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Il De Civitate Dei di sant'Agostino

Agostino scrive la Città di Dio in una miniatura medioevale

Agostino scrive la Città di Dio

 

 

 

IL DE CIVITATE DEI DI SANT'AGOSTINO

a cura di Luigi Beretta

 

 

 

PREMESSA

La città di Dio ovvero De Civitate Dei è un'opera famosissima che Agostino scrisse in ventidue volumi probabilmente tra il 412 e il 426. L'opera, che cercheremo di analizzare, si pone come il primo organico tentativo di costruire una visione della storia dal punto di vista cristiano, soprattutto per controbattere le accuse che la società pagana rivolgeva contro i cristiani. L'occasione fu il sacco di Roma del 410. Morto Stilicone, Alarico aveva capito che era giunto il momento di affondare la sua azione militare contro l'impero romano d'Occidente.

Con Stilicone, Alarico aveva finito sempre per accordarsi, ma questa volta l'umore del barbaro era cambiato. Alarico era stato spesso imbrigliato col pagamento di grosse somme in danaro ed ora tutti consigliavano l'imperatore a far pace col barbaro: Onorio però fu irremovibile e non volle. Le trattative con Alarico si erano arenate perché questi aveva ormai accresciute le sue pretese, chiedeva la Venezia, il Norico, la Dalmazia e pensava forse di costituirsi così un forte regno adriatico-balcanico.

Ma Onorio rifiutò. Del resto anche la situazione di Alarico era difficile. Da anni combatteva e concludeva tregue e alleanze. Vincitore, ma in paese nemico, la sua era pur sempre piuttosto una ribellione più che una guerra o una invasione vera e propria. Una sua spedizione inviata contro la ricca e prosperosa Africa era fallita miseramente e aveva dovuto togliere anche l'assedio di Ravenna, la città dell'imperatore. Alarico si era convinto che doveva concludere e presto il suo peregrinare per le terre d'Italia.

Per mostrare che faceva sul serio pensò di incutere un terrore infinitamente più grande di tutte le paure che aveva provocato nel passato. Decise di marciare su Roma e il 24 agosto del 410, per la porta Salaria, i Goti entravano nella città, che fu abbandonata per tre giorni al saccheggio. Il 27 Alarico la abbandonò per dirigersi verso l'Italia meridionale con l'intento di passare in Sicilia e forse di dirigersi in Africa. Distrutte le navi nello stretto di Messina dovette ritornare sui suoi passi, ma nel viaggio lo colse la morte. Il pericolo goto si stava dissolvendo, ma l'effetto psicologico e morale sarebbe sopravvissuto a lungo, uno spartiacque insanabile nella storia occidentale. Fin dal primo assedio di Roma e per tutti i mesi successivi fino al saccheggio della città, e anche dopo di questo, una folla di profughi aveva abbandonato l'Italia, dirigendosi verso l'Africa e verso l'Oriente. San Girolamo dovette dedicarsi completamente ai doveri dell'ospitalità, esercitata largamente da lui e dai suoi compagni in favore dei cristiani che s'erano rifugiati in Palestina.

Anche l'Africa accolse un buon numero di profughi membri spesso di famiglie nobili, che avevano in quei territori vasti possedimenti. Agostino aveva risentito, come tutti, il duro colpo delle calamità che si accanivano sui romani e in particolare della caduta e del sacco di Roma. In questo momento drammatico Agostino tuttavia profonde parole di conforto: al prete Vittoriano aveva scritto che non smarrisse la fede nella giustizia di Dio; a due coniugi, Armentario e Paolina raccomandò di non tardare a realizzare il loro proponimento di darsi a Dio, ora che il sacco di Roma dimostrava quanto fossero vani e passeggeri i beni del mondo. Scrisse anche ai fedeli d'Ippona per ammonirli a non tralasciare, in occasioni così tragiche, le loro abitudini caritatevoli.

Ma Agostino maturò l'idea che il suo compito, in quel momento, più che l'organizzare i soccorsi, era quello di elargire parole di fede e di conforto, capaci di rianimare gli spiriti abbattuti. Tanto più che ora i pagani rialzavano il capo e gridavano dovunque le loro lamentele contro i cristiani: nulla di simile, sostenevano, era mai accaduto quando Roma non aveva impedito la venerazione degli antichi dei. Agostino a Ippona sentiva le querimonie e soprattutto vedeva con i suoi occhi la leggerezza dei profughi pagani che, appena sbarcati in Africa, sentendosi al sicuro, avevano ripreso la loro vita spensierata, affollavano i teatri e andavano pazzi per giochi e attori. La parola di Agostino si levò alta: una parola che chiedeva fiducia in Dio e rivendicava la forza dei valori spirituali per la vita dei popoli.

