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Redaelli Giuseppe: Teoria politica e universalismo etico del cristianesimo agostiniano

 Il dott. Giuseppe Redaelli durante la sua conferenza

Giuseppe Redaelli durante la conferenza

 

 

 

Teoria politica e universalismo etico del cristianesimo agostiniano un punto di partenza e di incontro per i popoli

di Giuseppe Redaelli

 

 

 

Introduzione

Il 28 agosto del 430, mentre Aurelio Agostino, vescovo di Ippona, si stava spegnendo, la sua città, Ippona Regia, era stretta d'assedio da un gruppo di tribù germaniche, guidate dal re vandalo Genserico. Per mesi Agostino ed i sacerdoti della città avevano pregato perché Dio li liberasse dalla minaccia dei Vandali, ma le loro preghiere rimasero disattese: poco dopo la morte di Agostino, il re vandalo Genserico entrò nella città di Ippona Regia e ne fece la capitale del Regno Vandalo del Nord Africa. I tempi in cui visse e scrisse Aurelio Agostino videro senza dubbio una serie di cambiamenti profondi e definitivi. Il tramonto, lento ed inesorabile, della civiltà romana ed il suo mescolarsi con culture provenienti dall'Europa dell'Est e del Nord, la nascita di Regni romano-barbarici, la nascita delle lingue europee, insomma tutti i mutamenti occorsi all'epoca, su cui di solito si appunta l'attenzione degli storici, sono in realtà soltanto l'effetto di un importante fenomeno migratorio che interessò il continente eurasiatico ad ondate successive per almeno 800 anni.

Il movimento di alcuni di questi popoli verso e contro i confini dell'Impero Romano, lo stabilirsi di alcune tribù all'interno dei confini dell'Impero e le prime missioni cristiane volte ad evangelizzare le genti germaniche furono tutte occasioni di incontro che portarono a fenomeni di acculturazione ed alla nascita di culture nuove ed originali. D'altro canto, l'incontro con popoli diversi non era certo un fenomeno nuovo per Roma, che, nel corso della sua storia, aveva costruito e retto un territorio realmente multietnico ed aveva dimostrato come la convivenza pacifica tra popoli fosse non solo possibile, ma anzi auspicabile. questa convivenza, però, era stata resa possibile dalla forza delle armi: era Roma vincitrice che imponeva ai vinti una convivenza pacifica. All'epoca di Agostino, invece, una simile imposizione non era più possibile: per una serie di cause, su alcune delle quali gli storici stanno ancora dibattendo, la potenza di Roma stava inesorabilmente tramontando, e non era più sufficiente a tenere a distanza le tribù germaniche che premevano ai confini dell'Impero. Indebolita, la romanitas si trovava a dover dialogare con i popoli che intendevano insediarsi sul suo territorio.

In questo dialogo, era necessario reinterpretare concetti fondamentali del pensiero politico, come quelli di stato o di popolo, ed era necessario aprirsi a chi veniva da lontano - se non altro per il semplice fatto che la chiusura di se stessi, e delle frontiere, non era più un'azione fattibile. Per questi motivi sembra opportuno, in un'epoca di grandi spostamenti di popoli come il secolo XXI, guardare a come Agostino lesse ed interpretò i concetti fondamentali del pensiero politico, per cercare suggerimenti che aiutino a comprendere ed a vivere l'incontro ed il dialogo fra popoli e culture diverse - con un caveat: non credo sia opportuno cercare, né che sia possibile trovare, nell'opera di Agostino, risposte dirette alle questioni contemporanee. Possiamo, questo sì, osservare la direzione in cui si mosse il passato e cercare nel passato suggerimenti ed ispirazione per interpretare il nostro presente e progettare un nostro futuro. Non è possibile, invece, ritrovare nel passato soluzioni ai problemi del presente, semplicemente perché, da un punto di vista storico, la rete semantica entro la quale, nel passato, si trovava racchiuso un concetto, è profondamente diversa da quella in cui si trova racchiuso nel presente: il contesto è diverso. (1)

Una soluzione del genere, inoltre, è profondamente contraria a quello spirito del dialogo che informa di sé tutto il pensiero agostiniano: per trovare una soluzione ai problemi del presente, è necessario prima di tutto dialogare con i tempi e con la società.

 

I. Il punto di partenza: cristiani e politica nella riflessione dei padri apostolici

Prima di affrontare l'analisi della posizione agostiniana, è opportuno cercare di comprendere il contesto culturale da cui il vescovo di Ippona prendeva le mosse. Il cristianesimo, fa notare lo studioso francese Etienne Gilson, aveva lanciato l'ideale della possibilità di una "società vera e veramente universale fondata sul libero accordo delle intelligenze e della volontà". (2)

Come il popolo eletto di Israele aveva trovato la propria unità nel patto con YHWH e nel rito della circoncisione, così, in modo parallelo, la società cristiana era fondata sulla fede in Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, morto per la salvezza del genere umano, e sul rito del battesimo, per mezzo del quale si mutava vita e si accettava il messaggio cristiano. (3)

Questa società era aperta a tutte le nazioni della terra, perché a tutte le nazioni (gentes e populi) era stata destinata la predicazione della buona novella. (4)

Paolo di Tarso riprende ed elabora molti di questi concetti evangelici nell'immagine di una comunità che trascende i confini degli stati e le ristrettezze dell'appartenenza ad un popolo o ad una cultura. Scrive Gilson:

Facendo di tutti i fedeli - e la fede era offerta a tutti - i membri di uno stesso corpo mistico, questa dottrina fissava una volta per tutte la natura della nuova società. Non una società nazionale, poiché il vangelo era predicato a tutte le nazioni, né una società internazionale, poiché non c'erano più per lui né greci né ebrei ed essa prescindeva dalle nazioni, e nemmeno una società sopranazionale, perché essa non si stabiliva al di sopra dei popoli nell'ordine in cui essi si trovavano; in breve, in conformità con l'insegnamento del vangelo, il nuovo regno non era di questo mondo, viverci era vivere nei cieli. (5)

A causa delle circostanze storiche in cui vivevano, i primi cristiani si trovavano di fatto alienati dallo stato e dalla nazione di cui facevano parte per nascita, a tal punto che Tertulliano, nel suo Apologeticum, può scrivere che "nulla ci è più estraneo delle stato" ed Origene, rispondendo alle accuse del pagano Celso, giungerà a sostenere che vi sono due leggi, una naturale, creata da Dio, ed una artificiale, opera dell'uomo, che si ritrova differente nei singoli stati: il cristiano, che segue la legge di Dio, è libero di non seguire la legge umana, quando questa non corrisponda ai precetti divini. (6)

La prima preoccupazione di un cristiano, inoltre, dovrebbe essere la sua Chiesa, ed è dunque legittimo che non si occupi affatto delle questioni dello stato. La posizione dei cristiani di fronte allo stato si configura dunque, nei primi secoli, come una posizione di profonda e pressoché totale disinteresse ed estraneità. Il seguace di Cristo appare interamente concentrato sulla patria celeste, e, se entra in contatto con le autorità politiche, per lo più lo fa per difendere la propria religione od illustrarne il contenuto. Nella vita associata dello stato, però, il cristiano sembra non trovare un proprio ruolo. Queste posizioni verranno riprese, ed in parte corrette, in una delle gemme della letteratura cristiana antica, la cosiddetta Epistola, o Lettera a Diogneto.

 

II. L'Epistola a Diogneto

Siamo nel 1436. Un chierico si aggira per il mercato di Bisanzio, ricco di bancarelle e banchetti con merci da tutto il mondo. La città è ormai una pallida imitazione dell'antica Costantinopoli, erede delle glorie dell'antico Impero Romano: negli ultimi duecento anni il territorio sotto il suo controllo ha subito drastiche riduzioni e la città stessa è stata conquistata e spogliata, non dal nemico musulmano di sempre, ma dagli stessi alleati cristiani. La dinastia dei Paleologhi ha accelerato il processo di disgregazione dell'Impero, favorendo la creazione di vasti latifondi nelle campagne e creando feudi nelle terre appartenenti alla corona. L'impero versa in gravissime condizioni economiche e finanziarie e attraversa continue crisi di ordine sociale e religioso. Ciononostante, è ancora diffusa una mentalità, ereditata da un'epoca lontana mille anni, che attribuisce a Costantinopoli l'autorità imperiale ed una posizione ed un ruolo universalistici, che sembrano resistere alle trasformazioni ed ai ridimensionamenti subiti nel tempo. Tra 19 anni, i turchi, guidati da Maometto II, abbatteranno le ultime difese della città e porranno fine alle ultime vestigia dell'antichità - ma in questo giorno del 1436 questi avvenimenti sembrano ancora lontani.

