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Gli inizi della riforma luterana ed il tema della grazia

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Martin Lutero

 

 

 

GLI INIZI DELLA RIFORMA LUTERANA E IL TEMA DELLA GRAZIA

di Giuseppe Corti

 

 

 

 

Cominceremo trattando un tema che è sempre stato molto controverso nella storia del cristianesimo, praticamente fin dalle origini: il tema delle opere – naturalmente le buone opere – e della grazia, e del loro valore, del loro rilievo nella condizione e nella vita del cristiano. In soldoni li potremmo considerare due componenti che procedono parallelamente in senso inverso: attraverso le opere l'uomo sale, tramite la grazia Dio discende; le une sono una pratica umana, l'altra una concessione divina. Ma la verità non è così semplice: perché se noi accordiamo alle opere un rilievo primario svalutiamo contemporaneamente l'azione redentrice di Cristo: se le opere bastano alla salvezza dell'uomo non c'è più bisogno di lui, perlomeno come figura divina. Ma anche la tesi contraria è altrettanto pericolosa: perché se conta soltanto la grazia le opere diventano insignificanti, la scelta dell'uomo per il bene diventa secondaria, non è più elemento di salvezza: capite subito che si tratta di un concetto difficilmente accettabile. Qualcuno di voi dirà: basta mettere l'una e le altre sul piatto della bilancia nel giusto equilibrio e la soluzione è trovata: ma è proprio sulla misura, sul giusto equilibrio che la controversia è nata e, a quel che ne so, non si è risolta. Questa sera vedremo come essa nasca quasi subito nelle comunità cristiane e vedremo anche che Agostino, a dispetto di chi sembrerebbe averlo espulso da questa settimana che pure è intitolata a lui, vi ha svolto un ruolo notevole sia personalmente sia attraverso il recupero dell'interpretazione teologica del suo pensiero.

Ma lasciamo parlare i testi antichi e vediamo come si esprime al riguardo il vangelo secondo Matteo. Premetto che in tutti i vangeli è costante la polemica di Cristo contro chi vive una fede fatta soprattutto di parole, di rispetto formale alle regole ed ai riti [1], ma nel passo che citeremo ciò trova una sintesi molto adatta al nostro tema, anche per gli sviluppi sconvolgenti, e del tutto imprevedibili, che avrà la conclusione di Cristo; leggiamo dunque Mt. 21, 28-31: ... Un uomo aveva due figli. Andato dal primo gli disse: "Figlio, va' a lavorare nella vigna." Costui gli rispose e disse: "Eccomi, signore"; ma non ci andò. Andato dal secondo figlio gli disse la stessa cosa. Ma lui gli rispose: "Non voglio." Però, più tardi, pentitosi, ci andò. Quale dei due fece la volontà del padre? Gli rispondono. "L'ultimo."

Questa breve parabola è chiarissima, non chiede nessuna fatica interpretativa: in questa comunità cristiana l'accento è posto sulle opere, che l'evangelista chiama "eseguire la volontà del padre". Ma vedremo subito che in un'altra comunità cristiana, questa di matrice paolina, la soluzione sembra completamente diversa. Tutta l'opera di Paolo e dei suoi seguaci è dominata dalla fortissima polemica contro la presunzione che per la salvezza basti il rispetto scrupoloso dell'antica legge mosaica [2]. Notate che, per alcuni versi, anche gli evangelisti sono sulla stessa lunghezza d'onda [3]; ma la lettera agli Efesini, che cito perché sintetizza bene la posizione di Paolo, ci dice un'altra cosa: sentiamo Eph. 2, 8-9: Perché per questa grazia siete salvi, mediante la fede, e ciò non proviene da voi: è dono di Dio; non da opere, affinché nessuno si vanti.

Capite subito che qui la comunità di Paolo – oggi la critica tende ad attribuire questa lettera più ai suoi discepoli che all'apostolo stesso – fa una totale svalutazione delle opere. Eppure questi due testi sono quasi contemporanei: appartengono entrambi alla terza generazione cristiana, quella posteriore a Pietro e Paolo: li potremmo collocare entrambi dopo il 70 d. Cr., forse intorno all'80; non è da escludere che siano risposte diverse ad un dibattito sullo stesso tema: forse queste due soluzioni si sono reciprocamente conosciute ed hanno scelto deliberatamente di porsi in contrasto. Non lo sappiamo; l'unico dato certo è che la pensano in modo totalmente diverso. Allora dove sta la verità? In una celebre definizione che Cristo ha dato di sé Lui ha detto di essere la via, la verità e la vita (Gv. 14, 6).

E dove stesse la verità, anzi che cosa fosse la verità qualcuno gliel'ha chiesto; non si tratta né di un discepolo né di un ebreo, ma di Pilato, in uno dei momenti più drammatici della vicenda umana di Cristo, poco prima della sua esposizione alla folla e della scelta della folla di ottenere la liberazione di Barabba; ma la risposta di Cristo è sconcertante; la vediamo in Gv. 18, 37-38: Gli disse dunque Pilato: "Dunque, tu sei re?" Gli rispose Gesù: "Tu dici bene. io sono re. Per questo sono nato e sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è della verità ascolta la mia voce." Gli dice Pilato: "Che cos'è la verità?" E detto questo uscì di nuovo dai Giudei e disse loro: "Non trovo in lui nessuna colpa." Come vedete,

Egli ribadisce di essere la verità, ma alla domanda di Pilato non dà nessuna risposta. Devo osservare, a onor del vero, che non sono infrequenti in Giovanni, che pure è l'evangelista più prolisso nel riportare discorsi di Cristo, queste strane soluzioni: il gettare lì delle parole, delle domande che hanno poco senso nel corpus della narrazione o che, come in questo caso, restano inevase. Ma si può fare anche un'altra osservazione: che diventa difficile una definizione della verità, soprattutto una definizione non propria, ma che viene attribuita a Cristo: il rischio è che sia troppo generica o, forse, troppo riduttiva. E la risposta è il silenzio. Mi ricordo a questo punto di una rapida considerazione che compare nel libro del profeta Isaia, il maggiore dei profeti dell'Antico Testamento, ed il più citato sia negli evangelisti che in Paolo, e pure in Agostino; Isaia, parlando di Dio, e proprio nel gruppo di canti consacrati alla affermazione assoluta e rigorosa del monoteismo giudaico [4], ne dà una definizione insieme drammatica ed esaltante; nel canto XLV, 15, egli dice veramente tu sei un Dio nascosto.

