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Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Settimana 2010 > Giuseppe RedaelliRedaelli Giuseppe: L'azione di Dio nel tempo e nella Storia in sant'Agostino
Giuseppe Redaelli al tavolo della conferenza
L'azione di Dio nel tempo e nella Storia nel pensiero e nell'opera di Sant'Agostino
di Giuseppe Redaelli
© Giuseppe Redaelli 2010
Tutti i diritti sono riservati
I. Introduzione
Non vorrei dilungarmi, tanto più che io sono qui seduto e voi state a disagio in piedi; lo sapete ormai tutti o quasi tutti che quanti siamo qui, nella casa detta del vescovo, cerchiamo di imitare nella nostra vita, per quanto possiamo, il modello di quei santi di cui dice il libro degli Atti degli Apostoli: Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune. Può darsi che vi sia qualcuno fra di voi che non ha fatto attenzione a questo aspetto della nostra vita, così da conoscerlo come io desidero.
Perciò vi spiego ora quello a cui avevo accennato. Voi mi vedete qui vostro vescovo per divina volontà. Quando venni in questa città ero giovane. Molti di voi lo sanno. Cercavo un luogo dove stabilire un monastero e viverci con i miei fratelli. Avevo rinunziato a ogni prospettiva mondana; la carriera che avrei potuto fare nel mondo non la volli, e tuttavia non ho cercato il grado in cui mi trovo qui. Ho preferito stare in luogo umile nella casa del mio Dio che abitare nelle tende degli empi. Mi sono separato da quelli che amano il mondo e neppure mi sono messo alla pari con quelli che presiedono, che fanno da guida alle genti; nel convito del mio Signore non avevo scelto un posto distinto, ma uno degli ultimi posti, un posto inferiore, umile. E invece a lui piacque dirmi: Sali in alto. Io paventavo la carica di vescovo; a tal punto che evitavo di recarmi nelle località dove la sede vescovile risultava vacante, perché era cominciata a circolare tra i servi di Dio una notorietà di qualche peso a mio carico.
Io cercavo di evitare questo grado e pregavo Dio, gemendo, di concedere che mi salvassi in una posizione umile, non che dovessi correre pericolo occupando un'alta carica. Ma, come ho detto, il servo non deve contraddire il padrone. In questa città ero venuto per vedere un amico che speravo di guadagnare a Dio e portare con noi nel monastero. Stavo tranquillo, perché la sede era provvista di vescovo. Ma, preso con la forza, di sorpresa, fui ordinato sacerdote e attraverso quel gradino giunsi all'episcopato.
Entrando in questa chiesa non portai nulla: solo i vestiti che indossavo in quel momento. E poiché il mio proposito era di vivere con i fratelli nel monastero, il vecchio Valerio, di venerata memoria, conosciuto il mio disegno e la mia volontà, mi fece dono di quel terreno in cui ora sorge il monastero. Cominciai allora a riunire fratelli di buona volontà che volessero essere miei compagni nella povertà, che nulla avessero di loro possesso come io non avevo nulla: che fossero disposti ad imitarmi. Come io avevo venduto la mia piccola proprietà e dato ai poveri il ricavato, così avrebbero dovuto fare quelli che volevano vivere con me. Tutti saremmo vissuti del bene comune. Comune a tutti noi sarebbe stato un grande e fertilissimo podere, lo stesso Dio. Giunsi poi all'episcopato. E lì mi resi conto che il vescovo è tenuto ad usare ospitalità a coloro che lo vengono a trovare, o che sono di passaggio. Se il vescovo non lo facesse, apparirebbe non umano.
E in un monastero non sarebbe conveniente introdurre una tale consuetudine, perciò io volli avere con me, in questa stessa sede vescovile, un monastero di chierici. Ed ecco come viviamo. Dal momento che siamo in comunità a nessuno è lecito possedere in proprio. "Forse - insinua qualcuno - c'è chi invece possiede". Lecito non è. Chi possiede fa un illecito. Io dei miei fratelli in genere penso bene, perciò, stando sulla fiducia, mi sono astenuto dal fare un controllo di questo genere. Mi sarebbe parso una diffidenza [nei confronti di un confratello]. Sapevo infatti e so che tutti quelli che vivono con me conoscono il nostro proposito, la regola che governa la nostra condotta. (1)
Agostino non voleva essere sacerdote, né vescovo - avrebbe preferito dedicarsi ad una vita di studio, di meditazione e di contemplazione. Egli però, come confessa in questo discorso ai propri fedeli, si sentì chiamato all'attività di vescovo. Per l'uomo di fede, questa vocazione non ha, in sé, nulla di misterioso: è dato di fede che Dio chiami gli esseri umani a svolgere il compito cui li ha destinati. Per il filosofo, tuttavia, per l'amante della Sapienza, la semplice adesione alla certezza di fede non è sufficiente. Certo, Agostino riconosce che la credenza e la fede sono alla base della conoscenza, ed anzi dell'intera esistenza umana - e sa anche che la fede è base della ricerca intellettuale, di cui si nutre.
Egli ricerca allora un senso, un significato più profondo, che vada oltre le scelte effimere degli uomini - e questa sua ricerca deve coinvolgere tutto l'essere umano: suo strumento è la ragione, ma sua condizione di partenza e suo termine è la fede. La ricerca razionale si volge verso la fede per chiarirne apparenti incongruenze e difficoltà - e vi si rivolge di continuo, in un processo di interrogazione che dura tutta l'esistenza e coincide con la vita dell'uomo.
La scrittrice america Ursula K. LeGuin ha scritto che l'amore è come il pane, e per questo va continuamente fatto e rifatto, impastato e reimpastato. In effetti, proprio come il pane, l'amore richiede tempo - tempo per creare l'impasto, tempo perché l'impasto lieviti, tempo perché la pagnotta cuocia; frutto di un lavoro che richiede tempo, il pane va gustato con molta calma, condividendolo. Nel corso di tutta la propria vita, Agostino ricerca Dio - sente un forte desiderio di Dio, e, indagando se stesso, scopre che questo desiderio è amore; e ritrovando Dio, scopre che lo stesso Dio è Amore. Questa ricerca, che richiede tempo per essere compiuta, si sviluppa nel tempo, si anima e vive nel tempo. Tale ricerca nel tempo, tuttavia, non è lineare - è invece fatto di ritorni e di partenze, di decisioni e di ripensamenti e di nuove esitazioni: è un tempo vissuto. Rivolgersi alla fede, tuttavia, è in primo luogo rivolgersi alla Scrittura, che è regola della fede e della verità. (2)
Fin dal suo primo libro la Bibbia mostra la centralità del tempo nella fede cristiana: essa si apre e si chiude, infatti, con espressioni di natura temporale ("In principio", in Gn 1, 1; e l'annuncio della futura venuta del Cristo, in Ap 22, 20), che mostrano come la Rivelazione si dipani nel tempo. La stessa creazione avviene, secondo il racconto biblico, in sette giorni - simbolo della durata temporale: Dio dispone le creature in modo graduale e progressivo, nel tempo, secondo l'ordine del prima e del poi. Il tempo è la dimensione essenziale dell'esistenza di tutto ciò che è nel mondo.
Per trovare il senso di ciò che accade, è allora necessario scavare alla radice, trovare il senso della propria esistenza nel tempo - e trovare, quindi, il senso del tempo.