Il nostro chierico si ferma di fronte alla bancarella di un pescivendolo, forse con l'intenzione di comprare del pesce. Come succede in tutte le epoche ed a tutte le latitudini, il garzone del negozio avvolge il pesce venduto in fogli di carta straccia, un po' come succede oggi. Mentre aspetta di essere servito, il chierico nota però che su alcuni di questi fogli campeggiano delle lettere greche. Incuriosito, il chierico prende i fogli ... e scopre che non si tratta di semplici lettere, ma di un manoscritto antichissimo e prima sconosciuto. (7)

Fu così, grazie ad una scoperta casuale, che il mondo recuperò uno dei trattati più originali ed oggi famosi di tutta le letteratura cristiana antica: la lettera a Diogneto.

In questo testo, che la maggior parte dei critici attribuisce al II secolo, (8) si delinea una posizione del cristiano rispetto allo stato che, se, per certi versi, ripete la visione separatista già analizzata, per altri offre la possibilità di un passo in avanti. Scrive l'anonimo autore della lettera:

I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per terra [in cui vivono], né per lingua, né per costumi. Infatti, non abitano città proprie, né usano un linguaggio [dialetto] che si differenzia, né conducono un genere di vita particolare. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini laboriosi e affaccendati, né si appellano, come fanno alcuni, ad una corrente filosofica umana. Pur vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e uniformandosi ai costumi del luogo nell'abbigliamento, nel cibo e in tutte le altre cose della vita quotidiana, ciononostante mostrano la costituzione meravigliosa ed insieme paradossale della loro società [politeia]. Vivono nella loro patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini e sopportano tutto come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria, ed ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non espongono i neonati.

Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e sono fatti vivi. Sono poveri, e rendono ricchi molti; di tutto mancano, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nel disprezzo trovano gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono trattati in modi empio ed onorano. Quando fanno del bene vengono puniti come malfattori; se sono condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei come estranei sono combattuti, e dai greci perseguitati, e tuttavia coloro che li odiano non sanno dire quale sia il motivo dell'odio. (9)

La Lettera a Diogneto si presenta fin da subito come un testo apologetico: l'anonimo autore si rivolge al suo interlocutore, Diogneto, per esporgli le caratteristiche della religione cristiana. Nel far questo, è sua cura particolare distanziare il cristianesimo dagli altri gruppi religiosi e filosofici presenti nel territorio dell'Impero romano, ed in particolare dal giudaismo, dal quale ha pur preso le mosse: a differenza degli ebrei, che seguono precise norme alimentari che li allontanano e li separano dagli altri cittadini dell'Impero, che circoncidono i loro neonati maschi (pensiero rivoltante nel mondo greco e romano) e che, rispettando il riposo del sabato, vivono la quotidianità secondo un ritmo diverso, i cristiani non si distinguono né perché seguono una dieta particolare, né per uno stile di vita insolito o disgustoso. A differenza dei filosofi cinici, non vestono in modo disordinato, né, a differenza degli adepti dei culti orientali, si abbigliano in modo stravagante. In questo senso, i cristiani sono, nel loro comportamento esteriore, identici agli altri abitanti dell'Impero. Da un punto di vista morale, invece, i cristiani si dimostrano ben superiori rispetto ai filosofi pagani: laddove i filosofi stoici vanno predicando l'atarassia, il distacco, l'indifferenza per le cose materiali e l'imperturbabilità di fronte al piacere ed al dolore, i cristiani vivono nel mondo, e tuttavia sono dal mondo distaccati, sono radicati nella realtà, ma vivono come pellegrini, viaggiatori lontani dalla patria, stranieri in terra straniera.

La loro esistenza è quindi libera e virtuosa nel senso più pieno del termine. Al di là dell'intento apologetico, quindi, l'ignoto scrittore del II secolo traccia un ritratto sociale del cristiano denso di significato: il cristiano si trova ad essere in posizione liminale, posto com'è tra l'appartenenza alla società degli uomini e la partecipazione alle sue vicissitudini, da un lato, e la sua estraneità di fronte ad essa, dall'altro. Questo atteggiamento di sostanziale ambiguità di fronte al mondo civile e politico trova improvvisamente una soluzione allorché l'imperatore Costantino imprime alla sua politica una svolta in favore della religione cristiana. Diventato religio licita, il cristianesimo si trova improvvisamente di fronte alla possibilità di diventare una forza operante sulla scena pubblica, economica e politica dell'Impero. Anzi, gli stessi vertici politici seguono con estremo interesse le polemiche su questioni dottrinali che portano all'affermarsi di un'ortodossia, come testimonia la convocazione da parte di Costantino stesso del Concilio di Nicea: sembra che l'imperatore voglia assicurarsi che la nuova religione trovi finalmente una propria linea dottrinaria forte e generalmente condivisa, ed è interessante che questa linea dottrinaria separi e distingua la neonata "ortodossia" dal credo ariano, che invece costituisce la linea teologica meglio affermatasi presso la principale minaccia all'unità dei confini, i popoli germanici. L'espansione della potenza ecclesiastica è tale che con l'Editto di Teodosio, nel 380, il cristianesimo diventa religione di Stato. Solo una settantina d'anni dopo l'editto di Milano, il vescovo di Milano, Ambrogio, è in grado di rimproverare aspramente l'imperatore Teodosio, e dal conflitto con l'autorità imperiale esce incontestato vincitore.

In questo modo, si verifica di fatto una commistione tra Stato e Chiesa, che sembra porsi in contrasto tanto con la posizione evangelica del "dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio", quanto con l'idea dell'estraneità del cristiano di fronte allo Stato, più colte affermata dagli autori dei primi secoli. In questo clima di profondi cambiamenti, diventa allora imperativo formulare una nuova visione del ruolo del cristiano nella vita associata e nello stato. All'enunciazione di questa nuova dottrina concorrono i grandi pensatori del IV e V secolo, come il vescovo di Milano, Aurelio Ambrogio, e soprattutto il vescovo di Ippona, Aurelio Agostino.

 

III. Agostino d'Ippona: la pace come fondamento e fine dello Stato.

Nel 426 il vescovo d'Ippona Agostino scriveva a tal Firmo, "signore esimio e degno d'onore e figlio venerabile" una lettera con la quale gli annunciava di avergli inviato i XXII libri della Città di Dio e riassumeva il contenuto dell'opera, dando precise disposizioni per ogni successiva pubblicazione. A causa della distribuzione interna della materia, l'autore consigliava di dividere l'opera in due volumi, rispettivamente di dieci e dodici libri, e dava il motivo di questo consiglio: "nei primi dieci [libri] sono confutati gli errori dei pagani, nei restanti invece è dimostrata e difesa la nostra religione". (10)

In questo modo, è lo stesso Agostino a definire gli intenti apologetici del suo trattato: la difesa del cristianesimo dagli attacchi dei suoi avversari pagani. In famosissimo passo delle Retractationes, spesso citato e studiato dagli storici, Agostino fornisce anche indicazioni precise sulle particolari circostanze storiche che lo spinsero a scrivere l'opera:

Frattanto Roma fu messa a ferro e fuoco con l'invasione dei Goti che militavano sotto il re Alarico; l'occupazione causò un'enorme sciagura. Gli adoratori dei molti falsi dei, che con un appellativo in uso chiamiamo pagani tentarono di attribuire il disastro alla religione cristiana e cominciarono a insultare il Dio vero con maggiore acrimonia e violenza del solito. Per questo motivo io, ardendo dello zelo della casa di Dio, ho stabilito di scrivere i libri de La città di Dio contro questi insulti perché sono errori. (11)

Anche da queste parole agostiniane traspare l'intento apologetico: i ventidue libri della Città di Dio furono scritti per difendere la religione cristiana attaccata dai pagani ed accusata di essere la causa della decadenza di Roma, che aveva perso, per colpa della nuova religione, la protezione di quegli antichi dei sotto i quali era diventata grande ed aveva dominato il mondo.