Questo argomento sarà ripreso soprattutto da un movimento che si rifà molto ad Agostino, il giansenismo, e che io traggo dal suo esponente più geniale, ovvero Blaise Pascal; ma si tratta di un concetto che troveremo anche nel primo Lutero. Ora, tornando ad Isaia, perché ho detto che questa definizione è drammatica ed esaltante: drammatica, perché, purtroppo, questo Dio è nascosto, non ci è rivelato: noi possiamo faticosamente, laboriosamente, anche genialmente cercare di definirlo, ma esso ci sfugge, non è comprensibile, non è abbracciabile dalla nostra finitezza. Ma è proprio questo a renderlo esaltante: proprio perché non è definibile Egli continua a provocarci, continua ad essere dentro la nostra ricerca, e più ci sfugge più lo cerchiamo. Voi capite come questo Dio si sottrae ad ogni tentativo di definizione dogmatica: tutte le volte che il dogma ha cercato di spiegarlo, di definirlo, di limitarlo è arrivato soltanto ad un balbettio generico ed impreciso; ed è giusto che sia così; perché noi non lo possediamo; possediamo soltanto l'onestà, la fatica della nostra ricerca.

Ho fatto questo giro consapevolmente tortuoso perché voglio chiedere a voi, che so cattolici persuasi e ferventi, un'operazione di transfert abbastanza brutale: ovvero lasciamo stare il concetto di ortodossia ed eresia, di verità ed errore, della ragione e del torto, di ciò che è storico o di ciò che è perenne. Sono concetti intorno a cui proprio il secolo XVI, che comincia con Lutero, ha combattuto con una ferocia senza pari, proprio perché, sia da una parte che dall'altra, non si credeva di cercare la verità, ma di essere nella verità. Vi avverto per inciso che i secoli dei roghi, della caccia alle streghe, delle persecuzioni e dell'intolleranza religiosa non sono stati quelli medioevali, come comunemente si crede, ma proprio i sec. XVI e XVII, in quella che viene definita Età moderna, l'età che aveva già conosciuto il Rinascimento, l'affrancamento della ragione e l'impervia, faticosa rivendicazione di autonomia da parte della scienza. Non possiamo pronunciarci, come non possiamo pronunciarci, ma solo trattarlo storicamente, sul tema della grazia e delle opere, perché anche là, come nel tentativo di definizione di Dio, le parole sono molteplici e contraddittorie, ed egualmente vere e rispettabili; e tornando a Matteo, e concludendo il suo discorso, vedremo a quale conclusione sorprendente e scandalosa, sottolineo scandalosa, il Cristo ci porti; leggiamo Mt. 21, 31-32: Dice loro Gesù: "In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precedono nel regno di Dio. Giovanni (il Battista), infatti, è venuto a voi per la via della giustizia, e non gli avete creduto, mentre i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto."

Parole senz'altro dure e sorprendenti, ma significative ed anche singolarmente aperte: perché traspare da esse che il cristianesimo non è una religione esclusiva, ma inclusiva, non è fondata sulla limitazione ma sull'apertura. E' la cattiva interpretazione del cristianesimo, spesso ignorando i testi delle origini, che ha voluto costruire una dogmatica rigorosa, precettistica, proprio come quella dogmatica che il Cristo combatteva nel giudaismo del suo tempo.

In fondo sono due gli elementi principali di questo breve frammento di Matteo: "operare ... attraverso la giustizia". E che questo fosse il fondamento dell'annuncio del Cristo è confermato in un altro pezzo celebre che troveremo sia in Mt. 6, 33 che in Lc. 12, 31; lo leggeremo in Matteo, perché si tratta del testo citato più frequentemente: Cercate invece prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in più. Vedete come torni insistentemente il concetto di giustizia, proprio come fondamento, come valore primario, direi quasi unico. Personalmente non ho molte convinzioni e molte certezze, ma sono convinto che il giorno del giudizio non sarà la dogmatica a salvarci, ma la giustizia.

Di questo sono assolutamente persuaso.

 

Paolo, Agostino, Lutero

Torniamo ora alle figure principali che sul problema del rapporto tra la grazia e le opere hanno basato gran parte della loro riflessione. Una l'abbiamo già incontrata: si tratta di Paolo; l'altra è senz'altro Agostino; l'ultima infine è Lutero. Per un singolare destino queste figure sono tutte strettamente correlate: Agostino troverà nella lettura di un breve passo della lettera ai Romani di Paolo la ragione definitiva per la sua conversione al cristianesimo [5]; e Lutero baserà i fondamenti della sua riforma proprio nell'analisi e nella riflessione sui testi paolini, dopo aver acquisito una buona conoscenza di Agostino; non dimentichiamo che Lutero era un monaco agostiniano.

Per cui potremmo arrivare a formulare questo singolare paradosso, che non ci deve sorprendere perché la storia è abbastanza abituata a farsi beffe della nostra razionalità rettilinea: che Agostino, che per alcuni versi sarà il padre contestato della controriforma cattolica, è stato anche il padre della riforma protestante. Bisogna ammettere che la vastità, la poliedricità ed anche la contraddittorietà del suo pensiero ammettevano sia l'una che l'altra soluzione. Farò un passo in più per un intermezzo molto breve: nei primi decenni del XVII sec. un dotto teologo, Giansenio, divenuto poi vescovo di Ypres [6], città delle Fiandre, cercò in un'opera complessa una specie di conciliazione tra l'estremismo luterano, concentrato sulla grazia, ed una insistenza cattolica, che gli sembrava altrettanto pericolosa, incentrata sulle opere; sapete qual è il titolo di questo volume, di cui la Chiesa avrebbe successivamente condannato alcune delle tesi portanti? Augustinus.

La lotta interpretativa su Agostino, una specie di lotta per accaparrarselo, per portarlo dalla propria parte attraversa tutta l'età della Riforma e della Controriforma; noi non potremo seguire questo processo, che è molto complesso, articolato, stimolante e, per alcuni versi, purtroppo, anche penoso; ci limiteremo a due brevissime indicazioni: oltre al caso del giansenismo, che è soprattutto un movimento francese che prende il nome dal Giansenio che abbiamo citato, ci furono altre condanne dopo il concilio di Trento contro l'interpretazione del rapporto grazia – opere che accentuavano l'importanza della grazia, proprio rifacendosi ad Agostino. E, quasi per contrasto, una caratteristica di molti santi dopo il concilio di Trento è proprio la loro attività, soprattutto sociale: un'azione che si esplica specialmente in due settori: l'assistenza ai malati e l'istruzione dei poveri, oltre alla cura degli orfani e delle vedove: sono nomi che conoscete tutti, ma il citarli vi dà l'impressione del numero, dell'attività e di quanto essa sia stata stimata e soprattutto proposta dalla Chiesa come esemplare: si tratta di Gaetano di Thiene, fondatore dei teatini (tra l'altro un ordine che fece propria la regola agostiniana), di Giovanni di Dio e di Camillo de Lellis, fondatori rispettivamente dei fatebenefratelli e dei camilliani; in parte degli stessi cappuccini.

