamento del Cristo morto e risorto, attirò l'attenzione dei fedeli sulla basilica in cui si trovavano: "Quando venne costruito questo grande e ampio edificio che noi ora qui vediamo, erano in opera macchinari che ora non ci sono più: essi servirono a costruire quello che ora vediamo costruito."
Con quella sua bellissima immagine, illustrò ai suoi uditori - e anche a noi - il senso della politica e di tutti gli sforzi umani - compresi i suoi - per migliorare la condizione dell'uomo in questa vita. Disse quel giorno: "Noi ci prepariamo alla vita eterna con azioni legate al tempo, con opere che sono transitorie, passeggere... Lo potete capire bene dal paragone con l'architetto: questi si serve di macchine che sono strumenti provvisori, per costruire edifici che durano."
Il positivo di ogni azione politica sta, per Agostino, nel fine: quella domum mansuram, che qui in terra nessuno può pretendere di costruire. Qui in terra ci sono soltanto machinae transiturae, e la politica è una di queste macchine. Da usare bene.
Note
1) LUCIFERO DI CAGLIARI, Moriendum esse pro Dei Filio, 13.
2) Citazione di OSIO DI CORDOVA in: GRANDE ANTOLOGIA FILOSOFICA (diretta da U. A. Padovani), vol. V («Il pensiero cristiano»), Marzorati, Milano 1966, 761.
3) Civ. XIV, 28.
4) Civ. I, 23.
5) Io. ep. tr. 3, 5.
6) En. Ps. 130, 13.
7) C. litt. Pet. II, 12.
8) En. Ps. 138, 29.
9) S. 75, 6, 7.
10) Io. ev. tr. 122, 7.
11) S. 125, 5; S. 301, 5, 4.
12) POSSIDIO, Vita 20, 1-2.
13) S. 302, 17.
14) S. 302, 17.
15) Io. ev. tr. 123, 5.
16) Cfr. Civ. XIX, 19.
17) De Ord. II, 8, 25. Vedi LUC VERHEIJEN, La Regola di Sant'Agostino. Studi e ricerche, Augustinus, Palermo 1986, 165-200 («Verso la bellezza spirituale»).
18) De ord. II, 8, 25.
19) Ep. 220.
20) Ep. 247, 1.
21) Ep. 247, 4.
22) Cfr. S. 302, 22: "In Chiesa e i colpevoli sfuggono alle persone oneste e i giusti vi si ritirano per sfuggire ai malviventi. Talora i malvagi vi trovano scampo anche da altri come loro. Tre le categorie di fuggitivi. I buoni non sfuggono i buoni, soltanto i giusti non scansano i giusti; ma i cattivi sfuggono i giusti, o i giusti evitano i cattivi, oppure sono i malviventi che si eludono a vicenda. Ma volendo fare una discriminazione per espellere di Chiesa i malviventi, non ci sarà un luogo dove possano scampare quanti operano rettamente; volendo permettere che di qui vengano espulsi i facinorosi, mancherà un riparo agli innocenti. Di conseguenza, è meglio che anche i malintenzionati siano protetti all'interno della chiesa, piuttosto che uomini innocui siano portati a forza fuori della chiesa."
23) Ep. 250, 2.
24) Ep. 250, 3.
25) Ep. 250, 3.
26) Ep. 250, 3.
27) E' la prima delle 31 nuove lettere scoperte da Divjak (1*=271), mentre un frammento di essa era già stato catalogato dai Maurini (Ep. 250/A).
28) Ep. 271, 4.
29) Ep. 250/A (=Ep. 271, 5).
30) Sono molti i testi che illustrano la dottrina agostiniana sul delicato equilibrio fra azione e contemplazione. Fondamentale è questa affermazione che troviamo nel «De civitate Dei» (XIX, 19): "L'amore della verità (caritas veritatis) cerca la quiete della contemplazione, l'esigenza dell'amore (necessitas caritatis) accetta le occupazioni dell'apostolato. Se nessuno ci impone un fardello, dobbiamo attendere alla ricerca e all'acquisto della verità; ma se ci è imposto, dobbiamo accettarlo per il dovere della carità. Però, neppure in questo caso, bisogna abbondonare il gusto della verità (delectatio veritatis), perchè non avvenga che, sottrattaci questa dolcezza, si resti oppressi da quella esigenza."
31) Civ. 5, 17, 1: "Quid interest sub cuius imperio vivat homo moriturus, si illi qui imperant ad impia et iniqua non cogunt? ".
32) E' interessante notare a questo proposito ciò che scrive Giovanni Paolo II nell'enciclica «Evangelium Vitae» in merito al rapporto fra legge civile e legge morale (nn° 68-74). Egli ricalca perfettamente la dottrina agostiniana, affermando che "il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove" o ancora che "senza un ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà fra tutti gli uomini è non di rado illusoria" (n° 70). Giovanni Paolo II condanna apertamente la tendenza in atto, secondo cui "ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico" (n° 69): è quanto accaduto, per esempio, in occasione dei referendum abrogativi delle leggi sul divorzio e sull'aborto, quando c'era chi purtroppo sosteneva la necessità che l'uomo politico cristiano garantisse e tutelasse con una legge civile una richiesta espressa dai cittadini in contrasto con la legge morale che egli stesso privatamente professava. Il papa scrive: "In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge civile, con una abdicazione della propria coscienza morale almeno nell'ambito dell'azione pubblica " (n° 69).
33) SERGIO COTTA, La visione politica di Agostino, in «Atti della Settimana Agostiniana Pavese», Pavia 1980, 25.
34) SERGIO COTTA, L'esperienza politica nella riflesione agostiniana. Linee d'una interpretazione, in «Matteo Novelli e l'agostinismo politico del Trecento», Augustinus, Palermo 1983, 27-33.
35) JACQUES MARITAIN, Distinguere per unire. I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1981, 2^ ed., 543.
36) S. 80, 8.
37) S. 80, 8.
38) "Populus est coetus multitudinis rationalis, rerum quas diligit concordi communione sociatus" in Civ. XIX, 24.
39) SERGIO COTTA, Introduzione politica a «La Città di Dio» (NBA V/1), Città Nuova Editrice, Roma 1978, CXLVI-CXLVII.
40) S. 362, 7, 7