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agostino clerici: AMBROGIO: UOMO DI STATO, UOMO DI CHIESA

 Affresco del Cristo in Croce in sant'Ambrogio a Milano

Milano: affresco di Cristo in Sant'Ambrogio

 

 

 

AMBROGIO: UOMO DI STATO, UOMO DI CHIESA

di Agostino Clerici

 

 

 

Sono troppi i secoli che ci separano dal tempo in cui Ambrogio divenne vescovo di Milano e ci risulta quindi difficile capire sino in fondo il significato di quella elezione così particolare. Intanto perché oggi i vescovi non si eleggono più in chiesa, con il consenso del popolo. E forse anche allora la scelta non era così spontanea come sembra, ma ... pilotata dietro le quinte dai potenti di turno. Ma soprattutto perché oggi la notizia che «un magistrato dello Stato è diventato vescovo della Chiesa», se non inserita nel suo contesto storico, farebbe rizzare più di un orecchio. E giustamente! Per cui non tentiamo nemmeno una attualizzazione, in quanto diversi sono i significati che diamo a parole quali magistrato o Stato, e forse anche vescovo e Chiesa. Ma uno sguardo a quel che avvenne a Milano nell'autunno del 374 lo dobbiamo proprio dare.

 

 

Autunno 374: un consularis diventa vescovo

 

Ambrogio giunge a Milano circa nel 370 per assumere la carica di consularis Liguriae et Aemiliae, ovvero governatore di una provincia dell'Impero romano che si estendeva su un territorio che oggi comprenderebbe pressappoco il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e l'Emilia-Romagna. Il compito principale del consularis nella seconda metà del quarto secolo è quello di amministrare la giustizia. Potremmo dire che Ambrogio arriva a Milano quale responsabile dell'ordine pubblico nella Pianura Padana, giudice in prima istanza di tutte le cause civili e penali, e, investito di questa delicata funzione, deve spesso viaggiare nei centri della provincia, non potendo delegarla ad altri. Perché quattro anni più tardi questo consularis appena quarantenne entra da tutore dell'ordine pubblico nella basilica e ne esce vescovo ? La domanda ci riguarda da vicino, perché è in quel momento che avviene il passaggio dall'uomo di Stato all'uomo di Chiesa. Potremmo rispondere nel modo più immediato e spontaneo: perché Ambrogio si era distinto nell'esercizio della sua funzione, era benvoluto da tutti, aveva dimostrato di essere capace di comandare. Detto così, potremmo anche scandalizzarci che il vescovo venisse scelto esclusivamente per le sue doti ... politiche. Ma dobbiamo fare un passo indietro e conoscere alcuni tasselli del mosaico milanese nella seconda metà del quarto secolo:

1.  Intanto Milano dal 293 è città imperiale, dove risiede l'Augusto d'Occidente (rimarrà capitale sino al 404, quando la sede dell'impero viene trasferita a Ravenna).

2.  Dal 355 vescovo di Milano è Aussenzio, fatto eleggere dall'imperatore Costanzo al posto di Dionigi (mandato in esilio): egli è propugnatore di una forma moderata di arianesimo, ma soprattutto si dimostra un pessimo pastore. Sarà vescovo per quasi vent'anni, e nessun intervento - né dei vescovi viciniori né di papa Damaso "Damaso papa" - riuscirà a muoverlo da quella sede. Quando Ambrogio arriva a Milano come consularis, Aussenzio governa indisturbato la Chiesa milanese, il cui clero era diventato in gran parte ariano.

3.  Alla morte di Aussenzio si può immaginare il subbuglio nella capitale dell'impero: l'imperatore Valentiniano I voleva essere neutrale fra i due partiti contrapposti, e, comunque, risiedeva abitualmente non a Milano ma a Treviri; il governatore Ambrogio era così chiamato a garantire l'ordine pubblico in una città che poteva contare 130.000 abitanti e, soprattutto, a impedire tumulti nel momento dell'elezione del successore di Aussenzio.

4.  Non dimentichiamo infine che Ambrogio è cattolico, anche se non ancora battezzato (secondo un costume del tempo che ritardava la data del battesimo). Gli ariani, però, non avevano alcun motivo di contrasto con il governatore, il quale in quei quattro anni dovette applicare le direttive d'imparzialità che gli venivano dall'imperatore e dimostrarsi equanime nelle sue decisioni.