E nell'ambito della formazione dei ragazzi poveri (allora lo Stato non si occupava né dell'assistenza sanitaria né dell'istruzione) possiamo ricordare Girolamo Emiliani, fondatore dei somaschi; Filippo Neri ed il suo oratorio; gli scolopi; Giuseppe Calasanzio. E sempre in questo periodo abbiamo i primi casi di attenzione alla condizione femminile, sia per quanto riguardava l'assistenza che la loro formazione scolastica. Ora è legittimo chiederci per quale ragione Paolo, Agostino e Lutero abbiano tanto svalutato le opere. Paolo lo ha fatto nelle grandi lettere che oggi la critica tende ad attribuirgli come autentiche: la lettera ai Romani, ai Galati, le due lettere ai Corinzi: sono le lettere in cui è fortissima la polemica contro una religione formale e dove si rivendica la particolarità del cristiano proprio alla luce della redenzione, ovvero del riscatto e della modificazione della condizione umana determinata dalla crocifissione e dall'evento, assolutamente unico, della resurrezione.

Agostino ho accentuato questo tema soprattutto nel corso della sua polemica contro i pelagiani, in particolar modo nel trattato contro un loro esponente, Giuliano di Eclano; ma le citazioni da Paolo percorrono tutta la sua opera, anche quella anteriore; basta scorrerne l'elenco in una sua opera che possiamo considerare giovanile: Le Confessioni; ebbene già in questo testo, che non è un'opera di teologia, ma una specie di biografia personale, Paolo ricorre più spesso di tutti gli altri quattro evangelisti. Infine Lutero verrà definendo la sua teologia proprio attraverso il commento all'epistola ai Romani ed ai Galati e sull'opera di Paolo tornerà ripetutamente nel corso della sua vita.

Ebbene, torniamo ancora a chiederci perché tanta svalutazione dell'uomo e perché tanta insistenza sulla grazia divina in queste tre figure. Ora, se facciamo caso alle loro vite, troviamo una costante: tutti sono stati dei convertiti. Ma non c'è soltanto questo: conta anche il modo con cui ciò è accaduto: per tutti si è trattato di un evento repentino, folgorante, che ha cambiato in maniera risolutiva le loro vite, e ciò è accaduto una volta per sempre; dopo quell'evento, che tutti hanno considerato una specie di chiamata, di elezione diretta e personale, la loro vita non è più stata la stessa.

La vicenda di Paolo è senz'altro la più nota: noi non sappiamo con precisione cosa è accaduto sulla via di Damasco, ma sappiamo che dopo quella singolare esperienza Paolo ha cessato di essere un fariseo fervente ed è diventato un apostolo di Cristo straordinariamente tenace. La vicenda di Agostino è molto meno traumatica: a Milano aveva già abbandonato il manicheismo, che era stata la sua grande passione giovanile; già era diventato un discepolo di Ambrogio; ma anche per lui la scelta definitiva per il cristianesimo ha luogo in quel giardino imprecisato dove sente quella voce indefinita che lo guida ad un passo di Paolo, che scioglie tutte le sue reticenze: il battesimo, il ritorno in Africa, la scelta di una vita monastica sono tutte conseguenze di questa singolare illuminazione. Anche Lutero, che non possiamo propriamente considerare un convertito perché la sua famiglia era formata da ferventi cristiani, ha avuto a sua volta un'esperienza molto singolare: durante un violento temporale un fulmine lo ha sfiorato e lui, nello sconvolgimento del momento, ha fatto il voto di farsi monaco.

Teniamo presente che per tutti e tre la loro scelta non ha affatto significato un miglioramento della loro condizione, tutt'altro: Paolo era un fariseo con una formazione rabbinica prestigiosa; il padre, che non doveva essere povero, gli aveva consentito studi di alto livello; avrebbe potuto essere un rabbino brillante, tranquillo e rispettato. Il suo passaggio al cristianesimo gli portò solo guai: lui stesso ricorda gli arresti, i processi, le fustigazioni [7]; era odiato dagli ebrei, che non sfuggirono occasioni per denunciarlo e costringerlo alla fuga, perché visto come un rinnegato della loro fede, e sospetto ai cristiani, che ricordavano i suoi trascorsi di fervente fariseo. Anche Agostino non trasse grandi vantaggi, soprattutto se teniamo presente le sue ambizioni giovanili: se non avesse scelto il ritorno in Africa, in un ritiro modesto, avrebbe potuto fare carriera: era un maestro stimato, soprattutto un retore di successo, aveva accesso e poteva parlare alla corte.

Certamente, se consideriamo la sua futura carriera, ha sofferto molto meno di Paolo; ma al momento del suo battesimo nessuno gli garantiva un episcopato, e teniamo presente che essere vescovo di Ippona non era un grande traguardo: si trattava di una cittadina; il suo vescovo non aveva certamente né le ricchezze né il potere dei vescovi di Cartagine o di Alessandria; inoltre la comunità cattolica cui era preposto sembra che costituisse la minoranza dei cristiani; la maggioranza aderiva al donatismo, ed all'interno di questo movimento c'erano gruppi, i circoncellioni, che non esitavano a praticare la violenza contro i cattolici; una situazione difficile, che esigeva insieme disponibilità al dialogo e durezza di rapporti. Lo stesso Lutero fece una scelta mortificante per le ambizioni sue e soprattutto della famiglia: il padre era un contadino minatore che, soltanto con la dura fatica, era riuscito a diventare socio della compagnia che gestiva la miniera in cui lavorava; per il figlio aveva grandi progetti: lo avrebbe preferito vedere un esperto di diritto piuttosto che un povero monaco. Anche lui, come Agostino, aveva davanti a sé una carriera promettente: quando si ritirò in convento aveva già frequentato corsi universitari ed aveva ottenuto la facoltà di tenere lezioni dentro l'università stessa; gli si poteva aprire, quindi, un futuro di professore universitario. Rispetto alle sue possibilità la condizione di monaco era un regresso.

C'è un'altra componente caratteriale che unifica queste tre figure: la loro determinazione. A dispetto dell'iconografia, che tende a rappresentare soprattutto Paolo ed Agostino in un aspetto svirilito, si trattava di persone dal carattere deciso e tenace: erano persone intransigenti, con cui non era facile trattare ed a cui era ancor meno facile far mutare parere.

Tutti hanno svolto la loro azione in modo inflessibile; tutti erano convinti di essere interpreti e portatori di una verità autentica. Proporremo ora una interpretazione delle ragioni che hanno operato nelle scelte sia di Paolo, che di Agostino e Lutero; trattandosi di una interpretazione è soggetta naturalmente a tutti i limiti ed agli errori che questo comporta; proprio per questo cercheremo di allacciarla a qualche dato concreto. Abbiamo visto che nella vita di tutti e tre questi personaggi irrompe in modo repentino un evento inspiegabile, in cui essi hanno visto una manifestazione del divino rivolta in modo diretto alle loro persone; non entriamo nel merito di ciò che è accaduto, ma loro l'hanno interpretato così; potremmo chiamarla rivelazione, potremmo chiamarla intervento della grazia divina, ma su questo fatto essi hanno basato la loro vita; dunque vanno presi molto sul serio, perché una coscienza che si modifica, una vita che si modifica - ed abbiamo visto quanto ciò abbia inciso su di loro ed a quale prezzo -, non si può liquidare mettendoli tra i visionari. Proviamo ora a stabilire un rapporto: se io ho conosciuto la grazia, perché non posso pensare che essa ha operato anche nella storia, anche in tutta la condizione umana? io, alludendo a questi tre, ho una esperienza diretta che esiste.