II. Il tempo, l'eternità e la storia
Nel discutere quale sia la concezione agostiniana del tempo, è necessario prima stabilire la distinzione, essenziale nell'opera del filosofo di Ippona, tra tempo ed eternità. Mentre il tempo è caratterizzato dal mutamento, dal divenire, "nell'eternità, al contrario, non si ha divenire". (3)
Il divenire avviene nel tempo, secondo il movimento del prima e del poi, e questo comporta la presenza del limite di ciò che diviene, venendo al mondo e poi scomparendo. L'eternità, invece, proprio perché priva di divenire, è anche priva di inizio e fine, e priva di trasformazione - coincide cioè con l'infinito temporale. Per questo, scrive Agostino, "tutte le limitate estensioni dei tempi, se si confrontano con l'eternità infinita, non si devono considerare piccole, ma inesistenti". (4)
Queste definizioni stabiliscono la fondamentale differenza tra Dio e le creature: mentre, infatti, tutto il creato è immerso nel divenire, e non c'è creatura, neppure gli angeli, che non esista nel tempo; a Dio, invece, appartiene l'eternità. (5)
Dio, che è per sempre ed è signore del tempo, crea il mondo nel tempo - un tempo ordinato e regolato dal Creatore che, come eternità, è principio e fine dell'ordine. Agostino paragona i singoli enti che si succedono nel tempo agli elementi del discorso: "Così si svolge il nostro discorso attraverso segni che suonano. Non ci sarebbe un discorso completo se una parola non sparisse, dopo aver espresso la sua parte di suono, per lasciare il posto ad un'altra". Il Verbo di Dio che dona senso a quelle parole, invece, è eterno. (6)
Nel libro XI delle Confessioni, Agostino inizia la discussione intorno alla creazione citando indirettamente il libro del Genesi, 1, 1, per concludere che Dio crea il mondo con la sua parola: "Dunque tu hai parlato e le cose furono create: con la tua parola le creasti". (7)
Mentre, però, il discorso umano avviene nel tempo, secondo la successione delle parole, e il parlante è altro rispetto alle sue parole, che sono un prodotto del movimento dell'aria nei suo organi fonatori, e del suo pensiero e della sua intenzione comunicativa; la Parola di Dio, invece, è eternamente uguale a Dio: Così tu ci chiami a comprendere il Verbo, che è Dio presso te Dio, che viene eternamente pronunciato e mediante cui tutte le cose vengono eternamente pronunciate. Infatti non finisce ciò che viene detto, e non si dice un'altra parola perché tutto possa essere detto, ma tutte le parole vengono dette insieme e eternamente [...]. (8)
È questa un'esposizione del concetto filosofico detto in seguito di complicazione, in base al quale in Dio sono presenti tutte le realtà in modo semplice e puntuale; l'atto della creazione corrisponde allora ad una esplicazione (explicatio), cioè ad un distendersi di ciò che prima era ripiegato su se stesso, in se stesso (cum-plicatus). (9) Se però il Verbo, in quanto Dio, è coeterno con Dio e pone in essere la creazione, Agostino si chiede perché il creato sia immerso nel tempo, nel divenire. LA risposta apre sul mistero stesso di Dio. Ciò che possiamo osservare è che come un discorso, un canto, o una grande sinfonia, il creato ha un suo svolgimento, un suo ordine, una sua ragione: "tutto ciò che comincia e finisce, comincia e finisce di essere quando la tua eterna ragione riconosce che doveva cominciare e finire, ragione eterna dove nulla comincia e finisce. Ma questa ragione è lo stesso Verbo tuo, che è anche il principio, perché parla anche a noi […] In questo principio, Dio, hai creato il cielo e la terra, cioè nel tuo Verbo". (10)
La creazione è dunque il dispiegarsi, il distendersi del Verbo di Dio. Dio, però, è nell'eternità, oltre il divenire, oltre il fluire di presente, passato e futuro. Non ha senso chiedere che cosa facesse Dio prima di creare il mondo, perché non c'era tempo prima della creazione: Dio è "artefice del cielo e della terra" e "autore e iniziatore di tutti i secoli"; egli ha "fatto il tempo stesso, e nessun tempo è potuto trascorrere, prima che" egli facesse "il tempo"; "prima del cielo e della terra il tempo non c'era". (11)
Il tempo, scrive altrove Agostino, è una creatura, ed è stato posto in essere all'atto della creazione: "non esiste tempo prima del mondo". (12)
Così si conclude il ragionamento agostiniano nelle Confessioni: "Tutti i tempi derivano da te e tu sei prima di tutti i tempi. E non ci fu mai un tempo, in cui non ci fosse tempo". (13)
Il tempo, nota Agostino, viene di solito (14) diviso in tre momenti, il passato, il presente e il futuro. Il passato, tuttavia, si riferisce a qualcosa che non è più, che dall'esistenza è fluito nel nulla; il futuro si riferisce, invece, a qualcosa che sarà, ma che per questo non è ancora; il presente, infine, pur essendo, appunto, presente, scivola via, posto com'è in costante tensione tra futuro e passato. Di questi tre momenti sembra esistere il solo presente - sfuggente, scivola via, ma pur sempre presente all'essere e all'esperienza. Sembrerebbe, dunque, che si possa discorrere solo del presente, mentre il discorso sugli avvenimenti passati o futuri riguarderebbe realtà che non sono più o non sono ancora -
riguarderebbe, insomma, il nulla. Anche il passato e il futuro, tuttavia, possono essere oggetto di discorsi umani sensati, e quindi devono avere una loro esistenza, devono, in qualche modo, essere. Qui Agostino compie uno spostamento dalla discussione sul tempo come divenire intrinseco agli oggetti del mondo - e nel mondo stesso - al tempo come discorso sul divenire. Questo passaggio gli permette di uscire dall'impasse in cui il suo ragionamento si è insabbiato: intendere il tempo come discorso sul divenire, infatti, sposta la sua attenzione dal discorso al soggetto che discorre: si torna, così, a considerare l'uomo interiore, secondo un modo di procedere che è molto caro ad Agostino. Il racconto di avvenimenti vissuti e l'anticipare avvenimenti futuri, ragiona il vescovo di Ippona, sono attività dotate di senso: è dunque logico concludere che "esistono le realtà future e quelle passate". (15)
Esse, però, "sono là non come passato o futuro, ma come presente. Se infatti vi sono come futuro, non sono ancora, se come passato, non sono più. Ovunque e comunque siano, non sono se non presenti". (16)
Per comprendere questo punto si può considerare, con Agostino, la facoltà con cui l'individuo può richiamare presente a sé il proprio passato: la memoria. Quando si raccontano dei fatti veri passati, non si estraggono dalla memoria le realtà che sono passate, ma le parole concepite dalle loro immagini, quelle che le cose passando hanno inciso come loro orme nello spirito mediante i sensi. La mia infanzia, che ormai non è più, è in un tempo passato che ormai non è; ma la sua immagine, quando la ricordo e la rievoco, la intuisco nel tempo presente, perché è ancora nella mia memoria. (17) Secondo il vescovo di Ippona, insomma, gli eventi che costruiscono l'esperienza quotidiana, passando attraverso le "porte dei sensi", lasciano dietro di sé delle "orme" (vestigia), delle "immagini" (oggi si direbbe delle "tracce mnestiche") descrivibili attraverso le parole. Sono tali vestigia, tali impronte ad essere presenti nella memoria, quando si discorre del passato - e la memoria si rivela allora il "luogo" in cui, tramite il ricordo, il passato si fa presente: ricordare è, infatti, ritrovare in sé quelle impronte. Questo discorso può essere esteso, mutatis mutandis, anche al futuro e al presente, che così scompaiono dall'esperienza sensibile e abitano, invece, l'anima. È ormai un fatto limpido e chiaro che il futuro e il passato non esistono; ed è appropriato dire che i tempi sono tre, passato, presente e futuro. Forse si direbbe in modo proprio che i tempi sono tre, presente del passato, presente del presente e presente del futuro. Esistono realmente nell'anima queste tre forme di tempo, e non le vedo altrove. Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l'attesa. (18)
Il percorso agostiniano conduce quindi ad una interiorizzazione del tempo, che, da fenomeno tra i fenomeni del mondo, diventa "misura della durata" del divenire: "il tempo non è il movimento di un corpo", benché "nessun corpo si muova se non nel tempo" (19): nello spirito [...] esistono tre fenomeni: l'attesa, l'attenzione e la memoria [...] ciò che lo spirito aspetta attraverso ciò a cui fa attenzione passa in ciò che ricorderà [...] il futuro non esiste ancora, ma c'è già nello spirito l'attesa del futuro [...] il passato non esiste più, ma c'è già nello spirito il ricordo del passato [...] il presente è senza estensione, passa in un istante, ma l'attenzione a ciò che passa ha una durata, attraverso cui ciò che è va verso la sua scomparsa. (20)
Il tempo nelle sue tre dimensioni, dunque, non è fenomeno fisico: il mondo, infatti, è la sede del divenire, della trasformazione, mentre il tempo è la stabilità di ciò che fluisce. Esso è quindi nell'anima, che fa della durata, del ricordo, dell'attesa i luoghi della propria vita interiore. Immaginiamo, suggerisce Agostino, che io voglia ricordare una canzone per cantarla: la canzone, così come la desidero cantare, è tutta contenuta nella mia memoria; poiché, però, la canterò nel futuro, ecco che "la mia attesa si tende verso tutta la canzone", della tensione che è desiderio. Mentre la canto, poi, "tutta la mia tensione vitale si stende in due direzioni: diventa memoria per quanto ho già cantato, diventa attesa per quanto ho ancora da cantare. Invece il presente è nella mia attenzione, per cui il futuro si traduce in passato". (21) Muovendo da questo esempio, il vescovo di Ippona può ampliare il suo discorso sulla natura interiore del tempo, fino ad abbracciare l'intera storia umana: E ciò che avviene per tutta la canzone, avviene anche nelle sue singole parti, nelle sue singole sillabe. Avviene lo stesso in un'azione più grande, di cui la canzone è forse una parte, anzi in tutta la vita dell'uomo, le cui parti sono tutte le varie azioni dell'uomo. E lo stesso in tutta la storia del genere umano, di cui sono parti tutte le singole vite umane. (22)
III. Memoria
L'esempio, appena visto, della canzone, mostra come nell'esistenza dell'individuo, proiettato tra passato e futuro, la memoria svolga un ruolo fondamentale: da questa, infatti, vengono tratti i ricordi di quel passato su cui, attraverso l'azione e il pensiero nella durata del presente, si progetta e costruisce il futuro, verso cui l'individuo è proiettato. Proprio grazie all'analogia che lega, a livelli diversi, tutto ciò che esiste, quel che si può affermare dell'esistenza del singolo può essere esteso alle vicende di popoli e genti, ed anzi alla storia dell'intera umanità. E proprio di riferimenti alla storia è colma una delle opere fondamentali del vescovo d'Ippona, La città di Dio.
