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Giuseppe redaelli: AMBROGIO, L'UOMO, IL FILOSOFO

 Lapide che ricorda sant'Ambrogio nella omonima Basilica a Milano

Milano: lapide che ricorda Ambrogio in Basilica di sant'Ambrogio

 

 

 

AMBROGIO, L'UOMO, IL FILOSOFO

di Giuseppe Redaelli

 

 

 

In questa occasione mi propongo un compito molto arduo, quello cioè di parlarvi del rapporto fra la personalità di Aurelio Ambrogio, vescovo di Milano e santo, e la sua riflessione filosofica. Devo ammettere che molti specialisti riterrebbero questo compito senz'altro ingrato, e quasi impossibile: in effetti, ci manca, per Ambrogio, quello che Platone ci ha lasciato con la Settima Lettera, o un'opera come le Confessioni di sant'Agostino, che ci illustri pienamente le esigenze che lo indussero a riflettere su determinati aspetti del mondo e della Rivelazione cristiana. Anzi, quasi mai, nell'opera del grande vescovo milanese, vi sono riferimenti espliciti alla propria storia personale. In secondo luogo, nessun'opera di Ambrogio si presenta come propriamente filosofica; al contrario, i vari argomenti filosofici che il Nostro ha trattato sono sparsi qua e là nei suoi scritti. Un compito ingrato, dunque. Se non fosse che ... Se non fosse che la forte personalità di sant'Ambrogio riesce sempre a trasparire nei suoi scritti, e tutti gli elementi filosofici che fanno capolino nella sua opera presentano una certa unità di fondo che ci permette di presentarli come se fossero un insieme organico e sistematico. Perciò, in fondo, non mi prefiggo un compito così impossibile. Anzi.

Nello svolgere questo mio compito, metterò in atto un piccolo stratagemma, di cui voglio avvisarvi subito. Cercherò infatti, nonostante l'estrema esiguità dei documenti in nostro possesso, di parlarvi della personalità e del pensiero di Ambrogio nella loro genesi. Presupporrò, inoltre, un'unità e una coerenza interna maggiori, in quel pensiero, di quello che gli elementi in nostro possesso permetterebbero. Infine, cercherò di ricostruire, in un discorso più verisimile che veritiero (ma quale discorso storico non lo è, almeno in parte? ), quali connessioni possano esservi fra il pensiero di Ambrogio e la sua personalità. Il primo problema che ci porremo è già contenuto nel titolo del mio intervento: Ambrogio era senz'altro un uomo, ma possiamo sostenere senza ombra di dubbio che fosse anche un filosofo? In effetti, nella sua trattazione del Nostro, il grande storico della filosofia Étienne Gilson ci dice che Ambrogio non si abbandonò mai a sistematiche ed approfondite riflessioni metafisiche. Altri storici, poi, non si pongono neppure il problema, ed assegnano ad Ambrogio un posto di eminente letterato, poeta, politico, statista, teologo ... ma non di filosofo. Insomma, Ambrogio era un filosofo? Parrebbe proprio di no, se non fosse che ...

Non cercherò di risolvere, per ora, questo dubbio: darò invece per scontato che Ambrogio fosse, in qualche modo, un filosofo, e cercherò di condurvi alla scoperta della sua personalità e della sua filosofia, mostrandovi come e dove, in che ambito queste si siano sviluppate, piuttosto che cercare di seppellirvi da subito sotto una valanga di nozioni e concetti. Il grande filosofo francese del 1600, Réné Descartes, scrive, nella Risposta alle Seconde Obiezioni alle sue Meditazioni Metafisiche, che, di quanto ci viene dato già bell'e pronto su di un piatto d'argento, ci resterà impressa una minima parte; ciò che, invece, ci sarà mostrato nel suo nascere, poco per volta, e quasi come se lo scoprissimo noi stessi, lascerà in noi una traccia indelebile: spero anch'io, col mio lavoro, di poter giungere a tanto.

Iniziamo perciò il nostro percorso cercando di immaginarci un bambino di buona famiglia nella Roma della seconda metà del IV secolo. Quando questo bambino, cui è stato dato il nome del padre, Aurelio Ambrogio, compie il settimo anno di età, la sua famiglia assume un pedagogo, che gli insegni i rudimenti del leggere e dello scrivere. All'età di undici anni, poi, il nostro bambino intraprende gli studi intermedi, o propedeutici. Il corso di studi latino, così come quello greco, era fondato sulle "sette arti liberali ", così chiamate perché si pensava aiutassero l'uomo ad essere libero, spiritualmente ed intellettualmente, e perché si riteneva che soltanto un uomo nato libero potesse dedicarsi al loro studio. Queste Arti Liberali venivano suddivise nel Trivio e nel Quadrivio: facevano parte del Trivio la Grammatica, la Dialettica e la retorica, del Quadrivio l'Aritmetica, la Geometria, la Musica e l'Astronomia.