Ebbene, anche la storia, l'umanità è stata testimone di questa esperienza diretta: si tratta della vita del Cristo, con la sua predicazione illuminante, con la sua morte e la sua resurrezione. Questo evento, che ha operato storicamente in modo diretto soltanto per i suoi discepoli, è la grazia che è stata concessa non soltanto a loro, ma alla storia ed all'umanità; ed è l'evento che ha mutato la storia e l'umanità. Questo lo poteva vedere già Paolo, ed ancora meglio Agostino e Lutero: tutti costoro hanno vissuto un aspetto singolare che giustificava anche questa concezione: si tratta del successo della loro azione. Paolo si lamenta spesso delle sue comunità, disordinate, ribelli, divise, ma deve riconoscere che la predicazione seguita alla morte di Cristo ha avuto un singolare successo: a meno di 30 anni dalla morte del Cristo ci sono comunità cristiane in Palestina, in Asia Minore, in Grecia, a Roma [8]; lo storico romano Tacito, parlando dell'incendio di Roma sotto Nerone – siamo nel 64 d. Cr. – riconosce che si tratta di una grande moltitudine [9].

Anche Agostino vede il successo del cristianesimo: certo non è così sciocco da non capire che il favore dello Stato opera in modo decisivo, ma quello che conta per lui è il risultato; teniamo presente che il favore dello Stato non aveva affatto operato a favore del paganesimo, la cui crisi era proseguita in modo irreversibile. Anche Lutero è testimone di una grande successo: ci fu un momento in cui parve che il cattolicesimo romano stesse per soccombere: tutta la Germania, il Nord Europa, la Cecoslovacchia, la Svizzera, a modo suo l'Inghilterra, avevano accolto la Riforma; essa era penetrata in Francia, che sarà il paese che soffrirà di più per le guerre di religione; in Italia, Venezia aveva seriamente pensato di introdurla, per la sua consueta rivalità politica con lo Stato papale; persino in Spagna, persino nella stessa Roma si erano formati dei circoli riformati. E tutto questo, per tutti loro, non era senza significato: era la prova della grazia operante nella storia. Anche i vangeli ne prendono atto, ed attribuiscono al Cristo queste frasi, che leggeremo ancora nel vangelo secondo Matteo: Mt. 7, 15- 17: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in vesti di pecore, mentre dentro sono lupi rapaci.

Li conoscerete dai loro frutti: forse che si raccolgono grappoli d'uva dalle spine o fichi dai rovi? Così ogni albero buono fa frutti buoni, mentre ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Mt. 21, 21: E Gesù, rispondendo, disse loro: "In verità vi dico, se avrete fede e non esiterete, non solo farete come al fico, ma anche se direte a questo monte: Togliti e gettati in mare, ciò avverrà. Solo apparentemente queste due brevi pericopi sembrano scollegate, ma non è così: nella prima Cristo invita a giudicare gli uomini dai risultati della loro azione: il successo non è una componente negativa, non è una indicazione di errore. Nella seconda viene presentato un elogio, che arriva fino al paradosso, della forza della fede: una convinzione che tutti e tre hanno condiviso in modo assoluto. Vedete come a questo punto tutto trovi un suo senso ed una sua spiegazione: il Cristo li confermava nella loro intransigenza, la storia li confermava, la grazia l'avevano conosciuta direttamente ed interpretata nella storia dell'uomo.

Ora capiamo come fosse impossibile far deflettere questi personaggi dalle loro convinzioni, ma anche come essi trovassero saldi fondamenti. Siccome parliamo soprattutto della Riforma c'è un ulteriore dato storico molto importante da tener presente, sempre nella logica del successo: nel 1527, dunque neppure dieci anni dopo l'inizio della Riforma, Roma, che Lutero amava definire come Babilonia - dunque sentina di corruzione e di peccato -, fu saccheggiata dai lanzichenecchi tedeschi, delle cui truppe i riformati costituivano una buona parte. Potete immaginare l'eco che questo fatto provocò in Germania in ambito protestante: pensiamo all'eco che il sacco di Roma del 410 d. Cr. ebbe nel mondo antico e trasferiamo la stessa impressione nel mondo luterano: voi capite come fosse facile trarre la stessa sensazione, che un mondo, in questo caso un mondo religioso e teologico, fosse prossimo al crollo. Noi oggi conosciamo lo sviluppo dei fatti, e sappiamo che il sacco di Roma del 1527 non è comparabile a quello del 410, ma chi viveva la storia allora non aveva questi elementi in mano: i riformati, ostili a Roma, erano facilmente indotti a vedere in questo fatto la prova che anche Dio si era pronunciato in modo molto chiaro, e forse definitivo.

C'è anche un altro fatto, poco noto, che riguarda soprattutto la seconda metà del XVI sec., che serve a farci capire il clima che si respirava in quell'epoca: ovvero vi furono intellettuali, religiosi ed anche gruppi di fedeli che credettero che fosse prossima la fine del mondo: i loro ragionamenti erano abbastanza sconcertanti, univano componenti diverse, ma non erano del tutto insensati: c'erano complessi calcoli astronomici, interpretazioni numeriche, alcune tratte anche dalla Bibbia, ma i fondamenti di questa fine imminente si trovavano proprio in due eventi che avevano sconvolto il mondo nel suo aspetto religioso e geografico: l'uno era la Riforma, che alcuni interpretavano come il trionfo dell'AntiCristo ed altri come l'avvento dell'interpretazione autentica del messaggio di Cristo; l'altro era la scoperta delle Americhe e delle parti dell'Africa e dell'Asia fino ad allora sconosciute; si pensava che siccome questi popoli erano stati raggiunti dal vangelo, e dunque che esso era stato diffuso in tutto l'universo, non c'era più ragione che il mondo continuasse ad esistere: la profezia di Cristo si era avverata, la verità aveva raggiunto tutti i popoli della terra [10]. Concludiamo questa parte osservando che per fortuna Dio ha l'abitudine di deludere i suoi numerosi, e qualche volta troppo presuntuosi, interpreti.

