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gloria camesasca: l'influenza del pensiero agostiniano nella letteratura

 La relatrice dott. Gloria Camesasca durante la sua prolusione

Settimana 2006: la relatrice Gloria Camesasca

 

 

 

L'influenza del pensiero agostiniano nella letteratura: da Dante a Petrarca e oltre

di Gloria Camesasca

 

 

 

INTRODUZIONE

Scopo di questa indagine è quello di scoprire quale fu l'influenza del pensiero agostiniano nella letteratura europea. Il primo autore che si è scelto di prendere in esame è Gonzalo de Berceo, che è considerato il padre fondatore della letteratura spagnola. Seguono poi una serie di autori italiani a partire ovviamente da Dante Alighieri, per passare poi alla seconda Corona, Francesco Petrarca. Non poteva poi mancare Santa Teresa d'Avila, ma anche Alessandro Manzoni. Per il Novecento si è scelto di considerare Giovanni Papini e infine un autore a noi più vicino: Carlo Cremona.

 

ALLE ORIGINI DELLA LETTERATURA SPAGNOLA: GONZALO DE BERCEO

Gonzalo de Berceo [1] viene considerato un autore fondamentale della produzione letteraria spagnola, non tanto perché si colloca all'inizio di tale letteratura nazionale, ma perché fu il primo autore spagnolo ad apporre la propria firma sulle sue opere. Tutti gli scrittori venuti prima di lui, infatti, componevano delle opere, ma non vi mettevano mai il loro nome. Per questo motivo ancora oggi Gonzalo viene considerato come il vero padre fondatore della letteratura spagnola, dato che lo si conosce non solo per le sue caratteristiche stilistiche, ma anche per le sue vicende biografiche.

Gonzalo de Berceo era un chierico secolare. Non si sa con precisione quando nacque, ma possiamo ricostruire alcune tappe fondamentali della sua vita a partire da alcune analisi di documenti d'archivio. Infatti in un documento del 1221 Gonzalo viene citato con la qualifica di diacono; tale carica la si poteva raggiungere non prima di 25 anni, dunque si può fissare come termine ante quem dell'anno di nascita del chierico spagnolo il 1196.

Proseguendo nell'indagine sui documenti d'archivio si può ritrovare Gonzalo, ormai diventato chierico, citato tra il 1228 e il 1246. Inoltre sappiamo che Gonzalo proveniva da una regione della vecchia Castiglia, di nome Rioja. Nonostante fosse un semplice chierico e non un monaco, era particolarmente legato a due monasteri: quello di San Millàn de la Cogolla, molto importante nel Medioevo, perché collocato lungo la via del pellegrinaggio che portava a Santiago; e il monastero di Santo Domingo de Silos. Le opere di Gonzalo possono essere suddivise in tre gruppi principali:

  • Quelle di tipo liturgico-dottrinale
  • Le vite di San Domingo de Silos e di San Millan de la Cogolla, commissionate dagli stessi monasteri. Questo tipo di produzione veniva letto ai pellegrini che si fermavano nel convento, durante una sosta del loro pellegrinaggio. Fornivano, dunque, un momento di riflessione e di meditazione sul mistero cristiano.
  • Le opere mariane, tra le quali occupano una posizione di tutto rispetto i Milagros de nuestra señora.

I Milagros de nuestra señora utilizzano il cuaderna via, che era il metro tipico del mester de clerecìa, che indicava il modo di poetare delle persone dotte, in contrapposizione al mester de juglarìa, proprio invece degli artisti di strada. L'opera si compone di 25 miracoli, preceduti da un prologo. In questa Introducciòn troviamo la descrizione di un giardino incantevole, nel quale il pellegrino si viene a trovare. Esso appare come un prato verde e incontaminato, cosparso di fiori, con quattro fonti chiare che vi sgorgano e dei bellissimi alberi da frutto sui quali cantano degli uccelli dal verso soave e dolcissimo. Ovviamente tale straordinario giardino che corrisponde alle caratteristiche del classico locus amoenus, ha un significato allegorico preciso, che ci svela l'autore stesso nella seconda parte del suo prologo. Infatti Gonzalo ci dice:

 

"Signori e amici, quello che abbiamo detto

è parola oscura, desideriamo spiegarla

togliamo la corteccia, entriamo nel midollo,

prendiamo ciò che sta dentro, lasciamo ciò che sta fuori." [2]

 

Questa quartina è fondamentale, perché segna il passaggio dalla parte propriamente descrittiva a quella didascalica, nella quale si spiegano le allegorie usate. Il pellegrinaggio è una metafora per indicare la vita, il prato indica la Verginità di Maria, i fiori simboleggiano gli appellativi della Vergine, gli alberi da frutto i miracoli da lei compiuti, che saranno narrati in questa opera. Inoltre l'ombra che gli alberi proiettano e sotto la quale si può riposare indica le preghiere di Maria; le quattro fonti che vi scaturiscono simboleggiano i quattro evangelisti, che quando composero le loro opere, si consultarono con la Vergine.

 

"Las aves que organan     entre essos fructales

que an las dulzes vozes,     dizen cantos leales,

estos son Agustino,     Gregorio, otros tales,

quantos que escrivieron     los sos fechos reales."[3]

"Gli uccelli che cantano tra questi alberi da frutto

che hanno voci dolci e cantano canti devoti,

questi sono Agostino, Gregorio e altri tali,

quelli che scrissero le Sue imprese reali."

 

Dunque in questa quartina Gonzalo ci spiega che nella sua straordinaria costruzione allegorica gli uccelli simboleggiano i Padri della Chiesa. Gonzalo compose i Milagros de nuestra señora tra il 1228 e il 1246, dunque negli anni immediatamente precedenti alla fondazione dell'Ordine Agostiniano. Comunque la figura e l'opera del Vescovo di Ippona avevano già profondamente influenzato la letteratura europea. Agostino viene annoverato da Gonzalo tra i Padri della Chiesa, che avevano parlato della Vergine Maria e ne avevano esaltato le imprese, tutti con stili diversi e modalità differenti, ma ugualmente uniti in un'unica vera fede salvifica.

 

 

L'AGOSTINISMO IN DANTE

Nella Divina Commedia due sono i riferimenti espliciti alla figura di Sant'Agostino ed entrambi sono collocati nel Paradiso [4]. Il primo che incontriamo è al canto X, mentre Dante si trova nel quarto cielo, quello del Sole.

Paradiso X, vv. 118-120 [5]:

 

Ne l'altra piccioletta luce ride

quello avvocato de' tempi cristiani

del cui latino Augustin si provide.

 

Sullo sfondo di una luce molto intensa Dante distingue dodici luminosissime anime beate: sono gli spiriti sapienti, filosofi e teologi del Medioevo. La luce che prende la parola è quella di Tommaso D'Aquino, che rivela i nomi di quelli che splendono accanto a lui: Alberto Magno, Francesco Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi l'Aeropagita, Paolo Orosio, Severino, Boezio, Isidoro di Siviglia, Beda, Riccardo di San Vittore e Sigieri di Brabante. L' "avvocato dei tempi cristiani" di cui si parla in questa terzina è Paolo Orosio, storico spagnolo del V secolo, autore dei celebri Historiarum libri VII adversus Paganos, nei quali, mettendo sistematicamente in cattiva luce gli avvenimenti storici del tempo pagano, difendeva quello cristiano. Nel verso successivo si ricorda che Agostino nel De civitate Dei cita il capolavoro di Paolo Orosio a sostegno delle sue tesi.