1. L'origine de La città di Dio
In un famoso passo delle Ritrattazioni, Agostino giustifica le cause contingenti che lo spinsero a scriver La città di Dio: Frattanto Roma fu messa a ferro e fuoco con l'invasione dei Goti che militavano sotto il re Alarico; l'occupazione causò un'enorme sciagura. Gli adoratori dei molti falsi dei, che con un appellativo in uso chiamiamo pagani, tentarono di attribuire il disastro alla religione cristiana e cominciarono a insultare il Dio vero con maggiore acrimonia e insolenza del solito. Per questo motivo io, ardendo dello zelo della casa di Dio, ho stabilito di scrivere i libri de La città di Dio contro questi insulti perché sono errori. (23)
Con queste parole Agostino lega la stesura di quest'opera ad una motivazione apologetica: i 22 libri che compongono il capolavoro agostiniano sarebbero stati composti come risposta alle accuse che quanti erano rimasti fedeli all'antico politeismo romano rivolgevano ai cristiani. In questo senso si devono intendere anche le precise disposizioni che, in una lettera altrettanto famosa, l'ormai anziano vescovo di Ippona dà a chi voglia far copiare e diffondere l'opera: Sono ventidue quaderni ch'è difficile ridurre in un solo volume; se poi vuoi farne due volumi, devi dividerli in modo che uno contenga dieci libri e l'altro dodici. Eccone il motivo: nei primi dieci sono confutati gli errori dei pagani, nei restanti invece è dimostrata e difesa la nostra religione, quantunque ciò sia stato fatto anche nei primi dieci, dov'è parso più opportuno, e l'altra cosa sia stata fatta anche in questi ultimi. Se invece preferisci farne non solo due ma più volumi, allora è opportuno che tu ne faccia cinque volumi, di cui il primo contenga i primi cinque libri nei quali si discute contro coloro i quali sostengono che, alla felicità della vita presente, giova il culto non proprio degli dei, ma dei demoni; il secondo volume contenga i seguenti altri cinque libri i quali confutano coloro che credono debbano adorarsi, mediante riti sacri e sacrifici, numerosissimi dei di tal genere o di qualunque altro genere, in grazia della vita che verrà dopo la morte. Allora i seguenti altri tre volumi dovranno contenere ciascuno quattro dei libri seguenti. Da noi, infatti, la medesima parte è stata distribuita in modo che quattro libri mostrassero l'origine della Città di Dio e altrettanti il suo progresso […] mentre i quattro ultimi mostrassero i suoi debiti fini. (24)
Nel suo svolgimento, tuttavia, Agostino tocca una materia molto varia, che spazia da argomenti di carattere filosofico ad altri di carattere teologico, in un'opera che sopravanza di molto un semplice scritto apologetico. I primi dieci libri, come si è visto, intendono ribattere alle accuse che, dopo il sacco di Roma, i pagani avevano rivolto ai cristiani - e per farlo si rivolgono alla storia delle nazioni pagane, toccando, fin da subito, episodi e personaggi cari ai pagani: così, per esempio, il libro primo sostiene la propria argomentazione chiamando in causa Attilio Regolo e Catone l'Uticense, presi di peso dalle vaste conoscenze di letteratura e storia latina che erano bagaglio abituale, quasi necessario, del retore romano (25)
Gli stessi episodi offrono poi ad Agostino spunti per istituire dei paragoni tra i valori e le pratiche pagani e quelli in uso presso i cristiani. (26)
I libri dall'undici al ventidue dell'opera agostiniana, poi, narrano della nascita e dello sviluppo delle due città, la città di Dio, da cui il libro prende il nome, e la città degli uomini, dal momento della loro fondazione fino alla fine dei tempi ed alla risurrezione promessa dal cristianesimo. Questa porzione del testo, dunque, ripercorre lo sviluppo delle due città nel tempo. Nell'intera opera, quindi, il piano temporale e le vicende della storia assumono un ruolo preponderante. In questo senso, si è potuto parlare de La città di Dio come di un testo di filosofia della storia. Anche tale interpretazione, tuttavia, appare limitativa. (27) Oggetto dell'opera, infatti, non è tanto una filosofia della storia, ma, almeno ad un certo livello la stessa storia dell'umanità a partire dalla creazione, vista con l'occhio del filosofo, che vi cerca un senso, una direzione ed un significato. Alla base di questo testo, tuttavia, si trova la singola esistenza di un individuo che è stato educato a ritenere, nella propria memoria, gli eventi fondamentali della storia romana; di un individuo che, di fronte ad un enigma, interroga quegli eventi, racchiusi nelle "stanze della" propria "memoria". È dunque alla vita di quell'individuo che bisogna rivolgersi, prima di procedere nella lettura de La città di Dio.
2. Confessionum libri XIII
In una sfumatura molto più intimista, il piano temporale assume un ruolo preponderante anche in un'altra opera agostiniana: i tredici libri delle Confessioni. Molti storici concordano nel leggere in quest'opera una risposta a chi, ricordando il giovane Agostino manicheo, guardava con sospetto al suo ruolo di monaco, sacerdote e vescovo cattolico. (28)
Il retore di Ippona, infatti, avrebbe speso molte energie, e scritto molte opere, con l'intenzione di confutare la religione di Mani, cui una volta aveva aderito e che doveva essere ancora piuttosto diffusa nell'Africa del Nord. Anche nelle Confessioni è così possibile rinvenire molti passi in cui aspetti della dottrina manichea, che erano stati problema del male e il problema dell'unicità e della bontà di Dio, contro il dualismo manicheo. Le Confessioni, tuttavia, sono opera di ben più ampio respiro: Agostino vi narra, infatti, quanto ha vissuto, desiderato e sperato nei suoi primi trentaquattro anni di vita; se, in questa narrazione autobiografica, il manicheismo occupa una parte importante, tuttavia solo di una parte si tratta, all'interno di un discorso ben più vasto ed unitario. Proprio tale discorso, anzi, dà significato a quella parte. I tredici libri delle Confessioni costituiscono uno scavare nella propria memoria per ricordare e narrare il passato. L'atteggiamento della confessione è quello di chi ripiega in sé, di chi si chiude in se stesso per aprirsi a Dio, per svelare se stesso a sé ed ottenere da Dio il compimento dell'opera di salvezza: Manifestiamo dunque il nostro cuore quando confessiamo a te le nostre miserie e le tue misericordie per noi, affinché tu ci liberi interamente, dal momento che l'hai già cominciato, e affinché non siamo più infelici in noi stessi, ma felici in te, che ci hai chiamati ad essere poveri nello spirito [...] Così ti ho narrato molti fatti, come ho potuto e voluto, perché hai voluto tu per primo che mi confessassi a te, Signore Dio mio. (29)
