Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Settimana 2011 > Redaelli Giuseppe

LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO in AGOSTINO D'IPPONA E CARLO BORROMEO

Immagine di san Carlo Borromeo

san Carlo Borromeo

 

 

 

LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO NELLA PASTORALE DI AGOSTINO D'IPPONA E CARLO BORROMEO

di Giuseppe Redaelli

(c) 2011 Giuseppe Redaelli - Associazione Storico-culturale Sant'Agostino, Cassago Brianza (LC)

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Questa breve discussione ha, come spesso accade, un inizio un po' incerto, venato forse più di ignoranza e ingenuità che di reale comprensione. Nell'anno 2010 ricorreva un anniversario importante per l'arcidiocesi di Milano: quattrocento anni prima, il 1 novembre 1610, l'arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, veniva elevato all'onore degli altari, ventisei anni dopo la sua morte. Durante una chiacchierata informale, alla fine di quell'anno, mi fu chiesto se mi interessasse tenere una lezione, al convegno della Settimana Agostiniana, su qualche aspetto dell'opera del Borromeo.

La domanda mi lasciò pensieroso. Confesso che allora conoscevo davvero poco del Santo e della sua opera - qualche reminiscenza dei miei studi universitari, in cui aveva fatto una breve comparsa come uno dei portavoce della Riforma cattolica; e il ricordo dei quadri esposti nel Duomo di Milano, e di quei ritratti che avevo osservato all'interno della Villa Borromeo, a Stresa. La figura di questo personaggio, però, mi affascinava, ed insieme ero titubante ad accettare la richiesta: la mia specialità sono i periodi tardo-antico e alto-medievale, epoche ben più remote di quel Rinascimento in cui il Borromeo era vissuto e aveva agito. E tuttavia ...

... e tuttavia inizia a documentarmi, un po' per curiosità, un po' per supplire ad una mia palese mancanza culturale: mi recai presso la locale biblioteca pubblica e, data una rapida scorsa ai cataloghi, richiesi una decina di testi sull'argomento. Tra questi, un piccolo libro attirò la mia attenzione: era stato scritto dall'allora arcivescovo di Milano, Cardinal Dionigi Tettamanzi, nel 2003, e portava il titolo "Farsi prossimi in san Carlo" - un titolo piccino, quasi nascosto dal nome dell'autore, che invece incombeva, a caratteri cubitali, gialli, in cima alla copertina. Poiché Monsignor Tettamanzi era "quasi" un mio concittadino - lui nato a Renate-Veduggio, durante il periodo di unificazione dei due comuni, e quindi legalmente cittadino di entrambi; io nato a Veduggio, quando i due comuni erano ormai separati - decisi di iniziare a leggere proprio da quel libro.

Si rivelò un'ottima scelta. Tra i vari capitoli, uno attirò la mia attenzione: conteneva infatti il testo di un'omelia, pronunciata dal Borromeo il 18 settembre 1569 - altra data significativa: il 18 settembre mio figlio, nato due giorni prima, varcava per la prima volta la porta della nostra casa - e conservata in una traduzione latina dall'allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Giuseppe Antonio Sassi. Nel suo libro, il Cardinal Tettamanzi offriva la traduzione completa dell'omelia, divisa in alcuni brevi capitoli, ciascuno corredato di due o tre righe d'introduzione.

Il 18 settembre 1569 san Carlo predicava sulla parabola del buon Samaritano, uno dei passi lucani a me più cari; e uno dei testi che "il mio" Agostino aveva anch'egli commentato e meditato - e di uno dei suoi commenti alla parabola mi ero occupato anch'io, alcuni anni prima, discutendo il valore etico della riflessione politica agostiniana.

Questo lavoro è nato così. Il suo intento è di ritrovare, tramite Agostino, il senso di quella Tradizione che lega i Padri della Chiesa a san Carlo e al magistero contemporaneo di Monsignor Tettamanzi. In modo particolare, si vuole qui porgere l'orecchio per percepire, oltre l'abisso dei secoli, l'eco di Agostino nelle parole di san Carlo. Non si tratta, tuttavia, di paragonare i due - il lavoro risulterebbe in una compilazione arida e quasi irrilevante - ma di lasciare che attraverso Carlo parli Agostino, che Agostino illumini le parole di Carlo, chiarendone i sensi impliciti; e che Carlo, a sua volta, ci aiuti a vedere in modo trasparente e chiaro il significato dei pensieri del vescovo d'Ippona.