Il secondo riferimento ad Agostino, lo troviamo quasi alla fine dell' Itinerarium in Deum,  nel canto XXXII:

 

Paradiso XXXII, vv. 28-36:

 

            E come quinci il glorioso scanno

de la donna del cielo e li altri scanni

di sotto lui cotanta cerna fanno,

            così di contra quel del gran Giovanni,

che sempre santo 'l diserto e 'l martiro

sofferse, e poi l'inferno da due anni;

            e sotto lui così cerner sortiro

Francesco, Benedetto e Augustino

e altri fin qua giù di giro in giro. 

 

Con la guida di San Bernardo, il pellegrino impara l'ordinamento della rosa dei Beati: sono distinti in due ampi gruppi, quelli che credettero in Cristo venturo e quelli che credettero in Cristo venuto. A operare la divisione sono due file verticali che si fronteggiano, formate rispettivamente da Maria con le matriarche bicliche, e da Giovanni Battista, con i Padri della Chiesa. Il "glorioso scanno / de la donna del cielo" indica ovviamente il trono glorioso della Vergine Maria, mentre gli "altri scanni" sono quelli delle matriarche progenitrici della stirpe ebraica. "Cotanta cerna" indica proprio questa suddivisione importante della rosa dei Beati. "gran Giovanni" allude a Giovanni Battista, che visse in santità nel deserto e subì il martirio. Inoltre essendo morto circa due anni prima di Cristo, dovette andare per due anni all'Inferno, prima di essere liberato da Cristo stesso e portato nel Paradiso. Sotto Giovanni Battista, furono destinati da Dio a dividere la rosa dei Beati ("così cerner sortiro") San Francesco, fondatore dell'Ordine dei Frati Minori, San Benedetto, fondatore dell'Ordine  benedettino e Sant'Agostino, Padre della Chiesa e ispiratore dell'Ordine Agostiniano.

Parlando di Gonzalo de Berceo, avevamo sottolineato come l'Ordine Agostiniano non era ancora stato fondato. Invece in questo caso, dato che sappiamo che l'ultima cantica fu composta tra il 1316 e il 1321, l'Ordine Agostiniano era già stato fondato da parecchi anni. Il verso 35 può sembrare, a prima vista, solo come un elenco di nomi, e invece è di fondamentale importanza per il nostro tema, dato che Dante ricorda i fondatori dei tre principali Ordini attivi nel periodo in cui lui visse: i Francescani, i Benedettini e gli Agostiniani. Sotto di loro ci sono anche altri personaggi, che Dante però non cita. Dunque, i tre nomi che ricorda, sono quelli più importanti.  

Dopo aver analizzato questi due passi, bisogna però soffermarsi sul dibattito sorto sull'agostinismo nella Divina Commedia. Infatti per lungo tempo molti studiosi ed esegeti danteschi si sono lamentati per la mancanza di un episodio agostiniano nell'opera dantesca. Avrebbero voluto che Dante, così come ha incontrato Tommaso d'Aquino o San Bonaventura e si è intrattenuto a parlare con loro, così avrebbe dovuto incontrare anche Agostino e scambiare qualche parola con lui.

Infatti Dante non era affatto digiuno nella conoscenza delle opere e del pensiero del vescovo di Ippona. Dopo la perdita della donna amata, si consola leggendo il De amicitia di Cicerone e il De consolatione philosophiae, di Boezio. Per approfondire gli argomenti filosofici in essi trattati comincia a frequentare le scuole filosofiche di Firenze, dove si svolgevano le disputazioni dei filosofanti che prevedevano sia delle riunioni, o conferenze, per lo più periodiche o occasionali, oppure delle dispute pubbliche, che avevano luogo proprio nella sede dello Studio Generale, con i presenti che potevano fare domande o intervenire nel dibattito con obiezioni o richieste di ulteriori spiegazioni. Gli Studi frequentati da Dante a Firenze erano i seguenti: 

  • Studio generale di Santa Maria Novella, sede dei domenicani
  • Studio generale di Santa Croce, sede dei francescani, dove si leggevano opere di Sant'Agostino e dei mistici (San Bernardo, Ugo e Riccardo da san Vittore, S. Bonaventura)
  • Scuola di Santo Spirito, sede degli Agostiniani, dove ovviamente si conducevano studi intensi e approfonditi sulle opere agostiniane

All'interno di questo acceso dibattito [6] vi furono alcuni studiosi che ritennero che Dante aveva omesso un episodio specificatamente agostiniano, perché in realtà era più vicino al tomismo aristotelico che al platonismo agostiniano. Ma Calcaterra fornì una pronta risposta a queste affermazioni ricordando che "nella serenità superiore della Divina Commedia l'antitesi polemica tra tomismo e agostinismo è già risolta [7]".

In sostanza sono stati gli esegeti che si sono creati una contrapposizione tra due dottrine filosofiche, che è ben lungi dall'essere veramente presente nell'opera dantesca, che è l'espressione poeticamente più sublime dell' armonia e della concordia universale [8].

Oggi molti critici sono più inclini a ritenere che Agostino occupasse un ruolo di primissimo piano nelle conoscenze e nella cultura di Dante, al punto che non ebbe alcun bisogno di inserire un episodio specifico su di lui, nella sua opera. L'influenza del pensiero agostiniano era talmente presente nella mente dantesca, che egli creò dei continui rinvii ad essa: ci sono così delle spie implicitamente "agostiniane" disseminate all'interno dell'opera da scovare e da analizzare.

 

Inferno I, vv. 70-72:

 

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,

e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto

nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

 

In questo passo in cui Virgilio si sta presentando a Dante, dobbiamo concentrare la nostra attenzione sul verso 72, l'ultimo della terzina. Il sintagma "dèi falsi e bugiardi" ricorda infatti un passo del secondo libro del De civitate Dei "deos falsos fallacesque" [9]. Dante non dichiara esplicitamente la fonte dalla quale sta attingendo l'espressione, ma è inequivocabile che si rifaccia al sintagma contenuto nella celebre opera agostiniana.

 

Lino Pertile, che ha fatto della intertestualità il vessillo del suo fare critica letteraria, ha condotto diversi studi per stabilire il repertorio delle fonti dantesche, individuando tutti quei referenti letterari e linguistici che costituivano una vera e propria koine. Tra questi occupano un posto di primaria importanza i Padri della Chiesa e i mistici, i cui testi nell'età medievale erano molto più letti e conosciuti di quanto purtroppo non avvenga oggi. Tra di essi spicca ovviamente anche la figura del Vescovo di Ippona.

 

Purgatorio XXIV, vv. 49-60:

 

            Ma dì s'i' veggio qui colui che fore

trasse le nove rime, cominciando

Donne ch'avete intelletto d'amore [10]".