Dove in italiano si ha "manifestiamo", nel testo latino Agostino scrive patefacimus, da pateo, che significa "essere aperto" e facere, "manifestare". Ecco che, allora, l'intento di chi si confessa è quello di manifestarsi, o di rendersi manifesto - di s-velarsi, dis-chiudersi di fronte a chi si ama. "S-velarsi" indica proprio togliere il velo che impedisce la vista, per mostrare ciò che vi è celato sotto - ma poiché l'uomo è mistero a se stesso, manifestare il proprio cuore diventa un rivelarsi a se stesso. Ed è questo rivelarsi a se stessi di fronte a chi ci ama e di fronte a Dio, che avviene attraverso uno scavo nella memoria. Dopo aver narrato, nei primi nove libri, di quanto occorsogli dalla nascita alla morte della madre, nel decimo libro delle Confessioni Agostino si interroga sul senso del proprio lavoro. Tramite i tredici libri, infatti, egli intende confessare agli uomini la verità della propria vita: Tu [Dio] hai amato la verità e chi la attua viene alla luce. Io voglio dunque attuarla nel mio cuore, davanti a te, nella mia confessione e per iscritto davanti a molti testimoni […] Il mio presente, mentre scrivo queste mie confessioni, sono molti che desiderano conoscerlo, sia coloro che mi conoscono sia coloro che non mi conoscono e che hanno saputo qualcosa da me o di me, ma il loro orecchio non è presso il mio cuore, dove io sono realmente ciò che sono. Essi vogliono sapere dalla mia confessione il mio intimo, dove non possono penetrare con l'occhio o l'orecchio o la mente. Desiderano udirmi, pronti a credere, ma come lo conosceranno? La carità, grazie a cui sono buoni, dice loro che non mento nella mia confessione a mio riguardo. La stessa carità, che è in essi, mi crede. (30)
Agostino cita, in questo passo, il salmo 51, 8, in cui è contenuta l'espressione "attuare la verità". Il testo latino del salmo, nella versione nota al vescovo d'Ippona, ha il verbo "fare": "facit veritatem" - dunque, chi "fa" o chi "compie" la verità è amato da Dio. Qui si tratta di "attuare la verità nel cuore davanti a te, in confessione". Il desiderio di Agostino è dunque quello di costruire, tessere (facere) una narrazione, nella sua confessione, che gli restituisca la sua verità, la verità del suo essere, della sua persona - l'essere che egli è in verità, la persona che in verità, alla radice dell'anima, egli è. Questo fa la narrazione: costruisce la persona nella sua verità - non in senso relativistico, però, perché metro di quella verità, nel pensiero agostiniano, è la Verità che è Dio. Ora, "attuare la verità", continua il salmo citato da Agostino, fa "venire alla luce", espressione che, in latino come in italiano, è metafora della nascita. Nel ritrovare la propria verità l'individuo "viene alla luce", nasce e vive. La verità, però, secondo la famosa definizione del De vera religione, è ciò che mostra ciò che è (quae ostendit id quod est). (31)
La verità dell'individuo, dunque, è ciò che mostra all'individuo ciò che è. L'atteggiamento della confessione è "attuare la verità nel [proprio] cuore" - costruire un discorso interiore che ricomponga i frammenti caotici dell'esistenza dispersa in un intero ordinato. Di questo la parola esteriore è riflesso e dono - dono della propria verità, che è la Verità, a chi si ama, al proprio prossimo. Per rivelare il proprio presente - per togliere il velo che nasconde il senso del proprio presente - è necessario immergersi nel passato, in quella dimensione dell'anima che conserva quanto nel mondo è ormai svanito: la memoria. Scopo del confessarsi, rivela dunque Agostino, è il desiderio di palesarsi a chi lo circonda ed è a lui unito da un legame di amore fraterno, che lo spinge a desiderare di conoscere più intimamente il vescovo di Ippona. I sensi e la comune facoltà conoscitiva sono incapaci di penetrare all'interno dell'animo umano, per ritrovarvi la verità dell'individuo. Il racconto di sé si propone agli altri come via d'accesso alla propria interiorità. Il compito poi di validare il racconto sarà riservato alla carità, che è presente tanto nel narratore quanto nel narratario, e che dunque li unisce - poiché, però, Dio è carità, (32)
lui stesso si fa garante della possibilità di conoscere l'altro con verità, e che l'altro si faccia davvero conoscere. Il secondo scopo delle Confessioni, che in realtà Agostino pone però come primo, è confessare Dio: E che cosa a te, Signore, davanti ai cui occhi è svelato l'abisso della coscienza umana, potrebbe restare nascosto in me, anche se non volessi confessartelo? Nasconderei te a me, non me a te […] Ti sono, dunque, Signore, noto con tutte le mie qualità. E a quale scopo io ti confessi, già l'ho detto. Voglio farlo non con le parole e le voci della carne, ma con le parole e con il grido del pensiero, che il tuo orecchio conosce. Essendo un malvagio, la mia confessione consiste nel provare disgusto verso di me; invece nella bontà la confessione consiste nel non attribuirsi il merito, perché tu, Signore, benedici il giusto, ma prima lo hai giustificato da empio che era […] E neppure voglio dire agli uomini qualcosa di giusto che tu non l'abbia prima da me sentito. Inoltre ancora: tu non odi nulla da me che tu non me l'abbia prima suggerito. (33)
In questo paragrafo del decimo libro delle Confessioni si nota come Dio possa essere garante della veridicità delle parole del narratore, perché egli conosce l'essere umano nel suo intimo. Più importante ancora, vi si riconosce che le parole stesse con cui l'individuo si confessa non possono che venire da Dio, che agisce all'interno dell'uomo per renderlo giusto ai suoi occhi. Nell'atto di scrivere la propria confessione a Dio, Agostino rivela dunque la propria identità agli altri uomini. Egli però rivela anche a se stesso che quel Dio lo ha reso così com'è, operando all'interno della sua esistenza. Questo dare e darsi un'identità avviene, nelle parole dello stesso Agostino, attraverso il recupero, nelle "vaste dimore della memoria" (34) dei frammenti sparsi del proprio vissuto, che vi sono contenuti, e che attraverso un lento lavoro del pensiero possono essere rinsaldati gli uni agli altri, così che l'esperienza passata abbia coerenza, coesione e mostri chiara una direzione. (35)
Nei Soliloqui, opera composta nel ritiro di Cassiciacum, Agostino aveva scritto: "Io desidero conoscere Dio e l'anima. Nient'altro, dunque? Nient'altro, assolutamente". (36) Proprio nel decimo libro delle Confessioni si trova un esempio del percorso dello spirito che vuole ascendere alla conoscenza di Dio, muovendo per gradi dagli oggetti dell'esperienza quotidiana ed inabissandosi poi nelle profondità dell'individuo. Come indica l'iterazione del verbo "voglio", motore della ricerca è la volontà, che spinge il ricercatore da un grado all'altro della conoscenza.