 

La Riforma

Ora torniamo, e concludiamo, con Lutero; la Riforma è un fenomeno molto complesso: esso esige la conoscenza di un'anima, quella di Lutero; un cenno sulle condizioni della Chiesa in generale e specificatamente in Germania; lo sviluppo delle scontro ed anche il definirsi delle concezioni della parti durante la controversia, in quanto il pensiero sia di Lutero che della Chiesa non è affatto chiaro fin dall'inizio ma matura progressivamente nel tempo proprio durante lo scontro; non è possibile sintetizzare, anche per sommi capi, in una breve conferenza tutti questi elementi. Mi atterrò quindi ad una soluzione, che mi sembra la più economica ed anche la più utile: parlerò solo della fase iniziale del conflitto, ma in modo che tramite le componenti in gioco ed i loro primi comportamenti si possa avere un quadro generale dei problemi principali della Chiesa in quel tempo. Reputo necessario fare una premessa di carattere generale: è stato detto, e ritengo giustamente, che in un certo senso Lutero ha riportato indietro le lancette della storia [11]: durante il Rinascimento la religione era diventata qualcosa di frivolo, di superficiale, di poco significativo; Lutero ha riportato la religione al centro della vita individuale e della storia, l'ha resa di nuovo qualcosa per cui vivere e morire; i secoli XVI e XVII si collocano tra due stagioni della cultura, il Rinascimento e l'Illuminismo, che sono caratterizzati dallo stesso sostanziale scetticismo critico nei confronti della religione: tra l'una e l'altra età la Riforma luterana ha l'effetto di una deflagrazione che coinvolge tutta l'Europa. La mia è una semplificazione, perché anche l'esperienza religiosa dei due secoli precedenti penetra nell'Illuminismo; ma in questi due secoli l'esperienza religiosa tornò ad avere un ruolo centrale, quasi assoluto, che stava perdendo prima e che perse dopo. Come sapete il conflitto tra Lutero e la Chiesa esplode intorno al problema delle indulgenze. Si trattava di una pratica che si era diffusa nel Medioevo e che aveva avuto un grande successo. Essa non trovava nessun fondamento nei testi sia dell'Antico che del Nuovo Testamento e tutta la grande patristica dei primi secoli cristiani non ne aveva fatto cenno.

Essa dunque nasce tardi, ma si inserisce con successo nell'ambito delle pie pratiche popolari che caratterizzano appunto il Medioevo: ad esempio i pellegrinaggi, le processioni, le cerimonie liturgiche solenni, i digiuni, il culto delle reliquie. Questa fortuna è anche molto comprensibile: v'era in essa anche un gesto di attenzione, di cura ai propri cari defunti, e questa attenzione, per quanto quei secoli fossero molto più violenti e brutali di oggi, è una caratteristica molto forte, molto costante nell'animo umano: la ritroviamo infatti, in modo diversi, in tutte le civiltà. Attraverso le indulgenze quella che un tempo veniva definita la "chiesa militante" pregava ed affrettava la liberazione dal proprio stato di quella che, sempre nel passato, veniva chiamata la "chiesa purgante". V'era inoltre l'efficacia anche per chi lucrava l'indulgenza per se stesso ed i suoi peccati.

Questo si fondava su un concetto: che, mentre il peccato è individuale, il bene è collettivo: fa parte del patrimonio della Chiesa, sono i benefici che gli vengono da Cristo, dalla Vergine e dai santi; ed essi possono essere messi dalla Chiesa stessa a disposizione dei peccatori; ed alcuni luoghi, alcuni momenti "forti" della vita del cristiano sono particolarmente adatti al conseguimento di questi meriti [12]. Naturalmente in origine l'indulgenza aveva un carattere soprattutto spirituale: era legata ad atti di devozione, a pratiche di macerazione, talvolta anche molto dure. Ma, come spesso accade, l'elemento spirituale era stato presto soffocato da quello materiale, direi proprio squisitamente economico: anche oggi si dice "lucrare le indulgenze", e lucrare, oggi come ieri, significa semplicemente trarre dei vantaggi economici senza andare tanto per il sottile. Il meccanismo economico delle indulgenze si presentava inoltre straordinariamente vantaggioso, in apparenza per tutti: ne traeva vantaggio la chiesa romana, che proclamava le indulgenze speciali; ne traeva vantaggio il signore locale, spesso un vescovo, che ne autorizzava la predicazione; ne traevano vantaggio anche i predicatori, che si tenevano la loro parte.

Nel caso specifico l'indulgenza era stata proclamata per la costruzione della grande basilica di S. Pietro a Roma, ma serviva anche per altri scopi: il mantenimento della curia romana, che non era altro che una grande e costosissima corte principesca; serviva anche per l'esercito, impegnato in quegli anni in frequenti battaglie nei conflitti che travagliavano l'Italia: e l'esercito era composto da soldati, ovvero da stipendiati; a ciò bisognava aggiungere i molti funzionari della curia ed i molti artisti – alcuni di grande valore, che ci hanno lasciato un patrimonio artistico straordinario -, ma nella massa si inseriva pure un gran numero di scrocconi. Anche i predicatori delle indulgenze si prendevano la loro parte, e spesso la usavano per fini tutt'altro che stimabili; non insisterò su questo elemento perché Lutero non ebbe a confrontarsi con avversari di questo genere; egli poté attaccare le indulgenze come concezione, senza basarsi sulle scarse qualità morali dei predicatori.

Ma il caso che si trovò ad affrontare era oltremodo singolare. Infatti il vescovo Alberto di Magonza, che consentì la predicazione delle indulgenze nel suo territorio, aveva contratto un debito con la curia romana; egli aveva ottenuto un terzo vescovado – ma a quell'epoca c'erano vescovi che ne avevano anche di più – dietro pagamento di un compenso di 10.000 ducati alla curia romana, soldi che erano stati anticipati dai banchieri, nei confronti dei quali Alberto di Magonza era in debito [13]. Si trattava di un debito considerevole, e di conseguenza anche lui benedisse queste indulgenze come occasione per far cassa. Il giro creato dalle indulgenze sembra perfetto: tutti traggono dei benefici. In realtà c'erano anche le vittime: si trattava dei poveri credenti che versavano un denaro scarso e sudato a persone che conducevano una vita lontanissima dai precetti evangelici, ed esibita con uno sfarzo persino provocatorio ed offensivo. Lutero si fece interprete di questo malcontento. Come vedete si tratta di un fenomeno molto parziale e molto limitato nella vita della Chiesa; nessuno, neppure lo stesso Lutero, poteva prevedere gli effetti che la contestazione delle indulgenze avrebbe avuto nella storia dell'intero Occidente. Ed osservate bene che Lutero non era neppure partito in quarta, come si direbbe oggi; pochi anni prima era venuto a Roma, e non ci riferisce affatto di una sua impressione di disgusto di fronte alla corruzione della curia romana; anzi, appare un giovane devoto, entusiasta delle grandi basiliche e delle solenni liturgie. Prima di decidersi al gesto che avrà in tutta la Germania un'eco impressionante egli aveva cercato il dialogo con la Chiesa ed il suo vescovo, inviando le sue tesi contro le indulgenze alla facoltà teologica e proprio a quel vescovo Alberto che abbiamo citato; se egli si decise ad affiggere le sue famose 95 tesi alle porte della cattedrale di Wittenberg in quel fatale 31 ottobre 1517 – notate bene, alla vigilia della celebrazione dei morti - fu perché nessuno gli rispose. Quel che fu sorprendente è quanto accadde dopo: nel giro di pochissimo tempo, grazie anche alla diffusione a mezzo stampa, che era un'invenzione recente, l'operetta circolò dappertutto e lo sconosciuto monaco agostiniano si trovò ad essere l'interprete di gran parte della Germania.