Accanto alla lettera della Scrittura, la Chiesa cattolica riconosce l'importanza della successione apostolica e di quell'insieme di dottrine e di insegnamenti, impliciti, ma non sempre trattati dichiaratamente nella Scrittura, che sono parte di quanto trasmesso da Gesù ai suoi discepoli più stretti; fino al Magistero della Chiesa cattolica, che di tali insegnamenti è oggi e sempre custode: è quanto viene detto Tradizione sacra.

Cinquant'anni prima che san Carlo pronunciasse la predica qui discussa, un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, poteva scrivere:

 

"Fede non è quell'umana illusione e quel sogno che alcuni pensano essere fede. E se vedono che non ne deriva alcun miglioramento della vita né opere buone, sebbene odano parlare, e molti parlino essi stessi, di fede, cadono in errore e dicono che la fede è insufficiente, che è necessario fare opere, divenire pii e santi. Di conseguenza se odono il Vangelo formano qualche proprio pensiero nel cuore e dicono: "Io credo". Stimano che questo sia vera fede; ma siccome si tratta soltanto di un pensiero umano che l'intimo del cuore non conosce, non ha efficacia e quindi non ne deriva miglioramento alcuno. La fede è invece un'opera divina in noi che ci trasforma e ci fa nascere di nuovo in Dio, Giovanni, I. Essa uccide il vecchio Adamo, trasforma noi uomini completamente nel cuore, nell'animo, nel sentire, e in tutte le energie, e reca con sé lo Spirito Santo. Oh, la fede è cosa viva, attiva, operante, potente, per cui è impossibile che non operi continuamente il bene. Non chiede neppure se ci siano opere buone da compiere; prima che si chiedano essa le ha già fatte, ed è sempre in azione. Ma chi non compie tali opere è uomo senza fede, va a tastoni, e cerca intorno a sé la fede e le opere, e non sa che cosa siano né fede né opere buone, e chiacchiera molto intorno alla fede e alle opere buone."  [1]

 

Le parole di Lutero suonano come un invito a non indulgere in inutili azioni caritatevoli in vista della salvezza eterna. Inserendosi sulla linea tracciata già da Agostino, ma conducendo tale linea fino alle sue estreme conseguenze, il riformatore tedesco invita a distogliersi da opere e impegni mondani che potrebbero essere intesi dagli ignoranti come azioni magiche che procurino la salvezza; Lutero invita, invece, a concentrarsi sull'interiorità, sul senso mistico e profondo di una chiamata precedente ad ogni azione, che sola in sé giustifichi; e le opere buone possono giungere solo una volta che la fede sia già attiva nell'uomo, e che l'individuo sia già salvato. Ricordando le parole di san Paolo (Romani, 3, 21-22):

 

"Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. "

 

Lutero interpreta le parole "indipendentemente dalla legge" intendendo che l'uomo è salvato dalla giustizia divina senza doversi guadagnare la salvezza con le opere conformi alla legge morale. Il monaco tedesco commenta che "la giustizia cristiana sussiste senza le opere della legge, così che le opere della legge non servono affatto per ottenerla" e continua:

 

"In virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui" (Rm 3, 20). Da tutto ciò risulta che lo sforzo e il desiderio del "Libero arbitrio" non sono nulla. Poiché se la giustizia di Dio esiste senza la legge, e senza le opere della legge, come potrà non esistere maggiormente senza il "libero arbitrio"! Specialmente poiché lo sforzo più devoto del "libero arbitrio" è di esercitare se stesso nella giustizia morale, o nelle opere della legge, da cui la sua cecità e impotenza derivano la loro assistenza! Questa parola "indipendentemente", perciò, abolisce tutta la giustizia morale ed ogni preparazione per la grazia. In una parola, inventa tutto ciò che puoi, che pertenga al "libero arbitrio", e Paolo resterà saldo e dicendo: la sua giustizia e "indipendentemente" da esso. [2]

 

Di contro a questo annuncio dell'inutilità intrinseca delle opere in vista della salvezza, ogni discorso ed omelia dell'arcivescovo di Milano inviteranno invece all'azione. Così, per esempio, san Carlo si rivolge ai sacerdoti, proponendo loro la santità degli antichi padri a modello di comportamento:

 