La strategia seguita per attuare questa difesa si basa, da un lato, sull'esposizione delle contraddizioni e delle assurdità cui conducono le credenze e le superstizioni dei pagani; dall'altro, su un'esposizione ordinata e razionale dei fondamenti del credo cristiano, che ne dimostri la superiorità logica ed etica.

La Città di Dio, tuttavia, con la sua struttura grandiosa e la sua architettura elaborata e complessa, non può tuttavia essere ridotta al semplice ruolo di un testo apologetico. Accanto a questo intento manifesto, possiamo leggere un secondo fine, che sembra percorrere tutti e ventidue i libri come una corrente sotterranea ed emergere in alcuni passi chiave, una tematica che si presenterà anche in altri testi agostiniani, soprattutto appartenenti agli anni del suo episcopato: con la sua opera, Agostino intende dare ai suoi lettore cristiani una nuova collocazione nella storia e nello stato, mentre offre, ai pagani che leggono le sue parole, una nuova immagine ed un nuovo senso possibile della storia da cui provengono e della vita associata in cui sono inseriti. Certo, la Città di Dio non è un trattato di filosofia politica, la sua portata è molto più vasta, ma è opportuno tenere presente anche questo punto di vista, nel momento in cui si affronta lo studio dell'opera agostiniana. L'assunto di base, su cui si regge tutta quanta la Città di Dio, è segnata dalla compresenza di due "città", in netta opposizione tra loro: la città di Dio e la città degli uomini.

La prima di queste, la civitas Dei, è stata fondata ed è retta da Dio ed è la città di coloro che, giusti, seguono la vera religione, ma in questo mondo vivono esuli e peregrini in mezzo agli empi e malvagi, perché la loro patria è il Cielo. (12)

L'inizio storico di questa opposizione viene ritrovato nel racconto biblico di Caino e Abele:

Dai progenitori del genere umano nacque prima Caino che appartiene alla città degli uomini, poi Abele che appartiene alla città di Dio. Ugualmente in tutto l'umano genere, quando all'inizio cominciarono a sviluppare le due città con nascite e morti, prima è nato il cittadino di questo mondo, dopo di lui l'esule in cammino nel mondo e cittadino della città di Dio, perché predestinato ed eletto mediante la grazia, esule quaggiù e cittadino lassù mediante la grazia [...] Si legge nella Scrittura che Caino per primo edificò una città mentre Abele, in quanto esule, non la edificò. La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino finché giunga il tempo del suo regno. Allora radunerà tutti i risorti con il loro corpo, quando sarà loro dato il regno dove regneranno senza limite di tempo con il loro fondatore, il re di tutti i tempi. (13)

Caino ed Abele diventano dunque, nell'interpretazione agostiniana, l'immagine di due differenti tipi di uomini, che vivono e si muovono fianco a fianco nel mondo.

I primogeniti, più comuni e più diffusi sono i cittadini del mondo, asserviti agli scopi ed ai fini di questo mondo, che in questo mondo hanno trovato la loro unica patria; in apparenza sono i più fortunati, i più felici, perché si sono costruiti su questa terra un luogo cui appartenere e che possono chiamare "casa". Diversa la sorte dei secondogeniti, i discendenti di Abele, la cui vera patria è presso Dio, e che dunque non appartengono a nessun luogo del mondo ma vagano come esuli e senza patria.

La stessa distinzione si applica, nel tempo presente, ad ogni individuo. Nella storia, infatti, in seguito al ed a causa del peccato di Adamo tutti gli uomini nascono cittadini del mondo. La grazia di Cristo, tuttavia, permette loro di morire a questo mondo e di rinascere cittadini del Cielo.

Riscontriamo infatti che in un solo uomo si avvera il pensiero dell'Apostolo che ha detto: Prima non è ciò che è spirituale ma ciò che è animale, in seguito lo spirituale. È necessario dunque che ogni individuo, poiché proviene da una stirpe condannata, dapprima sia cattivo e carnale in Adamo, in seguito, se si rinnoverà rinascendo in Cristo, sarà buono e spirituale. (14)

Altrove, Agostino ricorda che i progenitori caddero dallo stato di grazia di cui godevano nell'Eden perché amarono il nulla che essi erano in sé, piuttosto che l'Essere da cui derivava loro l'esistenza, vale a dire Dio. 

Nello stesso modo, le due città vivono all'insegna di due amori radicalmente opposti: "Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l'amor di sé fino al disprezzo di Dio, alla celeste, invece, l'amore a Dio fino al disprezzo di sé." (15)

Nel mondo dell'esperienza quotidiana, così come nella storia dei popoli, queste due città convivono e sono intrecciate - e come si può vedere la teoria agostiniana affonda le proprie radici nell'argomentazione già incontrata nella Lettera a Diogneto e, più in generale, nel pensiero cristiano dei primissimi secoli: la contemporanea appartenenza ed estraneità dei cristiani alle strutture statali in cui sono inseriti. In Agostino, tuttavia, lo stesso pensiero assume una maggiore ampiezza di vedute e si configura in una nuova Weltanschauung, in una filosofia della storia ed in una visione escatologica.

Nel libro XIX de La città di Dio, Agostino tocca il tema dello Stato e si interroga su quali siano le condizioni per cui si possa dire di uno Stato che è davvero giusto. Questo tema squisitamente attinente alla filosofia politica e del diritto, tuttavia, è inserito all'interno di una trattazione dei fini ultimi che l'uomo si pone e del tema della pace. Il libro XIX risulta così diviso in tre parti. Nella prima, Agostino analizza le teorie del fine e del bene sviluppate dai filosofi pagani. Per far questo, il vescovo di Ippona fa ampio uso di un trattato dello scrittore romano Varrone, intitolato La filosofia, le cui argomentazioni riassume in modo estremamente asciutto e conciso. (16)

A questo riepilogo segue la risposta cristiana e agostiniana alle posizioni degli antichi. (17) Argomento centrale della seconda parte del libro è la pace, che Agostino esamina in rapporto alla sua dottrina dell'ordine. Proprio muovendo dal tema della pace, Agostino inizia la sua disamina di che cosa è Stato. La pace è vista come esigenza di ogni individuo e costituisce il fine di ogni azione umana, anche del desiderio di conquista che porta a spezzarla, della contesa e della guerra. (18)

Platonicamente, Agostino intende la pace come l'armonia delle parti nel Tutto e rispetto all'Intero:

La pace del corpo dunque è l'ordinata proporzione delle parti, la pace dell'anima irragionevole è l'ordinata pacatezza delle inclinazioni, la pace dell'anima ragionevole è l'ordinato accordo del pensare e agire, la pace del corpo e dell'anima è la vita ordinata e la salute del vivente, la pace dell'uomo posto nel divenire e di Dio è l'obbedienza ordinata nella fede in dipendenza alla legge eterna, la pace degli uomini è l'ordinata concordia, la pace della casa è l'ordinata concordia del comandare e obbedire d'individui che in essa vivono insieme, la pace dello Stato è l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini, la pace della città celeste è l'unione sommamente ordinata e concorde di essere felici di Dio e scambievolmente in Dio, la pace dell'universo è la tranquillità dell'ordine. L'ordine è l'assetto di cose eguali e diseguali che assegna a ciascuno il proprio posto. (19)

Se dunque l'ordine è l'armonica disposizione delle parti che concorrono a comporre un intero, la pace è l'armonia che regna allorché quelle parti si trovano in perfetta armonia reciproca ed in giusto, totale equilibrio. In questo modo, la pace è vista in stretta relazione all'ordine che regola ed è insito nell'universo, ordine che è prima di tutto legge naturale, ma che nella natura è stato posto da Dio. (20)

Così, trattando la questione della pace, Agostino ritorna su uno dei concetti a lui più cari, quello dell'ordine che pervade tutto il creato. Così, nel dialogo dedicato appunto all'ordine, composto durante il ritiro a Cassiciaco, Agostino scrive: "L'ordine è il principio per cui sono mosse al fine tutte le cose che Dio ha creato" (21) e, più oltre, aggiunge: "l'universo intiero, che Dio regge e governa, è retto e governato mediante l'ordine". (22)

Alcuni anni dopo, nelle Confessioni, il futuro vescovo di Ippona mostrerà che ogni aspetto della vita dell'uomo, anche gli errori, è ordinato da Dio in vista di un fine, e nella esposizione della propria vita ritroverà un'impronta dell'ordine divino che regge il tutto. Come ordine armonioso delle parti, perciò, la pace è alla radice di tutto ciò che esiste. Se Dio è ordine e supremo ordinatore, Egli è anche l'unico vero Bene, da cui deriva ad ogni creatura l'essere per cui quella creatura è - ma non v'è nessun essere in cui non vi sia almeno una parte di bene.