Le due fonti più antiche circa l'elezione di Ambrogio sono il biografo Paolino [1] e lo storico Rufino di Aquileia [2]: entrambi motivano la presenza di Ambrogio nella basilica in cui si sta eleggendo il nuovo vescovo di Milano per ragioni di ufficio. Ambrogio è lì come uomo di Stato, con l'intento di pacificare i cittadini, e prende la parola non per indicare questa o quella soluzione ma solo per calmare gli animi che dovevano essere bollenti. Una voce - Paolino la attribuisce ad un bambino, ma si tratta molto probabilmente di un cliché letterario - lo reclama vescovo e subito regna nella basilica - sono parole del biografo - «una concordia mirabile ed incredibile».

Il motivo più profondo della elezione a vescovo del consularis Ambrogio sta tutto in questa concordia talmente insperata da essere incredibile. Eppure proprio nelle doti politiche di quel funzionario fedele dell'impero romano stava l'unica possibilità di mettere d'accordo cattolici niceni e ariani: sia gli uni che gli altri erano contenti che non avesse vinto il candidato dell'altra fazione, e ciascuno sperava che Ambrogio avrebbe favorito il proprio partito, i cattolici perché lo sapevano di famiglia cattolica, gli ariani perché lo sapevano fedele alla politica di equilibrio dell'imperatore. Non è per niente da escludere l'ipotesi che quella voce fosse in realtà il frutto di un'abile manovra tattica ordita ad alti livelli, forse con il consenso dello stesso imperatore, il quale "accolse con grandissima gioia la notizia che venivano richiesti per l'episcopato magistrati da lui inviati " [3]. Più che comprensibile: Valentiniano I vedeva di buon grado che sulla cattedra episcopale della capitale dell'impero sedesse un uomo di cui poteva fidarsi e che lo aveva fedelmente servito nell'amministrazione della giustizia in una provincia dell'impero. Inutile dire che tutte queste attese furono in parte disattese, ma questo fa parte dell'azione misteriosa della Provvidenza divina che dirige la storia a modo suo, dando talvolta l'impressione agli uomini di averla governata essi stessi. Ambrogio, eletto vescovo perché era un ottimo uomo di Stato, diventerà presto un ottimo uomo di Chiesa, senza per questo mettere nel cassetto le sue doti politiche, ma usandole secondo un progetto nuovo che non era né quello dell'imperatore, né quello della fazione ariana e forse nemmeno quello della fazione cattolica.

La «concordia mirabile e incredibile», che, nel voto dei suoi elettori, Ambrogio avrebbe assicurato a Milano, non sarà mai una quiete indolore e arrendevole: il vescovo si farà strenuo paladino della verità della fede e dei diritti della Chiesa, per cui di lì a pochi anni la città si troverà a vivere momenti di grande tensione. L'imperatore Valentiniano II sperimenterà che un uomo di Stato, quando è diventato uomo di Chiesa, può arrivare a disubbidire agli ordini dell'imperatore stesso e diventare il vero «padrone» della capitale dell'impero. Ora è giunto il momento di fare un breve excursus storico per chiarire il rapporto fra Stato e Chiesa, soprattutto a partire dalla cosiddetta «svolta costantiniana», cioè dalla decisione dell'imperatore Costantino "Costantino" di «concedere e ai Cristiani e a tutti la libertà di seguire la religione che ciascuno voleva». [4]

Cercheremo poi di situare la vicenda umana di Ambrogio, che, in questo quarto secolo così importante per le sorti dell'impero romano e per lo strutturarsi della Chiesa, fu sia uomo di Stato che uomo di Chiesa.

 

 

Stato e Chiesa nel quarto secolo

 

La cosiddetta «svolta costantiniana» è stata letta ora come una grande conquista del cristianesimo, che in tal modo uscirebbe dalle catacombe e dal periodo delle persecuzione per diventare la religione dello Stato romano; ora come una grande sconfitta del cristianesimo, che proprio nel riconoscimento oggettivo da parte dello Stato perderebbe la sua forza rivoluzionaria e la sua purezza. Entrambe le posizioni sono troppo radicali e vanno, quindi, abbandonate nella loro pretesa di interpretare storicamente il rapporto fra Stato e Chiesa nel quarto secolo. [5] Sbaglieremmo, pensando che i primi tre secoli dell'era cristiana siano caratterizzati da un rifiuto della Chiesa verso lo Stato romano, mentre a partire da Costantino e ancor più radicalmente da Teodosio il rifiuto si trasformerebbe in idillio. La Chiesa dei martiri aveva già trovato un suo equilibrio nei rapporti con lo Stato: opponendo un netto rifiuto alla sua pretesa di edificare il regno definitivo su questa terra (perché il Regno di Cristo «non è di questo mondo») e di regolare normativamente la vita religiosa dei singoli; ma d'altra parte dicendo un sì incondizionato allo Stato romano, riconosciuto come potere che discende direttamente da Dio e visto come spazio provvidenziale per la diffusione del Vangelo.

