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Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Setti7ana 1997 > Proverbi ambrosianiorazio sala: DETTI E PROVERBI AMBROSIANI
San Gimignano: Battesimo di Agostino
di Benozzo Gozzoli
DETTI E PROVERBI AMBROSIANI
di Orazio Sala e Graziella Molinari
L'argomento che tratteremo riguarda i proverbi e detti milanesi, o ambrosiani se si preferisce, ma non tralasceremo qualche storia che riguarda Milano e Ambrogio, il grande patrono della città. I proverbi sono la saggezza dei popoli e in effetti i proverbi non sbagliano mai per il motivo semplicissimo che dicono tutto e il contrario di tutto. Per esempio si è soliti dire "san Sebastian un frecc de càn", e siamo al 20 gennaio, mentre per S. Agnese, che è il 21, non si ha pudore a esclamare "sant'Agnes cur la lusertula par la scesa", come se fosse già primavera !
C'è anche chi ai proverbi non crede e per loro è noto il detto "i pruverbi di vicc ìnn bun de fà cavìcc .. ", tuttavia nonostante tutto i proverbi vanno sempre rispettati se non altro perchè "g'ànn metüü cent ann a fai." In questa relazione cercheremo di conoscerne alcuni, selezionandoli da qualcuno degli innumerevoli argomenti che essi trattano. Molti sono proverbi dettati dalla nostra memoria, mentre tanti altri sono stati tratti da libri di non recente pubblicazione. Tutto ciò per dimostrare che anche i proverbi di cento o di duecento anni fa mantengono ancora inalterata la freschezza del loro insegnamento e si presentano pur sempre attuali. I testi da cui abbiamo principalmente attinto in questa nostra ricerca sono due: il primo è Proverbi lombardi raccolti dal prof. Bonifacio Samarani, pubblicato nel 1858, mentre il secondo è Proverbi milanesi a cura di Eugenio Restelli, che fu dato alle stampe nel 1885.
Nella sua opera il prof. Samarani solitamente aggiunge un commento, che noi riporteremo sovente con le sue parole, il che consentirà di comprendere quanto sia cambiato il mondo in questi ultimi 150 anni non solo nel modo di esprimersi, ma anche nel modo di pensare, di agire e della morale. Naturalmente non sta a noi formulare giudizi su questi cambiamenti, nè ripetere era meglio una volta, oppure no è meglio adesso.
La bellezza
Il primo tema che vogliamo trattare è la bellezza. Si tratta di un argomento che interessa tutti, perché chi sa di esser bello cerca di far valere questa sua qualità. Chi invece si reputa brutto, perché i "bèj in fà diverz " fa di tutto per migliorare il suo aspetto, magari con plastiche o trattamenti vari. A questo riguardo i proverbi sono impietosi e ben noto è il detto "Scùndal ben, scùndal püür tütt, quand vün l'è brütt, l'è semper brütt." Il prof. Samarani lo commenta così: "Tanto nel fisico quanto nel morale, ciò che è turpe quantunque si occulti, pure in niun modo può divenire bello e onesto."
Naturalmente questo commento non si limita a valutare la bellezza fisica, ma cerca di indagare anche quella dell'anima. Di tutt'altro tenore è l'opinione comune verso i belli: "quand s'è bèj s'è semper bèj " con la variante quand s'è bèj s'è semper quej. Il prof. Samarani commenta che "le belle forme restano sempre anche quando è svanita la freschezza della gioventù." Questa opinione del Samarani smentisce di fatto il detto "brütt in fassa, bèi in piazza." ed ha ragione perché se uno nasce brutto, può andare in piazza fin che vuole, ma certo non migliora. I proverbi comunque hanno qualcosa da insegnare anche ai belli, soprattutto quando si tratta di rendere più umana e ragionevole la bellezza che li inorgoglisce. Famoso è il detto che anche "ogni bèla scarpa la diventa una brüta sciavata", che il Samarani così spiegava: "Non vi ha sì bella donna che con l'invecchiare non si difformi."
L'essere belli resta comunque sempre un vantaggio perché "chi nass bèla, nass sciura" o ancora "chi nass bèla, nass maridada." Se pensiamo a 150 anni fa e a quanto fosse importante a quei tempi per una ragazza trovare marito, appare in tutta la sua importanza la dote della bellezza. Oggi le forme di convivenza sono diventate molteplici, ma un tempo solo il matrimonio sanciva una unione stimata e accettata dalla società: di qui la necessità di possedere i requisiti per sposarsi e la bellezza certamente era un ottimo referente. I proverbi amano comunque scherzare sulle presunte qualità o sui presunti difetti dei belli e delle belle. Anche per loro c'è qualche inconveniente, ad esempio "ul fümm el ga va 'dree ai bèj " e tutti sappiamo quanto il fumo dia fastidio agli occhi. L'origine di questo detto si perde nel passato, quando i nostri vecchi non vivevano molto bene, anzi per farsi forza fra gli stenti della vita, cercavano di aggrapparsi a qualunque cosa pur di consolarsi. Orbene dinanzi al camino dove bruciava la legna appena raccolta e non ancora stagionata, che emanava un acre e fastidioso fumo, quei vecchi con la loro straordinaria arte consolatoria ripetevano appunto che "ul fümm al ga va 'dree ai bèj. " Così dopo magari alcune ore passate con gli occhi gonfi per il fumo, tutti se ne andavano contenti a dormire perché si consolavano pensando di essere belli. C'è un aspetto anche moralistico in questo detto, che è stato evidenziato dal prof. Samarani, il quale sostiene che esso "si usa scherzando da chi conversa al camino o quando si spegne un lume, ma non è perciò men vero indicando la vanità, l'albagìa, la burbanza che seguono chi ha lode di avvenenza." Come dire che chi è bello corre il rischio di fare un gran fumo, di darsi cioè tante o troppe arie.
Sempre su questo tema sono noti molti altri proverbi, qualcuno significativo e ricco di insegnamenti, qualcun altro invece un po' burlesco, come il detto che "chi è bel, l'è bel e graziòs, chi è brüt, l'è brüt e dispetòs." Il che fa da pendant all'altro proverbio "piscinìn, brüt e catif ", che però non ha una vera e propria motivazione ragionevole. La trova invece il prof. Samarani, che scrive che "chi è bello è contento di sè e non invidia gli altri e quindi mostrasi con tutti gentile e grazioso: chi al contrario abbia natura avara de' suoi doni è sempre in uggia con se stesso e indispettito con tutti."
Non sempre però al bello sono associate tutte le buone qualità, perché l'esperienza insegna che "l'è mèi dona brüta ma graziusa, che 'na bèla e malmostusa " cioè permalosa. Vorrei qui far notare che i proverbi probabilmente sono stati scritti sempre dagli uomini e poco dalle donne, perché quando si tratta di parlare male, si parla sempre delle donne e dei loro vizi. Se vogliamo commentare il precedente detto possiamo dare la parola al prof. Samarani che sostiene che "le grazie dello spirito, le virtù, la dolcezza, la mansuetudine fanno amabile e piacente anche la donna meno bella, mentre l'alterigia, il malumore, la sgarbatezza rendono stomacose le donne più avvenenti."