Nel suo sermone 81 si ritrova un monito, una sicurezza e una forza morale, un guardare le cose in faccia, quali possono venire solo da una fede sicura di sé. "Ecco - dice Agostino - in tempi cristiani, Roma perisce. Forse Roma non perisce; forse é stata flagellata, ma non tolta di mezzo; forse é stata castigata, non distrutta, forse Roma non perisce, se non periscono i Romani. Ché non periranno, se loderanno Dio; periranno, se lo bestemmieranno. Che cos'é infatti Roma, se non i Romani? Giacché non si tratta di pietre o di legname, degli alti caseggiati o delle mura maestose. Tutto questo era stato fatto, perché un giorno crollasse. Quando l'uomo edificò tutto questo, pose pietra su pietra; quando lo distrusse, staccò pietra da pietra. L'uomo fece tutto questo, e l'uomo lo distrusse. Si fa forse un'offesa a Roma, perché si dice: cade? ... Cielo e terra trapasseranno: che meraviglia, se un giorno una città avrà fine ..."

Così parlava Agostino, nella previsione della caduta di Roma, che i cristiani non meno dei pagani credevano eterna e inviolabile. Agostino non poteva fare a meno di rispondere ai pagani che protestavano contro il cristianesimo e ripetevano le accuse di Simmaco che sosteneva che Roma era diventata grande venerando gli antichi dei e che ora, abbandonato l'antico culto a favore del cristianesimo, l'Impero decadeva e la città vittoriosa diventava preda dei barbari. Per Simmaco gli dei di Roma l'avevano aiutata, il nuovo invece trascurava persino di proteggerla. Ma per Agostino e per tutti i cristiani ristabilire il culto pagano era sostenere che gli déi veri erano quelli del politeismo, era negare la verità stessa del cristianesimo. Bisognava replicare, tuttavia la risposta di Agostino non venne subito, perché, se i Goti erano passati come una bufera assai rapida, la frattura donatista nella Chiesa africana non poteva attendere. Il 411 fu l'anno della conferenza con i donatisti, l'anno della controversia accanita e decisiva, durante il quale Agostino non si occupò d'altro, rimandando ogni cosa a tempo più opportuno. Così il De civitate Dei non fu iniziato prima del 412 e non dopo l'anno seguente perché Marcellino, al quale Agostino dedicò l'opera, fu decapitato il 13 di settembre del 413. Agostino si trovava a Cartagine e fece di tutto per salvare l'amico, ma ne fu impedito dalla condotta ambigua di un altro potente personaggio, il prefetto al pretorio Ceciliano.

 

 

Esordio dell'opera

Gli esordi sia del primo che del secondo libro ricordano Marcellino: con ogni probabilità furono dunque scritti e divulgati prima della sua morte: anche il terzo libro un prologo, dove però Marcellino non é più nominato. Parlando del De civitate Dei Agostino nelle Ritrattazioni (II, 43) accenna a un piano: "L'opera mi ha tenuto occupato per alcuni anni in quanto continuavano a frapporsi molte altre indilazionabili incombenze al cui disbrigo ero tenuto a dare la precedenza. Questa estesa opera su la Città di Dio finì col comprendere, una volta terminata, ben ventidue libri.

I primi cinque libri confutano coloro secondo i quali l'umana prosperità esigerebbe come condizione necessaria il culto dei molti dèi venerati dai pagani, mentre sarebbe la proibizione di tale culto a provocare l'insorgere e il moltiplicarsi di tanti mali. I successivi cinque libri sono rivolti contro coloro secondo i quali nella vita dei mortali questi mali non sono mai mancati in passato e non mancheranno mai in futuro e, ora grandi ora piccoli, variano a seconda del tempo, del luogo e delle persone. Ritengono però che il culto di molti dèi, con i sacrifici che comporta, sia utile ai fini della vita che verrà dopo la morte. I primi dieci libri, dunque, contengono la confutazione di queste due inconsistenti dottrine contrarie alla religione cristiana. Per evitare però l'accusa di criticare le teorie altrui senza esporre le nostre, abbiamo deputato a questo la seconda parte di quest'opera, che comprende dodici libri, benché anche nei precedenti ci sia capitato di esporre le nostre idee e di confutare nei dodici successivi quelle degli avversari. Di questi dodici libri i primi quattro trattano la nascita delle due città, quella di Dio e quella di questo mondo, i quattro successivi della loro evoluzione e del loro sviluppo, gli altri quattro, che sono anche gli ultimi, dei dovuti fini di ciascuna di esse. Tutti i ventidue libri, pertanto, pur trattando di entrambe le città, hanno mutuato il titolo dalla migliore, la Città di Dio."

Fino dove questo piano sia stato prestabilito è difficile sapere. Agostino certamente iniziò a scrivere, sapendo bene quel che doveva dire, ma senza uno schema troppo rigido. Dal testo pare che fino a lavoro inoltrato egli non avesse maturato l'idea di quella suddivisione che sottolinea nelle Ritrattazioni a opera compiuta. Il carattere intrinseco del De Civitate Dei, ricco di molte digressioni, dove Agostino ama sfoggiare la sua erudizione e parla di tutto ciò che gli sta a cuore, è lì a dimostrare la costruzione dell'opera in itinere. Agostino spesso non esaurisce gli argomenti affrontati nelle digressioni, ma ritorna al tema principale e rimandando il lettore ad altre parti dell'opera.