. (37) Nella Lettera ai Romani, san Paolo aveva scritto che la perfezioni invisibili di Dio sono conoscibili contemplando le sue opere. (38) Memore di tali parole, Agostino inizia il suo percorso interrogando gli oggetti dell'esperienza sensibile, solo per rendersi conto che ogni realtà sensibile rimanda ad altro come a proprio Dio e creatore. (39)
Poiché tutti i dati sensibili dipendono dai sensi che li percepiscono, e poiché i sensi rinviano, a loro volta, all'individuo che li possiede, dopo aver inutilmente interrogato il mondo, la seconda tappa vede l'uomo interrogare se stesso: "Tu chi sei?". Il riconoscimento della natura composita dell'uomo, fatto di anima e corpo, e del corpo come oggetto sensibile tra gli altri che manifesta, nella propria composizione, l'ordine che Dio ha impresso al cosmo (40), conduce allora alla scelta di interrogarne la sola interiorità, cui fanno capo anche i cinque sensi. (41)
Il confronto con "l'uomo interiore", con la propria interiorità, porta Agostino a riconoscere la necessità del mettersi in gioco nella ricerca della verità, senza limitarsi a recepire passivamente i dati dei sensi: le cose, infatti, "non mutano certo la loro voce, cioè la loro bellezza, quando uno le vede soltanto e un altro, vedendole, le interroga [...] esse parlano a tutti, ma sono comprese solo da coloro che confrontano la parola percepita esteriormente con la verità interiore". (42)
Il mondo appare, ancora una volta, come linguaggio - e lo sguardo sul mondo è l'ascolto di tale linguaggio. L'entrare in se stesso coincide dunque con la scoperta, al proprio interno, di un criterio di verità che permette di giungere ad una comprensione più profonda dei dati dell'esperienza sensibile. Possedendo in sé la capacità di discernere il vero, l'anima si mostra superiore agli oggetti sensibili e agli stessi sensi del corpo fisico, che non si possono discriminare; tale superiorità è poi confermata dal fatto che l'anima penetra nel suo corpo e gli infonde la vita, cosa che non fa nessun altro oggetto. La stessa capacità di discernimento, tuttavia, rivela all'anima che Dio le è superiore, poiché è vita per l'anima stessa: è necessario allora iniziare un nuovo percorso che conduca, per gradi, attraverso le facoltà dell'anima, fino a Dio. (43)
Superate quelle facoltà che l'anima ha in comune con gli animali, Agostino giunge dunque "ai campi e alle vaste dimore della memoria". (44)
La parola "campi" indica distese vaste e feconde - vaste perché contengono in sé le tracce della vita passata dell'individuo, oltre a ciò che l'individuo, nel corso della propria esistenza, ha appreso. Da qui la vastità della memoria, qui il senso del plurale su cui Agostino insiste. La stessa memoria è, però, anche una "dimora", un luogo abitato, vissuto - abitato dall'uomo, che vi torna per ritrovare se stesso; e vissuto dai ricordi, che lì palpitano, attendono d'essere ritrovati. Come una dimora, la memoria protegge le esperienze e gli affetti passati dal logorio del tempo. Essa è una facoltà molto importante per Agostino: egli ha infatti studiato a fondo il pensiero dei platonici, per cui conoscere è ricordare, e prima ancora, da retore e maestro dell'arte retorica, ha ben inteso l'importanza di una memoria forte ed allenata a richiamare con facilità i ricordi. Esplorando gli spazi della memoria, Agostino può così giungere dal ricordo del vissuto al ricordo del Sé che ha vissuto: la memoria ricostruisce l'identità attraverso il ricordo degli atti e delle azioni compiute e si presenta, allora, come il legame tra ciò che è stato e ciò che è. Con tutto ciò, però, la memoria svela all'uomo il mistero che egli è per se stesso: mentre infatti l'esplorazione di questa facoltà ne rivela, a chi la compie, l'estensione, resta ignoto il meccanismo per cui si ricorda. (45)
Ripercorrendo le "vaste dimore" della memoria alla ricerca del proprio passato, Agostino vi scopre/vi ritrova anche dell'altro: un filo rosso che lega al presente le occasioni mancate, le scelte compiute, gli errori commessi in passato. Il qui ed ora viene illuminato dal ricordo di una nuova luce - e nel ricordo tutto il passato acquista un senso nuovo: esso dimostra infatti di essere sempre stato direzionato/diretto verso un fine ignoto allo stesso individuo/Agostino, di avere da sempre avuto un significato che trascende il momento contingente. Agostino comprende di non avere stabilito lui quella direzione, di non aver conferito lui quel significato - di non esserne anzi stato neppure cosciente. Quel senso recondito deve allora giungere da un essere superiore alla stessa anima: Dio. Il creato, interrogato, aveva rinviato Agostino al creatore - ed ora la stessa storia dell'individuo, ripercorsa nei luoghi della memoria, rivela, al proprio interno, la presenza di Dio, che nel silenzio guida, suggerisce, quasi costringe l'individuo ad ascoltarlo. A conclusione del suo cammino di confessione Agostino scopre che Dio è sempre stato presente alla radice della sua esistenza, muovendolo perché potesse giungere a Lui: Tardi t'amai, bellezza così antica, così nuova, tardi t'amai! Ed ecco, tu eri dentro di me ed io fuori di me ti cercavo e mi gettavo deforme sulle belle forme della tua creazione. Eri con me, ed io non ero con te. Le tue creature mi tenevano lontano da te, proprio loro che non esisterebbero se non fossero in te. Tu hai chiamato e gridato, hai spezzato la mia sordità, hai brillato e balenato, hai dissipato la mia cecità, hai sparso la tua fragranza ed io respirai, ed ora anelo verso di te; ho gustato ed ora ho fame e sete, mi hai toccato, ed io arsi nel desiderio della tua pace. (46)
L'atto della confessio, il narrare la propria vita significa raccogliere le immagini, le tracce frammentarie lasciate dal vissuto nella memoria, per ricomporle nell'unità articolata di una distensione che si avvicini all'Unità dell'Eterno. Il lavoro della memoria che il confessarsi, lo scrivere le proprie Confessioni implica conduce dunque Agostino a scoprire l'azione di Dio nello svolgimento temporale della propria esistenza. L'atto del ricordare e del dare forma e ordine ai propri ricordi rivela all'individuo l'azione costante, mai interrotta della provvidenza divina alle radici della vita umana, immersa nel tempo, che nel tempo si dipana. In una fase cruciale della sua esistenza, Agostino, in visita a Ponticiano, ode "casualmente" un racconto che sarà assai significativo per la propria conversione [47] - ma nel confessare tale episodio, non manca di cogliervi l'intervento della provvidenza divina: E tu, Signore, durante il suo racconto mi torcevi dentro di me contro di me e mi allontanavi dalle mie spalle dove mi ero rifugiato per non dover vedere me stesso e mi collocavi davanti al mio viso, perché vedessi quanto ero brutto, deforme e sordido, pieno di macchie e di piaghe. Io guardavo e inorridivo e non c'era più luogo dove potessi fuggire da me. E se tentavo di distogliere lo sguardo da me, Ponticiano andava avanti nel suo racconto, e tu mi contrapponevi di nuovo a me stesso e penetravi nei miei occhi, perché vedessi la mia malvagità e la odiassi. La conoscevo bene, ma la coprivo, la trattenevo e la dimenticavo. [48]
In questa narrazione si sovrappongono due piani distinti. Nel suo passato, Aurelio Agostino, retore a Milano, visitò Ponticiano e, ascoltandone le parole, ne fu sconvolto. Ritornando con la memoria a quell'episodio, il vescovo di Ippona può riconoscere, in quel turbamento, l'effetto dell'azione divina, che nel suo intimo lo spingeva alla conversione. L'azione della Provvidenza, nascosta allora dall'immediatezza, dalla prepotenza del vissuto, oggi, nel ricordo, si fa presenza evidente. Come il divenire scivola via ed è inafferrabile, ma può poi essere colto nelle tre dimensioni del tempo all'interno dell'anima, così l'azione della Provvidenza divina, che qui ed ora opera in modo nascosto, può essere riconosciuta nella riflessione sul ricordo. Nel ripercorrere le stanze della memoria, Agostino scopre che nel divenire che è la sua vita, fatta di trasformazioni, avvenimenti, incontri, è sempre presente la mano di Dio, che guida quelle trasformazioni, che pone l'individuo in quegli avvenimenti, che favorisce e causa quegli incontri.