Ambrogio inizia il proprio studio, come tutti i bambini romani dell'epoca, proprio dalla Grammatica. Grammatica significa, da un lato, lo studio delle regole lessicali che formano il discorso; d'altro lato, però, il Grammaticus, cioè il maestro di Grammatica, aveva l'importante compito di formare la cultura e la sensibilità del proprio allievo. L'insegnamento della Grammatica veniva svolto abitualmente sui testi dei poeti latini, che lo studente veniva costretto ad imparare a memoria. Il poeta maggiormente studiato era Virgilio, da cui Ambrogio impara ad ammirare e ad amare le meraviglie del mondo naturale. Tutta l'opera dell'Ambrogio maturo sarà piena d'ammirazione per la Natura in tutti i suoi aspetti: così, nell'Inno che canta il sorgere del sole, o nell'Exameron, che esalta la creazione della Natura, e persino nelle lettere sulla disputa per l'Ara della Vittoria viene tratteggiata la grandiosità e la stupefacente perfezione del mondo naturale.

Dopo la Grammatica, il Trivio comprende la Dialettica e la Retorica, rispettivamente l'Arte di pensare bene e l'Arte di saper parlare bene. Autorità e fonte di studio per queste due materie erano soprattutto i testi del grande retore romano, Cicerone, su cui Ambrogio si forma all'ideale del doctus orator, di un oratore cioè che sappia unire saggezza ed eloquenza, e i cui discorsi sappiano essere utili per chi li ascolta; con Cicerone, inoltre, il Nostro consolida le proprie radici di Romano, imparando il valore di una vita spesa al servizio dello Stato, nel fare il bene della comunità prima che il proprio; ed imparando quelle virtù, la grandezza d'animo, la volontà di fare il bene senza chiedere nulla in cambio, il senso del dovere, che guideranno la sua vita ed il suo operato, nello Stato, prima, e nella Chiesa, poi. Ecco dunque che già nella prima infanzia - dobbiamo pensare intorno ai quindici anni - Ambrogio ha formato quella personalità che poi conserverà, naturalmente approfondendola, per tutta la sua vita di adulto e che conserverà anche durante il suo incarico di vescovo, cioè, da un lato, un amore molto forte per il mondo della natura, dall'altro un comportamento virtuoso, ligio al dovere, un carattere forte e moderato. Allo studio del Trivio faceva tradizionalmente seguito quello del Quadrivio, da cui il giovane romano traeva le proprie conoscenze scientifiche; dobbiamo però ricordare che, nel mondo romano, gli studi scientifici venivano spesso trascurati per favorire quelli di carattere letterario e giuridico, più utili per intraprendere una carriera all'interno dello Stato. Superati gli studi propedeutici, Ambrogio si dedica perciò proprio a quegli studi specialistici, cioè agli studi di legge e di eloquenza, che gli avrebbero aperto la carriera in tutto il mondo romano. Contemporaneamente a questi studi specialistici, era tradizione che i giovani romani di buona famiglia approfondissero degli studi filosofici, cioè che leggessero, nel tempo libero, autori che venivano, per la mentalità dell'epoca, considerati filosofi: Filone d'Alessandria, i Padri greci, ma anche Platone, Aristotele ...

Da questi studi filosofici Ambrogio deve aver ottenuto una buona conoscenza della filosofia cosiddetta "pagana", cioè della filosofia precedente alla Rivelazione cristiana, del Platonismo e di Platone, del Medio e del Neoplatonismo. Il Platonismo, l'Aristotelismo, lo Stoicismo e l'epicureismo formavano la base su cui tutti i romani, Cicerone fra tutti, avevano riflettuto in campo filosofico. Ma quella che giova maggiormente ad Ambrogio, in questi anni, è la lettura di un gruppo di pensatori e scrittori di lingua greca, di poco antecedenti, da cui trae uno strumento importantissimo per la sua attività di vescovo: l'arte dell'Ermeneutica. Ermeneutica è un termine di origine greca che significa "interpretazione", e con cui si intende, innanzitutto, l'interpretazione del testo sacro. Come ci narrano molti autori dell'epoca di Ambrogio, primo fra tutti Agostino, quando, abituato com'era agli scrittori greci e latini, dallo stile limpido ed ornato, e che trattavano i loro temi con sottigliezza e rigore, un romano o un greco colto leggeva la Bibbia, si stancava ben presto del suo stile disadorno e dei suoi contenuti all'apparenza così grossolani, e finiva così per abbandonarne lo studio. In realtà, come avevano scoperto i Padri Greci, sotto la rozzezza del testo letterale si nascondevano altri significati più profondi, che l'arte dell'Ermeneutica aiutava a portare alla luce: si riconoscevano, così, un significato "allegorico", che allude cioè a verità più profonde di quelle trasmesse dalla lettera; un significato "morale", che suggerisce all'uomo un comportamento da seguire in tutte le circostanze della vita; ed infine un significato "psicagogico", che mostra cioè la via per ricondurre l'anima a Dio. Ambrogio utilizzerà, nelle sue esegesi, i significati letterale, allegorico e morale: nella sua opera, il significato psicagogico tende invece a fondersi con quello allegorico e morale. Con questo bagaglio di studi, Ambrogio entra nella sua vita adulta, dapprima come funzionario all'interno dell'Impero Romano, e in seguito come vescovo. Ricordiamo ancora i punti fondamentali del carattere che si è formato in questo periodo: amore e sentita meraviglia di fronte allo spettacolo della natura innanzitutto, ma soprattutto ha sviluppato quello che potremmo definire un "senso pratico", approfondendo così le sue radici di Romano. I Romani, rispetto ai Greci, erano una nazione molto più pratica, molto meno dedita alle sottigliezze metafisiche, e lo stesso Ambrogio, come anche giustamente ha detto il Gilson, sarà poco incline, nel corso delle sue riflessioni filosofiche, agli approfondimenti metafisici: la sua riflessione, il suo pensiero si svilupperanno soprattutto nel contatto con i suoi fedeli, e sarà un pensiero scaturito dal contatto vivo con la realtà quotidiana che Ambrogio, in quanto vescovo, deve affrontare: perciò non sarà tanto un pensiero scaturito da una riflessione amante delle sottigliezze metafisiche, quanto un tentativo di risposta ai problemi che i fedeli dovevano affrontare quotidianamente.