Questo zigzagare controllato dimostra che una traccia Agostino doveva pure averla sotto gli occhi, ma essa non era, probabilmente, del tutto certa fin dall'inizio. Ragionevolmente non potrebbe essere altrimenti per un'opera che fu portata a termine in dodici o tredici anni. La sua menzione nelle Ritrattazioni, dove essa é indicata a ventiquattro opere dalla fine, costringe a fissarne il completamento intorno al 425 o al 426.

 

Libro 1

L'opera comincia con una introduzione, che cerca di chiarire cosa si propone l'autore. Agostino esprime la volontà di affrontare, con l'aiuto di Dio, il compito vasto e arduo di difendere la Città di Dio. Il suo proposito è giustificato dalla condizione di questa, sia in quanto, vivendo di fede, é ancora quasi pellegrina in questa vita, sia in quanto é destinata al trionfo e alla pace nei cieli. La sua difesa è contro coloro che al suo fondatore, il Cristo, preferiscono i molti déi del paganesimo. Agostino entra subito in argomento sottolineando che le atrocità commesse dai barbari nel sacco di Roma non furono poi tali e tante, da non trovar precedenti e giustificazione negli usi di guerra. Al contrario propria dei tempi cristiani é la clemenza, per cui anche i barbari rispettarono i templi e chi vi si era rifugiato. Una possibile obiezione spinge Agostino ad affrontare la questione dei beni temporali, che sono comuni a giusti e ingiusti: conclude che se ogni peccato fosse punito subito sulla terra non resterebbe materia per il giudizio finale, e se tutti restassero impuniti non si crederebbe più alla divina provvidenza. Come nel sacco di Roma e in altre calamità, buoni e cattivi sono colpiti insieme senza distinzioni: il problema della sofferenza dei buoni riconduce necessariamente a quello di Giobbe e alle afflizioni in generale che costituiscono una prova per i buoni. Perdendo i beni temporali, aggiunge Agostino, il cristiano non perde nulla. A proposito della prigionia, ricorda l'esempio di Attilio Regolo, che contraddice coloro che reputano unici beni veri quelli del mondo. Condanna senza appello la corruzione dei costumi a cui i pagani vorrebbero tornare e termina ammonendo il cittadino della Città di Dio di non essere troppo superbo né sicuro perché anche tra gli avversari possono esserci i suoi futuri concittadini. Anzi, a monito, ricorda che nella città di Dio si trovano ora, nel mondo, molti, che non conosceranno né i santi né la beatitudine dopo il giudizio. Le due città e i suoi abitanti sono infatti talmente intrecciate e mescolate insieme nel mondo, che non potranno essere distinte se non solo nel giudizio finale. Agostino promette di parlare del loro processo e dei loro ultimi fini.

 

Libro 2

Il secondo libro é tutto dedicato a dimostrare l'immoralità del culto pagano. Punto di partenza di tutto il ragionamento é l'assunto che i veri mali sono quelli morali. Il culto osceno della Magna Mater, così come tutti gli altri culti pagani e gli episodi della storia romana che, come il ratto delle Sabine, sono veri e propri delitti, forniscono ad Agostino ottimi motivi per condannare la decadenza dei costumi romani. E in questo ricorda di essere in buona compagnia con Cicerone e Sallustio.

I falsi déi sono per Agostino dei demoni: pur di ingannare gli uomini si lasciano insultare e proporre a esempio di azioni immorali, come nella famosa scena dell'Eunuco di Terenzio. In realtà gli déi romani non si sono mai curati di Roma né della decadenza morale della città: e poi, dov'erano quando Roma fu presa dai Galli? Il libro, dopo aver insistito con numerosi altri esempi sulla immoralità dei riti pagani, termina con una esortazione al popolo romano "progenie dei Regoli, degli Scevola, degli Scipioni, dei Fabrizi" affinché si converta alla verità cristiana e si decida a rifiutare l'esistenza tra gli déi di esseri che, per la loro immoralità, i romani stessi non vorrebbero avere come concittadini.

 

Libro 3

Agostino affronta l'argomento dei mali materiali. Dopo aver ricordato la caduta di Troia e l'adulterio di Paride, si prende facilmente gioco di tutta la mitologia antica. In particolare prende di mira gli déi di Roma ed esaminando la storia della città nei tempi più antichi, non accetta le lodi che la tradizione romana riservava loro. Inglorioso e addirittura immorale viene definito il loro intervento nella guerra tra Roma e Alba. Agostino con meticolosità passa quindi in rassegna tutte le sventure di Roma, le sconfitte, le stragi, le pestilenze, gli esempi di ingratitudine sociale, le carestie, le guerre civili, dal tempo dei re fino ad Augusto e aggiunge, in opposizione alle opinioni dei pagani, "di tanti mali accusino dunque i loro déi, quelli che sono ingrati a Cristo nostro per tanti benefici."