Persino gli angeli caduti, in quanto esistono e sono, sono bene:

Perciò v'è un essere in cui non v'è alcun male o meglio in cui non vi può essere alcun male, ma è impossibile che vi sia un essere in cui non vi sia alcun bene. Neanche l'essere del diavolo, in quanto è essere, è un male, è il pervertimento che lo rende malvagio. Quindi non si mantenne nella verità, ma non eluse il giudizio della verità, non perseverò nella tranquillità dell'ordine, però non sfuggì al potere dell'Ordinatore. Il bene di Dio, che è nel suo essere, non lo sottrae alla giustizia di Dio, dalla quale viene restituito all'ordine e con essa Dio non riprova il bene che ha creato ma il male che il diavolo ha commesso. Infatti non toglie il tutto che ha dato all'essere, ma sottrae qualcosa, qualcosa lascia affinché vi sia chi prova dolore per ciò che ha sottratto. E il dolore è attestazione del bene sottratto e del bene lasciato. Se non fosse stato lasciato del bene, egli non potrebbe dolersi del bene perduto. (23)

Qui Agostino prende ancora una volta posizione contro i Manichei e la loro dottrina dell'esistenza di un male assoluto contrapposto al bene assoluto: tutto ciò che esiste, sostiene il vescovo di Ippona, in quanto è ed in quanto viene da Dio, è cosa buona. Percepire il male significa percepire la mancanza di un bene, ma questa stessa percezione testimonia che un qualche bene deve ancora restare - la mancanza si può percepire, infatti, solo rispetto all'intero di cui ora resta solo una traccia.

Se non restasse traccia dell'intero, neppure la parte potrebbe essere percepita come tale. Allo stesso modo, in tutto, anche in ciò che ne sembra maggiormente distante, ci deve essere un qualche ordine e dunque una qualche pace, a tal punto che avvertire la perdita della pace testimonia che un certo grado di pace ancora permane. Questo si dà persino allorché sembra trionfare la morte, laddove l'ordine sembra svanire: così, anche la dissoluzione dei cadaveri è sottoposta alle leggi della pace. (24)

Nella riflessione agostiniana, la pace si configura dunque come la condizione dell'esistenza, tanto nell'essere creato in generale, quanto nel corpo, ed infine nell'uomo, al punto che la mancanza di una qualche forma di pace in un composto implica l'impossibilità della sua esistenza. La riflessione agostiniana si muove attraverso livelli di complessità crescente, tramite il procedimento dell'analogia e seguendo l'idea greca, di derivazione pitagorica e platonica, della relazione tra un "piccolo ordine" (microcosmo) ed un "grande ordine" (macrocosmo). Gli enti sono aggregati di parti secondo un ordine dato e la medesima legge dell'armonia tra le parti può essere ritrovata a tutti i livelli di aggregazione: si ritrova lo stesso principio dell'ordine, il cui rispetto conduce alla pace, tanto nel composto corporeo, fatto di membra, arti, organi, quanto nell'uomo, fatto di anima e corpo, e persino in quei composti che derivano dall'unione di individui, come le associazioni umane, la città e lo stato.

L'ordine che reca con sé la pace, tuttavia, non ha solo carattere matematico, ma negli aggregati appartenenti al mondo umano si presenta anche, e soprattutto, con un carattere etico. Scrive Agostino che gli esseri umani, nella vita quotidiana, si scoprono limitati, e proprio la loro limitazione li spinge ad affidarsi alla guida divina:

Ma finché è in questo corpo soggetto al divenire, è in viaggio lontano dal Signore, cammina nella fede e non nella visione. Perciò riferisce ogni pace tanto del corpo come dell'anima e insieme dell'anima e del corpo a quella pace che l'uomo, posto nel divenire, ha con Dio che è fuori del divenire, in modo che gli sia ordinata dalla fede con l'obbedienza sotto la legge eterna. (25)

La pace si mostra allora quale dono che la divina provvidenza ha fatto alle sue creature, dotandole anche di tutti i mezzi necessari per procacciarla e, una volta ottenuta, mantenerla. (26)

Tra questi mezzi, l'indicazione più importante è il comandamento dell'amore, che si pone alla base della pace ricercata, desiderata e coltivata dall'uomo: "Ora Dio maestro insegna due comandamenti principali, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo, nei quali l'uomo ravvisa tre oggetti che deve amare: Dio, se stesso, il prossimo, e che nell'amarsi non erra chi ama Dio". (27)

Questo comandamento richiede che l'uomo ami prima di tutto Dio, e poi il proprio prossimo come se stesso e questo implica, a sua volta, la necessità della vita associata, che diventa premessa indispensabile per poter attuare il comandamento divino. Il primo luogo in cui trovare il proprio prossimo, infatti, è identificato da Agostino nella famiglia, nella cui composizione il vescovo di Ippona ravvisa un ordine guidato e regolato dall'amore:

Ne consegue che provvede anche al prossimo affinché ami Dio perché gli è ordinato di amarlo come se stesso, così alla moglie, ai figli, ai familiari e alle altre persone che potrà e vuole che in tal modo dal prossimo si provveda a lui, se ne ha bisogno [...] Dapprima dunque v'è in lui l'attenzione ai suoi cari, perché ha l'occasione più favorevole e facile di provvedere loro tanto nell'ordinamento della natura come della stessa convivenza umana. Dice l'Apostolo: Chi non provvede ai suoi cari e soprattutto ai familiari ha abiurato la fede ed è peggiore di un infedele. (28)

La pace che si genera nell'ambiente familiare diventa anzi immagine ed applicazione particolare del principio della pace che gli esseri umani devono ricercare ad ogni livello e grado della loro vita associata: "Perciò sarà in pace con ogni uomo, per quanto dipende da lui, mediante la pace degli uomini, cioè con un'ordinata concordia nella quale v'è quest'ordine, prima di tutto che non faccia del male a nessuno, poi che faccia del bene a chi può." (29)

In questo modo, in base al principio dell'analogia che regola tanto il ragionamento agostiniano quanto la visione della creazione propugnata dal vescovo di Ippona, la famiglia è inizio dello stato, che a sua volta si presenta come il compimento della famiglia, al modo che il tutto è compimento della parte che concorre a costituirlo:

Ora la famiglia dell'individuo è un inizio o una piccola parte dello Stato ed ogni inizio è in relazione a un determinato compimento del proprio modo di essere e ogni parte all'interezza del tutto di cui è parte.

Ne consegue dunque evidentemente che la pace familiare sia in relazione a quella civile, cioè che l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei familiari sia in relazione all'ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini. Pertanto conviene che il padre di famiglia tragga dalla legge dello Stato le disposizioni con cui regolare la propria famiglia in modo che si armonizzi alla pace dello Stato. (30)

Per mezzo di questa catena di ragionamenti, Agostino ha dunque fondato lo stato sulla pace e ne ha stabilito la necessità ai fini di compiere la perfezione del comandamento divino. Lo stato, infatti, diventa il giusto compimento, sul piano umano, di quell'ordine che è stato posto da Dio come principio e guida del creato. La pace, come armonioso equilibrio e quiete tra le parti che concorrono a comporre l'intero, nel mondo umano può essere compiutamente raggiunta solo nello stato, come insieme di tutti gli insiemi di uomini. Nel contempo, il comandamento dell'amore, che prescrive di amare il prossimo come se stesso, prevede, perché sia possibile adempierlo, che l'uomo sia inserito all'interno di una serie di strutture entro cui possa ordinatamente porsi in relazione con altri uomini - e la struttura delle strutture diventa qui lo stato. In questo modo Agostino può superare quell'ambiguità espressa negli scritti dei padri apostolici, che sembrava condannare il cristiano a ricoprire una posizione solo marginale in qualsiasi struttura statale. Al contrario, quella necessità viene qui capovolta: è solo nella vita associata, infatti, che il cristiano può pienamente realizzare, su questa terra, il volere divino ed ottenere un'immagine di quella pace che, nella sua pienezza, è dono e promessa di Dio, e che perciò solo al cospetto di Dio potrà godere. Il cristianesimo, che prima occupava un ruolo trasversale nella vita pubblica dell'Impero, ha ora tutte le carte in regola, anche da un punto di vista teorico, per diventare la nuova forza a fondamento della struttura statale romana.