Ambrogio, come pensatore, si pone soprattutto come pastore, come insegnante: tenta di risolvere quei problemi che praticare quotidianamente il cristianesimo pone ai suoi fedeli, in primo luogo ai cittadini di Milano, ma anche a tutti i cristiani che a lui si appellano, primo fra tutti l'imperatore, per il quale Ambrogio scriverà la sua opera "Sulla fede", un compendio della religione cristiana, un riassunto cioè che cerca di spiegare ad un laico i capisaldi della religione cristiana. Ecco dunque da cosa scaturisce la filosofia, il pensiero, la riflessione di Ambrogio: dal suo rapporto, dal suo contatto, dal suo dialogo con la realtà quotidiana.

E vediamo perciò quali sono i problemi che lui affronta in questo contatto quotidiano con la realtà. Innanzitutto, il cruciale problema dei cristiani nel mondo. Il cristianesimo, i cristiani si erano sempre posti in modo ambiguo nei confronti della realtà quotidiana, nei confronti del mondo in cui vivevano: infatti Gesù, nel Vangelo, dice: "Il mio Regno non è di questo mondo"; nel II secolo, un testo apologetico, cioè un testo in difesa del cristianesimo, l'anonima Epistola a Diogneto, ribadirà questo concetto scrivendo che il cristiano deve tutto sopportare all'interno della su città, all'interno della sua patria, perché in realtà lui non appartiene a quella patria; è in quella patria soltanto di passaggio, come un pellegrino che sosti, per un po' di tempo, in una locanda, in attesa di proseguire il suo viaggio verso la sua vera patria, cioè verso la patria celeste.

Tuttavia, con l'espandersi del Cristianesimo e con il suo avvicinarsi allo statuto di religione di Stato, e perciò con il suo estendersi a fasce sempre più vaste della popolazione, il cristiano finiva per trovarsi sempre più inserito in una realtà, quella del mondo, che da principio doveva considerare semplicemente passeggera. Il cristiano si trovava cioè inserito non più soltanto passivamente, ma proprio come "agente" all'interno del mondo. Ecco dunque il problema: quale valore deve dare il Cristiano al mondo, alla quotidianità, sapendo contemporaneamente che il mondo non è la sua patria, cioè sapendo che lui in questo mondo è soltanto di passaggio? Il cristiano si trova a dover fare quotidianamente i conti con un mondo, che in realtà non è il suo: quale valore deve dare al mondo, e in definitiva, come deve comportarsi nei confronti di questo mondo, che atteggiamento deve prendere? Alla domanda su quale valore abbia il mondo per l'uomo, già altre religioni avevano cercato di dare risposta: da un lato le varie Gnosi, di derivazione neoplatonica e cristiana, avevano fornito un'interpretazione del mondo secondo cui la realtà materiale può solo essere male. D'altro canto, alcune religioni misteriche di origine orientale, come i culti di Mitra e di Iside, veneravano alcuni corpi celesti, come il sole e la luna, come dei. Abbiamo così queste due concezioni, da un lato, il mondo inteso come nullità, come parvenza, come non esistenza, dall'altro abbiamo un mondo, di cui alcuni elementi sono addirittura venerati come divinità: due concezioni totalmente opposte. Ma quale valore, si chiede Ambrogio, dobbiamo dare al mondo?