Origene, attorno alla metà del terzo secolo, rispondendo al pagano Celso, si lascia tentare dall'ipotesi che tutti i romani possano un giorno diventare cristiani ed è, comunque, convinto, al di là della realizzabilità di questo sogno, che i cristiani siano il sale che conserva i legami sociali di questo mondo. [6] E Tertulliano prima di lui è convinto che l'impero romano sia l'organismo in cui Dio ha collocato la rivelazione definitiva di Cristo e che, quindi, esso debba durare sino alla fine dei tempi. [7]

Del resto, è oramai superata anche l'idea che la persecuzione contro i cristiani sia stata continua dalla morte di Cristo all'editto di Milano: non mancarono lunghi periodi di tolleranza e addirittura di amicizia, e le pur numerose persecuzioni non sono affatto l'indice di uno scontro a livello politico fra il cristianesimo e lo Stato romano. [8]

La «svolta costantiniana», allora, non fu altro che il modificarsi dall'interno del rap­porto fra lo Stato - pagano, ma tollerante in materia religiosa - e una delle religioni dell'impero diventata emergente. Costantino viveva da perfetto romano il delicato rap­porto fra politica e religione, convinto cioè che la prosperità dello Stato dipendesse dalla benevolenza divina. Nel testo dell'editto di Milano che abbiamo sopra citato, la motiva­zione della concessione della libertà religiosa è oltremodo chiara: «abbiamo ritenuto nostro dovere prendere questa decisione, che non si dovesse negare a nessuno tale facoltà, di dare il proprio cuore alla visione dei Cristiani o a quella religione che sentisse la più idonea per sé, affinché la somma divinità al cui culto in piena libertà rendiamo onore possa concederci il suo solito favore e la sua benevolenza». [9]

Ora, se la religione pagana non aveva mai posto problemi di rapporto con un'entità distinta dallo Stato, la scelta di assicurarsi la benevolenza del Dio della nuova religione cristiana poneva Costantino di fronte al problema nuovo di rapportarsi con un organismo distinto dallo Stato, la Chiesa appunto. Problema che per l'impero fu da subito legislativo [10] e che comportò da parte della Chiesa la necessità di calibrare questo rapporto in un delicato equilibrio fra libertà dallo Stato e protezione dello Stato.

Costantino era personalmente e teoricamente convinto che la Chiesa dovesse essere libera da ogni tutela statale. Ma in pratica si sentì investito di un potere di intervento a favore dell'unità della Chiesa, quasi fosse il cooperatore della Provvidenza divina [11] e ritenendosi «vescovo per gli affari esterni». [12]

In lui, però, questa preoccupazione nasceva unicamente sul terreno della ragion di Stato e tale protettorato sulla Chiesa non era per nulla attento ai contenuti dogmatici della fede. La Chiesa, a sua volta, si vedeva finalmente garantita nella sua presenza den­tro l'impero romano, ma cominciò presto ad accorgersi che si può essere perseguitati anche dalla tutela imperiale e perdere così irrimediabilmente quella libertà che, invece, la Chiesa perseguitata dei martiri non lasciava nelle fauci dei leoni. La Chiesa nell'impero divenuto cristiano oscilla continuamente fra due poli: da una parte, riconoscere piena­mente lo Stato come opera di Dio e cercarne la protezione, anche nei confronti dei sempre più numerosi eretici; dall'altra parte, difendere la propria autonomia e la propria finalizzazione ad un regno che non è terreno e che quindi non coincide con i confini di alcuno Stato, nemmeno quelli pur vasti dell'impero romano. Anche dopo l'editto di Milano, ed anzi forse con maggiore consapevolezza, vale la confessione di Tertulliano: l'impero romano è l'abitazione naturale della Chiesa, l'unico luogo della evangelizzazione. «Il mondo durerà tanto quanto l'impero», scriveva il retore cartaginese nel 212 al proconsole Scapula, impegnato a perseguitare i cristiani. Vedremo che questa stessa consapevolezza guida anche il vescovo Ambrogio, la cui romanità è fuori discussione.