Tuttavia nel caso che la donna non fosse bella, ci si può ancora consolare perché anche la "galina negra fa l'ov bianch ", cioè alle volte nascono bellissimi bambini anche a donne che sono tutt'altro che belle. Nello stesso senso figurato è noto anche il proverbio "vaca bröta, bèl vedèl " e cioè da brutta mucca nasce un bel vitello. Sulla bellezza ha un brutto effetto la vecchiaia: "nè dòna brüta, nè òm vèc che no vaghen mai al spèc " sostiene birbone il proverbio, perché chi va davanti allo specchio e ci sta, o non lo crede fedele o si illude di vederci ciò che non c'è più. Più tenero è il giudizio sulla bellezza degli uomini perché "i òm e i tortèi in semper bèi ", cioè basta che un uomo non abbia difetti visibili e sia sano perché appaia bello agli occhi di quella donna che guarda più alle qualità che alle doti fisiche. Molto varie sono pure le osservazioni sulla bellezza femminile e sui requisiti che essa deve avere sia fisicamente che moralmente. L'altezza è certamente un aspetto di grande importanza: "dona granda, se no l'è bèla, poch ghe manca " e ancora "dona granda, mèza bèla ", però in compenso anche le piccole hanno le loro qualità rispetto alle alte, che stanno soprattutto nell'agilità e nella snellezza: "intant che la granda la s'inchina, la picola la liga la fassina" ovvero "intant che la dòna granda la se sbassa, la picola la nèta la cassa."
Contrariamente a quanto accade ai nostri giorni, un tempo le donne preferivano avere una carnagione bianca. Il pallore, un secolo fa così ammirato sul viso delle donne, è esaltato nel proverbio che afferma "a dòna bianca, belèzza non ghe manca ": alle donne cioè non è necessario imbellettarsi perché la bianchezza della pelle già di per sè è una vera bellezza. Tutte le donne, siano belle o brutte, hanno fortunatamente la possibilità di avere un marito e di farsi una famiglia: "anche le vache negre, le fan 'l lat bianch ", come per dire che se non si maritassero altro che le belle, cosa farebbero le donne brutte ?
Ironicamente un bel proverbio si scaglia contro il mal vezzo di chi si trucca, infilando una dopo l'altra una sequenza di situazioni tragicomiche che si imperniano sul colore giallo: "El bianch e 'l ross el va e 'l ven, ma el giald el se manten. Anzi 'l giald l'è on color fort, che 'l düra anca dopo mòrt." La combinazione più felice della bellezza femminile è ricordata da quest'altro proverbio "Öc negher e cavèl biond gran belezza de sto mond " che richiama l'attenzione sulla innegabile difficoltà di trovare una persona con occhi neri e capelli biondi, il che costituisce un carattere piacevole e vago.
Tra i vari aspetti che concorrono a definire la bellezza di una persona vi sono certamente anche le orecchie. Diversi sono i pregiudizi riguardanti questo organo, fra cui, particolarmente gustoso, è il seguente: "Orègia granda, vita lunga." Si riferisce probabilmente all'usanza di tirare le orecchie ai compleanni come espressione di augurio di lunga vita, ma non si può escludere qualche altra interpretazione. Certo popolino crede ad esempio che vivrà poco chi ha le orecchie piccole, al contrario chi invece le ha lunghe vivrà parecchio e sarà fortunato. Si può anche ricavare una utile morale di vita e cioè chi fa tesoro dell'esperienza altrui ne godrà i benefici a lungo. Così, analogamente, chi da piccolo fu castigato tirandogli le orecchie, diventerà più giudizioso da adulto e quindi potrà vivere più a lungo senza altri pericoli.
Un altro elemento che rende bella una donna è l'assenza della barba e dei baffi. "Guardet dai can can, dai gat, dai fals amis, e dai donn che g'abien i barbis " afferma un proverbio un pò pregiudizievole nei confronti delle povere donne con qualche pelo di troppo in viso. Anche il naso, specialmente quello all'insù, fa la sua parte nel decantare la bellezza femminile. Non tutti però apprezzano un simile tipo di naso, anzi a qualcuno non piace, poiché secondo le usanze popolari starebbe a significare la natura irascibile della persona che lo porta: "L'è mei andà in malóra, o vèdegh pü, che tö 'na dona col nas che guarda in sü."
Sempre relativamente al naso e alle sue forme bizzarre c'è questo proverbio "nas che guarda la testa, l'è cattiv come la pesta " che richiama l'abitudine del popolo di considerare il naso arricciato come sinonimo di persona testarda e tenacemente cattiva. Concludiamo il nostro breve percorso attraverso la bellezza con due splendidi motti, che probabilmente sono i più saggi e cioè "la bellezza di donn l'è in di oecc di omen" e anche "l'è minga bel quel ch'è bell, l'è bell quel che pias."
L'onore
Al giorno d'oggi l'onore è una qualità dell'uomo che non è più molto apprezzata. Un tempo esso determinava gesti eroici o tragici, che segnavano la vita di una persona e spesso anche quella di familiari ed amici. Guai a perdere l'onore !
Era molto più importante essere onorati che essere belli, "l'onor el var püssé de tüt" dice solennemente un proverbio, cui fa il paio il seguente "no gh'è or che paghi l'onor" o ancora "col bun nom se va da per tôt ", il buon nome, cioè, ci raccomanda ci protegge e ci rassicura. Quando uno ha un buon nome è a posto e ciò costituisce la prima fortuna della sua vita: "Con l'onor s'aquesta l'or, ma col' or no s'aqueta onor." L'onore è un merito personale e non si può acquistare dunque neppure con il denaro, anche perché "l'onor e il disonor ognidün i se 'l fa lor." Non bisogna pertanto insuperbirsi per l'onore che acquista per vincoli di legami o di parentele: allo stesso modo non bisogna avvilirsi se qualcuno che conosciamo commette una brutta azione, poiché i meriti come le colpe ricadono sempre alla lunga su chi li compie. Ognuno vale per quello che è e non per la gente che conosce o altro. "Chi g'à l'onor l'è un sciur " recita il proverbio, ed è vero, perché chi gode di una buona reputazione può ottenere credito e beni quanto ne vuole. Chi ha reputazione inoltre può permettersi anche ciò che altri non hanno il coraggio di fare o addirittura di veder lodato tutto quanto fa: "Quand s'è da töc stimat, se po pissà 'n let e po di che s'è südat." Con una certa ironia il proverbio stigmatizza l'abitudine di ritenere ben fatto tutto quello che una persona fa, nel bene e nel male, quando questa, per la posizione sociale che occupa o per altri meriti, si è guadagnata la pubblica opinione.