 

E io a lui: "I' mi son un che, quando

Amore mi spira, noto, e a quel modo

ch'è' ditta dentro vo significando."

"O frate, issa vegg'io" diss'elli, 'il nodo

che 'l Notaro e Guittone e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!

            Io veggio ben come le vostre penne

di retro al dittator sen vanno strette,

che de le nostre certo non avvenne;

 

Dante si trova nella sesta cornice del Purgatorio, dove si trovano i golosi pentiti e dove incontra il poeta fiorentino Forese Donati, fratello di Corso e Piccarda, grande amico del pellegrino dell'aldilà. Forese si trova già nel Purgatorio, grazie alle preghiere di sua moglie Nella, unica donna di Firenze che sia rimasta onesta. Forese accompagna Dante e gli mostra alcuni personaggi degni di nota, tra cui il poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca, con cui Dante ha un lungo colloquio. I versi sopra riportati si riferiscono proprio alle battute iniziali del dialogo tra i due poeti. Dante viene definito da Dante come colui che componendo "Donne ch'avete intelletto d'amore" inaugurò un nuovo modo di fare poesia. Infatti viene ricordata proprio la canzone-manifesto della poesia stilnovistica dantesca, che si distingue nettamente da quella di altri poeti contemporanei, come Guinizelli e Cavalcanti: la donna-angelo di Dante, non è un ostacolo o una distrazione dall'amore verso Dio, ma al contrario un veicolo che permette al poeta di raggiungerlo più facilmente.  Dante ricorda, però, in questo celeberrimo passo, come avviene la composizione delle sue poesie: Amore lo ispira e lui scrive esprimendo esattamente ciò che il cuore gli detta.

Bonagiunta sottolinea come una sorta di nodo trattenga lui, il notaio Jacopo da Lentini e Guittone  dall'aderire anche loro a quel modo compositivo. In questo caso Lino Pertile ha identificato una stretta somiglianza con un'immagine contenuta nel De arte venandi cum avibus di Federico II. Il falconiere tiene in mano una longa e c'è un nodo che impedisce alla fune di scorrere fuori dall'anello. Questo sarebbe il nodo al quale allude Bonagiunta. Invece Dante come un falcone ben addestrato è lasciato libero di volare verso la preda. Libero ovviamente nella misura in cui è guidato da Amore. Bonagiunta, infatti ricorda come le ali del falcone-Dante seguano il dettatore Amore da vicino, libere da ogni impedimento. Evidente è il richiamo ad un passo delle Enarrationes in psalmos di Sant'Agostino, mentre viene commentato il salmo 21:

 

"Vuoi vedere come sia il tuo amore? Osserva a che cosa ti spinge. Non vi esortiamo , quindi, a non amare, ma a non amare il mondo, affinchè possiate amare con libertà Colui che ha creato il mondo. Un'anima irretita dall'amore terreno è come se avesse del vischio nelle penne: non può volare. Quando invece è pura da quegli affetti luridi che l'attaccano al mondo, può - per così dire- volare con ambedue le ali spiegate: le sue ali sono libere da ogni impedimento [11]."

 

Evidentemente Dante recupera questo passo dell'opera agostiniana, adattandolo al contesto specifico nel quale gli serve.  Dall'amore inteso nell'universo agostiniano come Dio, si passa all'amore inteso in senso più concreto.  Agostino si chiede quale sia l'amore buono. La risposta è che bisogna vedere dove conduce. Infatti l'anima purificata vola verso Dio, invece l'anima irretita dall'amore terreno è come un uccello che non può volare, perché le sue penne sono cosparse di vischio [12].

 

Gli esempi avrebbero potuto essere molti di più, ma bastino questi due per mostrare come l'opera dantesca sia fittamente intessuta di impliciti riferimenti alle opere di Agostino. Il Vescovo di Ippona ben lungi dall'essere stato dimenticato dal pellegrino dell'aldilà nel resoconto del suo Intinerarium mentis in Deum, è una presenza viva e costante all'interno della sua opera. Bisogna solo essere abili esegeti danteschi e profondi indagatori per saperne cogliere i segnali della sua presenza disseminati ovunque.

 

 

L'AGOSTINISMO IN PETRARCA

Agostino influenzò molto profondamente non solo l'opera, ma anche la vita [13] di Francesco Petrarca [14]. Fin dalla giovinezza, infatti, si procurò i libri del Vescovo di Ippona. Mentre si trovava ad Avignone acquistò il De civitate Dei, secondo Pierre de Nolhac nel 1325 [15]; Girardi [16], invece sostiene che ciò avvenne solo nel 1326.

Nel 1333 Dionigi da Borgo San Sepolcro, un monaco agostiniano, grande amico di Petrarca, gli donò le Confessioni, un libro che aiutò l'autore dei Rerum vulgarium fragmenta non solo a capire meglio il pensiero di Sant'Agostino, ma anche a comprendere meglio se stesso. Nel 1374 fu lo stesso Petrarca che donò questa copia delle Confessioni al giovane teologo agostiniano Luigi Marsili.

Le Confessioni erano state il libro della sua vita e della sua fede e prima di morire volle che fossero lasciate in buone mani, tra i libri di un giovane studioso promettente che si sarebbe poi addottrinato alla Sorbona, e le cui opere, purtroppo, oggi non è possibile leggere, perché sono andate completamente perdute [17].

Petrarca mostra subito di avere un rapporto molto particolare con Sant'Agostino, infatti non è per lui soltanto un autore prediletto, ma anche un vero e proprio modello di vita. Tale è l'influenza esercitata su di lui dal Vescovo di Ippona, che lo definisce "quel mio diletto padre" nel sonetto XL dei Rerum vulgarium fragmenta [18]. Inoltre Sant'Agostino è il protagonista di una delle più celebri opere petrarchesche: il Secretum o De secretu conflictu curarum mearum, composta nel 1342-43 [19]. L'opera è suddivisa in tre libri: nel primo il Vescovo di Ippona invita il poeta ad una continua meditazione sulla morte; nel secondo analizza i sette vizi capitali, prendendo in considerazione soprattutto l'accidia, una radicale insoddisfazione di sé e del mondo, vizio caratteristico di Petrarca; nel terzo, infine analizza altri due peccati che sono fortemente radicati nel poeta: il suo amore per Laura e il suo costante desiderio di gloria.

Il seguente passo è tratto proprio dal terzo libro, e contiene le battute conclusive dell'opera:

 

Agostino: "Ricadiamo nell'antica contesa: chiami impotenza la volontà! Ma così sia, quando non può essere altrimenti! Supplico Iddio che ti segua nel tuo cammino e voglia far giungere al sicuro i tuoi passi, ancor che erranti".