Stabilito dunque che la famiglia è principio dello stato e che lo stato rappresenta il compimento della famiglia, resta da definire che cosa sia "stato" e come si applichino a questo ente le caratteristiche e le qualità di ordine e pace finora viste nel loro significato generale ed osservate nell'ambito dell'individuo e della famiglia. Il modo di procedere analogico proprio del ragionamento agostiniano, infatti, prevede che ciò che si applica o si riscontra ad un livello di organizzazione possa poi essere ritrovato a tutti i livelli e sia di fatto presente in ogni ente composto. Agostino prende qui a le mosse dalla definizione data da Cicerone nel De republica: lo Stato è, etimologicamente, "cosa del popolo" (res publica). (31)

Questa definizione, che il vescovo di Ippona fa sua, non fa che spostare il problema: per capire che cosa è stato è infatti necessario capire quali siano le caratteristiche di un'aggregazione di individui perché possa essere chiamata "popolo".

Questo è, nuovamente nella definizione ciceroniana, un insieme di individui uniti dal diritto e da interessi simili. (32)

In questa seconda definizione, i termini chiave sono diritto e interessi. Il diritto, innanzitutto, rimanda all'ambito della giustizia, necessaria all'amministrazione dello stato: "senza la giustizia non si può amministrare lo stato; è impossibile dunque che si abbia il diritto in uno stato in cui non si ha vera giustizia". (33)

Anzi, la giustizia riveste un ruolo tanto importante che

"nello Stato, in cui non si ha la vera giustizia, non vi può essere l'unione d'individui messa in atto dall'uniformità del diritto e quindi neanche il popolo [...] e se non v'è il popolo, non v'è neanche la cosa del popolo, ma di una massa d'individui che non merita il nome di popolo. Quindi se lo Stato è cosa del popolo, ma non si ha un popolo perché non è associato nella conformità del diritto, inoltre non si ha il diritto perché non v'è la giustizia, si conclude senza alcun dubbio che lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non è uno Stato." (34)

La riflessione di derivazione platonica intende il concetto di giustizia secondo due accezioni, strettamente legate l'una all'altra: quella secondo cui "giustizia" è l'occupare nell'ordine esattamente il posto che compete a ciascuno; e quella secondo cui "giustizia" è dare a ciascuno quanto gli è dovuto. Questa seconda accezione, che da Aristotele in poi sarà detta "giustizia distributiva", (35) si fonda su di un'ordinata ripartizione dei beni rispetto agli individui, e pone dunque alla propria base il concetto di ordine. La prima definizione, invece, presuppone essa stessa un ordine, rispetto al quale gli individui ed i gruppi sociali possano disporsi in modo da occupare ciascuno il posto che gli compete. Entrambe le accezioni di giustizia, dunque, sono legate al concetto di ordine su cui, come si è visto, è stata costruita l'intera argomentazione agostiniana. In questo testo, in particolare, il vescovo di Ippona si riferisce al concetto di giustizia distributiva, ma si rifà anche, implicitamente, all'accezione individuata per prima. Da un lato, infatti, scrive che "la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo", (36) dall'altro sostiene però che vera giustizia si ha soltanto allorché l'individuo sia sottomesso a Dio, secondo un ordine che muove da Dio all'anima al corpo o da Dio alla ragione agli impulsi: "[...] è vantaggioso essere sottomessi a Dio. L'anima spirituale, che è sottomessa a Dio, domina secondo onestà il corpo e nell'anima la ragione, sottomessa a Dio Signore, domina secondo onestà la passione e gli altri impulsi". (37)

Il rispetto di quest'ordine, sancito da Dio fin dall'inizio dei tempi, è condizione perché vi sia vera giustizia nell'individuo - ed il ragionamento analogico permette di muovere nuovamente dall'individuo composto di anima e di corpo ad ogni insieme di individui, e dunque anche allo stato:

Perciò se l'uomo non è sottomesso a Dio si deve ritenere che in lui non v'è giustizia, poiché è assolutamente impossibile che l'anima non sottomessa a Dio domini secondo giustizia il corpo e la ragione umana gli impulsi. E se in un individuo di tale tipo non v'è giustizia, certamente neanche nell'associazione d'individui di questo tipo. Non v'è dunque la conformità del diritto che rende popolo un certo numero d'individui dal quale lo Stato ha il nome come di cosa del popolo. (38)

Il secondo termine chiave che emerge dalla definizione ciceroniana di popolo è quello di interesse. Ora, l'interesse rimanda direttamente al fine, di cui Agostino ha discusso nella prima parte del libro XIX de La città di Dio. Al di fuori dell'adorazione dell'unico vero Dio, aveva osservato Agostino, non vi è unità di fini: infatti le scuole filosofiche del mondo pagano hanno sviluppato non una, ma ben 288 posizioni differenti, le une in contrasto con le altre. (39)

In questo punto dell'argomentazione, invece, la questione degli interessi è liquidata velocemente: "non v'è alcun interesse per i viventi che vivono senza religione, come vive ogni individuo che non è sottomesso a Dio". (40)

La riflessione agostiniana può essere ricostruita in questo modo: interesse precipui che tutti gli uomini condividono è la pace, cui si accompagna la felicità.

Infatti, come già sosteneva ai tempi del ritiro a Cassiciaco, gli esseri umani hanno in comune il desiderio di felicità, (41) ma la vera felicità può essere trovata solo in Dio. Allo stesso modo, nel mondo non è possibile ottenere vera pace, perché ogni attimo di tranquillità è continuamente minacciato da rivalità, odi, guerre: vera pace è dunque solo la pace celeste e, come si è già visto, per ottenerla l'uomo deve seguire il comandamento dell'amore. Quindi, solo affidandosi a Dio gli uomini possono conquistare vera pace e vera felicità. Chi, invece, non ha Dio, o non vuole accettare la rivelazione divina, condanna se stesso all'infelicità. Per questo motivo, riprendendo anche la discussione sulla giustizia, Agostino può concludere:

Così che come un solo giusto così l'unione del popolo dei giusti vive di fede, la quale opera mediante l'amore con cui si ama Dio, come si deve amare, e il prossimo come se stesso. Dove dunque non v'è un simile tipo di giustizia, certamente il popolo non è l'unione degli uomini associata dalla conformità del diritto e della partecipazione degli interessi. Se non lo è, non è popolo, se è vera questa definizione del popolo. (42)

Quindi non v'è neanche lo Stato come cosa del popolo perché non si ha la cosa del popolo se non si ha il popolo. Una volta stabiliti i due principi per i quali si hanno un popolo ed uno stato, ogni altra cosa diventa accessoria: anche i più stravaganti costumi possono essere accettati, purché non ostacolino la religione, ed a chi voglia entrare a far parte della città di Dio non è richiesto di cambiare costumi, atteggiamenti ed abitudini, se non vanno contro la legge fondamentale del cristianesimo:

Dunque questa città del cielo, mentre è esule in cammino sulla terra, accoglie cittadini da tutti i popoli e aduna una società in cammino da tutte le lingue. Difatti non prende in considerazione ciò che è diverso nei costumi, leggi e istituzioni, con cui la pace terrena si ottiene o si mantiene, non invalida e non annulla alcuna loro parte, anzi conserva e rispetta ogni contenuto che, sebbene diverso nelle varie nazioni, è diretto tuttavia al solo e medesimo fine della pace terrena se non ostacola la religione, nella quale s'insegna che si deve adorare un solo sommo e vero Dio [...] Non importa certamente nulla alla città celeste con quale contegno e tenore di vita, se non è contro i divini comandamenti, si professi la fede con cui si giunge a Dio; quindi neanche ai filosofi, quando diventano cristiani, impone di mutare il contegno e modo di vivere, se non ostacolano la religione, ma di mutare solamente le false dottrine. (43)