Possiamo cercare di ricostruire, sulla base dei testi, la riflessione di Ambrogio a questo riguardo. Partiamo dalla constatazione che l'uomo interagisce col mondo attraverso i suoi cinque sensi, l'udito, la vista, l'olfatto, il gusto eccetera. Consideriamo un corpo materiale qualsiasi, per esempio un verme o una mela, di cui percepiamo una certa forma, determinate dimensioni, un certo colore, una certa consistenza, un certo gusto etc.

Come il nostro oggetto, tutti i corpi materiali hanno una determinata forma, un determinato aspetto. Ora, questo fatto, che ogni corpo abbia una determinata forma, costituisce per quel corpo un limite: prendendo ad esempio una mela, molto semplicemente ad un certo punto la mela finisce ed inizia qualcos'altro, per esempio l'aria accanto alla mela. D'altro canto, il limite è anche di natura temporale: la mela, prima, non era mela, era un fiore; prima di essere un fiore faceva parte dell'albero, e così via. Quello che ci interessa è che la mela, prima di essere mela, non c'era. Ad un certo punto, la mela marcirà: per cui la mela, dopo essere stata mela, dopo essere esistita come mela, cesserà di esistere.

Ecco dunque che cosa noi sperimentiamo, in primo luogo, nelle cose fisiche: sperimentiamo il fatto che queste cose prima non esistono, poi esistono, poi non esistono più. Queste cose passano cioè dal non esistere, dalla non esistenza, alla non esistenza attraverso un breve attimo di esistenza; la loro esistenza è quasi inconsistente, perché nel momento in cui dalla non esistenza vengono all'esistenza iniziano a non esistere: la mela invecchia, l'uomo invecchia, un adulto non è più un bambino, per cui non esiste più il bambino ma esiste l'adulto. Perciò l'esistenza degli oggetti di questo mondo è tutta compenetrata di non esistenza, cioè del suo opposto. Detto in un altro modo: la vita degli oggetti di questo mondo è tutta compenetrata di morte; nel momento in cui le cose di questo mondo nascono, già iniziano a morire, aveva detto molto prima di Ambrogio un filosofo romano, Seneca. All'esistenza delle cose di questo mondo è essenziale, è connaturata la morte.

Possiamo allora chiederci se non vi sia qualcosa che sia assolutamente esistente, qualcosa che sia in sè vita, che non abbia morte nella propria vita, che non abbia non esistenza nella propria esistenza. Ambrogio trova la risposta a questa domanda nella Scrittura: nel Libro dell'Esodo (3,14), quando Mosè parla col roveto ardente, e chiede a Dio "Chi sei Tu? Chi devo dire che mi manda?", Dio gli risponde con una parola che in ebraico si scrive con quattro consonanti: "YHWH", e che noi siamo abituati a leggere Yahwèh oppure Geova. Questa parola viene dal verbo ebraico *havà, che significa "esistere". Ambrogio, tuttavia, non conosceva l'ebraico, ma leggeva la Bibbia nella versione latina. Ebbene, nella versione latina nota ad Ambrogio, questa parola viene tradotta con l'espressione "Ego sum qui sum", cioè "Io sono colui che sono", intendendo il verbo "essere" nel suo senso "esistenziale".

Il verbo essere, come lo usiamo correntemente in italiano, può infatti avere due valori: innanzitutto un valore che noi chiamiamo di "copula", come nell'espressione "io sono un uomo", "la fragola è rossa" (funzione copulativa, in cui il verbo "essere" unisce un soggetto ed un predicato); d'altro canto possiamo anche dire "c'è il fiore", oppure "c'è questo tavolo": in questo caso il verbo "essere" ha valore cosiddetto "esistenziale", indica cioè che quella cosa di cui si parla esiste.

Perciò, nell'espressione biblica "Ego sum qui sum", "Io sono colui che sono", la parola "sum" ("sono") ha valore esistenziale. Qui è come se Dio dicesse a Mosè: "Io sono quello che esiste", "Io sono l'unica realtà che esista veramente", "Tranne me, non vi è nessun'altra realtà di cui tu possa dire: 'quello esiste veramente' ": ecco che cos'è Dio.

Contemporaneamente, la Bibbia attribuisce a Dio i nomi di giusto, ordinatore, sommamente buono, e perciò Sommo Bene a cui l'uomo deve tendere: e tutti questi attributi sono già contenuti, come ripiegati nella qualifica di "unico vero esistente".

Tuttavia, se noi consideriamo davvero Dio come l'unico vero esistente, ogni altra cosa che venissimo a considerare ci apparirebbe un falso esistente, un'apparenza; contemporaneamente, se noi diciamo di Dio che è Lui l'unico, vero Bene, allora ogni altra cosa che non sia Dio non sarà vero Bene, sarà quanto di più lontano ci sia dal vero Bene, sarà cioè l'opposto del Bene: sarà male. In questo caso, come senz'altro si può notare, stiamo dando ragione agli gnostici, che dicono il mondo falsa esistenza e male. Naturalmente, Ambrogio è contrario a questa tesi. Ma allora, qual è, per lui, il vero valore del mondo? Ritorniamo così alla domanda da cui siamo partiti.