IV. Provvidenza
Ricostruendo nelle Confessioni il suo passato di uomo e peccatore, Agostino aveva ritrovato, radicata in profondità nel proprio vissuto, la mano di Dio: essa lo aveva sorretto e guidato attraverso gli avvenimenti che lo avevano portato alla conversione. Inabissandosi nelle dimore della memoria il vescovo di Ippona aveva trovato le tracce dell'azione occulta di Dio, la sua offerta gratuita di occasioni di apprendimento e salvezza, la sua capacità di volgere il male in bene. La memoria gli si era allora mostrata come il luogo dell'anima al cui interno ritrovare l'azione di Dio nel proprio passato. Il non confessarsi, invece, nasconde Dio all'uomo, e non l'uomo a Dio [49], perché lo sguardo sul proprio passato rivela la presenza di Dio nella vita umana. Discorrendo del tempo e dell'esempio della canzone, si era però visto che quanto si può affermare a proposito di una parte, si può, in egual modo, affermare del tutto: La città di Dio, di conseguenza, mostra come ricordare e raccontare la Storia riveli la presenza e l'azione di Dio nel passato dell'umanità e nel vissuto dei popoli. Dio guida la storia dei popoli. Questo assunto, quasi una premessa indimostrabile, è ripetutamente espresso nei 22 libri de La città di Dio [50], come anche altrove nel corpus delle sue opere. Nel suo scritto Sulle 83 diverse questioni, per esempio, in risposta alla questione 36 Agostino scrive che tutte le cose sono governate dalla Provvidenza divina, che anima, guida, fa crescere il tutto e lo conduce al suo fine. [51]
Il racconto della Genesi, per esempio, è memoria della creazione, conservata e registrata con linguaggio umano nello scritto. La meditazione su tale racconto, tuttavia, rivela come lo stesso atto creativo di Dio impronti di sé tutto il mondo. Un bellissimo passo de La città di Dio lega espressamente Provvidenza divina e creazione ad opera della Trinità: Dunque il Dio sommo e vero con il Verbo e con lo Spirito Santo, che sono una sola essenza in tre persone, è un solo Dio onnipotente, creatore e fattore dell'universo spirituale e sensibile. Partecipando di lui sono felici tutti gli esseri che sono felici nella verità e non nella menzogna. Egli ha creato l'uomo come animale ragionevole composto di anima e di corpo e non ha permesso che dopo il peccato rimanesse impunito ma non lo ha privato della sua misericordia. Ha concesso ai buoni e ai cattivi l'essere comune con le pietre, la vita del seme comune con gli alberi, la vita del senso comune con le bestie, la vita dell'intelligenza comune con i soli angeli. Da lui sono ogni misura, ogni bellezza, ogni ordine, la proporzione, il numero e il peso. Da lui è ogni essere secondo la propria natura, di qualsiasi genere, di qualsiasi valore. Da lui sono i semi delle forme e le forme dei semi e il divenire dei semi e delle forme. Anche alla carne egli ha dato l'origine, la bellezza, il vigore, la fecondità per la propagazione, la struttura delle membra, il benessere organico. Anche all'anima irragionevole ha dato la memoria, il senso e l'appetito e a quella ragionevole la mente, l'intelligenza e la volontà. Egli non ha lasciato senza l'armonia e quasi la pace delle parti non solo il cielo e la terra, l'angelo e l'uomo, ma anche l'interno di un piccolo e insignificante animale, la piuma di un uccello, il fiore dell'erba, la foglia dell'albero. [52]
La stessa struttura di questo brano è tesa a mostrare come la Trinità impronti di sé l'intera realtà creata. Agostino muove, infatti, dalla definizione di Dio Uno e Trino, fine ultimo e felicità suprema di chi lo trova. Con questo incipit, la Trinità è posta al centro del creato, secondo un modo di procedere già utilizzato nelle Confessioni: Ecco ora apparirmi in enigma la Trinità che tu sei, Dio mio. Giacché nel principio della nostra sapienza, che è la tua Sapienza, nata da te, eguale e coeterna con te, cioè nel tuo Figlio, o Padre, hai creato il cielo e la terra. Molto abbiamo parlato del cielo del cielo, e della terra invisibile e confusa, e del tenebroso abisso, con il quale si intendeva la vagabonda e informe realtà spirituale [...] Con il nome di "Dio" coglievo il Padre che creò, e con il nome di "principio" il Figlio in cui creò e, poiché credevo nella Trinità del mio Dio, la cercavo credendo nelle sue Sante Scritture, ed ecco il tuo Spirito era portato sopra le acque. Ecco la Trinità mio Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose. [53]
Nel quinto libro de La città di Dio, tuttavia, il discorso teologico sulla Trinità viene approfondito, così da poter legare in modo più stretto e diretto Dio creatore e realtà creata. Già la definizione di partenza viene elaborata in modo da sottolineare ad un tempo l'unità ed il suo articolarsi in tre persone: Dio, per esempio, è "una sola essenza in tre persone", e tre sono gli attributi legati alla sua unità: "onnipotente, creatore e fattore". Di nuovo, la creazione contiene in armonia misura, bellezza ed ordine, e poi di nuovo proporzione, numero e peso - due insiemi di tre qualità, che riflettono ancora l'azione della Trinità nel mondo; così anche la natura, il genere e il valore che discendono da Dio; da Dio derivano i semi delle forme, la forma dei semi e il trasformarsi dei semi e delle forme; la Trinità dà alla carne origine, bellezza e forza, poi ancora fecondità della propagazione, struttura delle membra e salute. Attraverso questo procedere ternario, Agostino mostra come tutto il creato rechi l'impronta (vestigium) del creatore, e prepara così il terreno per mostrare l'azione della Provvidenza divina nella realtà del mondo. Come nella memoria si trovavano dunque le tracce (vestigia) lasciatevi dal vissuto, tracce che recavano in sé l'impronta dell'azione di Dio, così anche nel mondo - secondo un procedere tipico del platonismo, che lega macrocosmo e microcosmo da una fitta rete di rispondenze, e li vede riflessi l'uno nell'altro. Agostino doveva aver certo avuto esperienza di come la foglia, crescendo, si sviluppi nella forma che le è propria, e come ciò accada a tutto ciò che viene all'essere e si sviluppa - sicché lo sviluppo di un organismo vivente non consiste in altro che nell'assumere la propria forma. Alcuni passi de La città di Dio sottolineano come le cose del mondo non siano formate come l'opera di uno scultore o di un vasaio, che dall'esterno imponga una forma alla materia inerte; ma sono portate all'essere da una "forma che all'interno contiene le cause efficienti per un segreto e occulto ordinamento di un essere vivente e intelligente [...] la cui potenza nascosta, penetrando ogni cosa con la presenza incontaminabile, fa essere qualsiasi cosa che in qualunque modo sia [...]". [54],
Nel suo testo di commento al Genesi, Agostino riprende ed espande il discorso sulle ragioni seminali: pure gli elementi di questo mondo fisico posseggono delle potenzialità e proprietà che per ogni cosa determinano ciò che essa è capace o non è capace di fare, quali effetti ogni cosa è in grado o no di produrre. Tutti gli esseri che sono generati da questi, diciamo così, "germi primordiali" delle cose hanno la loro origine, la loro crescita, come anche la loro fine e scomparsa ciascuno a suo tempo e conforme alla sua specie. Ecco perché da un granello di frumento non nasce una fava né da una fava un granello di frumento e neppure un uomo da una bestia né una bestia da un uomo. Al di sopra di questa attività e corso naturale delle cose c'è il potere del Creatore che è in grado di trarre da tutti questi esseri altri effetti, da quelli che sono contenuti potenzialmente nelle rispettive ragioni seminali, ma non un effetto ch'egli stesso non ha posto nelle loro ragioni seminali come possibile ad essere prodotto da esse o da lui stesso. Egli infatti è onnipotente non in virtù d'un potere arbitrario ma in forza della sua sapienza e perciò nel corso del tempo egli produce a tempo debito da ogni cosa l'effetto da lui posto in essa come possibile. Diverso è quindi il modo di essere per cui un'erba germina in un modo e un'altra diversamente, un'età della vita è fertile e un'altra non lo è, per cui l'uomo è in grado di parlare, mentre non lo è una bestia. Le ragioni causali di questi e simili modi di essere non sono soltanto in Dio, ma sono state incorporate da lui anche nelle cose create. [55],