La bontà d'animo
Vale la pena di essere buoni d'animo, se non altro per restare con la coscienza tranquilla perché, come dice il proverbio "quand vegn la sera, la gent cativa la se dispera." Nell'opinione popolare infatti si crede che al sopravvenire della sera si risveglino i rimorsi per le cattive azioni. A conferma che le persone buone sono gradite, mentre al contrario i cattivi disgustano, sta questo proverbio semplice ma vero: "se lèca 'l mel, se spüda 'l fel." Tuttavia lo stesso popolino non nasconde il suo pessimismo riguardo alla vita e alla difficoltà dei buoni di prevalere. "A sto mond in püssê i balòss che i bon" constata amaramente il proverbio. Qui il termine balòss non è usato nel significato che abitualmente si trova nei dizionari dialettali dove per balòss si intende una persona furba. Nell'espressione appena citata balòss indica piuttosto non solo la persona furba, ma quella furbescamente malvagia ovvero furba con cattiveria. Sulla stessa linea di saggezza popolare sta anche il proverbio "gh'è püssê lader che galantòm" che fa propria l'opinione che ben poche siano le persone dabbene e i galantuomini. Una certa vena di pessimismo percorre ancora molti altri proverbi tra cui ne citiamo tre qui di seguito: "Anca l'om l'è come 'l pom, marsc de denter e föra 'l par bon", o anche "anca i òm i en come i melùn, che de cent ghe nè vun bun " e infine, al massimo del pessimismo, "de mila vün e de cent nissün." Con una certa enfasi il popolo sottolinea la difficoltà di trovare persone serie e buone, tanto da affermare che tra mille solo una sarà un vero galantuomo e tra cento non c'è possibilità di trovarne alcuno.
Pur in tanta disperazione per la condizione umana, c'è qualche proverbio che nonostante tutto è disposto a concedere un credito anche a chi è reputato di pessima fama: "ogni bricon g'à la soa devozion ", dice il proverbio, e sta a significare che anche l'uomo originariamente è buono e porta nel suo cuore nobili sentimenti o almeno lo è fino a quando si lascia corrompere da pericolose passioni o da assurdi delitti. L'inclinazione al bene va educata con amorevolezza e dolcezza, senza eccessivo rigorismo, perché sarebbe quest'ultimo controproducente: "nè per lèt, nè per preson non diventa mai l'om bon." Da che mondo è mondo, sembra avvisarci il proverbio, la prigionia e la malattia non sono mai stati sistemi per migliorare gli uomini. Anzi la prigione è uno strumento che produce effetti contrari alle finalità per cui essa stessa è stata inventata: "Se te vö fà on bricon, mètel on po in preson." E' facile constatare infatti che le prigioni sono spesso un focolaio dove crescono i malvagi e che perciò, più che a luoghi di correzione assomigliano a spazi dove si annidano e prosperano i malcostumi. Dello stesso genere è il seguente: "castìga i bon ch'el se migliura, castìga ul catif ch'el se pegiùra" dove emerge l'esperienza quotidiana del castigo, che è valido solo con i buoni ma che intestardisce al contrario ancor di più i cattivi. Di analogo significato è pure il seguente "loda el bon ch'el migliùra e rimprovera el catif ch'el pegiùra." Sembra di capire da questi proverbi che se uno è cattivo e cattivo e non bisogna disturbarlo, a tutto svantaggio del buono, che però non deve essere troppo buono, perché come giustamente dice il proverbio "chi è trop bon è mincion " o anche "bon va ben, ma minga bon tre volt."
Anche il perdono va concesso con parsimonia perché "chi perdùna el catif ghe fa tort ai bon." In ogni caso conviene sempre essere buoni e come dice il detto "l'agnèl mansuet el tèta 'l lat de so mader e po quel dei oter." La bontà cioè sollecita la solidarietà. E per dimostrare che il buono e il gramo ci sono dappertutto ecco un proverbio che prende di mira addirittura gli Apostoli: "anca tra i dodes apòstoi gh'è stat el Giüda" come a dire che in ogni famiglia c'è sempre qualcuno che degenera e si rende indegno per i suoi costumi. Ma c'è di più: c'è anche chi è cosciente dei danni che provoca "no gh'è balòss egual de chi se vanta de fa 'l mal." Ed è veramente un malvagio costui che si vanta e si compiace del male che compie. Di qui la raccomandazione di scegliere buone compagnie per riuscire ad avere una educazione rispettabile: "pratica i bon, sta in pas coi balosson." Conversando con i buoni si diventerà migliori, mentre stando in pace con i cattivi non si riceverà danno da loro. L'uomo veramente buono naturalmente è buono con tutti e non fa preferenze: "l'om propri bon de cör, l'è bon anca se nol vör."
Per essere buoni bisogna stare attenti anche alle compagnie che si frequentano, perché, come dice il proverbio, "i osèi de l'istessa pena, i vula töc insema." Come gli uccelli delle stessa penna, cioè della stessa specie, volano insieme, così gli uomini, assieme ad altri uomini della stessa tempra o con gli stessi interessi, cercano di avvicinarsi il più possibile. La formazione di questi gruppi positivi è necessaria perché le difficoltà sono tante e come dice il proverbio in senso figurato "l'erba catìva la mör mai e la gramegna la cres departut." In effetti gruppi di malintenzionati esistono in ogni tipo di società ed è importante non lasciare che prendano il sopravvento. Perché anche i buoni debbono sapersi difendere, poiché dopotutto " la bontaa l'è bonna in l'insalatta" o ancora "la bontaa la se vend in verzee su la stadera." In compenso tuttavia il popolino è convinto che "la fera di baloss la dura pocch "e che ai cattivi prima o poi arriverà il giusto castigo. D'altra parte resta sempre la speranza che "chi gh'ha conscienza netta, fa semper vitta quieta." Inoltre chi si comporta bene non può attendersi nulla di male, "chi maa non fà, paura no gh'ha", anzi la sua bontà produrrà effetti benefici, "cont i bonn se otten tuttcoss." Tuttavia c'è sempre una punta di amarezza che emerge dall'esperienza, che non sempre va nel verso desiderato dai giusti, i quali debbono ammettere che "di voeult con pesg se fà, con pussee la va ben." Salomonicamente possiamo concludere questo excursus con un proverbio che pietosamente descrive la condizione umana senza condannarla nè esaltarla: "in tuttcoss gh'è el sò ben e el sò maa, el sò bon e 'l sò gramm." Ogni cosa cioè, ogni episodio, ogni scelta, ha il suo dritto e il suo rovescio, la sua dose di buono e di sbagliato: in altre parole siamo uomini con tutti i nostri difetti e i nostri pregi.