"Essi erano integri, casti, semplici, modesti, umili, ben radicati nell'orazione, assidui nella lectio, non condizionati dai parenti, dediti con il cuore e il pensiero alla salvezza altrui, operatori di bene con il consiglio e l'azione, ospitali, sobri nella loro dimora e nel cibo, generosi invece verso gli altri [...] Pascevano con assiduità le pecore loro affidate, con il cibo della salvezza, con l'esempio con i sacramenti; memori che dovevano essere imitatori del sommo Pastore, Cristo, che versò il suo sangue e donò la sua vita per tutto il suo gregge." [3]

 

Nell'Omelia per la lavanda dei piedi, tenuta nel Duomo di Milano il 27 marzo 1567, Carlo così insegnava ai laici accorsi ad ascoltarne la predica:

 

"Il Creatore del cielo e della terra ha lavato i piedi ai poveri discepoli [...] Gesù ha compiuto gesti di umanità a favore di colui che lo tradiva: noi neghiamo il nostro giusto servizio anche agli amici [...] Ci smuova, fratelli, l'incongruenza di questa situazione, e umiliamoci insieme al Signore, se vogliamo essere esaltati con Lui. Serviamo i poveri con Lui, se vogliamo regnare con Lui; laviamoci i piedi gli uni con gli altri, se vogliamo essere accettati da Cristo tra i suoi discepoli. Conformiamoci in questa vita al nostro Capo ed Egli ci conformerà a Lui nella gloria. " [4]

 

Alla radice di questa pastorale dell'azione del cristiano nel mondo, san Carlo situa la sua meditazione sulla carità: "Cristiano, se l'amore è incentivo all'amore, se l'amore è il prezzo dell'amore, se l'amore richiede amore, quale amore ti ha mostrato Cristo!". Ed è così che la pastorale di san Carlo si ricongiunge alla sua riflessione su quei passi del Vangelo secondo Luca e del Vangelo secondo Matteo, in cui i primi discepoli ricevono da Cristo la legge dell'amore.

 

 

IL CONTESTO EVANGELICO

 

Sul retro del testo dell'omelia tenuta il 18 settembre 1569, san Carlo scrive di proprio pugno l'argomento: "Su Luca 10 e Matteo 19". Prima di immergerci nello studio delle parole del Santo, è dunque opportuno studiare attentamente il senso dei due passi evangelici, e insieme osservarne i punti di contatto, così da scoprire che cosa autorizzi lo ad unirli in un'unica argomentazione.

La parabola del buon Samaritano (Lc 10, 30-37), esclusiva del Vangelo secondo Luca, è strutturata in tre parti. La prima, a mo' di Prefazione, introduce il personaggio del viandante; la seconda comprende quattro incontri, rispettivamente con i banditi, con un sacerdote, con un Levita e con il Samaritano. Questi quattro incontri, a loro volta, corrispondono a tre significati concettuali: i banditi rappresentano l'incontro con il male; il sacerdote e il Levita rappresentano l'incontro con il disprezzo e l'indifferenza; il Samaritano rappresenta l'incontro con la compassione. La quarta parte della parabola è costituita da un'istruzione, un invito, quasi un ordine - che Gesù rivolge al proprio interlocutore: "Va', e anche tu fa' così" (Lc 10, 37).

Il brano è incluso nel capitolo 10 del Vangelo di Luca, e narra di un episodio avvenuto durante il percorso che Gesù compie con i suoi discepoli verso Gerusalemme. Nello stesso capitolo, questo episodio è preceduto dalla "missione dei 72 discepoli:

 

Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: "La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: "Pace a questa casa!". Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all'altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: "È vicino a voi il regno di Dio". Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: "Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino". Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città.

Guai a te, Corazìn, guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. Ebbene, nel giudizio, Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!

Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato".

I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: "Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome". Egli disse loro: "Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli".

In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: "Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo" (Lc 10, 1-22).

 

Il numero di settantadue, riferito ai discepoli, può essere messo in relazione con le dodici tribù di Israele: settantadue è infatti ottenuto moltiplicando il numero dodici per la propria metà, sei. Alcuni manoscritti, però, recano la lezione "settanta", suggerendo un significato più interessante in relazione alla totalità del testo di Luca. Nel libro dei Numeri, infatti, si legge che:

 

Il Signore disse a Mosè: "Radunami settanta uomini tra gli anziani d'Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scribi, conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e lì parlerò con te; toglierò dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro, e porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo [...] Allora il Signore scese nella nube e gli parlò: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito (Num 11, 16-17.25).