Nella Settimana Santa del 387, Ambrogio, proprio per rispondere a questa domanda, terrà nove Discorsi, o Omilie, sul I° capitolo del Genesi, sulla descrizione biblica, cioè, dei primi sei giorni della Creazione. Poco dopo, queste Omilie verranno trascritte e raccolte in un libro che prenderà il nome di Exameron, titolo grecizzante che significa "(il trattato) dei Sei Giorni."

In quest'opera, che è forse una delle sue opere più famose, Ambrogio tratta proprio del valore del mondo per il cristiano. Il mondo, dice Ambrogio, è creatura di Dio, è stato creato da Dio: infatti il libro del Genesi, primo libro della Bibbia, si apre con la frase: "In principio creavit Deus Coelos et Terras", "In principio Dio creò i cieli e la terra", cioè creò la totalità del Creato, la totalità del mondo. In quanto creazione di Dio, il mondo come si configura? Se Dio è mente ordinatrice, primo ordinatore, il Mondo avrà un proprio ordine interno, ordine che corrisponde, da un lato, all'assoluta armonia fra le diverse parti del mondo; e dall'altro che corrisponde ad un preciso disegno contenuto nella mente divina. Allorché nel Genesi poi si scrive: "E Dio vide che era cosa buona", questa formula confuta automaticamente Gnostici e Manichei, perché il testo sacro ci sta dicendo proprio il contrario di ciò che loro sostengono, sostenendo che Dio ha visto la bontà del mondo, cioè ha visto il mondo confacente al proprio originale disegno, quel disegno per cui, Egli sommamente buono, lo ha creato.

Il mondo, però, è anche un "fenomeno", dal greco ζαινομενον "fainomenon" che significa "manifestazione": il mondo è una manifestazione di Dio: innanzitutto della sua Potenza: quale essere avrebbe potuto creare una realtà tanto grande, splendida, sublime ? Qui, in queste pagine, si vede veramente tutto l'amore e la stupita meraviglia che Ambrogio prova per le realtà naturali. Quale essere avrebbe potuto creare un mondo così perfetto, se non l'essere più potente, anzi, l'essere capace di tutto, onnipotente ?

Il mondo ci parla inoltre della Sapienza di Dio: le sue parti, dalle più piccole, dal minuscolo filo d'erba al granello di polvere al verme che striscia sulla terra, alle più grandi, all'uomo come all'elefante, sono manifestazione della Sapienza di Dio di manifestare il piccolo con il grande, di armonizzare vicendevolmente tra loro elementi perfettamente eterogenei, come tanti tasselli di un immenso mosaico, in cui ogni cosa acquista il proprio posto e la propria funzione, in sè e nell'ordine complessivo del Tutto.

Oltre a tutto questo, il mondo è poi, per usare un'espressione famosa, un libro, cui Dio ha dato lo scopo di insegnare agli uomini. Questa concezione del mondo è molto importante, perché influirà moltissimo sulla filosofia cosiddetta "medievale", del periodo fra il V secolo d.C. e il XV secolo d.C. circa; anzi, questa concezione del mondo non influenzerà solo la filosofia, ma anche mille anni di mentalità comune: per tutta la durata del Medioevo, anche il più semplice e illetterato contadino sapeva guardare al mondo per trarne, attraverso tutta una rete di simboli e segni, preziosi insegnamenti.

Ambrogio ci invita ad osservare il mondo, per trarne gli insegnamenti morali, che Dio stesso vi ha inserito. Per esempio, se si guarda alla grandiosità del Creato, automaticamente si comprenderà quanto sia piccolo l'uomo rispetto a colui che di questa grandiosità è l'Autore, anzi, perfino rispetto al mondo: l'uomo, scrive Ambrogio nell'Exameron, è solo un filo d'erba, è una realtà effimera, transeunte. E' giusto perciò che l'uomo impari, proprio da questa visione del mondo, a diventare umile.

Allo stesso modo, osservando il comportamento di alcuni animali, l'uomo può trarre tutta una serie di altri insegnamenti. Questa osservare il comportamento degli animali, tuttavia, non è certo originale: era già presente nell'antica favolistica greca e latina (pensiamo alle favole di Esopo, o a quelle di Fedro, poi riprese, in epoca più recente, da La Fontaine. C'è tutta una tradizione che trova, nei comportamenti degli animali, degli insegnamenti per l'uomo). La particolarità della visione condivisa da Ambrogio con altri Padri della Chiesa è che l'animale è da esempio per l'uomo perché Dio lo ha ordinato e voluto: fra i ruoli dati da Dio all'animale, vi è anche quello di insegnare all'uomo.