 

Libro 4

Nel quarto libro Agostino pone l'interrogativo se, quando non ci si lascia sedurre dal vano suono di parole altisonanti come popoli o regni, valga veramente la pena di combattere tanto, per procurarsi un grande impero. Acutamente lo paragona ad un vaso di vetro, splendido ma fragile. E', in altre parole, più felice un uomo tranquillo e di modesta agiatezza o il ricchissimo Creso sempre in angustie ? La risposta, per Agostino, é chiara: utile veramente, anche per i popoli sottomessi a Roma, é il vasto impero dei buoni. I buoni sono, s'intende, coloro che amano l'unico Dio vero e lo servono con timore e con i buoni costumi. «Tolta di mezzo la giustizia - grida Agostino con una affermazione socialmente dirompente - che cosa sono i regni se non grandi atti di brigantaggio e che sono gli atti di brigantaggio se non piccoli regni?».

Il portar dunque guerra ai vicini e poi procedere ad altre guerre per la sola ambizione di dominio; schiacciare e soggiogare popoli che non fanno male ad alcuno, che altro si può chiamare se non un brigantaggio in grande? Brutto desiderio, sottolinea Agostino, quello di avere chi odiare o chi temere, per giustificare l'esistenza di qualcuno da vincere. L'impero di Roma tuttavia ha un suo senso nel disegno divino, perché contro la volontà di Dio i Romani non avrebbero potuto fondarlo. Se si fossero accontentati di venerare lui, avrebbero ottenuto la medesima potenza politica e, dopo di questa, la partecipazione al regno eterno di Dio.

 

Libro 5

Non c'é infatti regno che non provenga da Dio, secondo l'ordine voluto dalla Provvidenza. La grandezza dell'Impero romano é stata dunque permessa e voluta da Dio. Agostino a questo punto difende l'azione libera della Provvidenza divina contro tutti i suoi avversari. Perciò parecchi capitoli vengono dedicati a combattere il determinismo, gli astrologi o comunque tutti i fatalisti. Proprio per l'intrinseca libertà della Provvidenza, Agostino aggiunge che leggi e consigli, esortazioni, lodi e rimproveri non sono inutili, come non sono inutili le preghiere per ottenere tutte quelle cose, che Dio sapeva già che avrebbe concesso ai preganti. Dimostrato che una Provvidenza esiste, Agostino si chiede perché i Romani hanno meritato la benevolenza di Dio. Comincia quindi l'elogio dei grandi Romani, che viene condotto sulla falsariga del celebre parallelo sallustiano tra Cesare e Catone.

 

Libro 6

Nella sua analisi giunge a occuparsi di quei filosofi che non chiedono agli dei i grossolani beni materiali. Nella sua confutazione Agostino mette a profitto le sue conoscenze di Varrone, i cui scritti avevano talmente screditato il paganesimo, che non c'era bisogno di aggiungere di più. Le favole dei poeti e la mitologia dell'antica religione cittadina forniscono ad Agostino l'occasione di fare sfoggio d'erudizione a buon mercato e di mettere in evidenza le contraddizioni, le puerilità, l'immoralità degli antichi miti.

 

Libro 7

Motivi evemeristici ritornano nelle pagine di questo libro, dedicato in gran parte alla categoria, stabilita da Varrone, degli dei selecti. Agostino confuta queste teorie per cui ad alcuni dei si attribuiscono funzioni assai più umili di quelle esercitate dai loro inferiori, i quali per di più non commettono le azioni vergognose dei primi. Tutta questa teologia varroniana non é che un tessuto di contraddizioni, che Agostino si diverte a sottolineare e a colorire con aneddoti, insistendo altresì sulla immoralità dei culti misterici.

 

Libro 8

Con questo libro si avvia un nuovo percorso in cui Agostino si mette a confronto con le teorie dei filosofi tra i quali egli sceglie, come superiori a tutti, i platonici. Platone, nota Agostino, era giunto a concepire l'unità del divino. Tuttavia ritenne, incoerentemente, che si dovessero venerare molti déi. Gli argomenti che seguono vengono destinati a confutare il conterraneo Apuleio, che aveva posto i démoni come intermediari tra l'uomo e il divino, poiché riteneva indegno che gli uomini potessero comunicare direttamente con gli déi. Gli ultimi capitoli del libro contengono citazioni dei celebri libri attribuiti a Ermete Trismegisto, contro i culti egiziani, e accolgono gli spunti evemeristici dove Agostino trova la confutazione della affermazione che i cristiani prestavano un vero culto ai loro martiri.

 

Libro 9

Tutta la trattazione é interamente dedicata a stabilire una distinzione tra le tipologie dei démoni. Agostino incomincia col discutere delle passioni umane e trova modo così di confutare la dottrina stoica, mostrando che nel cristiano ci sono passioni virtuose. Ma allo stesso tempo ravvede la necessità di un intermediario tra Dio e l'uomo e lo riconosce nel Cristo. Di lui e non di un essere come i démoni di Apuleio, ha bisogno l'uomo per giungere alla beatitudine.

 

Libro 10

Agostino avvia l'argomento incominciando dall'asserzione che, se beatitudine é, anche per i platonici, partecipazione di Dio, gli angeli, se ci amano e sono beati, devono volere che anche noi veneriamo Dio. Agostino pertanto respingere ogni culto reso invece a loro. A Dio solo é dovuto il sacrificio, che tuttavia non gli é necessario: vero sacrificio é ogni opera, grazie alla quale noi possiamo aderire a Dio mediante una unione santa. Il ricordo della promessa fatta ad Abramo conduce Agostino a parlare dei miracoli, quelli veri compiuti da Dio, anche per mezzo dégli angeli, e quelli falsi, opera dei démoni.