Non così Agostino, romano di cultura - una romanità, comunque, fortemente di provincia ! - ma di sangue africano: egli vide la disperazione sul volto dei profughi romani dopo che la capitale dell'impero fu saccheggiata dai Goti "Goti" di Alarico "Alarico" nell'agosto del 410, e trovò il coraggio di modificare le parole di Tertulliano, tagliando definitivamente il cordone ombelicale che teneva la Chiesa troppo strettamente legata alle sorti di tutto l'impero. Pur commosso e colpito di fronte alla caduta di Roma - ma la città è stata «flagellata, non uccisa» e «non muore, se non muoiono i Romani» e «non moriranno, se loderanno Dio» [13] - il vescovo di Ippona lascia cadere definitivamente il mito pagano dell'eternità di Roma: infatti, l'unica città che non sarà mai distrutta è la Città di Dio. [14] 

 

 

Ambrogio, uomo di Stato

 

Ambrogio fu certamente un uomo di Stato, cioè un funzionario dell'impero romano. Lo fu prima di diventare vescovo, esercitando l'avvocatura a Sirmio - l'odierna Sremska Mitrovica nell'attuale Federazione di Serbia e Montenegro - che allora era la capitale della prefettura formata da Italia, Illirico e Africa, una grande città unita da importanti strade a Milano e a Roma verso Occidente e a Tessalonica e Costantinopoli verso Oriente. Si trattava di un impiego abbastanza modesto, ma era indubbiamente un principio di carriera per uno come Ambrogio, il cui padre era stato uno dei più alti funzionari della prefettura delle Gallie con sede a Treviri. Non dimentichiamo che Ambrogio ap­partiene alla ricca aristocrazia romana e che allora la burocrazia imperiale era ereditaria: il figlio di un alto funzionario aveva quasi la certezza di diventarlo a sua volta. Presumibilmente Ambrogio rimase a Sirmio cinque anni, dal 365 al 370: qui fece la sua prima esperienza pratica, venendo a contatto con gli innumerevoli problemi della gente e toc­cando con mano la corruzione serpeggiante fra gli avvocati nel quarto secolo e i gravissimi problemi dell'impero. Soprattutto: il fiscalismo spietato dello stato, che doveva continuamente ricorrere a tributi straordinari per sanare i buchi di bilancio; la pessima amministrazione della giustizia da parte di ufficiali giudiziari che erano gli stessi ufficiali civili di governo (oggi parleremmo di confusione e di prevaricazione fra il potere giudiziario e quelli legislativo ed esecutivo); un vistoso regresso demografico; una grande instabilità politica ed una perenne conflittualità civile e religiosa - soprattutto nel rapporto fra cristianesimo e paganesimo e, all'interno del cristianesimo, fra ariani e cattolici fedeli a Nicea. Per capire la promozione a consularis dell'avvocato Ambrogio, come abbiamo detto, non c'è bisogno di ricercare particolari benemerenze: la burocrazia è ereditaria e gli avanzamenti sono puntuali come il tic-tac dell'orologio. Da Sirmio, Ambrogio raggiunge Milano e, in qualità di consularis, entra a far parte del Senato Romano con il titolo di clarissimus, il terzo grado della gerarchia civile. [15] 

Abbiamo già accennato ai compiti di natura giuridica e amministrativa affidati al consularis. Naturale che l'esperienza di Ambrogio, uomo di Stato, aumenti notevolmente a contatto con i problemi delle due province della pianura padana, che dovevano essere meno disgraziate di altre, se non altro per il fatto che Milano era residenza imperiale e quindi al centro di intensi traffici commerciali. Un'esperienza non solo nel campo dell'amministrazione della giustizia, ma anche nel rapporto immediato con la gente, viste le responsabilità in merito all'ordine pubblico. Il consularis doveva sorvegliare anche la sempre numerosa schiera degli impiegati, doveva vigilare sugli edifici di proprietà dello stato e anche sull'efficienza del servizio postale ! 

Questo è quanto si può dire in sintesi circa Ambrogio, uomo di Stato, prima che egli diventasse vescovo. Ma ci sono motivi per credere che egli abbia esercitato le qualità dell'uomo di Stato anche dopo essere diventato uomo di Chiesa. E lo affermiamo di un vescovo che era fermamente convinto della distinzione dei due ambiti: «l'imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa» [16], dirà nel famoso discorso pronunciato la Domenica delle Palme del 386, durante i momenti di grande tensione con l'imperatrice Giustina "Giustina". Ora, soprattutto nel delicato frangente storico dell'usurpazione del generale Magno Massimo "Magno Massimo", il vescovo Ambrogio appare ancora tutto preoccupato per le sorti dell'impero.