La legge dell'amore, garantendo il rispetto per gli usi ed i costumi "altri" rispetto ai propri, insegna a restare aperti alla possibilità che il "prossimo" possa essere ritrovato, più che nella propria casa, nella propria famiglia o nel proprio gruppo sociale, nello straniero. Così, durante il sacco di Roma, i barbari, in onore a Cristo, hanno risparmiato quanti si rifugiassero nelle sue chiese, anzi: alcuni barbari ponevano in salvo i vinti da altri barbari che avrebbero potuto nuocere loro. (44)

In un altro testo, commentando la parabola del buon samaritano, (45) Agostino scrive:

[...] ci vennero dati due precetti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. L'altro: Amerai il prossimo tuo come te stesso. E chi l'udì, chiese: E chi è il mio prossimo? Pensava che il Signore avrebbe detto: tuo padre e tua madre, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi fratelli, le tue sorelle. Egli, che voleva far valere ogni uomo quale prossimo per ogni uomo, non così rispose, ma prese a raccontare. Disse: Un uomo. Chi? Un tale, uomo tuttavia. Un uomo. Di che uomo si tratta, allora? Di un tale, però uomo. Discendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti. Sono chiamati briganti anche coloro che ci perseguitano. Ferito, spogliato, abbandonato mezzo morto sulla via, non destò l'attenzione di passanti, un sacerdote, un levita; la sua vista colpì, invece, un Samaritano di passaggio. Si accostò a lui sollevandolo sulla cavalcatura con premurosa cautela, lo condusse in una locanda; comandò di averne cura, pagò le spese. A colui che aveva posto la domanda vien chiesto chi fosse stato prossimo a costui mezzo morto. A suo riguardo due uomini si erano mostrati indifferenti, anzi, proprio essi, i prossimi, l'avevano trascurato, lo straniero si era fatto vicino [...]. (46)

Il riferimento al passo evangelico in cui viene formulata la seconda parte del comandamento dell'amore spinge Agostino a precisare che qualunque essere umano può essere considerato "prossimo": l'iterazione della domanda che chiede chiarimenti sull'identità del bisognoso conduce all'iterazione della risposta, che accentua con insistenza l'importanza dell'unica parola utilizzata: homo, termine latino che designa l'essere umano in generale; il quidam, poi, anch'esso più volte ripetuto, sottolinea il carattere indefinito dell'individuo che deve essere considerato il prossimo: un essere umano qualunque. Nel contempo, attraverso un uso sottile del linguaggio, viene mostrato il capovolgersi dei ruoli e delle aspettative: non è chi normalmente viene considerato "vicino" a fermarsi, e dunque a farsi "vicino" al bisognoso, ma chi è "straniero", estraneo (estraneus, alienigenus), che proprio con le sue azioni diventa davvero prossimo. Nell'interpretazione agostiniana del passo evangelico risalta dunque il carattere paradossale del comandamento dell'amore e della città di Dio - ma insieme viene sottolineata la potenza eversiva che questo comandamento reca con sé. Le aspettative sociali vengono sconvolte dalla scoperta che è possibile trovare il proprio prossimo non dove regnano gli affetti consueti, ma presso l'estraneo e lo straniero, con il quale non si sospettava alcun legame. Secondo Othmar Perler, il discorso 299/D, da cui proviene il passo sopra riportato, fu composto e pronunciato entro il 413. Il vescovo di Ippona si trovava dunque a vivere ed a predicare in un'epoca in cui il mito di una Roma perenne si era ormai sfaldato ed il cittadino romano si scopriva ormai minacciato da popolazioni estranee ai propri confini. In una simile contingenza storica, doveva essere facile porre delle precise linee di demarcazione, che definissero nettamente le due parti contrapposte: da un lato i romani ed i cristiani minacciati, i "buoni", dall'altro i barbari bestiali invasori, i "cattivi". Le sue parole, quindi, che miravano a capovolgere le aspettative sociali ed a ridefinire le etichette ed i valori, dovevano avere una fortissima carica eversiva. Inoltre, in uno stato in cui la convivenza sociale veniva fondata sull'etica dell'amore per Dio ed il prossimo, queste parole aprivano la possibilità di un'inclusione, all'interno dell'ordine pubblico e della definizione di popolo, di chi prima era stato escluso per la sua appartenenza ad una diversa etnia.

 

IV. Conclusione

Nel corso di questa disamina si è studiato come sia mutato l'atteggiamento cristiano antico nei confronti dello stato. Prendendo le mosse da una posizione di quasi totale disinteresse, propria del primo cristianesimo, si è visto come questa posizione si sia trasformata con il divenire dei tempi e della situazione dei cristiani all'interno dell'Impero Romano, fino a giungere a considerare l'opera di Agostino di Ippona, che getta le basi del pensiero politico cristiano dei secoli successivi. In tutta questa disamina, si è un po' perso di vista lo scopo di questo discorso: trovare, nell'opera agostiniana, dei suggerimenti che ci possano guidare in un'epoca in cui le frontiere tra paesi e culture sembrano essere sempre più labili, ed in cui il dialogo tra i popoli diventa esigenza imprescindibile. Di dialogo tra i popoli, in realtà, in tutte queste pagine non si è parlato per niente... Eppure credo che i testi agostiniani abbiano saputo dirci molto, ed abbiano saputo gettare una luce particolare sulla questione che tanto ci preoccupa. Commentando i principi della religione cristiana, Agostino ha mostrato come uno stato veramente giusto possa essere solo quello fondato sulla legge dell'amore

- un comandamento religioso ed un imperativo etico, si noti bene, non un principio giuridico. Tant'è che l'argomentazione agostiniana non muove dagli stati o dalle istituzioni, ma dai singoli individui: è il singolo che deve operare in sé la trasformazione interiore (la cumversio) che lo porta a vivere, da singolo prima di tutto, secondo il comandamento dell'amore. La vita associata prende le mosse dal singolo, perché è presupposta dallo stesso comandamento su cui l'esistenza dell'individuo si fonda: come abbiamo visto, perché si possa "amare il prossimo come se stessi", è necessario trovarsi già inseriti in una situazione sociale, in cui vi sia un prossimo da amare e di cui prendersi cura. Agostino insegna anche ad essere aperti alla possibilità, impensata, che il "prossimo" non sia un amico, o un familiare, ma un estraneo o uno straniero

- ed essere aperti a questa possibilità significa già aver abbattuto le barriere di quei particolarismi che dividono "noi" dagli "altri", i "compatrioti" dagli "stranieri", per porsi in attento ascolto dell'altro, pronti a cogliere e comprendere le sue difficoltà. L'ascolto dell'altro, dunque, il porsi in relazione con l'altro essere umano in quanto essere umano, a prescindere da campanilismi, astratte identità nazionali e definizioni "aeree", è una delle condizioni sine qua non perché si possa avere convivenza tra gli individui all'interno di uno stato. Il fine degli esseri umani, sostiene Agostino, è la felicità e la pace è una condizione per ottenere questa felicità, è anzi un volto della felicità stessa. Per ottenere la pace, tuttavia, è necessario quel movimento che porta l'individuo ad aprirsi all'altro, nella famiglia, prima, e nello stato, poi, ed a preoccuparsi dell'altro, anche dell'estraneo o dello straniero, come di se stesso, oltre ogni differenza di usi, o costumi, o lingua. Senza questo atteggiamento non vi può essere pace, né felicità. Di certo Agostino non può dare suggerimenti pratici direttamente applicabili alle questioni che affrontiamo oggi, nel secolo XXI. Ha saputo, però, fornire dei solidi suggerimenti, concreti perché profondamente radicati nella concretezza del mondo umano e nella razionalità della riflessione. Come sempre, nella filosofia agostiniana il posto centrale è occupato dall'uomo

- e proprio questo richiamo al ruolo ed al compito che ognuno ha, come individuo, nel costruire e mantenere la pace è forse il lascito più grande di chi un tempo pregava perché lo straniero fosse allontanato dalle sue mura, e tuttavia scrisse auspicando un mondo in cui non vi fossero stranieri.