Di questo troviamo, sempre nell'Exameron, un esempio molto bello. Ambrogio sta descrivendo la vipera. Ci dice che la vipera femmina si accoppia, per continuare la propria specie, con un animale marino, la murena. Per fare questo la vipera si reca sulla spiaggia, richiama la murena che si trova nel mare, e, quando la vede giungere a riva, sputa tutto il proprio veleno per potersi accoppiare con lei senza danneggiarla. Da questo esempio della vita animale al suo livello più basso, dovrebbero trarre spunto i mariti e le mogli: le mogli sono tutte piene di malignità nei confronti di un marito che la sera torna a casa tardi dal lavoro, e come la vipera rigetta tutta la propria malignità, la propria astiosità quando si deve unire con la murena, anche le nostre donne, che, in quanto esseri umani sono tanto superiori alla vipera e alla murena, dovrebbero lasciar da parte la loro astiosità, nel momento in cui si incontrano con lo sposo. E' questo genere di precettistica, molto colorita, che costituisce la caratteristica più appariscente dell'opera di Ambrogio.

Ecco perciò che cosa è il mondo per Ambrogio: un Tutto, un organismo perfettamente ordinato, in cui ogni parte è in sè rispondente ad uno scopo, ma ha anche uno scopo nell'insieme complessivo, rispetto alle altre parti. In generale, il mondo è tale da essere costruito per l'uomo (pur non essendo costruito esclusivamente per lui): come libro che impartisce un insegnamento, il mondo rimanda a qualcuno che raccolga, riceva l'insegnamento impartito: l'uomo. Ecco perciò che la discussione sul valore del mondo ci porta a riflettere sul valore dell'uomo.

Qui si presentano molti altri problemi. I primi cristiani, e qui ci è testimone san Paolo, erano soliti macerare le proprie carni per perfezionarsi alla vita spirituale.

Se prendiamo per esempio il Vangelo di Giovanni, troviamo scritto che, se non moriamo nella nostra carne, non potremo rinascere alla vita spirituale. San Paolo ricorda, nell'epistola ai Romani (14, 2 ss.), che alcuni cristiani della comunità primitiva erano soliti isolarsi dai loro confratelli, flagellarsi, astenersi dal cibo, dall'acqua, fustigare e castigare le proprie carni, per cercare di ottundere i sensi fisici ed elevare il proprio spirito oltre questo mondo, verso la divinità. Già san Paolo sosteneva, tuttavia, che non era necessario che tutti i cristiani seguissero questa via verso il perfezionamento; questa via era solo per chi si sentiva portato a percorrerla, ma ve n'erano tante altre altrettanto valide, forse anche più valide. Questo richiamo all'ascetismo, comunque sia, risuonerà per tutta l'epoca della cristianità: famosi sono, nel II e III secolo, i Padri del Deserto, persone che si isolano dalle comunità dei loro simili e si ritirano in luoghi isolati, nel deserto, per cercare di perfezionarsi alla vita spirituale. Un esempio ai tempi di Ambrogio è un personaggio che nutrì verso il vescovo di Milano un certo astio: san Girolamo, che, da Roma si era ritirato nella solitudine della Palestina per cercare di raggiungere la perfezione cristiana. Contemporaneamente, gli Gnostici, cui abbiamo già accennato, sostenevano, seguendo Plotino e i neoplatonici, che il corpo umano è in realtà prigione, e quasi una morte spirituale, per la vera essenza dell'uomo, da loro individuata nello Spirito o Anima intesi come scintilla divina, e perciò insegnavano ai loro seguaci a seguire i rigori di una vita ascetica per purificarsi ed essere in grado di avvicinarsi alla divinità. Ambrogio, che, come dicevamo all'inizio, è un romano, dal forte senso pratico, non può condividere fino in fondo questo punto di vista: pensa che gli eremiti siano da lodare, li ammira per la loro scelta di vita veramente eroica, ma non condivide quella scelta. Per Ambrogio anche il corpo umano, la carne è creazione di Dio: anzi, proprio nel corpo umano si manifesta, più che in tutto il resto del Creato, quell'armonia fra parti assolutamente diverse fra loro, la potenza e Sapienza divine che già si erano manifestate nel resto del Mondo.

Il corpo umano, ci dice Ambrogio, è una specie di "microcosmo" uno specchio in piccolo dell'Universo, che perciò viene detto "microcosmo."

Tuttavia, la Bibbia ci pone un problema fondamentale. Dio infatti ha detto: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza". L'uomo dovrebbe perciò essere, se non proprio simile, almeno somigliante a Dio. Come può essere, il corpo, immagine di Dio? Abbiamo infatti visto che Dio è esistenza assoluta, vita assoluta, mentre persino la vita dei corpi del mondo è intrisa di limite, è intrisa di morte. I sensi dell'uomo, così, sono limitati: se guarda un oggetto, l'uomo non può vederne un altro, se ascolta un rumore non ne sente un altro, e così via. I sensi dell'uomo sono limitati dal loro essere "qui ed ora." Tuttavia, dice Ambrogio, c'è una parte dell'uomo che non possiede i limiti della carne: l'uomo, così, vive nel presente, qui ed ora, ma contemporaneamente, attraverso la memoria, può vivere nel passato, e attraverso l'immaginazione, la fantasia, può esplorare tutti i suoi futuri possibili. Sempre attraverso l'immaginazione, l'uomo può essere in molti luoghi contemporaneamente; con la propria volontà è libero d'agire, di volere, come Dio è libero d'agire e di volere. Ecco perciò in che cosa l'uomo è immagine e somiglianza di Dio: nella sua memoria, nella sua immaginazione, nel suo pensiero, che sono senza limite.