Poniamo attenzione per un attimo alle date: Lutero affigge le sue tesi il 31 ottobre 1517; il 10 dicembre 1520, soltanto all'incirca 3 anni dopo, egli brucia nella pubblica piazza, davanti ad un pubblico partecipe e plaudente, la bolla di scomunica. Fate attenzione a questo gesto: la scomunica nel Medioevo era un atto terribile: la temevano persino sovrani ed imperatori. Se Lutero poteva permettersi un tale gesto, ed in pubblico, era perché egli godeva di un consenso molto ampio; che si trovava tra persone a cui la pronuncia papale non interessava assolutamente nulla. Erano bastati tre anni, e la storia dell'Occidente era radicalmente cambiata; qualcosa di simile era avvenuto soltanto durante l'età costantiniana, dodici secoli prima. Capite benissimo che lo stato della Chiesa doveva essere ben comatoso se bastava il gesto di un monaco, in una provincia lontana dalla grande cultura, dalla grande ricchezza economica, ed in passato anche in genere fedele a Roma, per avere un tale effetto. E qui dobbiamo chiederci come mai la conseguenza sia stata così straordinaria ed imprevedibile. Tenete presente un altro particolare, che vi può dare un po' l'idea della situazione: tra il 1512 e il 1517 si era tenuto a Roma un concilio ecumenico, il V concilio ecumenico lateranense, convocato proprio per una riforma della chiesa; ebbene esso si era concluso con un nulla di fatto. La Riforma, ovvero la riformulazione della fede come concezione teologica ed anche come organizzazione della Chiesa, emergeva proprio mentre un concilio chiudeva i battenti; a Roma, nessuno si era accorto della bufera che si stava addensando.

Riteniamo opportuno fare una puntualizzazione di metodo importante: noi usiamo i termini Riforma e Contro-riforma. Ora se il primo termine è corretto, il secondo è impreciso: se parliamo di contro-riforma vuol dire che la chiesa cattolica romana si è limitata a condannare le proposizioni luterane senza tener conto delle sue critiche. Non è propriamente così: il luteranesimo ha fortemente influito sulle riflessioni che la chiesa ha fatto su se stessa; non lo si poteva cancellare come si fa con un segno sulla lavagna. La Chiesa si è resa consapevole che i rilievi di Lutero non erano privi di fondamento; per cui più che di Contro-riforma sarebbe opportuno parlare – come, del resto, fanno gli storici della chiesa tedeschi – di Riforma cattolica oppure, per distinguerla da quella protestante, di ri-formulazione cattolica; ovvero di una chiesa che si riesamina, tiene conto delle critiche ed, appunto, riformula se stessa. Lo fa certamente in molte parti in posizione consapevolmente contrapposta a Lutero, ma tutt'altro che ignorandolo. Basta una piccola osservazione: credo che nessuno di voi sapesse del V concilio lateranense, cui ho appena accennato; credo, al contrario, che tutti abbiate sentito parlare del concilio di Trento, che fu la grande risposta al luteranesimo e la grande riformulazione interna della chiesa: ebbene, cosa c'era stato in mezzo a questi due concili, così diversi per importanza e conclusioni: in mezzo c'era stato soltanto Lutero e la sua Riforma. Vedete dunque quanto sia facile capirne l'importanza anche nella storia del cattolicesimo. Per cui, continuando il gioco dei paradossi per cui avevamo affermato che Agostino era insieme il padre della riforma e della contro-riforma, possiamo dire del pari che Lutero, che è senz'altro il padre della Riforma, è stato anche il padre della riformulazione cattolica: i suoi argomenti, le sue contestazioni, le sue risposte hanno guidato il processo di riformulazione del cattolicesimo romano. Va subito detto che Lutero si trovò di fronte ad una guida della Chiesa assolutamente inadeguata alle esigenze dei tempi: i papi con cui dovette confrontarsi furono soprattutto Leone X e Clemente VII, entrambi esponenti della famiglia dei Medici di Firenze; entrambi persone molte attente alle esigenze del casato, entrambi con una grande passione per l'arte, entrambi implicati particolarmente nelle piccole sistemazioni dinastiche e privi, non dico di conoscenze teologiche, ma neppure di una preparazione elementare, ed anche della capacità di fare scelte energiche e conseguenti. Ma sarebbe errato dire che la colpa fu soprattutto loro; essi furono soltanto i mediocri interpreti di una concezione della Chiesa che era comune in quei tempi, e che attraversava da decenni la storia della chiesa: essi vivevano, come l'alto clero, come i vescovi, da principi, con gli interessi, le esigenze, le pratiche, anche i divertimenti dei principi: il loro ruolo, di interpreti del cristianesimo, di un lascito di dottrina e di etica, li riguardava molto poco: esso veniva dopo, molto dopo, i loro interessi mondani. Va detto che questo andazzo non perì con loro e che le scelte dei successori non furono sempre illuminate; ma certamente, soprattutto nella seconda metà del XVI sec., i papi ebbero una statura morale superiore ed una maggior dedizione alla chiesa. Non furono perfetti, chiariamolo subito; ma certamente ebbero una maggior consapevolezza del loro ruolo. Questo non accadde soltanto ai papi.

Prima abbiamo parlato del vescovo Alberto di Magonza, che riunì tre episcopati nella sua persona. Qualcuno potrebbe pensare che si trattasse di una eccezione, e che lui svolgesse la sua funzione di vescovo in una delle tre sedi. Non era affatto così: il cumulo delle cariche non era un fatto infrequente: l'importante, come nel caso di Alberto, era pagarle bene. E soprattutto questi vescovi nelle loro sedi non si vedevano quasi mai: stavano nelle loro residenze principesche, qualche volta nei palazzi della famiglia nobiliare da cui provenivano, e, se andava bene, si recavano a riscuotere le entrate della chiesa di cui erano vescovi una volta l'anno; e in questi casi, oltre alle entrate dei devoti, riscuotevano pure i canoni sulle vaste proprietà terriere e l'altrettanto ampio patrimonio immobiliare. Qualche volta non si recavano neppure a riscuotere personalmente: mandavano i loro amministratori, che potevano essere uomini di chiesa, ma anche laici; non era infrequente il caso che si trattasse di persone all'interno della loro stessa famiglia. Allora chi guidava le chiese, vi domanderete?