Da questo punto in poi l'argomento del libro diventa la purificazione dell'anima per riconoscersi in Dio e con l'affermazione dell'unità di Dio Agostino si apre la via a discorrere del Cristo. Solo in Cristo é la vera purificazione dell'anima, e soltanto per la fede che riposero in lui i giusti del tempo antico potettero vivere in modo puro e pio. Preannunciato anche dalla Sibilla pagana il Cristo é finalmente venuto a mostrare agli uomini la via maestra, la sola che conduce al regno. A questo punto Agostino ha ormai dedicato dieci libri alla confutazione di tutti quelli che vorrebbero ristabilire il paganesimo.

 

Libro 11

Esauriti gli argomenti polemici, Agostino affronta la questione delle origini, dello sviluppo e dei fini ultimi delle due città, che in questo mondo procedono intrecciate e mescolate insieme. Per trattare dell'origine della città di Dio, Agostino prende in esame tutta la storia della umanità e inizia dalla creazione del mondo e la fa con un nuovo commento ai primi capitoli del Genesi. Nella sua lettura il mondo é stato creato da Dio mediante il Verbo: ciò lo porta a discorrere della Trinità e delle sue azioni nel mondo, nella natura umana e di quella sensibilità interiore, ben superiore ai sensi corporei, per mezzo della quale sentiamo ciò che é giusto e ingiusto. Il giusto lo cogliamo mediante la sua bellezza intelligibile, l'ingiusto attraverso la privazione di questa.

 

Libro 12

Il libro dodicesimo continua la trattazione degli angeli. Una sola é la natura degli angeli sia buoni che dei malvagi, contrari non nella loro essenza quanto nelle loro volontà e tutto ciò perchè il male é un difetto, una negazione, una privazione. Il passo successivo è un discorso intorno alla creazione del genere umano e qui Agostino contrasta l'opinione sia di coloro che ritengono eterni il mondo e l'umanità, sia di coloro che sostengono le dottrine cicliche, parlando di un inesauribile ritorno delle cose dopo un certo periodo di tempo, forse secoli. Agostino è convinto che il genere umano discende da un solo progenitore. Se Adamo non avesse peccato, avrebbe ottenuto immediatamente l'immortalità e la beatitudine in compagnia degli angeli, invece, peccando, fu destinato alla morte e a una vita bestiale. Dio ha previsto la caduta dell'uomo, ma anche la redenzione delle persone pie attraverso la grazia. L'uomo fu creato a immagine di Dio e il lui erano già presenti, non in modo chiaro, ma secondo la prescienza di Dio, l'una e l'altra città: da Adamo discendono tutti gli uomini, sia quelli destinati a essere uniti con gli angeli ribelli, sia quelli destinati ad ottenere l'unione con gli angeli buoni.

 

Libri 13-14

I due libri che seguono contengono una corposa ed esauriente esposizione di tutta quanta la dottrina agostiniana del peccato originale. Le posizioni sostenute riprendono quelle tenute durante gli anni dell'aspra polemica contro Pelagio e Celestio, e trattano della condizione di Adamo ed Eva prima e dopo il peccato. Nel libro tredicesimo Agostino polemizza contro chi nega la risurrezione dei corpi, e vi dedica un approfondimento per spiegare quale sarà il corpo spirituale. Nel libro seguente avvia la trattazione spiegando che "vivere secondo la carne" si riferisce anche ai vizi dell'animo, perché non la carne, ma l'anima é quella che pecca. Si può affermare, analogamente, che esista un "vivere" secondo l'uomo e un vivere secondo Dio. La prima modalità coincide con un vivere secondo il demonio.

Ed ecco presentarsi le due città, distinte secondo le due volontà, i due amori: il peccato fu la disobbedienza a Dio, e fu preceduto da una volontà di male, suggerita dalla superbia, pertanto l'uomo, disubbidiente a Dio, fu punito dalla disubbidienza del suo corpo, viziato dalla libidine. Questa, e non l'unione coniugale o la procreazione della prole, é peccato. Le due città furono dunque generate da due diversi amori, la città terrena dall'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio, la celeste dall'amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé. Il quattordicesimo libro, d'importanza fondamentale per la comprensione del De civitate Dei, segna una transizione netta, di carattere più teorico rispetto ai successivi, che sono destinati a illustrare il cammino percorso dalle due città nella storia dell'uomo.

 

Libro 15

Impostato negli argini fissati da Agostino nei libri precedenti, il discorso viene ora acquistando sempre più il carattere di un commento totale ed escatologico della Bibbia. Iniziatori e prototipi delle due città sono i figli di Adamo, Abele e Caino. Agostino traccia la storia della città celeste, non senza numerose digressioni e osservazioni di carattere esegetico e teorico, fino all'arca di Noé, che rappresenta simbolicamente la Chiesa.

 

Libri 16-17

Il libro sedicesimo conduce la narrazione biblica attraverso l'età dei patriarchi fino all'ingresso degli Ebrei in Palestina; il diciassettesimo giunge, fermandosi lungamente a parlare di Davide e delle profezie messianiche contenute nei Salmi, fino a Cristo.