La casa
La casa è sempre stata importante per l'uomo, era importante nel passato come è importante ancora oggi. "La cà e la miè in i robb che se god pussee " sentenzia il proverbio e senz'altro giustamente. Molti sono i detti che riguardano la casa, anche perché la vita dell'uomo vi trascorre lunghi periodi, che abbracciano gli eventi felici della vita, le nascite, i battesimi, i matrimoni, quelli meno felici, le malattie, la morte, e altri che fanno parte dell'esperienza quotidiana, il lavoro, la tranquillità, la riservatezza, gli amici, il vicinato. La familiarità dell'ambiente di casa, i suoi luoghi, la sua intimità sgorgano da molti dei proverbi che citeremo. "Cà soa e pò pü " è assai significativo a questo proposito, quasi a dimostrazione che non c'è nulla di meglio dell'accoglienza della propria casa. "In cà sua se sta on gran ben" ribadisce lo stesso concetto, che è proprio anche dei seguenti detti che prendono a paragone la vita e le abitudini animali: "ogni usèl in del sô nin canta mèi che in quèl visin " e ancora "ogni formiga la ama el sò büs, ogni can l'è bon al sò üs."
Ognuno, anche i più piccoli animali, amano la propria casa, non solo, ma quando vi abitano acquistano sicurezza e forza. In casa si trova anche la felicità: "per vès content bisogna stà in cà soa." E' dalle occupazioni domestiche che scaturisce la felicità, non certo, sembra insegnare il detto, dal cercarla altrove che non sia la propria casa. "Casa mea, casa mea, pan de mèi ma in alegrìa ", cioè poveri ma contenti del poco che si ha, soprattutto quando non si deve dipendere dagli altri: "L'è mei pulenta in cà sua che pietanza in cà di alter." Allo stesso modo non è la grandezza della casa che rende felici: "casa mea, casa mea, strèta set, ma tuta mia ", piccola sì ma mia, anzi piccola e bella, "casa mia, casa mia, per stretina che te sia, te me paret una badia."
Per il contadino la proprietà della casa è sempre stato un desiderio più forte di ogni altro, perché gli permetteva di avere un rapporto continuato con la sua terra che lavorava. Casa in proprietà e non in affitto significava evitare continui traslochi, evitare di essere alla mercè del fattore che aveva il potere di trasferire da un luogo all'altro e anche da un paese all'altro. "In ca mia comandi mi " può dire finalmente con orgoglio il contadino e sulla stessa falsariga sono noti altri proverbi del tipo "tüti in padron in casa sua "o anche "l'è mei vess padrun in una barca che capitan de una naf."
La casa deve essere a dimensione umana, perciò nè troppo piccola, nè troppo grande, perché "casa granda gran burlanda, casa strèta vita quièta." La casa dà anche da fare e ne sanno qualcosa le donne sempre affaccendate nei lavori domestici perché "in d'una cà gh'è semper del de fa." Molte sono pure le fatiche per poter costruire una casa e sovente c'è l'esigenza di usare tutti i risparmi di una vita: "a fa sü cà ghe vör vint an e mezz " dice il proverbio, che qualche secolo fa erano un'enormità.
In una casa ci sono anche dei bambini, che hanno sempre suscitato le attenzioni degli adulti e non mancano proverbi che riguardano la loro educazione, i problemi che incontrano nella crescita, i fastidi e le preoccupazioni che danno ai grandi e ai genitori. "I fioeu nassen con i eoucc vert " dice il proverbio e testimonia che ogni epoca ha sempre visto bambini vispi e svegli, dallo sviluppo assai precoce relativamente ai tempi. In campo educativo vale sempre il detto "ai fioeu pena nassu, dopo tri dì dac i vizi che te podet mantegnì." Altrettanto vero sotto lo stesso aspetto è il proverbio "a regulà i fioeu l'è minga farina de toecc." La difficoltà di nutrirsi nel passato è sempre stato un cruccio per i genitori, che spesso rinunciavano al proprio in favore dei figli: "chi gh'ha i fioeu tutt i bucòm in minga sò." Anche l'affettuosità verso i bambini è stata oggetto di riflessioni e considerazioni da parte del popolo, fra cui questo detto assai significativo: "chi gh'ha minga i sò fioeu, carezza tropp quij di olter." A fronte di poche persone senza figli esistevano però le famiglie, dove non mancava l'abbondanza dei figli e dove chi era presto spoppato, presto aveva nuovi fratellini: "chi prest indenta, prest imparenta."
I figli forse non erano mai troppi, a meno che non fossero due figlie, perché - si pensava - fra due sorelle difficilmente poteva crearsi un buon accordo: "Dò sorell in d'ona cà, gh'è el diavol e nol se sà." Per dirimere questi difficili rapporti e anche per dare loro un'educazione, i figli venivano costumaa. In queste occasioni si usavano metodi anche piuttosto rudi, talvolta volava qualche ceffone, tal altra si davano scapaccioni: "ul cuu no porta pena ", cioè il sedere è il posto che, ricevendo percosse, ne trae minor danno. Inoltre non bisogna mai dare vizi ai bambini perché "fioeu tropp carezzaa l'è mal levaa." Alle madri in puerperio si consigliava di mangiare spesso e non di non occuparsi d'altro che dei propri figli: "fassa e desfassa, e el temp che te vanza menna la ganassa."
Man mano che i bimbi crescono, crescono anche i problemi e le preoccupazioni che li riguardano: "fioeu piscinitt, fastidi piscinitt, fioeu grand fastidi grand " o anche "i fioeu hin dolor de coo." Nonostante una educazione curata da medesimi genitori, sovente i figli differiscono fra di loro per il carattere, i meriti e i demeriti: "i did d'ona man hin vun divers de l'olter." I bambini comunque vanno trattati da bambini: "I fioeu bisogna trattaj de fioeu." A loro va lasciato spazio per conoscere le cose ed i grandi hanno una grande responsabilità: "I piscinitt imparen di grand." Per le ragazze, precoci nello sviluppo fisico, sorgeva presto il problema del matrimonio, che tradizionalmente veniva voluto per tutte e possibilmente appena possibile: "i tosann besugna maridaj prest, minga tegnij lì a fa crusca " o ancora "i tosann hin minga mercanzia de lassas vegnì veggia in cà." In ogni caso l'educazione che veniva riservata ai ragazzi era piuttosto spartana, senza tante delicatezze o attenzioni, perché la loro crescita era nella natura delle cose: "i usej in di frasch e i fioeu in di strasc." Ed eccoci ora a trattare un altro aspetto della casa: i vicini. Non sempre i rapporti sono facili, anzi è proverbiale la difficoltà di convivenza fra vicini di casa: "cativa visinanza pèg del dolor de panza." Sulla stessa lunghezza d'onda troviamo ancora: "Guardèt pü che te pò da ün trist visin, e da ün prenzipiantèl de viorin."