Non certo questi vescovi; in genere persone di loro fiducia. E credete forse che la scelta avvenisse sulla base delle qualità morali o intellettuali di costoro? Qualche volta poteva capitare, ma capite benissimo che non era la regola. Anche allora una persona che cavasse più soldi era preferito ad una che avesse maggior moralità. Dopo il concilio tridentino la situazione cambiò: non fu un fatto immediato ed improvviso; vi furono le eccezioni come c'erano le eccezioni, in senso positivo, anche prima; ma i vescovi, in genere, presero possesso delle loro sedi e curarono la preparazione dei loro sacerdoti, e questi a loro volta il significato dell'essere cristiani nei loro fedeli. I seminari nacquero allora. Quando Carlo Borromeo fu nominato vescovo di Milano molti ritennero che non si sarebbe curato della sua sede: apparteneva ad una ricchissima famiglia aristocratica, lo zio era pontefice; si prevedeva che sarebbe rimasto a Roma. Ma Carlo era consapevole che i tempi erano cambiati; che chi era investito da questa dignità non doveva soltanto coprirla, ma meritarla, sacrificarsi per essa se ciò era necessario.

La sua importanza nella storia del cattolicesimo deriva anche dalla sua esemplarità personale nello svolgimento del suo ruolo. E questa era una delle critiche che Lutero rivolgeva alla Chiesa romana: chi ha modificato il suo atteggiamento? Lutero o la Chiesa? Un altro elemento è emerso nel discorso che abbiamo fatto sulle indulgenze, che possiamo sdoppiare in due componenti: da una parte il prevalere di un cristianesimo celebrativo, rituale – i pellegrinaggi, le grandi processioni [14], le reliquie, le indulgenze – rispetto ad una consapevolezza più interiore del proprio essere cristiani; dall'altra una conoscenza molto embrionale del messaggio cristiano.

Vorrei essere chiaro: io non intendo svalutare il cristianesimo degli umili che, proprio per la loro condizione, sono limitati nella loro conoscenza e, di conseguenza, si affidano ad altri fiduciosamente; né intendo esaltare il cristianesimo dei dotti, che molto spesso sono soltanto presuntuosi e moralmente discutibili. Voglio dire che il cristianesimo che veniva proposto era un cristianesimo limitato e mutilato; non si andava oltre e spesso non si reputava necessario che bisognasse andare oltre. Arretriamo un attimo il nostro ragionamento ed andiamo alla radice: il cristianesimo è la proclamazione della divinità di un uomo e l'annuncio, vitale ed insieme sovversivo, della sua parola, che è contenuta, ed in parte già interpretata, nei testi del Nuovo Testamento. Di tutto questo i cristiani delle origini erano consapevoli. Vorrei citare un piccolo episodio di questo cristianesimo antico, sia perché lo conosco meglio, sia perché mi è più caro: il caso dei martiri scillitani. Si tratta del martirio di alcuni contadini africani alla fine del II sec. che, sulla base dei loro nomi, si può ritenere che appartenessero al ceto più umile della popolazione: probabilmente contadini subordinati, al massimo coltivatori diretti, comunque di una piccola proprietà.

Tra i motivi della loro condanna, e del loro martirio, c'è anche il possesso di alcuni libri che per loro erano sacri: si trattava di scritti dell'apostolo Paolo. Non sappiamo se tutti questi contadini sapessero leggere e scrivere, ma è altrettanto certo che non possedevano i libri di Paolo se almeno qualcuno di loro non li avesse saputi leggere. Anche per questi libri essi sono morti: perché contenevano l'annuncio, la proclamazione. Proprio questi stessi libri, nel Medioevo, diventano secondari; non possiamo pensare che fosse una questione di maggiore o di minore diffusione della cultura; i poveri non sapevano leggere e scrivere sia nell'impero romano che negli stati cristiani medioevali. Ma in quegli antichi cristiani c'era l'esigenza di conoscere l'annuncio, nelle sue espressioni primarie, a pochi decenni di distanza dalla morte di Cristo. Nel Medioevo questa non era più sentita come un'esigenza: bastavano le pratiche devote, bastavano le leggende dei santi; la conoscenza dei vangeli era un fatto molto marginale. Contro tutto questo Lutero afferma il primato della Scrittura: sola Scriptura.

Perché in essa, credeva Lutero, c'è l'annuncio di Cristo ed essa basta a tutto: non ci vuole altro, ma soprattutto non è necessario aggiungere nient'altro. Non a caso uno dei compiti che Lutero si darà e che maggiormente lo terranno occupato sarà la traduzione in lingua tedesca del corpus degli scritti testamentari. Su questa linea la Chiesa cattolica non l'ha seguito: la Bibbia ha conosciuto un'ampia diffusione nel nostro mondo cattolico soltanto negli ultimi decenni; la prima traduzione integrale in lingua italiana sui testi originali è opera del Diodati, agli inizi del XVII sec.; ed il Diodati apparteneva ai riformati, non era un cattolico [15]. Però la critica luterana ha avuto due grandi effetti immediati anche nel mondo cattolico: l'esigenza della preparazione teologica e l'esigenza di definire il canone biblico, ovvero i testi che devono essere considerati ispirati.

Ora è facile capire che a un Alberto di Magonza la teologia non interessava né tanto ne poco; ma è altrettanto facile capire che ai membri della curia romana interessati alla conta dei ducati pagati dallo stesso Alberto di Magonza la teologia, del pari, non interessasse nulla. Ma ad un movimento – il rifarsi alla Scrittura è un fenomeno che interessa tutta la cultura protestante –, che cita ad ogni piè sospinto i passi dei vangeli e delle lettere paoline proprio per suffragare le proprie posizioni, non si può rispondere parlando d'altro: bisogna parlare di quello, e trovare lì dentro i fondamenti delle proprie affermazioni. Dunque diventava necessaria una conoscenza anche sottile, non soltanto grossolana, della Bibbia; dunque anche della teologia.

La Chiesa cattolica rispose al luteranesimo anche attraverso una forte preparazione dottrinale. La dogmatica cattolica è stata in gran parte definita, in forma chiara ed universale, dal concilio di Trento. Prima ho ricordato che i seminari vengono organizzati e disciplinati nei loro insegnamenti dopo il concilio tridentino. Aggiungo un'altra cosa: voi sapete che Carlo Borromeo non soltanto prese possesso della sua sede a Milano, ma fu impegnato in continue visite pastorali nella sua diocesi, anche in parrocchie piccole e disagiate, che spesso raggiungeva a dorso di mulo o a piedi. Cosa lo spingeva a questo moto costante anche in località piccole, povere, con pochi fedeli? ebbene, era anche l'accertamento, controllato di persona, della preparazione dottrinale dei suoi sacerdoti. Se ai vertici la conoscenza teologica era così scarsa, potete immaginare la condizione del clero di livello più basso. In queste visite di Carlo c'è anche un aspetto dogmatico, un controllo dell'allineamento sulle posizioni della gerarchia; ritengo giusto ricordare anche questo aspetto, ma penso che vada sottolineata la volontà di accertarsi che il suo clero fosse più preparato e più consapevole. C'è anche un altro effetto interessante, e per alcuni versi sorprendente, della Riforma: ed è la definizione del cosiddetto canone biblico. 