 

Libro 18

Agostino affronta a questo punto la storia della città terrena. Più che una vera storia, tuttavia, egli espone una serie di sincronismi dedotti dalle cronache di Eusebio e Girolamo e da altre opere consimili. Agostino riferisce l'oracolo acrostico della Sibilla Eritrea intorno al Cristo, e, giunto a parlare dei profeti d'Israele, rammenta anche i loro vaticini messianici e ne esalta l'autorità. Questo lo invoglia anche a parlare del Cristo e delle profezie che si sono avverate in lui e nella Chiesa, che in questo mondo comprende, mescolati con i buoni, anche molti malvagi. Agostino sostiene quindi che la città di Dio è sostanzialmente sempre perseguitata in questo mondo. Quanto poi alla questione dell'epoca dell'ultima persecuzione e della venuta dell'Anticristo, non fa previsioni perché nessuno può dirlo. Agostino ricorda a tal proposito, per confutarlo, l'oracolo pagano secondo cui il culto di Cristo sarebbe durato 365 anni.

 

Libro 19

Per spiegare i fini delle due città, Agostino incomincia a chiedersi quali sono gli scopi assegnati alla vita umana dai filosofi. La Città di Dio, contro l'opinione di tutti i filosofi, afferma che sommo bene è la vita eterna, sommo male la morte eterna: in questo mondo pertanto nessuno può essere felice, perché tutti si trovano a combattere contro le passioni e nessuna virtù può sopprimere definitivamente il male che è in ogni uomo. La beatitudine dunque si raggiunge e si gode solo nella pace eterna. Ma tutto, quaggiù, aspira alla pace e l'inizio di ogni pace è per Agostino nell'amore di Dio. Dopo aver accennato alla schiavitù, alla vita politica, ai diversi ideali delle due città, dopo aver sostenuto che non esiste un vero popolo, né un vero Stato, dove non c'è giustizia, cioè la vera religione, Agostino conclude che dove non c'è religione non vi è neppure virtù autentica.

 

Libri 20-21

Il libro ventesimo tratta del giudizio. Non dei giudizi che Dio opera nel quotidiano, ma del giudizio finale, in cui si manifesterà pienamente la giustizia di Dio. Agostino descrive le testimonianze bibliche che richiamano il giudizio finale, specialmente quelle riferite nelle parole di Gesù. Ciò gli fornisce l'occasione per parlare delle due risurrezioni. Agostino ripudia decisamente il cosiddetto millenarismo e dà dei versetti biblici coinvolti una spiegazione che è praticamente identica alla interpretazione proposta da Ticonio nel suo commento all'Apocalisse. La prima risurrezione è il battesimo e i mille anni rappresentano, con una cifra simbolica, tutto il tempo, indeterminato, tra la passione del Cristo e il giudizio finale. E' il periodo di tempo cioè nel quale si può compiere la prima risurrezione.

Ne consegue che il regno di Dio e il regno dei cieli è ora la Chiesa, nei suoi vivi e nei suoi morti. Ma non tutti coloro che ora sono nella Chiesa entreranno nel regno eterno di Cristo. Prima di quel giorno verrà la prova suprema, allorché, secondo l'Apocalisse, il diavolo sarà sciolto e combatterà coi cristiani. Agostino passa quindi all'esame dei numerosi testi dell'Antico e del Nuovo Testamento relativi al giudizio e alla resurrezione finali. Affronta una lunga discussione, che esamina anche alcuni passi di Malachia, concludendo con l'affermazione che nell'Antico Testamento, quando si parla del giudizio finale risulta abbastanza chiaro che giudice sarà il Cristo. Da ultimo vaglia le teorie sul giudizio finale tra cui l'opinione di Origene, che è contrario all'eternità delle pene, di coloro che si aspettano nel giudizio finale l'intercessione dei santi e anche di quanti sostengono che il battesimo basti ad assicurare la salvezza. A tutti costoro Agostino ha qualche cosa da obiettare.

Coglie l'occasione per far osservare che oggi la preghiera è necessaria, ma si prega soltanto per coloro che sono ancora suscettibili di pentimento, e che la Chiesa ora prega per tutti, solo perché non c'è certezza per la sorte di alcuno. La salvezza, chiarisce, è data dal mangiare il pane vivente disceso dal cielo (Giovanni, VI, 51): non v'è dunque salvezza fuori della Chiesa, pertanto solo chi è in essa e partecipa al sacramento dell'altare mangia e beve davvero il corpo e il sangue di Cristo. Quanto all'elemosina, crudamente ammonisce che essa non vale nulla senza la carità, cioè l'amore del prossimo e di Dio. Termina con l'esortazione che ciascuno dunque incominci col farla a sè stesso, amando Dio.