Siamo nell'agosto del 383: l'imperatore Graziano fugge di fronte all'avanzare dell'usurpatore Massimo e trova la morte a Lione. Massimo s'insedia a Treviri e offre la pace alla Corte di Milano, formata da Valentiniano II (appena dodicenne), dalla madre Giustina e dal magister militum Bautone "Bautone". S'intuisce che qualcuno deve andare a Treviri, se non altro per prendere tempo e permettere all'augusto d'Oriente, Teodosio "Teodosio", di studiare un intervento. Ecco che il vescovo Ambrogio accetta di guidare una missione altamente politica in qualità di legato imperiale: supera le Alpi "Alpi" e raggiunge Treviri, dove Massimo lo riceve in udienza pubblica nel Concistoro. Per dignità gli spetterebbe un'udienza privata, ma Ambrogio diplomaticamente tace: si mostra disposto ad ogni richiesta, sa che deve prendere tempo. Massimo Magno vorrebbe che Giustina e Valentiniano II si trasferissero subito a Treviri. Ambrogio tergiversa: non ha istruzioni circa una simile richiesta, che giudica comunque impraticabile vista la stagione invernale ormai inoltrata. Massimo non ha altre possibilità: fa attendere Ambrogio a Treviri, in attesa che torni da Milano la sua ambasceria, poi accetta la proposta di essere Augusto per la Britannia, la Gallia e la Spagna, lasciando l'Italia, l'Africa e l'Illirico a Valentiniano II. Ma egli stesso riconoscerà più tardi di essere stato diplomaticamente giocato da Ambrogio, che di fatto gli impedì una vittoria veloce e definitiva. Non è quella dell'inverno 383-384 l'unica ambasceria del vescovo Ambrogio. Tornerà a Treviri, in qualità di legato imperiale verso la fine del 384 - secondo un'altra datazione, invece, sarebbe il 386 - e il suo interlocutore sarà ancora Massimo. Ambrogio ci fornisce il resoconto dell'incontro fra i due [17], da cui traspare la notevole caratura politica e diplomatica del vescovo milanese: costretto ancora una volta ad un'udienza pubblica, rifiutò il bacio dell'imperatore e tenne un atteggiamento fermo, difendendo l'autorità di Valentiniano II.

Si comprende il cambiamento di stile, motivato da una maggiore sicurezza della Corte milanese rispetto all'anno precedente e da una crescente incertezza di Massimo, che aveva perso il momento opportuno per chiudere la vicenda a suo favore. Il dialogo è serrato e il coraggio di Ambrogio è grande, se si pensa che avrebbe dovuto ritornare a Milano e che Massimo avrebbe potuto tendergli insidie lungo il difficile viaggio. Come ha ben scritto il Mazzarino: «Massimo non aveva simpatie per Ambrogio. Quell'uomo di chiesa che faceva politica, e però godeva di un'autorità superiore ai politici, non era fatto per piacere al rude soldato spagnolo, che aveva conosciuto, da tempo, il giuoco rischioso della lotta per il potere». [18]

Ci resta da chiarire il valore di un Ambrogio vescovo e legato imperiale. Ne abbiamo parlato per presentare l'uomo di Chiesa che resta uomo di Stato. Ma il fatto ci aiuta a capire meglio come per Ambrogio romanità e cattolicità abbiano finito per identificarsi in una simbiosi non esente da rischi, per cui l'evangelizzazione della fede cattolica procede di pari passo con una sana politica imperiale. Come avevamo già anticipato, Ambrogio resta ancora pienamente nell'ottica di una teologia della storia tutta sottesa alla storia dell'impero romano: i confini di questo coincidono con i confini della Chiesa cattolica, per cui la difesa politica dell'impero e dei suoi confini (ad esempio dalle invasioni barbariche, soprattutto quando i barbari, come i Goti, sono anche eretici e ariani) è un dovere che spetta anche al vescovo, in quanto egli è il responsabile di quel gregge che praticamente coincide con la popolazione dell'impero. Per Ambrogio il diventare cristiano cattolico passa ancora attraverso il diventare romano, e il mantenimento o l'estensione della romanità sono l'unica garanzia del mantenimento e dell'estensione della cattolicità. Da questo punto di vista si ha ragione di vedere in Ambrogio il fautore di una «Chiesa di Stato cattolica». [19]

E non lo si afferma in modo polemico o critico, ma solo per fedeltà alla storia che, in questo scorcio finale del quarto secolo, ci mostra un quadro estremamente complesso, in cui Chiesa e Stato vengono ad assumere un ruolo insieme collaborante e concorrente: la Chiesa cattolica è dentro l'impero romano (e non potrebbe essere diversamente), ma l'impero - e l'imperatore in modo particolare - è sottoposto a Dio e serve misteriosamente il piano della salvezza. Lo si legge chiaramente in una lettera di Ambrogio scritta a Valentiniano II nel 384 in occasione della contesa circa il ripristino dell'ara della Vittoria: «Come tutti gli uomini che sono sotto la sovranità romana prestano servizio per voi, che siete imperatori e signori del mondo, così anche voi siete soldati al servizio di Dio onnipotente e della santa fede. Infatti, la salvezza non potrà essere certa, se ciascuno non onorerà sinceramente il vero Dio, cioè il Dio dei cristiani». [20]