 

I settanta anziani, scelti da Mosè perché lo assistano, lo accompagnano sul monte, sono investiti dallo spirito di Dio e ricevono il dono della profezia; diventano così i testimoni del patto di alleanza e del manifestarsi di Dio nel mondo. Il loro profetizzare è anche un rivelare al popolo la voce di Dio, così come a loro si è manifestata; è un espandere la parola oltre i confini del suo manifestarsi al singolo Mosè. Allo stesso modo, i settanta discepoli sono chiamati a condividere il fardello missionario di Gesù, e insieme il potere taumaturgico di cui il Messia è investito. Come i settanta scelti da Mosè, i discepoli del Cristo sono stati ammessi al suo cospetto, ne hanno visto un frammento di gloria nei miracoli da lui compiuti, e portano ora le parole da lui ispirate (la loro profezia) tra il popolo.

Dopo il ritorno dei discepoli, Gesù pronuncia una beatitudine rivolta a loro:

 

Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono (Lc 10, 24).

 

Questa beatitudine esalta la felicità dell'esperienza dei discepoli, ma lega tale felicità alla loro possibilità di vedere e ricevere ("udire") gli insegnamenti del Cristo. La "vista" indica anche il porsi al cospetto della divinità e contemplarne i prodigi - ed è proprio questa contemplazione che dona beatitudine. "Beato" è l'occhio che vede, cioè che è aperto di fronte al manifestarsi della divinità; e "beato" è l'occhio che si schiude docile al presentarsi del messaggero di Dio. I settanta discepoli inviati da Gesù pronunciano la parola, e incontrano apertura, accoglienza; ma anche dove sono scacciati devono lanciare un monito profetico, pur nella coscienza che non la loro parola cadrà nella stessa polvere che scuotono dai loro piedi. Essi sono, nel senso etimologico, profeti, coloro che parlano per Dio, di fronte al popolo. Essi sono la voce di Dio, l'eco della sua presenza nel mondo. La metafora lega la beatitudine allo schiudere gli occhi, al vedere per aver saputo e voluto guardare.

 

Nel versetto successivo, un dottore della legge si avvicina a Gesù e, lanciandogli una sfida, lo interroga: "Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?" (Lc 10, 25). Bisogna tuttavia ricordare che nella narrazione di Luca i "dottori della legge" sono coloro che rifiutano i profeti, e insieme il piano di Dio nei loro confronti; essi non riconoscono la giustizia di Dio:

 

Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: "Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?". Costui rispose: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso". Gli disse: "Hai risposto bene; fa' questo e vivrai" (Lc 10, 25-28).

 

A questo interlocutore, Gesù risponde di osservare il comandamento dell'amore [5]. La replica dell'interlocutore è provocatoria: egli non domanda per imparare, o per avere un chiarimento, ma per giustificare se stesso (Lc 10, 29): invece di mettere in pratica il comandamento, egli continua a contrapporsi a Gesù per affermare se stesso contro di lui:

 

Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è mio prossimo?". Gesù riprese: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno". Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' così" (Lc 29-37).

 

Gesù risponde al proprio interlocutore con una parabola; ma il verbo tradotto in italiano con "riprese", tuttavia, è il greco πολαμβάνω, che indica sia la comprensione, sia la spiegazione di un concetto. Gesù ha insomma compreso il gioco del suo avversario, raccoglie la sfida e rilancia.

La parabola della compassione del Samaritano è provocatoria [6]. Nell' "uomo" (Lc 10, 30) vittima dei banditi si intende vedere, tacitamente, un Giudeo - che subisce umiliazione, violenza, furto. Dei suoi correligionari e connazionali, Giudei di alto livello sociale e stimati davanti a Dio, non si fermano neppure, ma "passano oltre". Dietro al loro comportamento si può forse leggere la necessità di aderire alle norme di purità rituale, cui sono soggetti gli appartenenti alla casta sacerdotale, così come sono descritte in Lv 21, 1 ("Un sacerdote non dovrà rendersi impuro per il contatto con un morto della sua parentela") e in Nm 19, 11 ("Un sacerdote non dovrà rendersi impuro per il contatto con un morto della sua parentela"): il Giudeo abbandonato sul ciglio della strada potrebbe essere morto, ed è quindi più opportuno astenersi da qualsiasi contatto con lui, così da non infrangere quanto prescrive il Pentateuco [7]. Chi, invece, soccorre finalmente il ferito è un Samaritano, disprezzato dai puri Giudei.