La ragione seminale, dunque, è il principio attivo e generatore che Dio ha posto nella materia; essa è, nel mondo stesso, il riflesso dell'ordine e della ragione divina. Il divenire del mondo non è casuale né arbitrario, ma è regolato fin dal momento della creazione dalla volontà divina, ed intriso di quell'ordine di cui Dio è il principio. Ogni crescita, ogni sviluppo avviene secondo il dispiegarsi della volontà divina nella materia - e dunque ogni nascere, crescere manifesta la Provvidenza del Dio creatore e ordinatore. Ogni cosa che è nel mondo, dunque, possiede una sua particolare forma intrinseca, propria della sua specie e/o del suo genere, che la porta ad essere ciò che è e che le fa assumere la forma che le è propria nel corso del tempo. Questo universo, creato da Dio, è dunque ordinato dall'interno, di quell'ordine per il quale ogni cosa ha il proprio posto, la propria natura e la propria forma - e tale azione non avviene per imposizione esterna, ma ogni ente diviene nel tempo in virtù dell'azione divina che opera nel tutto e in ogni singola creatura. Poiché, tuttavia, il mondo è creato nel tempo e nel divenire, l'ordine di cui Dio è principio ne anima la storia. Anche qui, dunque, nel mondo naturale, fin dalla sua creazione ed in virtù della natura della creazione, Agostino può trovare una traccia, un segno della presenza e della provvidenza di Dio che agisce in ogni punto dell'universo e regola il tutto. Anche l'essere umano presenta però in sé la traccia dell'azione divina. Esso è, infatti, creato a immagine e somiglianza di Dio, e reca quindi in sé traccia della Trinità: Io esisto, so e voglio; esisto sapendo e volendo, so di esistere e volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà e siano un'unica vita, un'unica intelligenza e un'unica essenza, come infine non si possa stabilire questa distinzione, che pure esiste, lo veda chi può. [56]
Infatti ho memoria di aver memoria, intelligenza e volontà. Ho intelligenza di intendere, volere e ricordare. Ho volontà di volere, di ricordare, di intendere. Con la mia memoria abbraccio insieme tutta la mia memoria, intelligenza e volontà. Infatti ciò che della mia memoria non ricordo, non è nella mia memoria. Ma niente è tanto nella memoria, come la memoria stessa. Dunque me la ricordo tutta intera. Così tutto ciò che intendo so di intenderlo e so di volere tutto ciò che voglio, ora tutto ciò che so, lo ricordo. Dunque mi ricordo di tutta la mia intelligenza, di tutta la mia volontà. Allo stesso modo quando intendo queste tre cose, le intendo tutte intere insieme. Non c'è infatti cosa intelligibile che io non intenda, se non ciò che ignoro. Ma ciò che ignoro nemmeno lo ricordo, neppure lo voglio. Tutto ciò che di intelligibile invece ricordo e voglio, per questo fatto stesso lo intendo. Anche la mia volontà contiene la mia intelligenza tutta intera, e la mia memoria tutta intera quando faccio uso di tutto ciò che intendo e ricordo. In conclusione quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a ciascuna delle altre nella sua totalità e ciascuna di esse nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità: tutte e tre costituiscono una sola cosa, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza. [57]
Immagine della Trinità, l'essere umano riassume però in sé anche tutto l'ordine del reale. Ad esso, infatti, Dio ha dato "l'essere comune con le pietre, la vita del seme comune con gli alberi, la vita del senso comune con le bestie, la vita dell'intelligenza comune con i soli angeli". [58]
Se dunque tanto forte è la traccia di Dio nell'essere umano, e se l'essere umano partecipa di tutti i gradi dell'essere, a maggior ragione sarà presente nella sua esistenza la Provvidenza divina. Ad un primo livello, come già osservato, tale presenza si esplica nell'esistenza del singolo, e può essere rilevata tramite quell'esame interiore profondo ed accurato che Agostino chiama "confessarsi". Ad un livello più profondo, tuttavia, Agostino mostra come la Provvidenza divina si manifesti nella vita dei popoli e nella loro storia: "Non si deve assolutamente pensare che [Dio] abbia voluto rendere estranei alle leggi della sua provvidenza i regni umani, i loro domini e soggezioni". [59]
Tutti i regni, infatti, sono, sostiene Agostino, sotto il potere divino [60] Dio, "di tanta sapienza e potere" da condurre ai fini prescelti anche gli avvenimenti "contrari alla sua volontà" [61] e capace di far rientrare nell'ordine la bruttezza del male [62] volle per esempio "favorire" i Romani "per l'ingrandimento dell'impero". [63]
Gli antichi romani, argomenta Agostino, amavano a tal punto la gloria da volere per causa sua la libertà, e da inibire tutti gli altri vizi a causa del solo amore per la gloria terrena. Proprio in questa loro caratteristica Agostino può trovare una chiave per comprendere il disegno divino: Dopo la lunga durata degli illustri imperi dell'Oriente, Dio volle che se ne formasse uno occidentale il quale, pur essendo posteriore nel tempo, fosse più illustre per l'estensione e la grandezza del dominio. Per punire la grave immoralità di molti popoli lo concesse di preferenza a individui che nella prospettiva dell'onore, della fama e della gloria provvidero alla patria, in cui aspiravano alla gloria stessa. Essi […] reprimevano il desiderio del guadagno e altri vizi per soddisfare questo solo vizio, cioè l'amore della fama. [64]
Il disegno di Dio si mostra però in tutta la sua complessità allorché Agostino nota come il comportamento virtuoso che i romani tenevano nella speranza di conseguire la gloria terrena sia anche esempio per i cristiani che devono tenere un simile comportamento e scegliere o subire sofferenze simili a quelle dei grandi eroi romani, per un premio però maggiore e di gran lunga più desiderabile: la vita e la beatitudine eterne: Se egli non avesse concesso loro la gloria terrena di un impero altamente illustre, non avrebbe assegnata la ricompensa alle loro oneste doti civili, cioè alle virtù con cui aspiravano a raggiungere una gloria tanto insigne [...] Anche i romani disprezzarono gli interessi privati per l'interesse comune che è lo stato e per il suo erario, resistettero all'avarizia, provvidero alla patria con libere consultazioni e in virtù delle proprie leggi non furono soggetti alla delinquenza e alla passione [...] Quindi l'impero romano fu reso grande per la gloria umana non solo perché fosse corrisposta una ricompensa come quella a uomini come quelli, ma anche perché i cittadini della città eterna, finché sono esuli in questo mondo, osservino con attenzione e prudenza quegli esempi e capiscano l'amore che si deve alla patria celeste in vista della vita eterna, se la patria terrea fu tanto amata dai suoi cittadini in vista della gloria umana. [65]
Attraverso un altro esempio, preso dalla storia recente, Agostino mostra come intendere l'azione della Provvidenza divina nelle vicende umane attraverso il tempo. Nel primo libro de La città di Dio, il vescovo di Ippona aveva insistito sul fatto che i visigoti di Alarico, saccheggiando e mettendo a ferro e fuoco Roma, avessero risparmiato chi si fosse rifugiato negli edifici sacri cristiani. [66]
Nel quinto libro, Agostino ritorna su questo tema per paragonare il saccheggio compiuto da Alarico perché permesso da Dio, con quello, mai compiuto ma temutissimo, di Radagasio, che le truppe del generale Stilicone avevano fermato presso Fiesole. Il re dei Goti, commenta Agostino, era stato un fervente pagano, che sacrificava in continuazione agli dei pagani per ottenere la vittoria - e ciò nonostante "fu sconfitto con grande celerità in un solo giorno". Il carattere apparentemente straordinario dell'impresa di Stilicone, e, insieme, l'insolita, inusitata clemenza dei soldati di Alarico, in un evento di tale impatto emotivo sui suoi contemporanei, diventano, per il vescovo di Ippona, il segno dell'operare della Provvidenza e la via d'accesso alla comprensione del disegno divino. Alla radice di questa sconfitta, il vescovo di Ippona legge il decreto della volontà divina: Dio [...] avendo stabilito di punire con la razzia barbarica la condotta di individui meritevoli di subire sventure più gravi, mitigò con grande clemenza la propria indignazione. Concesse quindi dapprima che Radagasio fosse prodigiosamente sconfitto perché non si attribuisse, con scandalo delle coscienze dei più deboli, la gloria ai demoni che, come era noto, egli invocava. In seguito permise che Roma fosse saccheggiata dai barbari che, contro l'usanza delle guerre combattute in precedenza, considerarono immuni coloro che si rifugiarono negli edifici sacri. Concesse anche che i barbari stessi fossero in base alla fede cristiana così contrari ai demoni e ai riti dei sacrifici empi, di cui Radagasio si era fidato, da sembrare che facessero una guerra più spietata contro di loro che contro gli uomini. Cos il vero signore e ordinatore degli eventi afflisse i Romani per clemenza e mostrò ad un tempo, con l'imprevedibile sconfitta degli adoratori dei demoni, che i sacrifici pagani non sono necessari per la conservazione dei beni terreni, affinché da coloro che non resistono per ostinazione ma riflettono con prudenza non si abbandoni la vera religione per le presenti difficoltà, ma si conservi con maggiore attaccamento nella fedele attesa della vita eterna. [67]
