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Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Settimana 1998 > Enrico RossiLa mia vocazione ha camminato con don Giovanni Motta
Cassago: l'entrata di don Motta nel 1948
LA MIA VOCAZIONE HA CAMMINATO CON DON GIOVANNI MOTTA
di mons. Enrico Rossi
Anch'io sono nativo di Villasanta e don Giovanni è stato il sacerdote che mi ha indirizzato in seminario, che ha seguito la mia vocazione. Qui a Cassago il 27 giugno 1955 ho celebrato la prima messa. Dopo la mia consacrazione sono stato infatti ospite per due giorni da don Giovanni prima di tornare prete novello a Villasanta.
Sono quindi molto legato a don Giovanni sia per le radici comuni sia per quel che poi è seguito. Venivo spesso in bicicletta da Villasanta a Cassago dove restavo tutto il giorno. Io sono veramente sorpreso, ammirato e anche riconoscente per questo ricordo di don Motta che è un segno di amore verso una persona straordinaria.
Ciò non è facile da cogliere perché don Motta ha svolto il suo ministero in una linea non tradizionale ma personale, quasi autonoma, libera. Voglio rifarmi a qualche episodio che possa tracciare delle linee che mi sembrano importanti per valutare l'opera di don Motta.
La prima parte dal buio della guerra. Noi andavamo da Villasanta a Monza tutti i mesi a piedi la sera tardi anche d'inverno con l'oscuramento a quella che era l'adorazione notturna. Si teneva o nella chiesa dei Barnabiti in Carrobiolo oppure all'oratorio Redentore presso il Duomo di Monza. Ebbene in quelle occasioni don Giovanni meditava a voce alta. Prendeva una frase della scrittura, una parola ascoltata e faceva come un triangolo: la Parola di Dio, gli avvenimenti che accadevano e i suoi sentimenti, le sue emozioni di fronte e a confronto dell'una con l'altra. Questo modo di meditare a voce alta, questa contemplazione esternata è stata per me una scoperta e mi ha insegnato a pregare.
Per quanto la preghiera sia un cammino dove si apprende sempre credo che in me la sua origine stia proprio lì in quelle meditazioni a voce alta alla maniera di don Giovanni. Anch'io da parroco ho tentato qualche volta di ripetere quell'esperienza di fronte all'Eucaristia. Don Giovanni parlava, gli altri ascoltavano e lo seguivano. Mi è parso che la gente si accordasse e tenesse la sua lunghezza d'onda. A unire l'assemblea che pregava sembrava proprio che fosse il Signore.
Don Giovanni aveva ben presente questo pensiero perché Dio era il punto di partenza e di arrivo. Di queste adorazioni notturne un po' avventurose in piena guerra mi è rimasto nel cuore un dolce ricordo e tanta gioia ed è lì che c'è anche la radice della mia chiamata al sacerdozio, che don Motta ha avuto l'intuizione di discernere e di coltivare. A merito suo va riconosciuto l'aver capito che i ragazzi o anche i giovani che sentivano la chiamata del Signore, dopo aver seguito una certa strada di studi o di lavoro, avrebbero dovuto recuperare anni e anni in seminario. Ebbene la sezione vocazioni adulte è iniziata a Villasanta con don Corno che è morto parroco a Carugo, con don Ambrogio Melzi, ancora parroco a Cusano Milanino, con un certo Adelio che adesso è in Sud Africa e con me. Io mi ricordo che don Motta apriva la sua casa per noi.
Mi ricordo la faccia brusca di sua sorella con tutti quei ragazzi che andavano e venivano per casa e le sue lamentele per quel latino che tagliava l'aria e le macchie d'inchiostro sparse su fogli ed altro. Don Giovanni invece era contento.
Mi ha accompagnato sempre e mi ricorderò sempre le lunghe passeggiate qui a Cassago nei giardini del parco della Villa Visconti. C'era un lungo viale di carpini e lui lo percorreva avanti e indietro parlando. Con la sua cinquecento mi ha condotto un giorno a Bevera dopo aver fatto l'esame di maturità nel 1950. Aveva intuito che io volevo fare il salto di qualità e mi chiese: "Insomma ci stai o non ci stai ? ..."
Mi ha specificato quali erano le strade con tanta naturalezza ma senza minimamente forzare la mia volontà. Mi lasciò la libertà di scegliere.Questo significa che lui era un direttore di coscienze, un formatore di coscienze.
Non era dunque solo un intellettuale, ma un vero maestro. Mi ha accompagnato pure dopo durante i primi anni del mio ministero sacerdotale. Si è ricordato più volte che don Giovanni era come il menestrello di Dio: cantava, cantava sempre. Quando veniva in casa mia cantava e noi dicevamo: ecco che viene don Giovanni ! Anche di fronte a sua madre che stava morendo don Giovanni cantava. E' capitato a me di essere presente in quella occasione: il dottore era uscito dalla camera sconcertato scuotendo la testa dicendo: "Ma com'è sua madre sta morendo e lui canta ..."
Cosa significa tutto ciò ? Credo che ciò rappresenti la fede totale nel Signore. E' il rimando a Dio che è più forte di tutti gli avvenimenti che possono accadere nella vita. Don Giovanni aveva questo dono in modo unico e lo sapeva comunicare a tutti gli altri. Infine vorrei accennare alla sua sofferenza e in particolare alla sua sofferenza morale. Qualcuno si sarà domandato perché don Giovanni, così istruito e colto, non abbia fatto la carriera ecclesiastica. Don Giovanni non vi aveva rinunciato, anzi desiderò a un certo punto qualche gratificazione. Ma essendo un tipo un po' particolare, la rigida disciplina canonica non riuscì ad accettarlo e lo considerò sempre qualcosa di diverso e lo mise in disparte.
Mi ricordo di una volta che venne il cardinal Colombo a Cassago. Don Giovanni non era il tipo che preparava o predisponeva secondo la rigida etichetta liturgica. Nonostante ci fosse l'arcivescovo egli era là semplicemente con il secchiello e l'aspersorio: forse non si è inteso con il chierichetto. Fatto sta che il cardinale lo rimproverò dicendogli pasticcione !
Me l'ha ripetuto quel pasticcione tante volte con forza, con energia e mi diceva "sai, con una voce che è tra il prendere in giro e il rimprovero". Sensibilissimo, aveva sofferto a lungo quel rimprovero. Credo che questo episodio rappresenti bene l'atteggiamento dei suoi superiori nei suoi confronti, un atteggiamento che evidenzia quanta prevenzione ci fosse verso di lui. Tutto ciò l'ha fatto soffrire parecchio e va aggiunto che la sofferenza morale può anche generare la sofferenza fisica.
Quando andai a Erba a trovarlo lo trovai mentre parlava con un compaesano nell'atrio dell'ospedale. Guardandomi scuoteva la testa e accusava di essere ormai al rendiconto. Gli feci coraggio, da buon figlio spirituale, ma lui era cosciente di ciò che l'aspettava. Nella quiete di Cassago Agostino pensò: questa frase me la ricordo scritta nella chiesa di Cassago.
Don Motta teneva in mente questa frase, ma penso e sono convinto che questa meditazione continua di chi era, da dove veniva e dove andava, egli l'abbia sempre avuta. Egli fu come un discepolo di quel grande ricercatore mai sazio e mai esausto che fu proprio sant'Agostino.