Francesco: "Deh! Possa sortirmi quanto domandi, sicchè sotto la guida divina io esca salvo da tanti avvolgimenti e, seguendo Dio che mi chiama, non m'abbia a gettare da me stesso la polvere negli occhi; e si plachino i flutti dell'animo, taccia il mondo e non rumoreggi la fortuna"

 

La battuta conclusiva di Agostino allude all'inizio dell'opera, dove il Vescovo di Ippona si era forzato di dimostrare al poeta che nulla, tranne la scarsa volontà, può impedire di liberarsi dalle passioni e dagli allettamenti terreni, e che il difetto di Francesco era proprio quello di non volere con sufficiente energia. Il personaggio che porta il nome di Petrarca alla fine del Secretum dunque non cambia, non realizza alcuna conversione. Egli ammette il chiarimento spirituale che gli hanno procurato quei tre giorni di dialogo e ne ringrazia la vigile Verità. Tuttavia tale chiarimento varrà ad accrescere il fervore della introspezione e a rendere sempre più lucida e precisa l'analisi dei conflitti dell'anima che il poeta continuerà ad esprimere nelle sue opere.

Inoltre la frase che Agostino rivolge a Francesco adombra un passo delle Confessioni, in cui sua madre Monica si rivolge preoccupata ad un Vescovo perché induca il figlio a staccarsi definitivamente dall'eresia manichea, falsa e mendace. Il Vescovo invita la donna a pregare Dio e a fidare negli studi del figlio, che certo lo avrebbero prima o poi liberato dagli errori nei quali ora si trovava completamente invischiato.

Il passo al quale si allude è quello contenuto nel libro terzo delle Confessioni:

 

"Lascia che se ne stia così; solo prega il Signore per lui: studiando troverà da sé la natura

e l'empietà di quegli errori [20]

Petrarca volle inserire questo riferimento alla celebre opera agostiniana per aprire a futuri sviluppi il finale dell'opera e al tempo stesso dare maggiore spessore al rapporto tra i dialoganti.

A proposito di Petrarca e del suo "speciale rapporto" con Sant'Agostino non si può non ricordare una delle lettere più celebri della sua raccolta delle Familiari, quella indirizzata all'amico e maestro Dionigi da Borgo San Sepolcro, frate agostiniano. In essa, a prima vista, Petrarca sembra raccontare un episodio della sua vita: la salita al monte Ventoso compiuta insieme al fratello Gherardo.

Arrivati in cima al monte, i due fratelli si siedono per riposarsi e Francesco apre a caso il libro delle Confessioni, che aveva portato con sé e ne legge un brano. Questa lettura apparentemente casuale ci svela il vero significato dell'episodio narrato in questa epistola: il viaggio verso l'alto, verso la cima del monte, si risolve in un itinerario della mente verso l'interiorità dell'anima, alla scoperta del senso più profondo della propria spiritualità [21].

 

…mi venne in mente di consultare le Confessioni di Agostino, dono della tua amicizia; libro che in memoria dell'autore e del donatore, porto sempre con me e sempre ho tra mano; libretto di piccola mole, ma pieno di dolcezza. L'apro per leggere quel che mi capitava; e cosa mi poteva capitare, che non fosse pieno di pietà e di devozione? Mi venne sott'occhio il decimo libro. Mio fratello aspettando per la mia bocca una parola di Agostino, era tutto orecchi. Chiamo a testimonio Dio e lui ch'era presente, le prime parole che vidi furono: "E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei fiumi e l'immensità dell'oceano e il corso delle stelle; e trascurano se stessi.[22]"

 

In questo passo si può riscontrare con quanta gelosa cura Petrarca custodiva il libro delle Confessioni, che Dionigi da Borgo San Sepolcro, lo stesso destinatario di questa missiva, gli aveva regalato. Questo libro viene studiato con assiduo zelo da Petrarca e come si vede bene dal resoconto di questo episodio, non manca di ricompensare il suo attento lettore con alcune perle di saggezza. La frase che attira l'attenzione di Petrarca e che viene da lui letta ad alta voce è proprio il caso di dire che capiti proprio al momento giusto, a suggellare un'esperienza intensa del grande poeta. Inutile sottolineare che l'intera costruzione dell'episodio richiami da vicino un celeberrimo passo delle Confessioni, quello in cui si assiste alla conversione di Agostino. Infatti il Santo in quel momento intensamente spirituale della sua vita, sente un richiamo infantile, una sorta di cantilena che gli dice "Tolle, lege!" Egli capisce subito che si tratta di un monito divino, e si avvicina al tavolo dove aveva lasciato il libro con le epistole di San Paolo, che era oggetto delle sue letture e riflessioni in quei giorni. Lo apre a caso e legge le Sacre Parole che gli capitano sott'occhio. In esse è contenuto un invito esplicito ad abbandonare le piacevolezze della lussuria, per rivestirsi completamente del vero Dio: proprio le parole che Agostino aveva bisogno di sentirsi dire in quel frangente. Giunti a questo punto, è inutile proseguire la lettura; ma il suo fidato amico Alipio trova nel versetto successivo l'invito esplicito a sorreggere chi è ancora debole nella Fede. Questo passo rivela il carattere straordinario delle Sacre Scritture: un libro multiforme e variegato che contiene il messaggio giusto per ogni suo lettore.

 

"Così tornai con emozione grande al luogo dove era seduto Alipio: era lì infatti che avevo posato il libro dell'Apostolo, alzandomi. Lo afferrai e lo apersi in silenzio lessi il primo passo sul quale mi caddero gli occhi: "Non più bagordi e gozzoviglie, letti e lascivie, contese e invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non fate caso alla carne e ai suoi desideri" [23]. Non volli leggere oltre e neppure occorreva [24]."

 

L'influenza del pensiero agostiniano è dunque particolarmente intensa in Petrarca non solo come autore di opere letterarie, ma anche come uomo, nel senso più pieno della parola.

 

 

L'IMPRONTA AGOSTINIANA IN LUDOVICO DA STRASSOLDO, MINISTRO IN ROMANIA

Ludovico da Strassoldo era un monaco francescano del convento di San Francesco di Udine [25]. Nacque verso la fine del Trecento e morì nel 1451. Nel 1432-33 fu vicario a Ragusa di Dalmazia e nel 1438-51 fu ministro provinciale dell'Ordine Francescano in Romania.

Finora di questo umanista si conoscono soltanto tre opere che sono il Dialogus de papali potestate (1431), il Tractatus de potestate regia et papali (1433-34) e il Simposium de naturis aquarum (post 1438). Quest'ultima opera occupa i fogli 74r.-89v. del codice H 52 suss. della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Il Simposium è un dialogo diviso in due libri che si svolge in due giornate sul tema delle acque. Principalmente si spiega da dove abbiano origine le sorgenti e i fiumi e si discute della loro particolare efficacia e diversità. L'autore dichiara di voler trattare questi argomenti tecnici e per così dire "scientifici" non come li tratterebbe un medico, ma come un filosofo. Quindi nelle parti più tecniche della sua opera egli attinge abbondantemente alle Naturales quaestiones di Seneca, mentre nelle parti più discorsive e più filosofiche egli riprende intere frasi e periodi dal De beata vita di Sant'Agostino. Ma Ludovico non si limita soltanto a questa ripresa meccanica del testo di riferimento, perché l'intera impostazione dell'opera ricalca da vicino quella del modello agostiniano, fin dall'inizio. Infatti i commensali terminato il pranzo, si radunano non nelle terme, come nel caso del cenobio agostiniano nel Rus Cassiciacum, ma in un giardino vicino alla città di Candia, sull'isola di Creta e iniziano a discutere. Anche Ludovico da Strassoldo, come Agostino, non teme  di rivelare i nomi delle persone presenti, che nel caso del monaco francescano sono tutti personaggi illustri di Candia.