Pur nella certezza della possibilità, da parte dell'uomo, di cogliere i segni dell'azione divina negli eventi e nella storia, Agostino è tuttavia ben conscio di quanto sia incomprensibile il disegno divino. Egli scrive, infatti: "Evidentemente questi fatti li dispone e ordina il Dio uno e vero secondo un suo disegno e sempre con ragioni giuste, anche se occulte" [68]
V. Di fronte al mistero
Nel 412 "Eracliano, conte d'Africa, con tremilasettecento navi sbarcò a Roma. Atterrito dall'arrivo del conte Marino e impadronitosi di una nave, si volse da solo in fuga e ritornò a Cartagine. Là fu subito ucciso." [69]
A questa rivolta fu fatta seguire da parte dell'autorità imperiale una dura repressione, in cui si trovò coinvolto anche Flavio Marcellino, uomo politico molto vicino ad Agostino, che, come si è già visto, gli aveva dedicato La città di Dio. [70]
Marcellino era giunto in Africa nell'ottobre del 410, inviatovi dall'imperatore Onorio quale commissario speciale per indagare sui soprusi commessi dai Donatisti, e aveva subito stretto amicizia con il vescovo d'Ippona, in prima linea nella lotta contro gli scismatici. [71] La sua morte fu per Agostino un colpo terribile: l'amico, il politico cristiano che aveva contribuito alla diffusione del pensiero e della predicazione del vescovo africano in oriente, l'emissario imperiale che tanto si era prodigato per l'unità del cristianesimo in Africa e per la pace, era stato ucciso dal suo stesso imperatore. Il dolore procurato alla Chiesa - e certo, sembra di leggere tra le righe, allo stesso Agostino, fu "atroce", [72] soprattutto se considerata la gravità dell'atto malvagio [73] e la santità di chi veniva condannato. [74]
Di fronte ad un avvenimento di simile portata, Agostino sceglie il silenzio: si allontana da Cartagine, dove era avvenuto il fatto, ritorna ad Ippona e riprende ad occuparsi dei suoi fedeli, quasi fosse improvvisamente invecchiato. [75] In una lettera di quasi un decennio più tardi, tuttavia, si può sentire un'eco dell'interrogativo che, allora, doveva avere turbato il vescovo d'Ippona, servo di Dio sconfitto dalle trame degli uomini. Citando le parole dell'apostolo Paolo, infatti, Agostino esclamerà: "O abisso e ricchezza della sapienza e della scienza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi disegni e incomprensibile la sua condotta!". [76]
È lo scacco a cui giunge il desiderio umano di conoscenza: al di là di ciò che all'intelligenza creata è dato comprendere si cela il mistero, inarrivabile, della volontà del Creatore. Commentando il Vangelo di Giovanni, Agostino sosterrà che su questa terra gli esseri umani camminano immersi nelle tenebre, e il mondo è una notte - ma seguendo il lume che è Cristo, e dunque abbandonandosi al redentore con fede assoluta, giungerà a quella visione in cui tutto sarà illuminato dalla luce di Dio: Chi segue me - dice - non camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita. Ciò che ha promesso lo esprime con un verbo al futuro; non dice, infatti, "ha", ma dice avrà la luce della vita. E tuttavia non dice: chi mi seguirà, ma chi mi segue. Usa il presente per indicare ciò che dobbiamo fare, il futuro per indicare la promessa riservata a chi fa: Chi segue me, avrà. Adesso deve seguirmi, poi avrà; adesso deve seguirmi credendo, poi avrà; vedendo faccia a faccia. Finché siamo nel corpo - dice l'Apostolo - siamo esuli, lontani dal Signore; camminiamo infatti al lume della fede e non della visione (2 Cor 5, 6-7). Quando vedremo faccia a faccia? Quando avremo la luce della vita, quando saremo pervenuti alla visione, quando questa notte sarà trascorsa. Proprio di quel giorno che dovrà spuntare, è detto: Al mattino starò davanti a te, e ti contemplerò (Sal 5, 5). Perché al mattino? Perché sarà trascorsa la notte di questo mondo, saranno finiti gli incubi delle tentazioni, sarà vinto il leone che di notte va attorno ruggendo in cerca di chi divorare (cf. 1 Pt 5, 8). Al mattino starò davanti a te, e ti contemplerò. [...] A chi ti rivolgerai per avere Dio, se non a Dio? Si chiede Dio a Dio, che ha promesso se stesso. Si dilati la tua anima per il grande desiderio, si protenda in avanti e sempre più si renda capace di accogliere ciò che l'occhio non vede, ciò che l'orecchio non ode, e di cui il cuore umano non ha esperienza (cf. 1 Cor 2, 9). Dio puoi desiderarlo, puoi appassionatamente cercarlo, puoi anelare a lui con tutta l'anima; ma non puoi concepirlo in maniera adeguata e tanto meno esprimerlo a parole. [77]
Fino al momento in cui potrà incontrare Dio faccia a faccia, tuttavia, l'essere umano si troverà di fronte al mistero, e si troverà, ancora una volta, spinto alla ricerca.
BIBLIOGRAFIA
Per le opere di Sant'Agostino menzionate e citate nel testo, si è fatto soprattutto riferimento all'edizione pubblicata da Città Nuova, disponibile anche online sul sito www.augustinus.it. Ultima visita 31/08/2010.
Dove altrimenti specificato, la versione delle opere agostiniane citata è tratta da qui.
Abbreviazioni nelle note:
Conf. Agostino, Confessioni, tr. it. di G. Sommavilla SJ, PIEMME, Casale Monferrato 2000.
De civ. Dei Id., La città di Dio, tr. it. di , Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova, 19902.
Cusano 1988 N. Cusano, La dotta ignoranza. Le congetture, a cura di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988.
STUDI:
Brown 1967 P. Brown, Agostino d'Ippona, tr. it. di G. Fragnito, Einaudi, Torino 1971.
Chadwick 1986 H. Chadwick, Agostino, t. it. di G. Bona, Einaudi, Torino 1989.
Sirago 1989 V. A. Sirago, "Il sacco di Roma nel 410 e le ripercussioni in Africa", in L'Africa romana. Atti del VI convegno di studio. Sassari, 16-18 dicembre 1988, Gallizzi, Sassari 1989, disponibile on line sul sito www.sirago.net, ultimo accesso 30/08/2010.
Note
(1) Sermo 355, 2
(2) De gen. ad litt., 1, 21, 41
(3) De civ. Dei, 11, 6
(4) Ivi, 12, 12
(5) Ivi, 12, 15, 2
(6) Conf., 4, 10, 15
(7) Ivi, 11, 5, 7
(8) Ivi, 11, 7, 9
(9) Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, 2, 3
(10) Ivi, 11, 8, 10
(11) Ivi, 11, 10, 15-16
(12) De civ. Dei 11, 5
(13) Conf. 11, 10, 16
(14) Ivi, 11, 20, 26
(15) Ivi, 11, 17, 22
(16) Ivi, 11, 18, 23
(17) Ibidem
(18) Ivi, 11, 20, 26
(19) Ivi, 11, 24, 31
(20) Ivi, 11, 28, 37
(21) Ivi, 11, 28, 37
(22) Ibidem
(23) Retr 2, 43
(24) Ep 212/A
(25) De civ. Dei 1, 15; 1, 23
(26) Cfr. per esempio Ivi, 1, 24
(27) Cfr. Chadwick 1986, p. 106
(28) Questi sospetti di fatto accompagnarono Agostino per tutta la vita: cfr. Brown 1967, p. 399
(29) Conf. 11, 1, 1
(30) Conf. 10, 1, 1 - 3, 4, passim
(31) Agostino, De vera religione, 36, 66
(32) 1 Gv 4, 8. Cfr. Id., In epistolam Ioannis ad Pathos tractatus decem, 9, 1
(33) Ivi, 10, 1, 1 - 2, 2, passim
(34) Ivi, 8, 12
(35) Cfr. Ivi, 10, 8, 14; 10, 11, 18, dove questa nozione di frammentarietà e raccogliere nello spirito è riferito in primo luogo alle nozioni delle discipline liberali, ma può essere esteso all'atto dell'ordinare nel ricordo nel suo senso più ampio.
(36) Agostino, Soliloquia 1, 2
(37) Ivi, 10, 7, 11; 10, 8, 12
(38) Rm, 1, 20
(39) Conf., 10, 6, 8-9
(40) Cfr. Agostino, Discorso sulla provvidenza divina (Dolbeau 29), 5-6
(41) Conf., 10, 6, 9
(42) Ivi, 10, 6, 10
(43) Ibidem
(44) Ivi, 10, 8, 12
(45) Ivi, 10, 8, 15; cfr. anche Ivi, 10, 17, 26
(46) Ivi, 10, 27, 38
(47) Ivi, 8, 6, 15
(48) Ivi, 8, 7, 16
(49) Conf. 10, 2, 2
(50) Cfr. ad esempio De civ. Dei, 9, 13, 2: "[...] il mondo non è retto da un destino cieco, ma dalla provvidenza del sommo Dio [...]"
(51) Cfr. De div. ques. 83, 36
(52) De civ. Dei, 5, 11
(53) Conf. 13, 5, 6
(54) De civ. Dei, 12, 25
(55) Agostino, De genesi ad litteram, 9, 17, 32
(56) Conf. 13, 11, 12
(57) Agostino, De Trinitate, 10, 11, 18
(58) De civ. Dei, 5, 11
(59) Ibidem
(60) Ivi, 1, 36
(61) Ivi, 22, 2, 1
(62) Ivi, 11, 18
(63) Ivi, 5, 12, 1
(64) Ivi, 5, 12-13
(65) Ivi, 5, 15 - 16, passim
(66) Ivi, 1, 1
(67) Ivi, 5, 23
(68) Ivi, 5, 21
(69) Marcellinus Comes, "Chronicon", in J.P. Migne, Patrologia Latina, MPL051, 0923: "Heraclianus Africae comes cum septingentis et tribus milibus nauium mox ad urbem Romam egressus est. Occursu Marini comitis territus et in fugam uersus adrepta naue solus Carthaginem rediit ibique ilico interfectus est."
(70) Brown 1967, p. 341
(71) Sirago 1989, p. 7
(72) Ep. 151, 11
(73) Ibidem
(74) Ivi, 151, 8-9
(75) Ivi, 151, 13. Cfr. Brown 1967, p. 342
(76) Ivi, 194, 2, 5
(77) In Ioannem, 34, 7