 

 

Note

 

(1) Così, per esempio, non ha senso discutere sulla presunta omosessualità od eterosessualità di Alessandro il Grande, perché questo presupporrebbe una concezione della contemporanea dell'orientamento sessuale, assolutamente fuori contesto nella Grecia del IV secolo a. C.

(2) E. Gilson, La filosofia medievale, tr. it. di M. A. del Torre, Firenze 1983, p. 196.

(3) Ibidem.

(4) Ibidem, dove Gilson cita anche i passi evangelici di Mc 16, 15 e di Mt, 28, 19.

(5) Ivi, pp. 196-197.

(6) Origene, Contra Celsum, V, 37. Cfr. l'esposizione delle posizioni di Tertulliano ed Origene in Gilson, cit., p. 197.

(7) Cfr. M. Simonetti, La sapienza degli antichi padri, PIEMME, Casale Monferrato 1996, p. 25. B. D. Ehrman, After the New Testament. The writings of the apostolic fathers [audio course], The teaching Company 2005, Lecture 21 (Manual p. 33).

(8) M. Simonetti, op. cit., p. 25. E. Gilson, La filosofia ..., cit., p. 198.

(9) Epistola a Diogneto, V, 1-17: "Χριστιανοì γάρ οủτε γή οủτε φωνή οủτε έθεσι διακεκριμένοι τών λοιπών εìσιν άνθρώπων. Οủτε γάρ που πόλεις ìδìας κατοικοủσιν οủτε διαλέκτω τινì παρηλλαγμένπ χρώνται οủτε βìον παράσημον άσκοủσιν. Οủ μήν έπινοìα τινì καì φροντìδι πολυπραγμόων άνθρώπων μάθημα τοΰτ΄ αύτοΐς έστìν εủρημένον οủδέ δόγματος άνθρωπìνου προεστάσιν ώσπερ ένιοι. Κατοικοủντες δέ πόλεις Ёλληνìδας τε καì βαρβάρους ώς έκαστος έκληρώθη καì τοìς έγχωρìοις έθεσιν άκολουθοủντες έν τε έσθητι καì διαìτη καì τφ λοιπφ βìφ θαυμαστην καì όμολογουμένως παράδοξον ένδεìκνυνται τπν κατάστασιν τπς έαυτών πολιτεìας. Πατρìδας οìκοủσιν ìδìας άλλ΄ ώς πάροικοι· μετέχουσι πάντων ώς πολìται καì πανθ΄ ủπομένουσιν ώς ξένοι· πάσα ξένη πατρìς έστιν αủτών καì πάσα πατρìς ξένη. Γαμοủσιν ώς πάντες τεκνογονοủσιν· άλλ΄ οủ ρìπτουσι τά γεννώμενα. Τράπεζαν κοινην παρατìθενται άλλ΄ οủ κοìτην. Ёν σαρκì τυγχάνουσιν άλλ΄ οủ κατά σάρκα ζώσιν. Ёπì γπς διατρìβουσιν άλλ΄ έν οủρανώ πολιτενονται. Πεìθονται τοìς ώρισμένοις νόμοις καì τοìς ìδìοις βìοις νικώσι τοủς νόμους. Άγαπώσι πάντας καì ủπό πάντων διώκονται. Άγνοοủνται καì κατακρìνονται· θανατοủνται καì ζωοποιοủνται. Πτωχεủουσι καì πλουτìζουσι πολλοủς· πάντων ủστεροủνται καì έν πασι περισσεủουσιν. Άτιμοủνται καì έν ταìς άτιμìαις δοξάζονται· βλασφημοủνται καì δικαιοủνται. Λοιδοροủνται καì εủλογοủσιν· ủβρìζονται καì τιμώσιν. Άγαθοποιούντες ώς κακοì κολάζονται· κολαζόμενοι χαìρουσιν ώς ζωοποιοủμενοι. Ϋπό Ϊουδαìων ώς άλλόφυλοι πολεμοủνται καì ủπό Ёλλπνων διώκονται καì τπν αìτìαν τπς έχθρας εìπεìν οì μισοủντες οủκ έχουσιν".

10) Agostino, Epistolae, 212/A: "Decem quippe illis vanitates refutatae sunt impiorum, reliquis autem demonstrata atque defensa est nostra religio, quamvis et in illis hoc factum sit ubi opportunius fuit, et in istis illud". La lettera è riportata anche come introduzione al testo della Città di Dio nella nuova edizione della Città Nuova, Roma 1990, pp. 4-9.

11) Agostino, Retractationes, 2, 43: "Interea Roma Gothorum irruptione agentium sub rege Alarico atque impetu magnae cladis eversa est. Cuius eversionem deorum falsorum multorumque cultores, quos usitato nomine paganos vocamus, in christianam religionem referre conantes solito acerbius et amarius Deum verum blasphemare coeperunt. Unde ego exardescens zelo domus Dei adversus eorum blasphemias vel errores libros De civitate Dei scribere institui.". La traduzione utilizzata è di Domenico Gentili, da "La città di Dio", volume 1, in Opere di Sant'Agostino, vol. 5, p. 3.

12) Agostino, De civ. Dei, 1, praefatio. Cfr. E. Gilson, La filosofia ..., cit., p. 200.

13) Ivi, 15, 1, 2: "Natus est igitur prior Cain ex illis duobus generis humani parentibus, pertinens ad hominum civitatem, posterior Abel, ad civitatem Dei.[...] sic in universo genere humano, cum primum duae istae coeperunt nascendo atque moriendo procurrere civitates, prior est natus civis huius saeculi, posterius autem isto peregrinus in saeculo et pertinens ad civitatem Dei, gratia praedestinatus, gratia electus, gratia peregrinus deorsum, gratia civis sursum [...]Scriptum est itaque de Cain, quod condiderit civitatem; Abel autem tamquam peregrinus non condidit. Superna est enim sanctorum civitas, quamvis hic pariat cives, in quibus peregrinatur, donec regni eius tempus adveniat, cum congregatura est omnes in suis corporibus resurgentes, quando eis promissum dabitur regnum, ubi cum suo principe rege saeculorum sine ullo temporis fine regnabunt". Si veda anche Mt. Fumagalli Beonio Brocchieri, M. Parodi, Storia…, cit., p. 59 e segg., cui devo la prima indicazione dei passi agostiniani citati.

14) Ibidem: "Sicut enim in uno homine, quod dixit Apostolus, experimur, quia non primum quod spiritale est, sed quod animale, postea spiritale : unde unusquisque, quoniam ex damnata propagine exoritur, primo sit necesse est ex Adam malus atque carnalis; quod si in Christum renascendo profecerit, post erit bonus et spiritalis".

15) Ivi, 14, 28: "Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui".

16) Agostino, De civ. Dei, 19, 1-3.

17) Ivi, 19, 3-9.

18) Cfr. Ivi, 19, 12, 1.

19) Ivi, 19, 13, 1: "Pax itaque corporis est ordinata temperatura partium, pax animae irrationalis ordinata requies appetitionum, pax animae rationalis ordinata cognitionis actionisque consensio, pax corporis et animae ordinata vita et salus animantis, pax hominis mortalis et Dei ordinata in fide sub aeterna lege oboedientia, pax hominum ordinata concordia, pax domus ordinata imperandi atque oboediendi concordia cohabitantium, pax civitatis ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium, pax caelestis civitatis ordinatissima et concordissima societas fruendi Deo et invicem in Deo, pax omnium rerum tranquillitas ordinis. Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio".

20) Cfr. Ivi, 19, 12, 3: "Nullo modo tamen inde aliquid legibus summi illius Creatoris Ordinatorisque subtrahitur, a quo pax universitatis administratur". Agostino, De ordine, 1, 10, 28: "Ordo est [...] per quem aguntur omnia quae Deus constituit". Ivi, 2, 1, 2: "omnia simul, quae Deus administrat, ordine administrentur".

21) Agostino, De ordine, 1, 10, 28: "Ordo est [...] per quem aguntur omnia quae Deus constituit".