Ecco la trascrizione di un periodo dell'opera del monaco francescano, l'autore sta esprimendo quanto sia importante allestire un pranzo sontuoso che dia nutrimento all'anima, nello stesso modo in cui si provvede ad alimentare il corpo umano. Trattandosi di un tema propriamente filosofico, non esita a ricorrere al testo del Vescovo di Ippona: la parte sottolineata corrisponde alla linea 50 del capitolo II del De beata vita:

 

"Nam cum fateamur cuncti neque sine anima neque sine corpore esse homines, habet anima, quemadmodum et corpus, sua propria quibus pascitur alimenta. Sunt autem scientia et intellectus, recte ergo dicemus animos nostros, si nullis disciplinis eruditi sunt nihilque bonarum artium hauserunt, ab hoc convivio discedere ieiunos atque famelicos [26]."

"Infatti dal momento che tutti dichiariamo che gli uomini non sono né senza anima, né senza corpo, l'anima ha, come il corpo, i suoi propri alimenti, dei quali si nutre. Ora questi sono il sapere e la conoscenza, dunque giustamente diremo che i nostri animi, se non sono educati da nessun insegnamento e non hanno imparato nessuna delle buone arti, da questo convivio se ne vanno digiuni e affamati". [trad. Gloria Camesasca]

 

Questo esempio dimostra come i testi di Sant'Agostino fossero molto diffusi nell'età umanistica. Infatti si possono riscontrare non solo dei riferimenti più o meno espliciti ad alcuni passi delle sue opere, ma in alcuni casi intere frasi vengono riprese e "copiate" per inserirle in nuove opere. Bisogna ovviamente ricordare come durante l'Umanesimo la "copiatura" di parti di opere era un'operazione comune e diffusa tra i letterati più o meno famosi, che proprio in questo periodo andavano riscoprendo le opere della letteratura classica e patristica. Il fatto che un testo venisse copiato da un erudito, era un segno insindacabile del fatto che l'autore, dal quale si attingevano "parti" da riusare nella propria opera, era una vera e propria auctoritas in materia. In questo contesto si inserisce la procedura per mezzo della quale Ludovico, componendo la sua opera, si avvale del supporto del grande Vescovo di Ippona, per colmare qua e là alcune sue lacune o semplicemente per elevare globalmente il livello della sua opera. Inutile ricordare che Ludovico non aveva bisogno di segnalare in alcun modo che stava inserendo una frase presa da un testo di Sant'Agostino: i lettori quattrocenteschi della sua opera, non avevano bisogno di alcun ausilio supplementare per capire da quale fonte aveva attinto. Tale è dunque, la differenza tra la conoscenza dei testi agostiniani che si aveva nel Quattrocento e quella che purtroppo si ha oggi.

 

 

L'IMPRONTA AGOSTINIANA IN SANTA TERESA D'AVILA

Santa Teresa D'Avila [27] era una carmelitana spagnola, che seppe esprimere le sue esperienze mistiche in opere di notevole pregio letterario, basti ricordare le Sette dimore (1577). Fu secolare nel monastero di Nostra Signora della Grazia, in cui entrò il 13 luglio 1531. Tale monastero era agostiniano e questo fu uno dei motivi che la spinsero a intraprendere la lettura delle Confessioni di Sant'Agostino, data la sua particolare devozione per il grande Vescovo di Ippona. Il 2 novembre 1536 Teresa entrò nel monastero dell'Incarnazione, e lì professò l'anno seguente, il 3 novembre 1537. Un altro motivo per il quale viene ricordata come un figura molto importante è legato al fatto che con  l'appoggio di Pio IV procedette ad un deciso riordinamento della regola carmelitana.

Santa Teresa scrisse anche una Vita di S. Teresa di Gesù, scritta da lei stessa, dal quale è tratto il breve passo che segue, nel quale viene messo in rilievo l'effetto suscitato in lei dalla lettura delle Confessioni: al pianto liberatorio di Agostino, che segue il momento della sua conversione, corrisponde il pianto di Teresa per le sue continue mancanze e per i suoi imperdonabili difetti, sintomo di un'anima profonda indagatrice di se stessa fin nei minimi particolari:

 

"Appena iniziai a leggere le Confessioni mi parve di ritrovarmi in esse e cominciai a raccomandarmi caldamente a questo glorioso santo. Quando giunsi alla sua conversione e lessi della voce che egli udì nel giardino, mi parve che il Signore la facesse udire a me, per quel che ebbe a sentire il mio cuore, e rimasi lungo tempo sciogliendomi tutta in lacrime e provando nel mio intimo grande afflizione e travaglio [28]."

 

ECHI AGOSTINIANI IN MANZONI

Inutile ricordare in questa sede come nel 1843 lo storico francese Poujoulat scriva una lettera ad Alessandro Manzoni, per chiedergli delle informazioni sulla localizzazione del Rus Cassiciacum agostiniano, che gli servivano per la compilazione della sua vita di Sant'Agostino. Lettera famosa in quel di Cassago, perché attribuì alla località varesina di Casciago il merito di aver ospitato il celebre cenobio agostiniano. In questo caso giova ricordare che l'affermazione di Manzoni fu prontamente smentita da un opuscolo del 1854 di Monsignor Luigi Biraghi, prefetto dell'Ambrosiana, che restituì il "maltolto" ai cassaghesi, identificando con precisione ed acume storico il Rus Cassiciacum con Cassago Brianza [29].

Al di là delle considerazioni che si possono avanzare sulle cognizioni di Manzoni relative alla localizzazione geografica del territorio oggetto della contesa, è inevitabile riconoscere che lo scrittore milanese doveva anche essere informato sulla tematica agostiniana in generale [30]. Non è difficile, infatti, ravvisare degli echi agostiniani, spia di una attenta lettura delle opere del Vescovo di Ippona, da parte di Manzoni. Per esempio in uno tra i componimenti più famosi, o forse il più conosciuto in assoluto, l'ode del Cinque maggio [31] è possibile trovare un richiamo alle Confessioni agostiniane: [vv. 85-90]

 

"Ahi! Forse a tanto strazio

cadde lo spirito anelo

e disperò; ma valida

venne una man dal cielo

e in più spirabil aere [32]

pietosa il trasportò;"

 

Ci troviamo nelle battute conclusive dell'ode manzoniana composta dal 18 al 20 luglio 1821, all'indomani della pubblicazione, il 16 luglio, sulla «Gazzetta di Milano» della notizia della morte di Napoleone. La strofa si apre con un enfatico "Ahi!" che pone fine alle illusioni: ora l'onda dei ricordi schiaccia l'eroe dei due mondi, che cede alla disperazione. Il "Forse" sottolinea la difficoltà incontrata dall'autore nel penetrare nel segreto della coscienza del morituro. Al verso 87 è veramente pregevole la forte cesura a metà verso, che rende bene l'idea dell'abbattimento fisico e morale dell'uomo, subito riscattato, però, dalla forza che assume l'aggettivo "valida" collocato in fine di verso. "Venne una man dal cielo" è una espressione chiaramente di ascendenza biblico-patristica, che viene ripresa dal terzo libro delle Confessioni di Sant'Agostino: "Et misisti manum tuam ex alto" (e Tu stendesti la tua mano dall'alto)[33]. Giova ricordare a questo proposito che è notizia storicamente accertata che Napoleone morente abbia chiesto i conforti religiosi.