I libri dell'Antico e del Nuovo Testamento si erano definiti poco dopo il II sec. d. C.; e la traduzione di Girolamo in lingua latina si era affermata già a partire dalla fine del IV sec. d. C. come la traduzione di riferimento. Ma mancava, nonostante i molti concili che la Chiesa aveva avuto, un canone che definisse in modo chiaro i cosiddetti libri sacri; anche per questo si dovette aspettare il concilio di Trento. Ed il concilio non si limitò ad individuare ed a definire i libri biblici; ne stabilì anche il testo; questo è importante perché voleva dire che in tutto l'universo cattolico non c'era possibilità di equivoco: quelli erano i libri ispirati e quello era il testo; non ci potevano essere dubbi né interpretazioni. Va detto che anche questa scelta veniva fatta in contrapposizione consapevole a Lutero: il movimento protestante ha un corpus biblico ridotto rispetto a quello cattolico, perché alcuni libri non sono considerati ispirati. Riformata, o meglio ri-formulata la dottrina, bisognava anche ri-formulare coloro che ne erano i portatori, ovvero i sacerdoti, ed il luogo stesso dove veniva fatto l'annuncio, ovvero la chiesa.

Nell'uno e nell'altro campo la ri-formulazione cattolica introdusse elementi significativi. Il sacerdote, ovvero colui che maneggia il sacro, viene distinto in modo rigoroso da quella che un tempo si chiamava anche la massa perditionis: vive isolato dalla comunità, gli è fatto obbligo del celibato, veste sempre in un modo che lo contraddistingua. Anche le chiese vengono modificate: una distinzione tra celebrante e fedeli c'era sempre stata, ma nel periodo post-tridentino questo aspetto si accentua: il sacerdote celebra la messa all'altare, è un rapporto tra lui e Dio; usa la lingua latina, che la maggior parte dei credenti non conosce, e l'abbandona nell'unica parte della cerimonia in cui si rivolge direttamente ai fedeli, ovvero nella predica. Anche lo spazio della celebrazione viene sempre più isolato: si alzano gradini, si costruiscono balaustre. Se visitate una chiesa medioevale notate che la distinzione tra lo spazio del celebrante e quello dei fedeli non è così accentuata; non sempre è facile capire questa differenza perché le chiese sono soggette a continui interventi, e spesso questi sono stati fatti dopo la riforma cattolica, e tenendo conto delle nuove impostazioni.

Ma si tratta di un controllo che potete fare direttamente voi stessi. La Riforma in materia ha fatto scelte molto diverse: il pastore è meno distinto dal suo gregge, ne condivide molto di più la sua vita; le chiese sono più povere, le cerimonie più scarne, proprio perché si vuole accentuare il momento fondamentale dell'atto liturgico: l'ascolto, la riflessione sulla parola. In qualche caso la disposizione stessa dei fedeli è diversa: si celebra come in una specie di tavola, con l'altare al centro. Per concludere vorrei ricordare che la Chiesa ha conservato molti elementi che il protestantesimo ha abolito: anche quella pratica delle indulgenze che ha avuto un effetto così drammatico nella storia del cristianesimo occidentale; essa ha ritenuto che la tradizione andasse conservata, perché gli abusi non ne invalidano il valore, così come un cattivo sacerdote non può giustificare l'annullamento del sacerdozio. Certamente ha introdotto una maggior attenzione; la famosa cautela della Chiesa a pronunciarsi deriva anche dall'esperienza protestante; non si può correr dietro a tutte le apparenti manifestazioni del divino senza correre il rischio del ridicolo.

Come avete avuto modo di osservare la Chiesa deve molto a Lutero: oltre al lascito diretto, che non necessariamente interessa soltanto i protestanti, anche per gli effetti che ha avuto sulla ri-formulazione cattolica. E guardate che questo non è un fenomeno soltanto luterano: l'ortodossia, ovvero la dottrina in cui credete o in cui comunque siete stati educati, non è stata definita da sé, ma sempre nel confronto di idee che nascevano da quella che poi è stata considerata eresia o eterodossia. Sono concetti che non mi piacciono, perché il Deus absconditus di cui parlavo all'inizio, resta un concetto misterioso, ineffabile e terribilmente provocatore, per tutti, e sempre.

 

 

 

(1) - Vd. soprattutto Mt. 23, 13-33 e Lc. 11, 39-47

(2) - In particolare Rm. 2, 17 – 3, 31 e 7, 1-25; Gal. 2, 16; 5, 4

(3) - Tra gli altri. Mt. 3, 9; 8, 11-12; Lc. 13, 28-29; Gv. 8, 33; 39.

(4) - Si tratta dei canti dal 44 al 48.

(5) - Vd. Confessioni VIII, 12; il passo cit. si trova in Rm. 13, 13-14.

(6) - Attualmente non è più sede episcopale. Il termine iprite per indicare un gas deriva proprio da Ypres, presso cui fu utilizzato per la prima volta.

(7) - Vd. soprattutto II Cor. 4, 8-9; 6, 4-10; 11, 21-27.

(8) - Vd. i saluti in Rm. 16, sopratutto 16, 26: si può parlare di eccesso di entusiasmo, non negare il successo della predicazione.

(9) - Vd. Tacito, Annali XV, 44, 4, dove si parla di multitudo ingens .

(10) - Vd. il saggio di M. A. Granada, Calculos cronologicos, novedades cosmologicas y expectatives escatologicas en la Europa del siglo XVI, Rinascimento 37, 1997, pg. 357-435.

(11) - R. H. Bainton, Lutero, pg. 3-4. Si noti la dura, ma vera, affermazione di A. Prosperi, XXVII, nell'introduzione a questo libro: I santi perseguitano i santi.

(12) - Ibid. , pg. 24-26.

(13) - Ibid. pg. 48-50. E' molto istruttiva la trattativa tra Alberto e la curia romana: quest'ultima originariamente richiedeva 12.000 ducati perché gli apostoli erano 12; Alberto ne offriva 7.000, perché i peccati mortali sono 7. Si accordarono a 10.000, ed in questo caso, commenta ironico Bainton, i 10 comandamenti non c'entravano.

(14) - Si tenga presente che i primi cristiani contestavano le processioni pagane, reputate "pompe di Satana".

(15) - La prima traduzione italiana antecedente completa della Bibbia fu opera di Antonio Brucioli, ma si basava sul testo greco. Comunque lo stesso Brucioli aderiva alla Riforma.

 

 

 

Le citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia Concordata, Milano 1968.

Per i dati su Lutero mi sono basato su R. H. Bainton, Lutero, Torino 1960, rist. 2011; su E. Iserloh, La riforma protestante; per il dibattito sulla grazia nel tardo 500, in cui Agostino tornò ripetutamente, su H. Jedin, Il rinnovamento della scolastica. Baio e la controversia sulla grazia, gli ultimi due in Storia della Chiesa (diretta da H. Jedin), vol. VI, Riforma e Controriforma, Milano 1975.