Ambrogio vescovo e legato imperiale si comprende solo in questa luce. E si capisce che al ritorno dalle sue ambascerie lo accogliesse a Milano una folla commossa e riconoscente, che vedeva in lui simultaneamente il patriota dell'impero romano e il difensore della fede. Per Ambrogio e per tutta quella gente salvare l'impero equivaleva a salvare la Chiesa. Ma non era sempre vero il contrario, perché Ambrogio dovette anche difendere la Chiesa contro il potere dello Stato.

 

 

Ambrogio, uomo di Chiesa

 

Venendo a parlare di Ambrogio uomo di Chiesa, possiamo liquidare in poche battute il tempo precedente la sua ordinazione episcopale, in quanto conosciamo poco o nulla della sua infanzia e della sua giovinezza. Si sa con certezza che Ambrogio era di famiglia cristiana, ma, secondo il costume del tempo, rimase catecumeno senza ricevere il battesimo. Se vogliamo dirlo in un modo più scioccante, Ambrogio andò a Messa partecipandovi dall'inizio alla fine per la prima volta all'età di quarant'anni, una settimana prima di diventare vescovo. D'altronde non si può comprendere la sua ricca esperienza religiosa dopo il 374 se non immaginando una conoscenza e una vita di fede anche prima. Ma possiamo solo immaginarla e non descriverla, in quanto gli unici particolari di cui siamo a conoscenza sono: la consacrazione verginale della sorella Marcellina per mano di papa Liberio papa a Roma forse nel 353; e la frequentazione dell'abitazione romana della famiglia di Ambrogio da parte di non meglio identificati sacerdotes. [21].

Certamente il giovane, ormai avviato ad una luminosa carriera politica, sia a Roma che a Sirmio venne a conoscenza anche dei numerosi travagli che la Chiesa stava vivendo, soprattutto a causa dell'eresia ariana. Più vasta e interessante, invece, è l'esperienza di Chiesa del vescovo Ambrogio, di cui abbiamo anche abbondante documentazione.

Non è qui il luogo anche solo per accennare alla sua visione ecclesiologica. Ci limitiamo a considerare un aspetto complementare a quello poco sopra trattato e, dopo aver visto l'Ambrogio vescovo a servizio della politica imperiale, riflettiamo ora sull'Ambrogio vescovo che deve difendere la Chiesa dall'eccessivo potere imperiale. Proprio Valentiniano II e la madre Giustina (di fede ariana) che il vescovo di Milano aveva difesi dall'usurpatore Massimo Magno, di lì a pochi mesi insidiarono la libertà della Chiesa. Dopo il primo tentativo di fornire una basilica all'ariano Aussenzio, andato a vuoto per l'intervento del popolo nella primavera del 385, la Corte tornò a richiedere una basilica già nel febbraio 386, ma questa volta suffragando la domanda con una legge appositamente promulgata e che concedeva libertà di culto a quanti professavano la fede procla­mata a Rimini "Rimini" nel 359 e a Costantinopoli "Costantinopoli" nel 360, cioè agli ariani.

Il vescovo Ambrogio si dimostrò accorto e, quando da lui si recò il segretario del Concistoro, Dalmazio, per invitarlo a scegliere dei giudici da affiancare a quelli già scelti da Aussenzio, rifiutò per due motivi, uno di ordine teologico ed uno di ordine giuridico. Era teologicamente scorretto che in una causa di fede i laici giudicassero il vescovo. D'altra parte, un giudizio equo sarebbe stato comunque impossibile, vista l'emanazione di quella legge-truffa che esponeva i giudici a gravi pene nel caso si fossero dichiarati contrari alla concessione della basilica agli ariani. [22]

Ambrogio dunque domandava preliminarmente ad ogni discussione l'abolizione di quella legge. Si può comprendere come la tensione aumentasse di giorno in giorno, sino al punto in cui la basilica Porziana venne circondata dai soldati e occupata dai fedeli. All'approssimarsi della Settimana Santa, mentre Ambrogio viene invitato ad andare in esilio, la Corte sposta le mire dalla Porziana alla Basilica Nuova, con il risultato di un nuovo rifiuto. Il braccio di ferro continua e la Domenica delle Palme, mentre il Vescovo consegna il simbolo di fede ai catecumeni, sembra imminente un'occupazione imperiale della Porziana: è già stato posto il velario per separare il posto dell'imperatore in chiesa. La settimana comincia con una mossa politica da parte della Corte: viene imposta una forte tassa ai commercianti, ma questi solidarizzano con il Vescovo. Ambrogio dimostra una grande prudenza nel muoversi, ma anche una risolutezza che alla lunga, grazie anche all'appoggio del popolo, risultano vincenti: la mattina del Giovedì Santo giunge la notizia che la Corte ha definitivamente capitolato, restituendo anche il maltolto ai commercianti. [23]