Dunque dall'analisi di un semplice verso dell'ode più famosa di Manzoni, si può dedurre che lo scrittore milanese avesse letto molto bene l'opera agostiniana: al punto da aver fissato alcune frasi celebri, da riutilizzare poi come stilemi di ascendenza biblico-patristica nelle sue opere letterarie.

 

 

SANT'AGOSTINO E PAPINI: UNA COMUNANZA DI ANIME

Giovanni Papini è forse lo scrittore, dopo Petrarca, che si mostrò più spiritualmente vicino alla figura di Sant'Agostino[34]. Infatti anch'egli visse in prima persona l'esperienza della conversione e ne scrisse un resoconto nella Seconda nascita (1923). In questa sua opera, con un atteggiamento analogo a quello che aveva spinto il grande Vescovo di Ippona a scrivere le sue Confessioni, ripercorre la sua vita anteriore alla conversione, in funzione del suo ritorno nella fede cattolica. Proprio perché si sentiva particolarmente vicino alla figura di Agostino scrisse nel 1929 una vita di quel grande Santo. Nella prefazione analizza proprio quelli che erano i suoi rapporti con Sant'Agostino: esaminando analogie e differenze tra lui e il grande Santo. Infatti entrambi erano letterati e amatori delle parole, ma anche cercatori inquieti di filosofie e di verità, e desiderosi di fama, finchè non si convertirono entrambi alla fede cattolica. Fatta eccezione per la comune esperienza di conversione, Papini, con la caratteristica autoironia, propria dei toscani, sottolinea come egli assomigli al Vescovo di Ippona nel peggio. Nella sua vita di Sant'Agostino lo scrittore toscano si propone di raccontare la storia di un'anima, scrivendola non come farebbe un teologo, ma come un cristiano artista della parola. In realtà non dobbiamo pensare che il rapporto tra Sant'Agostino e Papini sia iniziato solo dopo la conversione di quest'ultimo: infatti era cominciato già da molto tempo prima. Lo scrittore toscano ci dice che aveva già letto le Confessioni prima di diventare cristiano, perché lo considerava come un testo che ogni buon lettore, o meglio che "un lettore universale  [35]" deve aver letto. Dunque secondo Papini chiunque si vantasse di avere una ampia cultura letteraria deve avere letto le Confessioni di Sant'Agostino, che vengono così considerate un vero e proprio "classico" della letteratura mondiale.

In realtà il rapporto tra il Vescovo di Ippona e Papini era cominciato già da molto tempo prima, da quando lo scrittore toscano era ancora un bambino. Infatti una sua zia era solita usare un detto proverbiale riferendosi al grande studio di una persona, che alludeva proprio alla grande mole di libri che aveva scritto Sant'Agostino nella sua vita. La prima immagine relativa al grande Vescovo di Ippona che si fissa nell'immaginario ancora infantile di Papini è quella di un uomo seduto su un tavolo completamente invaso da tutti i libri o i rotoli di pergamena delle opere da lui scritte.

"Da bambino avevo una zia brava e vispa la quale, per dare un'idea del grande studio d'un suo figliolo che appena cominciava a combatter coi latinetti, esclamava spesso:

      - Scrive quanto Sant'Agostino!

E questo suo detto è l'unico che mi sia rimasto in memoria tra i molti che ricorrevano nella sua conversazione volubile. Quel nome di Sant'Agostino mi restò fisso in mente, chè da quel tempo cominciavo anch'io ad asciugar calamai e conciar carte per altro che non compiti di scuola. Su quel santo, che aveva scritto tanto da passare in proverbio, la mia immaginazione cominciò a lavorare: vidi, sulla scena dell'obbediente fantasia, un uomo chiuso in una stanza con tanti libri attorno, tutti scritti da lui, e monti di fogli accanto e rotoli di pergamene e un portapenne irto di punte al par d'un turcasso [36]. E quando molti anni dipoi, scoprii sul palchetto d'una biblioteca gli undici massicci volumi dell'edizione agostiniana dei Maurini [37] mi accorsi che la loquace zia non sbagliava [38]".

 

Al di là di questa immagine di Sant'Agostino che rende bene l'idea della mole di libri che scrisse nella sua vita, il rapporto tra Papini e il grande Santo è molto profondo: è il legame non semplicemente tra due uomini, ma tra due anime, che hanno subito entrambe una conversione. Secondo Papini la grandezza di Sant'Agostino sta proprio nel suo presentarsi nella prima parte della sua vita come un uomo comune immerso nella palude del peccato dalla quale poi ha avuto la forza di risalire fino a diventare un Santo, una vera e propria icona della fede cristiana.

 

"E per questo è un dei pochissimi che non ci hanno mai lasciato e che vivono, si direbbe, accanto a noi [39]."

 

Lo scrittore toscano sente che un fortissimo legame lo unisce al grande Vescovo di Ippona, così forte che gli sembra che viva insieme a lui. Dopo queste considerazioni fatte da Papini è inutile sottolineare quanto straordinaria sia la comunanza della sua anima con quella del Santo di Ippona.

 

 

SANT'AGOSTINO DI CARLO CREMONA

Il sacerdote Carlo Cremona nel 1986 scrisse una vita di Sant'Agostino intitolata Agostino d'Ippona. In quest'opera ripercorse le vicende della vita del Santo con uno stile semplice, ma particolarmente efficace, proprio di chi, come lui, aveva praticato il giornalismo per molti anni. In un passo, Cremona paragona l'indecisione che ostacola Sant'Agostino a convertirsi con la situazione di incertezza nella quale si venne a trovare Dante all'inizio del suo cammino nell'aldilà.

 

"Per fare, insomma, il punto della situazione religiosa di Agostino ora, potremmo dire con l'immagine di Dante che, "uscito fuor del pelago alla riva [40]" "al piè d'un colle giunto ... [41]", quasi alla stessa età del poeta cristiano che racconta anch'egli la sua conversione, per salire il "dilettoso colle [42]" si ritrovava sbarrato il passo dalle tre simboliche fiere.

Comunque esse s'interpretino, rappresentano "tutto ciò che nel mondo o è concupiscenza degli occhi, o concupiscenza della carne, o superbia della vita" (1 Gv, 2, 16)

Agostino e Dante ci dicono che le "tre fiere [43]" impediscono la conversione profonda del cuore, anche quando la ragione è già capace di scorgere la verità [44]".