E tutte queste facoltà, memoria, immaginazione, pensiero, non appartengono certo al corpo, che abbiamo visto limitato; appartengono invece alla parte superiore dell'uomo, al suo vero essere dell'uomo: l'anima. Perciò, quando Dio dice: "facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza", si riferisce, innanzitutto, all'anima.

La corporeità, perciò, è parte del Cosmo, parte del Creato, parte della meraviglia del mondo, mentre l'anima è quella scintilla divina posta nel corpo dell'uomo che lo rende simile a Dio. Tuttavia, la Scrittura insegna che l'uomo non è completamente immagine e somiglianza di Dio, poiché anche l'anima ha determinati limiti, qui ed ora, nella nostra realtà, rispetto a come dovrebbe o potrebbe essere secondo l'originario progetto di Dio. La Scrittura infatti ci insegna che l'anima è decaduta, in seguito al peccato originale.

Il mito, contenuto in Genesi 3, 1-11, è molto noto, e qui non sarà necessario richiamarlo. Ambrogio ci ricorda, tuttavia, che dobbiamo andare oltre il senso letterale della Scrittura. Se ci rifacciamo infatti al senso allegorico nascosto dietro alla lettera, scopriamo nel mito della Caduta delle verità più profonde: così la parola ebraica 'Adam, da cui l'italiano "Adamo", significa appunto "uomo", e l'uomo, in quanto immagine di Dio, è prima di tutto la sua anima: nel racconto biblico, perciò, parlando di Adamo, ci si riferisce in realtà all'anima. L'Eden, poi, non è un luogo, ma lo stato di assoluta felicità in cui si trovava l'anima prima della Caduta, e i quattro fiumi che lo circondano sono figure della Grazia di Dio e delle tre virtù che noi oggi chiamiamo "teologali ": la fede, la speranza e la carità. Nell'Eden viene poi posta l'anima: questo significa che nell'originario progetto di Dio l'anima, per merito della Grazia di Dio, e fornita delle tre virtù teologali, è assolutamente felice.

A questo punto compare, nella Creazione, la figura della donna, Eva, che, secondo Ambrogio, rappresenta i sensi, la sensualità: così l'anima (Adamo), nel disegno divino, è strettamente legata ai sensi (Eva); ma nel giardino dell'Eden v'è anche il serpente, che nell'analisi ambrosiana, simboleggia il piacere, cioè la felicità ricercata solo attraverso i sensi. Significato del mito biblico della Caduta è perciò che l'uomo, invece che permanere nella Grazia con le tre Virtù, ha preferito seguire i propri sensi allettati dal piacere. In questo modo confonde una felicità di grado inferiore, la felicità immediata dei sensi, con la vera felicità. Questa è l'origine della sua infelicità e miseria.

Il corpo umano, in realtà, come abbiamo già detto, è creazione divina, bellezza, perfezione: decade, diventa come "un vestito logoro", secondo l'espressione di Ambrogio, dal momento in cui non viene più riconosciuto nella sua natura, ma come meta della propria felicità. La Scrittura, ricorda Ambrogio, ci offre però anche un modo per riscattarci, una via che ci riporti allo stato originario di felicità. L'Antico Testamento esemplifica questa via nel passo che narra il viaggio di Abramo dalla città di Ur fino alla terra di Canaan. Abramo, nella città di Ur, non si trova nella sua vera patria. Dio, allora, gli parla in sogno, invitandolo a lasciare questa città per recarsi nella terra che ha preparato per lui e per la sua discendenza. Nell'interpretazione allegorica di Ambrogio, Abramo è figura dell'uomo caduto, che nella condizione attuale (la città di Ur) non possiede la vera felicità. Dio, però, si avvicina all'uomo (nel mito, parlando in sogno ad Abramo) e gli ricorda che non si trova nello stato che il suo Creatore aveva inizialmente progettato per lui: l'azione di Dio intende scuotere l'uomo dalla sua illusione di felicità, dal sonno in cui è caduto, e prefigura anche l'azione del Cristo, mandato da Dio nel mondo per salvare l'uomo.

Abramo, destatosi dal sonno, raccoglie la sua gente e le sue cose, e inizia un lungo e tortuoso viaggio verso la terra promessagli: così anche l'uomo che ascolta l'invito di Dio abbandona l'illusoria felicità in cui si trova, e intraprende il viaggio verso la felicità.