La vittoria di Ambrogio sulla Corte rappresenta un passo avanti nel cammino di autonomia e libertà della Chiesa da quello Stato che pure è considerato quasi come il carro su cui si muove il Vangelo di Cristo. In Occidente la figura forte del Vescovo di Milano rappresenta una garanzia che, invece, in Oriente si affievolisce sempre più. In verità, proprio a partire dal 380, ovvero dalla promulgazione da parte di Teodosio dell'editto di Tessalonica (con cui la religione cattolica diventa la religione ufficiale dell'impero romano), s'acuisce sempre più la differenza fra la Chiesa d'Occidente e quella d'Oriente.

Mentre in Oriente lo Stato viene percepito come struttura portante e si afferma una concezione cesaro papista, in cui i due poteri, il civile e il religioso, si compenetrano e gradatamente si confondono; in Occidente la Chiesa assume la coscienza di guida dello Stato, soprattutto quando Roma cessa di essere caput imperii ma continua ad essere caput ecclesiae. Ambrogio s'inserisce perfettamente in questo secondo percorso, ancora tutto pervaso di fiducia nelle sorti dell'impero, ma già convinto che «totius orbis Romani caput Romanam Ecclesiam». [24]

Non sappiamo come Ambrogio avrebbe reagito al sacco di Roma dell'agosto 410. Non sappiamo se avrebbe saputo costruire quella nuova teologia della storia che Agostino, dalla provincia africana, condensò nel De civitate Dei. Sappiamo che il Vescovo di Milano interpretò il suo ruolo ecclesiale e politico in un'epoca difficile, in cui la strada del rapporto fra Chiesa e Stato era ancora tutta da inventare, e avendo a che fare con imperatori fra loro diversissimi. Con la perfida Giustina, che non dovette mai vedere di buon occhio il consularis divenuto vescovo nella capitale dell'impero, agì lealmente come ambasciatore e fermamente nella questione delle basiliche. Seppe costruire un rapporto di notevole influenza con Graziano, conquistato all'ortodossia dalla politica di non intervento del padre. Con Teodosio "Teodosio", infine, si ebbe certamente il rapporto più fecondo, ma anche il più tormentato. Non possiamo qui analizzare le due vicende in cui Ambrogio fece sentire il peso della sua potestas religiosa sull'imperatore: la richiesta d'impunità per i cristiani che avevano incendiato la sinagoga di Callinico, e la famosa penitenza imposta a Teodosio per la strage di Tessalonica. Ci limitiamo al giudizio chiaro che viene espresso nella recente lettera apostolica di Giovanni Paolo II Operosam diem, scritta proprio in occasione del XVI centenario della morte di Sant'Ambrogio. «Inadeguato si rivelò il suo giudizio nell'affare di Callinico ... Ritenendo infatti che l'imperatore non dovesse punire i colpevoli e neppure obbligarli a porre rimedio al danno arrecato, andava ben oltre la rivendicazione della libertà ecclesiale, pregiudicando l'altrui diritto alla libertà e alla giustizia. Fu all'opposto mirabile il suo atteggiamento nei confronti dello stesso Teodosio all'indomani della strage di Tessalonica ... In questo celebre episodio Ambrogio aveva saputo incarnare al meglio l‘autorità morale della Chiesa, facendo ap­pello alla coscienza dell'errante, senza riguardo al suo potere». [25]

 

 

Conclusione

 

Sarebbe sin troppo facile concludere che Ambrogio, vescovo di Milano sul finire del quarto secolo, ebbe un ruolo politico importante. Lo possiamo affermare senza paura di essere smentiti, a patto di non dimenticare che questo suo ruolo politico egli lo giocò sempre da uomo di Chiesa. Anche, quando, come nel caso di Callinico, esagerò la sua influenza arrivando ad un'ingerenza non giustificata nelle decisioni dell'imperatore.