 

In questo passo Cremona cita tre passi danteschi, tratti dal primo canto dell' Inferno, relativi proprio al momento in cui il pellegrino dell'aldilà si ritrova nella selva oscura e non sa quale strada imboccare, ha bisogno di una guida, ma non sa dove andare a cercarla. Grandissima è in questo momento l'incertezza di Dante, che non sa bene dove si trovi e di conseguenza non sa dove andare. Infatti invece che addentrarsi nella selva oscura, vorrebbe salire quel colle baciato dal sole che gli si presenta davanti, ma ci sono tre fiere che gli ostacolano il passaggio. Ciascuno dei tre animali simboleggia un vizio: la lonza, la lussuria; il leone, la superbia; e la lupa, la cupiditas. Cremona si rivela, dunque non solo attento lettore delle opere agostiniane, ma anche acuto esegeta dantesco, poiché accomuna l'esperienza agostiniana e dantesca, non solo per la loro situazione di indecisione ed incertezza, ma anche per i tre mali che impediscono loro di compiere il grande passo. Infatti i tre vizi simboleggiati dalle fiere ben si addicono anche a descrivere la situazione di Sant'Agostino prima della sua conversione, anzi sono proprio i tre elementi che la impediscono: la concupiscenza, la superbia legata alle sue innegabili doti oratorie e il desiderio non solo di arricchirsi, ma in generale di primeggiare sugli altri, reso bene dal senso latino della parola cupiditas, che spesso viene erroneamente resa in italiano solo come "avarizia", ma che in realtà indica il desiderio sfrenato di possedere tutto al massimo grado possibile.

La vita di Sant'Agostino scritta da Carlo Cremona risulta dunque un sapiente alternarsi del resoconto attento e scrupoloso delle vicende storiche del Vescovo di Ippona, ma anche delle altrettanto precise e profonde analisi della sua vita interiore.

 

 

CONCLUSIONE

Due grandi critici tedeschi che hanno dedicato ampia parte dei loro studi ad analizzare non la letteratura di un singolo paese, ma la letteratura europea, ovvero un grande movimento letterario che ha interessato tutta l'Europa nel corso di molti secoli, dal Medioevo all'inizio del Novecento hanno così definito la figura di Sant'Agostino:

"In lui, l'esperienza della redenzione è del tutto concreta, e perciò egli ha potuto dare alla lingua latina e a quelle dell'Europa futura l'anima cristiana e il linguaggio del cuore [45]"

 

 

Auerbach, Studi su Dante   

"Il tempo che trascorre da Teodosio a Carlo Magno è della più grande importanza per la tradizione europea. Sono di quell'epoca le grandi personalità che lo studioso americano E. K. Rand [46] ha indicato come «i fondatori del Medio Evo». Vissero nel V secolo non solo Girolamo ed Agostino, ma anche Prudenzio, il primo grande poeta cristiano, ed Orosio, il primo storico universale cristiano [47]."

 

Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino 

Sant'Agostino è stato indubbiamente un grande autore della letteratura europea. Auerbach sottolinea come il grande Santo abbia saputo infondere nella lingua latina tardo-antica un'anima profondamente cristiana e un linguaggio che veniva direttamente dal cuore. Curtius analogamente pone Sant'Agostino tra i fondatori del Medio Evo. Come si è analizzato negli esempi proposti in questa indagine è innegabile che il grande Vescovo di Ippona influenzò profondamente la letteratura: Gonzalo de Berceo, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Ludovico da Strassoldo, Santa Teresa d'Avila, Alessandro Manzoni, Giovanni Papini e Carlo Cremona. Questi autori, seppure di epoche e di ambienti culturali diversi mostrano di avere tutti letto le opere di Sant'Agostino e di tenerne conto, ciascuno in maniera diversa, nel momento in cui scrivono le loro opere.

Sant'Agostino influenzò dunque profondamente la letteratura europea di tutti i tempi, non solo perché fu un grande Santo della Chiesa Cattolica, un Padre della Chiesa, che chiarì alcuni punti dottrinali e combattè una dura lotta contro le eresie del suo tempo. La sua grandezza sta piuttosto nell'essere prima di tutto un grande uomo e un'anima profonda che appassionava i suoi lettori e aveva su di loro un fascino incredibile e straordinario. Leggendo le sue opere, non si apprende solo qualcosa legato alla sua vita personale, ma si vive una vera e propria comunanza di anime. L'anima del lettore si avvicina a quella del grande Santo, e questo legame indissolubile, che si viene a creare mentre si leggono le sue opere, resta indelebile nella mente. Chi scrive lascia, a volte inconsapevolmente affiorare questa esperienza intensa vissuta leggendo le sue opere, lasciando trapelare nella sua produzione parti che gli sono rimaste impresse nella lettura.

 

 

[1] Sulla figura di Gonzalo de Berceo è possibile consultare anche La letteratura romanza medievale, a cura di C. di Girolamo, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 122, 238-39.

[2] E' possibile leggere integralmente i Milagros de nuestra señora in una recente edizione che riporta il testo spagnolo con la traduzione italiana a fronte: G. de Berceo, I miracoli di Nostra Signora, a cura di G. Tavani, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1999.

[3] G. de Berceo, Milagros de nuestra señora, edicion de M. Gerli, Madrid, Cathedra, 1999, pp. 69-78, quartina n°26.

[4] Per un quadro introduttivo della questione è possibile consultare A. Pincherle, Agostino,in Enciclopedia dantesca, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970, pp. 80-82; G. Petrocchi, Agostiniani, in Enciclopedia dantesca, I, p. 80.

[5] I passi della Divina Commedia sono tratti da D. Alighieri, La Commedia secondo l'antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze, Le lettere, 1994, I-IV. Per i commenti e la parafrasi del testo si può utilmente ricorrere a D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di A. M. Chiavacci Leonardi, Milano, Oscar Mondadori classici, 2005.

[6] Per rendere un'idea del dibattito sulla spinosa questione è possibile consultare: G. Boffito, Dante, S. Agostino ed Egidio Colonna, Firenze, Olschki, 1911; E. K. Rand, Founders of the Middle Ages, Harvard University Press, 1928; G. Busnelli, S. Agostino, Dante e il Medioevo, nel fascicolo commemorativo del XV centenario di S. Agostino della rivista Vita e Pensiero, Milano, 1930.

[7] C. Calcaterra, Sant'Agostino nelle opere di Dante e del Petrarca, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano, editrice Vita e Pensiero, gennaio 1931, supplemento speciale al volume XXIII, p. 427.

[8] A questo proposito è possibile consultare: C. Calcaterra, Sant'Agostino nelle opere di Dante e del Petrarca, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano, editrice Vita e Pensiero, gennaio 1931, supplemento speciale al volume XXIII, pp. 422-99, e anche P. Chioccioni, L'agostinismo nella Divina Commedia, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1952.

[9] Agostino, De civitate Dei, II, 29.

[10] Canzone della Vita Nuova (XIX, 4-14).

[11] Agostino, Enarrationes in psalmos, , Roma, Città Nuova editrice, 1967-77, XXVIII/1.

[12] L. Pertile, La punta del disio: semantica del desiderio nella Commedia, Fiesole, Cadmo, 2005.