 

Libro 22

L'ultimo libro si apre con un capitolo riassuntivo d'importanza fondamentale. Poi Agostino riprende la polemica contro chi non ammette la risurrezione dei corpi. L'argomento che sostiene la certezza della risurrezione umana è quella del Cristo: anche il mondo credette agli apostoli che la predicarono, perché la verità della loro testimonianza era comprovata dai miracoli che essi fecero. Di miracoli ne avvengono ancora: Agostino ne racconta una lunga serie, che sono accaduta a Cartagine, in diverse località africane, e nella stessa Ippona, presso le memoriae che Agostino stesso aveva fatto erigere. Agostino, un uomo preciso, ordinato e amante della documentazione esauriente, aveva imposto che tutti coloro che ricevevano nella sua diocesi benefici soprannaturali dalla grazia divina lasciassero un resoconto circostanziato dell'episodio miracoloso. Questi libelli erano poi letti in chiesa a edificazione dei fedeli. In due anni Agostino ne ha raccolto già più di settanta.

Ma non bisogna dimenticare, ammonisce Agostino, che i miracoli sono compiuti nel nome di Cristo da martiri che hanno avuto fede in lui. Dopo questo excursus Agostino ritorna alle obiezioni sollevate contro la risurrezione in casi particolari o pietosi. Quanto agli aborti, Agostino non sa dare una risposta definitiva, ma è certo che se si possono considerare alla stregua dei morti, dovranno risorgere. Anche gli aborti per lui hanno un'anima e pensa che risorgeranno quali avrebbero potuto essere, secondo tutte le possibilità di sviluppo insite in loro. I corpi inoltre risorgeranno coi loro sessi, perché non nel sesso è il male, bensì nella concupiscenza della carne. Saremo dunque rifatti, e senza imperfezioni: le membra amputate verranno restituite e solo nei corpi dei martiri si vedranno le loro gloriose cicatrici. Questa rinnovata "carne spirituale" sarà sottomessa allo spirito, ma quale sarà tuttavia non possiamo dire. Infine sono descritte la beatitudine, la pace e la visione di Dio nella Gerusalemme celeste. Sottomessa la carne allo spirito, ciascuno avrà libera la volontà del bene, anzi non desidererà altro. Saremo noi stessi il sabato, benedetti e santificati da Dio, riposando in lui, conoscendolo, pieni di lui che sarà "tutto in tutti".

 

 

Epilogo

Se consideriamo il De Civitate Dei nel suo insieme, comprendiamo ora le ragioni della sua grande popolarità per tutto il Medioevo e comprendiamo però che tanto citato e ricordato da tutti, il De civitate Dei è ora invece letto per intero da pochissimi. Un autore moderno che volesse esporre o dimostrare la stessa tesi di Agostino, probabilmente se la caverebbe con un saggio di un centinaio di pagine o poco più. Il De civitate Dei invece è un'opera immensa. Ma è anche fuor di dubbio che si riflette nell'opera la particolare propensione dell'ingegno di Agostino, la sua grande curiosità per ogni cosa, quel suo bisogno di veder chiaro in ogni questione che gli si presenta, anche se d'interesse secondario. Si riflette anche la tendenza all'enciclopedia, che pure è nello spirito e nella sensibilità culturale di Agostino, e in una certa misura, dei suoi contemporanei, ma assai più diffusa nei medievali.

Da questo punto di vista, Agostino adempì, all'inizio delle invasioni barbariche, a una funzione storica di altissima importanza e diede un esempio efficacissimo di salvaguardia della cultura antica. E si capisce altresì l'interesse per la critica moderna della ricerca, bene avviata ma tutt'altro che esaurita, delle fonti del De civitate Dei. Ma, pur valorizzando questi aspetti, non si rende ancora ad Agostino la dovuta giustizia. Gli eruditi medievali lessero il libro con straordinario interesse per tutte le notizie e le informazioni che vi trovavano sulla storia, la scienza e la superstizione degli antichi.

Ma nel contempo si nutrirono anche del suo pensiero agostiniano e questo operò nei loro cuori e nelle loro menti e si mantenne vivo a lungo. Inoltre è diventato quasi luogo comune il parlare del De civitate Dei come di una, o della prima, filosofia della storia, ma, anche qui, Agostino ha una visione incomparabilmente più vasta e più elevata degli accadimenti umani. Possiamo pure chiederci se questa visione, questa stessa filosofia della storia sono tutte ed esclusivamente frutto del pensiero e della ricerca di Agostino.

È chiaro, intanto, che Agostino deve moltissimo a Ticonio: la stessa concezione fondamentale delle due città, che si ritrova in tanti altri scritti agostiniani a cominciare almeno dal De catechizandis rudibus, nonché l'interpretazione del millennio e, si potrebbe dire, tutta l'escatologia del De civitate Dei derivano principalmente da Ticonio. Ma, per un fenomeno che è strano solo in apparenza, il laico Ticonio è, in tutti i suoi scritti che conosciamo, infinitamente più arido e più impregnato di tecnicismo esegetico che non il vescovo teologo. E poi le idee di Ticonio sono state assimilate da Agostino in maniera così piena e in seguito ad una esperienza personale così ricca, che si possono sicuramente considerarle sue. Solo Agostino in realtà ne comprese appieno il valore apologetico e edificativo, applicandolo sistematicamente alla storia, e saldò intimamente tra loro queste idee in una sintesi grandiosa e possiamo dire, imperitura.