Dio ti salvi da cattivo vicino e da principiante di violino, parafrasa un proverbio toscano che, come il precedente, mette in luce il fastidio che può recare un vicino invadente o permaloso: proprio come l'acre disturbo che procurano le note disarmoniche di un suonatore di violino alle prime armi. Però non è sempre consigliabile cambiare casa a motivo dei vicini perché in qualunque luogo si vada a finire, in qualunque casa si troveranno sempre disagi: "chi lassa el sò visin per on difèt, el cambia casa, ma no 'l cambia lèt." Per fortuna tra i vicini di casa si possono trovare alle volte anche dei veri amici: "la visinanza l'è 'na mèza parentèla." D'altra parte con i vicini in questi casi sovente si finisce per stringere un buon legame d'affezione: "i visin in i primm parènt."
La casa ricorda anche il lavoro per la sopravvivenza di tutta la famiglia e i sacrifici che bisogna fare alle volte per procurarsi da mangiare. "El pan föra de câ l'è trop fat o tròp salâ " e cioè il pane guadagnato altrove o è troppo insipido o è troppo salato, di poco vantaggio o di troppa fatica. L'intimità della casa permette ai suoi membri un'accoglienza amorevole e rispettosa, tanto che "ved püssé un mat a cà sua che on savi in cà di olter." Questo ambiente però non è scevro da problemi di convivenza, soprattutto in ordine a chi deve comandare e chi ubbidire. C'è un proverbio che parla chiaro: "in quèl pulè no ghe sarà mai pas, doe canta la galina e 'l gal el tas." Esso fotografa la società patriarcale che l'ha prodotto, dove si pensava che la concordia non poteva esistere in quella casa dove il marito era costretto a sottostare ai dettami della moglie. C'è comunque spazio per tutti in queste case d'un tempo, anche per gli anziani, che godono di rispetto e buona reputazione: "quèla cà l'è benedetta che la gh'à d' la carne sèca." Il ruolo positivo degli anziani era motivato dalla loro esperienza, dall'avere vissuto e risolto prima degli altri i problemi quotidiani della vita: "beata quèla cà che de vèc la sà."
Anche il rapporto moglie-marito e genitori-figli ha suscitato frequentemente argute osservazioni popolari. Una saggezza e una esperienza secolare trasudano ad esempio dal detto "la cà e la miee hin i robb che se god pussee." Ma sono i rapporti fra figli e genitori e conseguentemente il tipo di educazione che si impartisce, ad attirare le lodi e gli strali della saggezza popolare. "L'è mej che piangia el fioeu che minga il pà " e cioè in qualsiasi evento disperato un figlio può sempre contare sull'aiuto del padre, mentre al contrario ben difficilmente un padre può trovare soccorso nei figli. Ci sono poi dei consigli alle mamme, che non debbono fare tutto loro, altrimenti si abituano le figlie ad essere poltrone: "Mader faccendona, fioeula poltronna." Allo stesso modo bisogna essere severe con le figlie se si vuole che crescano ammodo, altrimenti "mader pietosa e fioeula tegnosa." Proverbiali sono i rapporti tra nuora e suocera, la cui convivenza sotto uno stesso tetto ha spesso suscitato problemi a non finire: "di donn gh'en voeur domà dò per cà, vunna viva e l'oltra pitturada sul mur."
Infine concludiamo questa rassegna sulla casa e i suoi abitanti con la figura del regiù, ovvero del padre di famiglia. Egli deve provvedere al mantenimento della famiglia e addossare su di sè i problemi di tutti: "Un pader el manten dodes fioeu, ma dodes fioeu hin minga bon de mantegnì on pader." Spetta a lui correggere i figli, anche con durezza, ma senza perdere mai il senso dell'affetto filiale. Magari desidera che il figlio faccia qualche aspra esperienza, ma senza però andare mai male: "on pader el vorria vedè el fioeu andà finn'a la forca, ma mai a impiccal." Altre volte i genitori si lamentano della testardaggine dei figli che non vogliono ascoltare consigli e continuano a mantenere atteggiamenti ignoranti o riprovevoli. Questi genitori non accettano neppure, forse ingiustamente, il conforto dei conoscenti che sostengono che il comportamento dei loro figli col tempo migliorerà: la loro laconica risposta si condensa in queste poche parole "quel che no se fa de dersett, se fa nanca de vintisett." La saggezza popolare tuttavia non risparmia responsabilità ai genitori, perché i figli in fondo sono figli dei loro padri e delle loro madri, a cui assomigliano: "tal e qual l'è el sciocch, ven foeura i tapp."
Concludiamo con un ultimo proverbio che racchiude in sè l'amore di un genitore verso suo figlio: "tutt i gagg gh'han amor al sò gagiòtt."
Le buone e cattive compagnie
Grande attenzione si faceva nel passato alle compagnie frequentate da ragazzi, ma anche da adulti, perché si veniva giudicati. Anzi poteva essere considerato un onore o un disonore il frequentare speciali compagnie. "La compagnia di poch de bon - ad esempio - o la scòta o la tegn come 'l carbon." In altre parole la frequentazione dei poco di buono nuoce sempre. Bisogna comunque sempre stare all'erta perché ogni compagnia si qualifica da sè per quello che fa: "chi va col lof impara a vosolà, chi sta col zop impara a zopegà, te imparet dai lader a robà, dall'ignorant nagòt te pò imparà, sichè ti, dim domà con chi te vè, che mi te disarò cosa te sè." Sulla stessa linea troviamo anche: "Te vö savè chi 'l sia ? Guarda la sò compagnia " come pure "A sta col luf s'empara a lodulà ", "A andà al mülin s'enfarina ", "Chi no völ infarinass no vada al mülin ", "quel che maneggia el grass nol pò alter che concisciass." Chi bazzica con i disonesti ne impara i cattivi comportamenti e solo chi li scansa e li rifugge può salvarsi dall'errore: "chi va a dormì col can el s'empienèss de pöles." Il desiderio di tranquillità induceva i nostri nonni e bisnonni a non occuparsi di tutte le beghe degli amici, anzi a tralasciarle proprio, perché "manch dît, manch püvit ", meno onori cioè, ma anche meno fastidi. Questa mentalità è tipica di coloro che desiderano la normalità in tutte le cose, per non dover prendere posizione e per non dover intervenire di persona a risolvere problemi che interessano tutti: "quand che pocca ma bonna è la bregada, se god püssé con güst, no gh'è secada."
E' la stessa filosofia che in fondo esprime il proverbio "mèi sol che mal accompagnat." Però l'uomo è nato per la società, per la vita di compagnia e se non si sa vivere assieme agli altri è più per demerito proprio che per colpa altrui. Tant'è vero che il popolo si premura non solo di dar valore alla solitudine, se produttiva, ma anche e soprattutto alla compagnia: "de per lur se sta ben gnanca in Paradis ", "par la cumpagnia la tö miè anca un frà ", "un bon camerada fa parè metà la strada."