Evidentemente la presa di posizione di Ambrogio in occasione della distruzione della sinagoga di Callinico (siamo alla fine del 388) può essere letta in antitesi con un'altra affermazione fatta dall'imperatore Costanzo nel 355 in un sinodo di vescovi convocato a Milano: «Ciò che io voglio, deve valere come legge della Chiesa!». [26] 

Qui appare l'arroganza dell'imperatore che pretende di essere vescovo della Chiesa, mentre nella fermezza di Ambrogio - che costringe l'imperatore Teodosio a ritirare il provvedimento con cui s'obbligava il vescovo di Callinico a ricostruire a proprie spese la sinagoga distrutta - si scorge la volontà della Chiesa d'Occidente di mantenere la sua libertà dalla propensione che gli imperatori sempre dimostravano ad arrogarsi l'ultima parola in questioni anche di fede. Certo, la presa di posizione di Ambrogio è ingiustificata, e, come tale, isolata e isolabile nella storia dei rapporti fra la Chiesa e l'impero e nella stessa biografia del vescovo milanese. Preferiamo ricordare la fermezza di Ambrogio in occasione della difesa delle basiliche, laddove il legame con la sua Chiesa aggredita dalle pretese imperiali è tangibile e quasi commovente. L'immagine di un popolo stretto intorno al suo vescovo - con i commercianti che preferiscono o il carcere o il pagamento di una tassa iniqua, pur di restare dalla parte di Ambrogio - è il segno più bello di una autentica carità pastorale e di una stima conquistata sul campo.

In fondo, l'attualità di Ambrogio vescovo - uomo di Chiesa che non ha dimenticato di esser stato uomo di Stato - sta proprio qui: il coraggio di prendere la parola come vescovo, tenendo alta l'autorità morale della Chiesa, e, se necessario, ergendosi nella società come istanza di giustizia ogniqualvolta essa venga calpestata da chi dovrebbe tutelarla. Un compito scomodo, difficile, dagli equilibri delicati. Ma il ministero di un uomo di Chiesa nella società di ogni tempo è necessariamente un ministero di inquietudine. La tranquillità è propria solo della Città di Dio.

 

 

 

[1]    PAOLINO, Vita Ambrosii, 6 (nella nuova edizione a cura di Marco Navoni, San Paolo 1996, è alle pagine 58-59).

[2]    RUFINO DI AQUILEIA, Historia ecclesiastica, XI, 11 (nella versione delle Fonti Latine su Sant'Ambrogio curate da Gabriele Banterle per i Sussidi dell'Opera Omnia, Città Nuova 1991, è alle pagine 120-123).

[3]    PAOLINO, op. cit., 8, 2 (Navoni, 62-63).

[4]    La citazione è tratta dal famoso editto di Milano del febbraio 313 (vedi: ALBERTO BARZANÒ, Il cristianesimo nelle leggi di Roma imperiale, Paoline, Milano 1996, 157).

[5]    Circa tale problematica si confronti il saggio di HUGO RAHNER, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo, Jaca Book, Milano 1970.

[6]    ORIGENE, Contra Celsum, 8, 63-70

[7]    TERTULLIANO,  Ad Scapulam, 2

[8]    Per questa problematica si veda il saggio documentato e convincente di MARTA SORDI, I cristiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano 1984.

[9]    Vedi A. BARZANÒ,op. cit., 157.

[10]  Da questo punto di vista è molto utile l'opera curata da ALBERTO BARZANO', Il cristianesimo nelle leggi di Roma imperiale, Paoline, Milano 1996.

[11]  Significativa è la formula: «La provvidenza divina e la mia cooperazione» (vedi: Vita Constantini, II, 46).

[12]  La famosa espressione si trova in bocca a Costantino nella Vita Constantini, IV, 24.

[13]  S. 81, 9

[14]  Vedi: en. ps. 47, 7 (pronunciato a Ippona nel 412)

[15]  I clarissimi erano esentati dalle imposte e dalle prestazioni personali ed erano sottratti alla giurisdizione dei normali giudici e affidati direttamente al giudizio del prefetto urbano. Rivestendo cariche sempre più importanti, potevano aspirare ad ottenere il rango distintivo di spectabiles e quindi di illustres.

[16]  Ep. 75/a, 36

[17]  Cfr.  ep. 30

[18]  SANTO MAZZARINO, Storia sociale del vescovo Ambrogio, Roma 1989, 54.

[19]  Cfr. H. RAHNER, op. cit., 87.

[20]  Ep. 72, 1

[21]  PAOLINO, Vita Ambrosii, 4,1 (Navoni, 56-57).

[22]  Cfr. ep. 75 (a Valentiniano II)

[23]  Cfr. ep. 76 (alla sorella Marcellina)

[24]  Ep. extra coll. 5,4: «la Chiesa di Roma, capo di tutto il mondo romano».

[25]  GIOVANNI PAOLO II, Operosam diem, 12.

[26]  La citazione si trova in: ATANASIO, Historia Arianorum, 33