22) Ivi, 2, 1, 2: "omnia simul, quae Deus administrat, ordine administrentur".

23) Agostino, De civ. Dei, 19, 13, 2: "Quapropter est natura, in qua nullum malum est vel etiam in qua nullum esse malum potest; esse autem natura, in qua nullum bonum sit, non potest. Proinde nec ipsius diaboli natura, in quantum natura est, malum est; sed perversitas eam malam facit. Itaque in veritate non stetit, sed veritatis iudicium non evasit; in ordinis tranquillitate non mansit, nec ideo tamen a potestate Ordinatoris effugit. Bonum Dei, quod illi est in natura, non eum subtrahit iustitiae Dei, qua ordinatur in poena; nec ibi Deus bonum insequitur quod creavit, sed malum quod ille commisit. Neque enim totum aufert quod naturae dedit, sed aliquid adimit, aliquid relinquit, ut sit qui doleat quod ademit. Et ipse dolor testimonium est boni adempti et boni relicti. Nisi enim bonum relictum esset, bonum amissum dolere non posset".

24) Cfr. Ivi, 19, 12, 3

25) Cfr. Ivi, 19, 14: "Et quoniam, quamdiu est in isto mortali corpore, peregrinatur a Domino: ambulat per fidem, non per speciem; ac per hoc omnem pacem vel corporis vel animae vel simul corporis et animae refert ad illam pacem, quae homini mortali est cum immortali Deo, ut ei sit ordinata in fide sub aeterna lege oboedientia."

26) Cfr. Ivi, 19, 13, 2: "Deus ergo naturarum omnium sapientissimus Conditor et iustissimus Ordinator, qui terrenorum ornamentorum maximum instituit mortale genus humanum, dedit hominibus quaedam bona huic vitae congrua, id est, pacem temporalem pro modulo mortalis vitae in ipsa salute et incolumitate ac societate sui generis, et quaeque huic paci vel tuendae vel recuperandae necessaria sunt".

27) Ivi, 19, 14: "Iam vero quia duo praecipua praecepta, hoc est, dilectionem Dei et dilectionem proximi, docet magister Deus, in quibus tria invenit homo quae diligat, Deum, se ipsum et proximum, atque ille in se diligendo non errat, qui Deum diligit".

28) Ibidem: "consequens est, ut etiam proximo ad diligendum Deum consulat, quem iubetur sicut se ipsum diligere (sic uxori, sic filiis, sic domesticis, sic ceteris quibus potuerit hominibus), et ad hoc sibi a proximo, si forte indiget, consuli velit [...]Primitus ergo inest ei suorum cura; ad eos quippe habet opportuniorem facilioremque aditum consulendi, vel naturae ordine vel ipsius societatis humanae. Unde Apostolus dicit: Quisquis autem suis et maxime domesticis non providet, fidem denegat et est infideli deterior."

29) Ibidem: "ac per hoc erit pacatus, quantum in ipso est, omni homini pace hominum, id est, ordinata concordia, cuius hic ordo est, primum ut nulli noceat, deinde ut etiam prosit cui potuerit".

30) Ivi, 19, 16: "Quia igitur hominis domus initium sive particula debet esse civitatis, omne autem initium ad aliquem sui generis finem et omnis pars ad universi, cuius pars est, integritatem refertur, satis apparet esse consequens, ut ad pacem civicam pax domestica referatur, id est, ut ordinata imperandi oboediendique concordia cohabitantium referatur ad ordinatam imperandi oboediendique concordiam civium. Ita fit, ut ex lege civitatis praecepta sumere patrem familias oporteat, quibus domum suam sic regat, ut sit paci accommoda civitatis".

31) Ivi, 19, 21, 1 : "Breviter enim rem publicam definit esse rem populi".

32) Ibidem: "Populum enim esse definivit coetum multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatum".

33) Ibidem: "[...] geri sine iustitia non posse rempublicam ; ubi ergo iustitia vera non est, nec ius potes esse".

34) Ibidem: "Quocirca ubi non est vera iustitia, iuris consensu sociatus coetus hominum non potest esse et ideo nec populus [...] et si non populus, nec res populi, sed qualiscumque multitudinis, quae populi nomine digna non est".

35) Cfr. Aristotele, Et. Nic., V, 4, 1131 b 25.

36) Agostino, De civ. Dei, 19, 21, 1: "Iustitia porro ea virus est, quae sua cuique distribuit".

37) Ivi, 19, 21, 2: "Deo quidem ut serviatur utile esse omnibus. Serviens autem Deo animus recte imperat corpori, inque ipso animo ratio Deo Domino subdita recte imperat libidini vitiisque ceteris.".

38) Ibidem: "Quapropter ubi homo Deo non servit, quid in eo putandum est esse iustitiae? quando quidem Deo non serviens nullo modo potest iuste animus corpori aut humana ratio vitiis imperare. Et si in homine tali non est ulla iustitia, procul dubio nec in hominum coetu, qui ex hominibus talibus constat. Non est hic ergo iuris ille consensus, qui hominum multitudinem populum facit, cuius res dicitur esse respublica".

39) Ivi, 19, 1-3, passim.

40) Ivi, 19, 21, 2: "nec utilitas sit ulla viventium, qui vivunt impie, sicut vivit omnis, qui non servit Deo".

41) Cfr. Agostino, De beata vita, 2, 10: "Beatos nos esse volumus. Vix hoc effunderam, occurrerunt una voce consentientes".

42) Agostino, De civ. Dei, 19, 23, 5: "ut quemadmodum iustus unus, ita coetus populusque iustorum vivat ex fide, quae operatur per dilectionem, qua homo diligit Deum, sicut diligendus est Deus, et proximum sicut semetipsum, ubi ergo non est ista iustitia, profecto non est coetus hominum iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Quod si non est, utique populus non est, si vera est haec populi definitio. Ergo nec respublica est, quia res populi non est, ubi ipse populus non est.".

43) Ivi, 19, 17-19, passim: "Haec ergo caelestis civitas dum peregrinatur in terra, ex omnibus gentibus cives evocat atque in omnibus linguis peregrinam colligit societatem, non curans quidquid in moribus, legibus institutisque diversum est, quibus pax terrena vel conquiritur vel tenetur, nihil eorum rescindens vel destruens, immo etiam servans ac sequens, quod licet diversum in diversis nationibus, ad unum tamen eumdemque finem terrenae pacis intenditur, si religionem, qua unus summus et verus Deus colendus docetur, non impedit [...] Nihil sane ad istam pertinet civitatem quo habitu vel more vivendi, si non est contra divina praecepta, istam fidem, qua pervenitur ad Deum, quisque sectetur; unde ipsos quoque philosophos, quando Christiani fiunt, non habitum vel consuetudinem victus, quae nihil impedit religionem, sed falsa dogmata mutare compellit.".

44) Ivi, 1, 1.

45) Lc. 10, 30-37

46) Agostino, Sermones, 299/D, 2: "data sunt nobis duo praecepta: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex tota mente tua. Alterum: Diliges proximum tuum tamquam te ipsum. Et ille, qui hoc audivit, ait: Et quis est mihi proximus? Putabat dicturum Dominum: Pater tuus et mater tua, coniux tua, filii tui, fratres tui, sorores tuae. Non hoc respondit, sed qui volebat commendare omnem hominem omni homini proximum, instituit narrationem. Homo, inquit, quidam. Quis? Quidam, tamen homo. Homo quidam. Quis ergo homo? Quidam, sed tamen homo. Descendebat de Hierusalem in Hiericho, et incidit in latrones. Ipsi dicuntur latrones, qui et insequuntur nos. Vulneratus, spoliatus, semivivus in via relictus, a transeuntibus, a sacerdote, a levita contemptus est; a Samaritano autem transeunte animadversus est. Accessum est ad eum: inspecta cura levatus est in iumentum, perductus ad stabulum; iussum est curam illi adhiberi, sumptus impensus est. Interrogatur, qui interrogaverat, quis erat huic semivivo proximus. Quia duo contempserant, et contempserant proximi, accessit extraneus. Iste enim homo Hierosolymitanus proximos habebat sacerdotes et levitas, samaritanos alienigenas. Transierunt proximi, et extraneus factus est proximus".