Quanti devono essere i componenti di una compagnia ? C'è un proverbio a questo proposito veramente singolare, che determina puntigliosamente il numero degli amici: "Vün nessün, dü ben, tre mèi, quater mai, cinch peg." Uno da solo non fa compagnia, due van bene e tre meglio ancora, non è consigliabile essere in quattro, peggio ancora in cinque: anche i latini e i romani dicevano ai loro tempi che una bella compagnia non doveva mai essere inferiore al numero delle Grazie, ma neppure maggiore a quella delle Muse. E in effetti quando si è in troppi "se stà maa anca in lett."
Le compagnie sono di tipo molto vario e cambiano a seconda degli ambienti: "in giesa coi sant, al ustaria coi birbant." Cioè, in altre parole, ci si deve comportare in relazione ai luoghi e anche ai compagni che si frequentano. Ciascuno però non deve mai dimenticare di essere se stesso in ogni circostanza: "lontan de la padèlla, che pò tenc, se t'incontret el lôf, mostregh i denc." Non bisogna frequentare cioè i cattivi compagni e comunque bisogna mostrarsi con loro riservati e dignitosi, perché "non se guadagna a sta coi poch de bon " dato che "i poch de bon, tiren tüc a perdizion."
Nè bisogna scusarsi dicendo che pur frequentando i poco di buono non si condividono le loro azioni perché "tant l'è lader quel che ròba, come quel che tegn el sach." Esiste cioè una correità che non può essere nè dimenticata nè taciuta. Completamente opposto è l'effetto della frequentazione delle brave persone dato che "tanti man fan prest el pan ", cioè si aiutano vicendevolmente senza fatica. Le norme del buon comportamento in compagnia e in società sono mirabilmente sintetizzate in quest'ultimo proverbio, di grande dignità per ogni uomo: "la vera nobiltaa la se acquista minga quand se nass, ma quand se viv."
L'amicizia
Eccoci ora all'amicizia, un sentimento che ha percorso la civiltà contadina fin nelle sue più minute membra, costituendone un punto di riferimento solido e incrollabile come la fede. Verso l'amico ci deve essere sempre attenzione e rispetto: "a l'amis pelegh el figh, a l'inimis pelegh el persegh ", questo perché la buccia del fico non va mangiata, mentre non è altrettanto per quella della pesca. L'amicizia va sempre coltivata perché se si perde un amico è difficile ritrovarlo e anche in questo caso il proverbio ricorda che "l'amicizia rinuvada l'è minestra riscaldada, che la var minga ona bolgirada e la minestra riscaldada la sa de fumm." L'amicizia rotta dunque e poi riconciliata non avrà più il primitivo ardore. Bisogna pertanto ricordarsi che "a stu mund ghe voeur di bon amis " perché chi non ha amici non fa gran fortuna. D'altra parte gli amici non sono mai troppi e tutti possono dare un aiuto, tanto che "besognarav avegh di amis anca a cà del diavul." Certamente "chi troeuva on ver amis troeuva on tesor " e chi trova un tesoro, aggiungiamo noi, trova tanti amici. Per farsi degli amici non ci vuole molto dato che "con ona presa de tabacch se fa on amis e cont ona donna se pò fà on nemis."
Inoltre "i amis bon se conossen in di occasion o in d'un bisogn." Più amaro, ma forse vero, è il proverbio che, riferendosi ai soldi, precisa che "i amis hin quej che se gh'ha in saccoccia." Così pure bisogna guardarsi dai cosiddetti falsi amici: "i fals amis hin come i mosch, che de sira a matinna, fin che gh'è de mangià stan in cusinna." E spesso nelle ristrettezze economiche le amicizie mutano carattere: "l'è strabon l'amis, l'è bon el parent, ma deventen trist quand se gh'ha nient." Nelle necessità gli amici sono una sicurezza, molto di più dei parenti, perché "l'è mej on amis che cent parent."
La scelta degli amici deve essere fatta a ragion veduta e solo dopo un adeguato periodo di conoscenza reciproca: "prima de conoss on amis besogna mangià insemma on sacch de sa." Oppure, in alternativa il popolo proverbialmente ricorda "prima de fatt on amis mangia insemma on carr de ris." Al contrario per crearsi un nemico vale questa ricetta: "se te voeu fatt on nemis impresta danee a on amis." La vera amicizia comunque è reciproca, è fatta di doni e di regali vicendevoli: "se te voeut che l'amicizia la mantegna, ona man vaga e l'oltra vegna."
L'amore
Concludiamo questo nostro piccolo excursus all'interno dei motti ambrosiani trattando di un argomento piacevole e cioè dell'amore. Quanto a questo la mentalità popolare è spietata, soprattutto verso chi ne è ritenuto ormai escluso: "A inamorass de vecc l'è de matt " o anche "matt de cadenna quel vecc che s'inamura." L'amore però non ha età e qualche volta frappone esso stesso ostacoli, come la gelosia dell'uno nei confronti dell'altro: "amor e gelosia se fan semper compagnia." L'amore comunque è sempre bello ed è tanto più bello quanto più dura perché "l'amor neouv el va e 'l ven, l'amor vecc el se manten." Quanto alla passione è un'idea delle donne che chi ha mani calde ami poco, al contrario di chi le ha fredde: "fregg de man, cald de coeur." Ma non c'è solo l'amore fisico, c'è anche l'amore fra consanguinei e in particolare fra fratelli, che non sempre è idilliaco: "amor de fradell amor de cortell." Il popolo comunque sentenzia che "chi ama i besti ama anche i cristian." Ritorniamo ora ancora alla bellezza femminile che scatena le passioni amorose, talvolta anche un po' pericolose: "chi ama ona donna maridada, la sua vita l'è imprestada " perché ad ogni momento dovrà attendersi la reazione del marito tradito. Ad ogni modo "chi parla per amor, l'amor gh'insegna." E cioè chi parla dal profondo del cuore facilmente riesce a persuadere. L'amore dà gioia ed anche afflizioni, ma tutto si riesce a sopportare in nome dell'amore: "chi patiss per amor no proeuva dolor." In fondo in fondo chi si ama si incontra sempre e cerca sempre di vedersi: "chi se voeur ben s'incontra." Questo anche perché "d'amor e d'accord va ben tuttcoss."