Il cammino verso la felicità, tuttavia, sarà lungo e tortuoso, perché l'uomo, dopo la caduta, è sempre più allettato dai propri sensi, e tende a dimenticare che suo vero e proprio essere è l'anima, di cui il corpo è solo uno strumento. Nello stato di caduta l'anima è come ottenebrata dai sensi, quasi dimentica di se stessa. Nel momento in cui si risveglia, l'anima inizia si a ricordare la propria vera patria, e desidera ritornarvi, ma di tanto in tanto, lungo la via, è ancora sottoposta alle tentazioni dei sensi. Alla fine, Abramo arriverà nella terra di Canaan: questo è il messaggio di speranza che Ambrogio trova nella Scrittura e che dà all'uomo, che, alla fine, è previsto che il Cristiano arriverà alla Patria Eterna (Chi cerca troverà), ritroverà la Beatitudine che un tempo ha smarrito.

A questo punto, vorrei fermarmi nella mia esposizione di una pur piccola parte del pensiero di Ambrogio, in parte perché temo che, non essendo avvezzi a questo modo di ragionare filosofico, che pure ho semplificato molto, possiate per così dire fare indigestione, e in parte perché, vista l'ora, temo possiate addormentarvi sulle vostre sedie. Queste linee, che vi ho qui soltanto accennato, sono forse la parte più interessante ed originale del pensiero filosofico del vescovo di Milano.

Rimane allora da risolvere la questione che ci siamo posti all'inizio: insomma, Ambrogio è un filosofo, oppure no ? La grande maggioranza degli studiosi nega l'originalità di Ambrogio come filosofo, e molti lo accusano ripetutamente di plagio: già un contemporaneo di Ambrogio, san Girolamo, scrive, a proposito dell'Exameron, che il vescovo di Milano non ha fatto altro che copiare spudoratamente da Basilio. Da un certo punto di vista, questa accusa è senza dubbio fondata: Ambrogio, infatti, pesca a piene mani dalla tradizione di pensiero a lui precedente e contemporanea, e persino dalla filosofia pagana. A riguardo di quest'ultimo punto, tuttavia, Ambrogio doveva sentirsi pienamente giustificato: ai suoi tempi, infatti, era ormai opinione corrente che gli antichi greci avessero tratto la loro filosofia dalla Bibbia; perciò un cristiano, la cui religione era vista come prosieguo e completamento dell'ebraismo, plagiando i filosofi greci, non fa altro che riappropriarsi di dottrine già in origine appartenenti alla sua tradizione. D'altronde, nel momento in cui si rifà ai contemporanei, penso che Ambrogio sia altrettanto giustificabile: intanto, nessuna filosofia nasce dal nulla, ma si basa su di un humus preesistente, fato di letture precedentemente assimilate, al punto che molto spesso un autore finisce inconsapevolmente per citarne un altro; anzi, anche in questo caso, le idee assorbite vengono rivisitate filtrate dalla propria personalità, come appare evidente in tutta l'opera di Ambrogio. Così, quando Ambrogio riprende nel suo Exameron le idee del testo di Basilio, Exameron, che tratta dello stesso argomento, lo fa alla luce della propria personalità: qui possiamo vedere la sua originalità.

In conclusione, penso che Ambrogio sia un filosofo, anche se un filosofo come poteva esserlo un romano, certo non un sottile metafisico come lo sarebbe stato un greco. Da lui non possiamo aspettarci quello che ci attenderemmo da Gregorio di Nissa, o da Gregorio di Nazanzio, sottili argomentazioni estranee alla sua natura. Possiamo invece da lui aspettarci una profonda riflessione sui problemi contingenti che il cristiano deve affrontare nella vita di tutti i giorni: perciò una profonda riflessione morale, sui valori della salvezza e del mondo. In questo senso, preso in quest'ottica, Ambrogio può essere considerato un filosofo. Preferirei usare tuttavia, nel definirlo, la parola "pensatore", perché la riflessione del pensatore racchiude, rispetto a quella del filosofo, una libertà maggiore, essendo meno concentrata sullo svolgimento formale del suo pensiero. Se prendiamo come esempio Agostino d'Ippona, vediamo che egli, pur partendo dal dato scritturale e presupponendolo alla base della propria riflessione, sviluppa il proprio discorso in modo autonomo, attraverso il ragionamento, verificando solo alla fine che il risultato collimi con l'ortodossia; Ambrogio, viceversa, non esita nel corso del proprio ragionamento a richiamare l'autorità della Scrittura per sostenere le proprie tesi. In questo senso, Ambrogio è meno "filosofo" di un Agostino, perché meno rigoroso nel metodo, e per questo preferisco definirlo un pensatore, riconoscendone tuttavia la fecondità e l'originalità.

Ambrogio pensatore credo possa dirci molto anche oggi, nonostante tutti i pregiudizi negativi che oggi abbiamo su certo Platonismo cristiano, come negatore della positività del mondo, del corpo, della vita. Una positività che invece Ambrogio ci ha insegnato.