[13] Sulla figura e l'opera di Francesco Petrarca si consiglia di consultare: M. Feo, Francesco Petrarca, estratto da: Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, vol. X: La tradizione dei testi, Roma, Salerno, 2001, pp. 271-329; E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Nuova edizione a cura di L. C. Rossi, Traduzione di R. Ceserani, Milano, Feltrinelli, 2003 (Campi del sapere); A. Quondam, Petrarca, l'italiano dimenticato, Milano, Rizzoli 2004.

[14] A questo proposito si può consultare C. Calcaterra, Sant'Agostino nelle opere di Dante e del Petrarca, , in «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano, editrice Vita e Pensiero, gennaio 1931, supplemento speciale al volume XXIII, pp. 422-99, R. Bettarini, Fluctuationes agostiniane nel Canzoniere di Petrarca, in «Studi di filologia italiana», LX (2002), pp. 129-39 e Petrarca e Agostino, a cura di R. Cardini e D. Coppini, Roma, Bulzoni, 2004 (Humanistica, 24).

[15]P. de Nolhac, Pétrarque et l'humanisme,  cit. Idem, Pétrarque à Bologne au temps d'Azzo Visconti, contribution à la chronologie de sa jeunesse, in Petrarca e la Lombardia, Atti del Convegno di Studi, Milano 22-23 maggio 2003, a cura di G. Frasso, G. Velli, M. Vitale, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2005 (Studi sul Petrarca, 31), pp. 85 e seguenti.

[16] Girardi sosteneva che Petrarca contava gli anni alla fiorentina, cioè ab incarnatione e non a nativitate.

[17] E. Garin, La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1987, pp. 9-14.

[18] Per la consultazione dei Rerum vulgarium fragmenta si consiglia la seguente edizione: F. Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, a cura di R. Bettarini, I-II, Torino, Einaudi, 2005.

[19] A questo proposito si consiglia la seguente edizione, dalla quale sono tratte le citazioni successive: F. Petrarca, Il mio segreto, Secretum, a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992.

[20] Agostino, Confessioni, Milano, Garzanti, 2000, III, 12, 21 (p. 48).

[21] Su questo tema è possibile consultare: G. Billanovich, Petrarca e il Ventoso, in «Italia medievale e umanistica», IX (1966), pp. 389-401; R. Mercuri, Un' «ascensione» altamente simbolica: la Familiare IV, 1, in Storia della letteratura italiana,vol. Il Medioevo, parte terza Storia e geografia, Torino, Einaudi, 1992-96, pp. 344-49.

[22] F. Petrarca, Le familiari, a cura di Vittorio Rossi, Firenze, Sansoni, 1933-42, II, pp. 831-45.

[23] Rom. 13, 13. [Epistola ai cristiani di Roma scritta da San Paolo]

[24] Agostino, Confessioni, Milano, Garzanti, 2000, VIII, 12, 29 (pp. 147-48).

[25] Sulla figura e l'opera di Ludovico da Strassoldo è possibile consultare G. G. Liruti, Notizie delle Vite de' Letterati del Friuli, III, Venezia, appresso Modesto Fenzo, 1790, p. 308; B. Ziliotto, Frate Lodovico da Cividale e il suo «Dialogus de papali potestate», in «Memorie storiche forogiuliesi», a. XXXIII-XXXIV (1937-38), pp. 151-91; P. Paschini, A proposito di Frate Lodovico da Cividale e del suo «Dialogus de papali potestate», in «Memorie storiche forogiuliesi», a. XXXV-XXXVI (1939-40), pp. 219-21; A. M. Berengo Morte, Fr. Lodovico da Udine, in «Le Venezie francescane», a. X (1941), pp. 41-48; A. M. Berengo Morte, Frate Lodovico da Cividale, in «Le Venezie francescane», a. XI (1942), pp. 16-20; A. Campana, Un nuovo dialogo di Lodovico di Strassoldo O.F.M (1434) e il «Tractatus de potestate regia et papali» di Giovanni di Parigi, in Miscellanea Pio Paschini. Studi di Storia ecclesiastica, II, Romae, Facultas Theologica Pontificii Athenaei, 1949, pp. 127-56; G.  Mercati, Intorno a Eugenio IV, Lorenzo Valla e fra Ludovico di Strassoldo, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», a. V (1951), pp. 43-52; C. Scalon, Produzione e fruizione del libro nel basso medioevo. Il caso Friuli, Padova, Antenore, 1995 (Medioevo e Umanesimo, 88), pp. 39-41. 

[26] §I, r. 36-40, (f. 74v. del codice H 52 suss della Biblioteca Ambrosiana di Milano).

[27] Sulla figura e l'opera di Santa Teresa d'Avila è possibile consultare C. Medwick, Teresa of Avila: the progress of a soul, New York, Doubleday, 2001; J. Bilinkoff, The Avila of Saint Teresa: religious reform in a sixteenth-century city, New York, Cornell University Press, 1989; M. Marcocchi, Teresa d'Avila e il suo tempo, Roma, Edizioni Studium, 1983; G.Papasogli, Santa Teresa d'Avila, Roma, Edizioni Paoline, 1952.

[28] Teresa d'Avila, Vita di S. Teresa di Gesù, scritta da lei stessa, in Teresa d'Avila, Opere, Roma, Postulazione generale OCD, 1985.

[29] A questo proposito è possibile consultare Rus Cassiciacum: archeologia e storia, a cura dell'Associazione storico-culturale S. Agostino, Cassago Brianza, Associazione S. Agostino, 1995, pp. 177 e seguenti.

[30] A questo proposito è possibile consultare A. Giubbini, Il divino: Agostino, Pascal, Manzoni, Zara, Tipografia Spiridione Artale, 1926.  

[31] A. Manzoni, Opere varie, a cura di M. Barbi e F. Ghisalberti, Firenze, Sansoni, 1943.

[32] In un'aria più respirabile (cioè quella della speranza cristiana).

[33] Agostino, Confessioni, Milano, Garzanti, 2000, III, 11, 19 (p. 46).

[34] Sulla conversione di Giovanni Papini è possibile consultare G. Langella, La "seconda nascita" di Papini, in Idem, L'utopia nella storia: uomini e riviste nel Novecento, Roma, Edizioni Studium, 2003, pp. 7-43.

[35] G. Papini, Sant'Agostino, Firenze, Vallecchi, 1942 (Opere di Giovanni Papini, 21), p. 9.

[36] Turcasso: custodia destinata a contenere frecce. (dal greco medievale tarkasion, di origine persiana)

[37] L'edizione delle opere di Sant'Agostino dei Maurini era stata fatta nel 1679-1700.

[38] G. Papini, Sant'Agostino, pp. 7-8.

[39] G. Papini, Sant'Agostino, p. 338.

[40] D. Alighieri, Inferno, I, v. 23.

[41] D. Alighieri, Inferno, I, v. 13.

[42] D. Alighieri, Inferno, I, v. 77.

[43] D. Alighieri, Inferno, I, vv. 31-60.

[44] C. Cremona, Agostino d'Ippona, Milano, Rusconi Libri, 1986, p. 108.

[45] E. Auerbach, Studi su Dante, p. 17.

[46] E. K. Rand, Founders of the Middle Ages, Harvard University Press, 1928.

[47] E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, 2002, p. 30.