Non mancano tuttavia alcune ironiche osservazioni, specialmente sulle donne, il cui cuore "l'è faa come on melon, a chi gh'en dan ona fetta, a chi on boccon." Il consiglio che viene dato quando si vuol fare qualcosa fuori dell'ordinario è di andarsene "foeura del bosch a fa legna." Sempre relativamente alle donne ci sono anche bellissimi apprezzamenti, soprattutto riguardo alle loro qualità fisiche: "i oeucc negher fan guardà, e i oeucc gris fan inamurà." L'occhio bruno cioè è bello da vedere, ma è quello bigio che ruba i cuori. Anche per gli innamorati i detti popolari non riservano molta tenerezza perché "la fedeltà di moròs l'è come la fenis d'Arabia, tucc disen che la ghe sia, ma nissun sa dove la sia." Inoltre l'amore li acceca e impedisce loro di vedere la realtà qual è: "l'amor el bòffa in la lumm a la reson." Però qualche altra volta aguzza loro l'ingegno per ottenere ciò che desiderano: "l'amor fa diventà guzz anca i bocc." E quando si è innamorati c'è poco da fare e "l'amor, la famm e la toss hin tre coss che se fa cognoss."
Da maritati invece "amor, panscia, rogna e toss, hinn i coss che se fan cognoss." Guai agli innamorati starsene lontani perché "lontan di oeucc, lontan del coeur."
Concludiamo con una serie di motti che a loro modo esprimono una saggezza maturata in secoli di esperienza. La vita ad esempio è fatta di alcuni punti fermi perché "no gh'è sabet senza söl, no gh'è donna senza amor, no gh'è praa senz'erba e no gh'è camisa senza merda." Allo stesso modo il vero amore è un sentimento pulito e "or no 'l compra amor."
Così pure quando si è innamorati e si ama sul serio non si sentono più i dispiaceri: "quand se voeur ben se n'ha a maa de nagott." Infine un ultimo malizioso consiglio: "se te voeu fatt amà, lasset desiderà. Se te vedi de rar, me regordi de spess, se te vedi de spess, me regordi de rar."
Motti e storielle milanesi
Ci sono molti modi di dire a Milano, che sconfinano nella storia o fanno essi stessi storia. In quest'ultima parte ne prenderemo in esame qualcuno, una decina circa. L'ultimo riguarda direttamente sant'Ambrogio e si riferisce ad un noto episodio della sua vita che è stato narrato da Paolino, il suo primo biografo.
A batt i pagn cumpar la stria
Questa espressione è usata quando ci si vede comparire dinanzi la persona di cui si sta parlando. Equivarrebbe al latino lupus in fabula. L'origine di questo modo dire è abbastanza noto. Esso ricorda episodi antichi che accadevano al tempo in cui si credeva che esistessero le streghe, capaci de strià, cioè di fare malefici. Si dice che a quei tempi i magistrati se ne occupassero direttamente. La persona che pensava di aver subito il malocchio o si sentiva perseguitata si rivolgeva al magistrato, il quale batteva i panni di colui che aveva subito il maleficio. La prima persona che sopraggiungeva era ritenuta responsabile del malocchio e veniva condannata !
Ci sono codici e procedure giudiziarie che confermano queste circostanze.
Andà in cà Busca
L'espressione deriva da buscare e vuol dire prendere botte. A Milano andà a cà Busca significa andare incontro a un castigo sicuro, che magari per i ragazzi possono essere gli scapaccioni dei genitori. La originalità del detto sta anche nel collegare, per evidente affinità fonica, un cognome assai diffuso in Lombardia, come il cognome Busca al verbo buscare. I Busca erano anche una famiglia nobile di Milano, che era iscritta alla matricola dei Decurioni, e il cui palazzo esiste ancora in corso Magenta. Andà in cà Busca perciò significa anche andare in una casa di signori con fiducia e poi avere la dolente sorpresa di una solenne bastonatura. Bisogna però aggiungere che il detto è usato solitamente in senso poco faceto e vuol indicare più l'arrivo di un castigo meritato, che non la sorpresa di una ingiusta aggressione. Chi è stato ragazzo a Milano si è certamente sentito minacciare in famiglia di andare ... in cà Busca.
Andà in man del Pojan
Si usa anche l'espressione semm o vess in man del Pojan. Due sono i significati che vengono attribuiti a questa espressione e cioè trovarsi in cattive acque o essere in pessime condizioni di salute. Ul pujan è un uccello rapace e dunque vess in man del pujan significa essere in mano a persone che non hanno scrupoli e portano via tutto. In gergo el pojan è anche lo strozzino e l'usuraio. Alle volte si esclama riva el pujan quando si vede arrivare una persona che si crede uno iettatore. A Milano città si incontra anche un altro significato, che affonda le sue origini alla peste del 1630. A quell'epoca il Pogliani era il capo dei seppellitori a cui incombeva il compito di raccogliere i moribondi per le strade della città e di portali al cosiddetto fuppùn. Da qui il detto andà in man al Pujan, cioè trovarsi in pessime condizioni di salute, ormai moribondi.
Avegh i ann de la baila e poeu i scalin del Dòmm
Si dice di persona che si dichiara più giovane di quanto non sia. Questa battuta scherzosa e iperbolica consiglia di aggiungere agli anni di chi se ne toglie tanti da ridursi bambino non solo quelli passati a balia, ma anche il numero dei gradini del Duomo, che sono per salire ai terrazzi ben 166. Non è il caso però di aggiungere anche quelli della guglia maggiore.
Avvocatt de gronda
Tipica espressione milanese che definisce una persona un avvocato da strapazzo, uno sputa sentenze senza logica. Questo detto era diffuso specialmente nella campagna milanese e in particolare nella bassa milanese. Avvocatt de gronda erano soprannominati i contadini saccenti, che erano soliti sentenziare e dare consigli a tutti, anche non richiesti. Costoro trascorrevano le loro giornate all'aperto chiacchierando con i passanti stando appoggiati ai muri delle loro case al riparo della gronda.
Bagolón del lüster
Nei tempi andati capitava spesso di incontrare nelle piazze e nelle strade dei venditori di prodotti di consumo popolare che mostravano la loro merce nel modo più semplice, accatastandola per terra o su un tavolino improvvisato e invitavano all'acquisto i passanti esponendo loro le virtù dei prodotti. Fra questi prodotti popolari ricorreva sovente il lucido delle scarpe, che è stato introdotto a Milano e in Lombardia circa centocinquanta anni fa. Arrivava da Parigi e fino ad allora le scarpe e gli stivali si pulivano con il grasso di maiale, la sungia, mentre per dare colore si metteva la fuliggine, la carisna. Tutte le scarpe erano pertanto di colore nero. Quando arrivò il lucido per scarpe, il nuovo prodotto stentava ad entrare nei costumi della gente, per troppi anni abituati ai vecchi metodi. I venditori di lucido per riuscire a smerciare il prodotto dovevano perciò propagandare con enfasi il nuovo prodotto e spesso raccontavano un sacco di frottole, cioè di gran ball. Bagólon dunque da bagola, termine veneto, che indica discorso di molto fumo e poca sostanza, racconto fantasioso. Questi venditori per attirare la gente non solo decantavano le proprietà del lucido, ma raccontavano anche storie fantastiche con lo scopo di catturare l'attenzione dei passanti.