E che cos'è, infine, questa Città di Dio? A volte, indubbiamente, per dichiarazione esplicita di Agostino, essa rappresenta la Chiesa; a volte sembra identificarsi invece con la Gerusalemme celeste; a volte comprende i santi dell'antico Testamento, a volte sembra restringersi, a volte farsi più accogliente. Nella realtà la Chiesa non si identifica né si risolve in assoluto nella Città di Dio, perché la Chiesa comprende accanto agli eletti anche i reprobi. Reciprocamente, anche tra i nemici della Chiesa possono trovarsi gli eletti di domani. Per delineare la posizione di Agostino conviene prendere le mosse da quel primo capitolo del libro ventiduesimo, che è fondamentale per la comprensione dell'intera opera. Lì scopriamo che nella visione agostiniana Dio ha creato in origine il mondo e, tra le tante cose buone, superiori a tutte, gli spiriti "ai quali diede l'intelligenza, e la capacità di contemplarlo: li strinse in una società, che noi chiamiamo la città santa, e superna, nella quale egli è la loro vita e il sostentamento della loro beatitudine.

A questi spiriti Dio concesse il libero arbitrio, in modo ch'essi potevano, volendo, abbandonar Dio, cioè la loro beatitudine, a patto però dell'immediata infelicità; e pur sapendo nella sua prescienza che alcuni di questi angeli, superbamente credendosi di bastare alla propria beatitudine, si sarebbero ribellati, tuttavia non tolse loro questa facoltà, ritenendo che fosse miglior cosa e maggior manifestazione della sua potenza trarre anche dal male il bene, che non permettere il male.

Il male è dunque - soggiunge subito Agostino - non creato, ma permesso da Dio, e in vista d'un bene. Fece poi l'uomo, dotato del medesimo libero arbitrio: animale terreno, ma degno del cielo, se fosse rimasto unito al suo Fattore, e invece sottoposto anch'egli a un'infelicità adatta alla sua natura, se l'avesse abbandonato; e neanche a Dio, pur sapendo che avrebbe peccato, tolse il libero arbitrio, sapendo anche in questo caso il bene ch'egli avrebbe ricavato da quel male."

La Città di Dio è dunque, in realtà, costituita dagli angeli e dai predestinati; dei quali nessuno sa il numero. I predestinati sono coloro ai quali Dio concede e la grazia che cancella il peccato originale e la capacità di perseverare nel bene sino alla fine.

D'altra parte il peccato originale si cancella col battesimo, attraverso il quale si entra nella Chiesa: i predestinati vanno dunque cercati in essa. Tuttavia la grazia è un libero dono di Dio e può essere concessa a chiunque, anche a chi non fa attualmente parte della Chiesa, ai giusti dell'Antico Testamento, o a qualche giusto del mondo pagano. Ma è altrettanto certo che non si può parlare di salvezza, e nemmeno di autentica virtù, dove non sono la fede e l'amore di Dio. Questa fede e questo amore sono a loro volta un dono, che Dio fa all'uomo, di per sé incapace di credere in Dio e di amarlo. Agostino non afferma che l'Ecclesia peregrinans è la civitas Dei, ma piuttosto che l'Ecclesia è peregrinans in hoc saeculo in civitas Dei.

La Chiesa è anche il corpo di Cristo: in questo senso essa è veramente il popolo dei predestinati, la Città di Dio, unita con tutti coloro che si salvarono o si sono salvati, unita con gli angeli, la Gerusalemme celeste. Sulla terra, tuttavia, e fino al giudizio finale, il corpo di Cristo non è puro. Radicalmente opposta alla Città di Dio nell'origine, nelle aspirazioni e nei destini, ma nel nostro mondo frammista e confusa con essa vive la Città terrena, il corpo del demonio.

La separazione fra le due Città avverrà solo nel giudizio finale. Agostino rammenta che non è lecito conoscere a noi né la sorte né il numero dei predestinati. Ci è solo vietato di separarci da essi, di uscire dalla Chiesa, perché caratteristica della Città di Dio in questo mondo è l'unità, l'umiltà, il servizio reciproco: proprio in questo i capi della Chiesa si distinguono nettamente dai principi della Città terrena. Per Agostino, che ha affrontato con tenacia tante battaglie per estirpare l'eresia, lo staccarsi della Chiesa è una prova di superbia, una colpa anche maggiore di quelle dei malvagi di cui si è voluto evitare il contatto. Assieme a Cipriano, l'insigne vescovo africano testimone della fede cristiana, Agostino può ben dire che non v'è salvezza al di fuori della Chiesa.

Il piano grandioso della Provvidenza per la redenzione del genere umano è, per Agostino, una prova meravigliosa della bontà e della perfezione di quel Dio, ordinatore dell'universo, che sa trarre dal male il più grande bene.

A lui Agostino china il capo, china la sua intelligenza, grato della sua misericordia, persuaso della sua giustizia, qualunque sia la sorte che gli è stata riservata. Ormai è appagato dall'avere cercato di capire per poter credere, ed ora, assai di più, è desideroso di ricevere la fede che lo metta in grado di capire e di riposare il suo cuore inquieto nella pace eterna di Dio.