Vess de quii de Scinisell che pèschen la luna cont el restell
Si dice di persona sciocca, ovvero di marturott. Una leggenda vecchia di secoli narra che un contadino di Cinisello portò il suo bue ad abbeverarsi nello stagno che si trovava nella piazza principale del paese. Nello stagno si rifletteva la luna piena che, mentre il bue beveva, venne coperta da una nuvola. Il contadino vedendo sparire la luna, riflessa nello stagno, pensò che il bue l'avesse inghiottita e quindi lo sgozzò per prendersela. Amaramente sorpreso per non aver trovato la luna, afferrò un rastrello e cominciò a rastrellare l'acqua dello stagno per trovarla. Ad un certo punto la luna uscì dalla nuvolaglia e si rispecchiò nuovamente sulla superficie dell'acqua. Il contadino credette allora di aver pescato la luna dal fondo e di averla portata in superficie. Da allora gli abitanti di Cinisello sono chiamati i pescaluna.
Dervì l'anta
Significa entrare nei quarant'anni. Il significato si regge su una analogia fonetica: da quaranta anni in poi tutte le decine terminano con anta. C'è comunque un gustoso episodio che si ricollega a questo detto e interessa Alessandro Manzoni e sua moglie Enrichetta. Si racconta che Enrichetta la mattina del suo quarantesimo compleanno si presentò al marito con un sorriso dicendo "incoeu mi dervi l'anta! " Al che il marito argutamente ribatté "e mi sari sù la gelosia! " equivocando sul doppio significato della parola gelosia nel dialetto milanese (gelosia esprime un sentimento umano ma anche l'oggetto che chiude una finestra, un armadio). Domenico Balestrieri, che è stato il primo poeta a esprimersi in vernacolo milanese, dedica qualche rima all'anta:
... la stanta a fà parì de vess rivada a l'anta,
la ie porta mai ben tucc quarantun
che no ghe casca on marcadett de vun.
El perdon de Maregnan
Il significato di questa espressione sembra ermetico, ma diventa chiaro se si ricorda che Marignano è la vecchia denominazione dell'attuale Melegnano. Non a caso infatti Giacomo Medici che è stato sepolto nel duomo della città compare come marchese di Marignano. A Melegnano si celebra ancora ai nostri giorni al giovedì santo un'antica festa del perdono, durante la quale sono concesse ai fedeli speciali indulgenze. Da tutto ciò viene il detto el perdon l'è a Maregnan o el perdon de Maregnan, che i milanesi usavano con chi aveva compiuto qualche malefatta e doveva subire un giusto castigo. Se il colpevole invocava una non meritata indulgenza, si sentiva talvolta rispondere che el perdon l'è a Maregnàn, ossia il perdono lo si concede a Melegnano, perché a Milano se si sbaglia, si paga.
Le sa Palletta o nanca s'el ven giò el Palletta
Si dice di un caso di difficile spiegazione o di cosa che non può verificarsi per nessun motivo. Gian Battista Palletta (Montecretese dell'Ossola 1748 - Milano 1832) diventò medico a Padova e poi esercitò a Milano. Fu nominato chirurgo primario dell'Ospedale Maggiore e scrisse opere in latino. Tra i suoi allievi vi fu il Monteggia. Palletta ebbe fama di uomo generoso e di medico sapiente. Acutissimo diagnostico, curatore sagace e talvolta bizzarro, per le sue prestazioni largamente caritatevoli e per la stranezza di abitudini e di modi, fu popolare quanto mai, tanto che in vita e dopo la sua morte fiorirono leggende intorno alla sua figura e alle sue capacità di guaritore. Come curiosità si ricorda il Ragguaglio di alcuni esperimenti fatti negli anni 1784-1785 sull'efficacia delle lucertole prese internamente (inghiottite vive) e in cui descrive il fatto strano di una donna che trangugiò "centoventi lucertole grosse, vive e ben animate."
Vess on Palletta significò per molti anni essere un medico d'alto valore o atteggiarsi a tale. Se nanca el Palletta ven giò vuol dire che non ci sono cure che possono guarire, cioè, per analogia, ciò che si desidera non si può realizzare.
Vess come el caval de sant Ambroeus Andèmm
Concludiamo la nostra esposizione con sant'Ambrogio. Il detto è riferito a chi si dà molto da fare ma combina poco o niente. Racconta Paolino che, morto il vescovo Aussenzio nel 374, a Milano scoppiarono tumulti fra cattolici e ariani per la nomina del nuovo successore. Il prefetto Ambrogio si recò nella basilica per esortare il popolo alla pace e alla concordia. Il suo discorso fece effetto e subito un bambino si mise a gridare "Ambrogio vescovo! Ambrogio vescovo! ". La folla si unì con entusiasmo alla proposta. Ambrogio, turbato, cercò di sottrarsi alla richiesta popolare e cercò di fuggire a cavallo da porta Vercellina. Ma il mattino seguente - forse persosi nella nebbia autunnale - dopo una notte di galoppo, si ritrovò a porta Comasina, là dove ora sorge la chiesa di sant'Ambrogio ad Nemus, cioè sant'Ambrogio presso il bosco. Il popolo storpiò, a ricordo di tanto andare, il latino ad nemus nel più milanese Andèmm.
Proverbi ambrosiani
L'è on omm de quij de Sant'Ambroeus
Si dice di un uomo bonario e leale. Paolo Giovio nella sua Raccolta dell'Atanagi conferma questa interpretazione quando scrive che è "Uomo del popolo grasso e leale di Santo Ambrosio."
El par ch'el sia in collera cont Sant'Ambroeus
Si dice di persona torva e irascibile.
La gesa de Sant'Ambroeus andèmm
Si riferisce alla chiesa di sant'Ambrogio ad nemus in un boschetto alle porte di Milano ora incorporata nell'Ospizio per vecchi di don Guanella.
Bev in la tazza de Sant'Ambroeus
Questo detto è citato nelle Istorie del Villani del 1351 e è usata per chi si comporta ingenuamente, è un credulone, un semplice che vive all'antica come ai tempi di sant'Ambrogio.
Santa Luzia l'è tua l'è mia
cun la bursa del papà
santa Luzìa la rivarà
San Nicolò el porta i pomm
Sant'Ambroeus i a fà cös
la Madona i a mangiarà.
Proverbi raccolti dai ragazzi della IV elementare di Cassago
Se per sant'Ambroeus nun vegnarò per sant'Antoni nun mancarò.
A sant'Ambroeus con la tazzina a scaldà i pè sott al camin.
A sant'Ambroeus la legna storta la drizza ul foeuc.
A sant'Ambroeus ul frècc el cöeus.
A sant'Ambroeus tàches al foeuc.
A sant'Ambroeus ul capòn el cöeus.