Il dialogo è seguito da un nuovo episodio, in cui si sottolinea l'importanza dell'ascolto:

 

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta" (Lc 10, 38-42).

 

Questo episodio vede contrapporsi due personaggi femminili: da un lato Marta, persa nelle mille faccende del mondo, tutta compresa nel proprio ruolo di donna, padrona di casa e ospite; come il dottore della legge, che nell'episodio precedente era tutto compreso nella possibilità di vincere la sfida sapienziale con un maestro famoso, e perciò risultava impermeabile alle sue parole; anche Marta vede solo il proprio ruolo, ha solo se stessa di fronte ai propri occhi, ed è per questo impossibilitata ad ascoltare realmente.

Il capitolo 10 del vangelo secondo Luca, dunque, lungi dall'essere un agglomerato di diversi passi collegati in sequenza, ma più o meno indipendenti, si dimostra invece un unico percorso di comprensione del significato della compassione. L'insegnamento si sviluppa in tre momenti: la missione dei discepoli, inviati presso le genti perché le invitino all'ascolto della parola, si conclude con la preghiera di ringraziamento, al termine della quale Gesù dichiara beato chi vede e ode - cioè chi, oltre al proprio desiderio, sa e riesce ad ascoltare davvero. Da questo si passa ad una sfida rivolta a Gesù da parte di un uomo che non vuole ascoltare, che interroga ma non vuole sentire. Il capitolo si conclude quindi con un esempio di perfetto ascolto: Maria, seduta ai piedi del Signore, dimentica della confusione delle attività quotidiane, vuole e sa ascoltare.

L'altro passo citato da San Carlo quale argomento della sua omelia è il capitolo 19 del Vangelo secondo Matteo. In questo capitolo, sia i farisei, con le loro domande su matrimonio e divorzio, sia il giovane ricco, con la sua domanda sull'osservanza dei comandamenti, sono esempi di una falsa fiducia [8]. Essi si sentono certi nel loro aderire totalmente al loro ruolo e alle aspettative della società - conoscere e applicare la legge; rispettare i comandamenti in modo cieco e pedissequo. Manca però loro la capacità di ascoltare "i comandamenti", la parola di Dio, nella sua onnicomprensiva pienezza, andando oltre i limiti del loro ristretto orizzonte individuale.

Il capitolo 19 può essere diviso in due parti: la prima, dal v. 1 al v. 15, relativa a matrimonio, divorzio e castità, contiene alcuni dei detti più famosi attribuiti al Gesù di Matteo. I vv. 16-30, invece, riguardano l'obbedienza ai comandamenti e la carità come necessità di donare e, soprattutto, di donarsi:

 

Ed ecco, un tale si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?". Gli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Gli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso". Il giovane gli disse: "Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi !". Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze (Mt 19, 16-22).

 

Il giovane, insistendo sulla parola "buono", mostra di possedere una concezione relativa e inadeguata di "bontà": egli sta chiedendo con quale buona azione sia possibile impressionare Dio, così da guadagnarsi la vita eterna [9]. Gesù, invece, lo corregge subito: solo Dio è "buono". La sua istruzione, "osserva i comandamenti", è in linea con quanto il giovane, nella sua limitatezza, si attende. Così, anche la domanda del giovane ("quali?") rivela il suo intento e il suo limite: di fronte ai comandamenti, egli è pronto a stilare una classifica, per individuare quelli che, più di altri, siano efficaci nel garantire la vita eterna. Questo, però, significa che il giovane ha dei comandamenti una visione puramente strumentale: essi non sono altro che tecniche da agire in vista di un risultato. La risposta di Gesù è doppiamente interessante. L'elenco incompleto include cinque comandamenti, quasi una sineddoche ad intendere la totalità delle mitzvot; esso, però, si conclude con un sesto comandamento, il comandamento dell'amore, che riassume i precedenti in una norma universale, e non più meramente legalistica. Dalla tecnica, Gesù muove qui ad illustrare una modalità esistenziale onnipervasiva - un vero e proprio essere nel mondo caratterizzato dalla pienezza della carità.

La stessa vita regolata dalla carità vede contrapposto il ricco, che resta legato ai suoi averi e al suo piccolo mondo ristretto e meschino, incapace di donare; e i discepoli, che, invece, hanno "lasciato tutto":

 

Gesù allora disse ai suoi discepoli: "In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio". A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: "Allora, chi può essere salvato?". Gesù li guardò e disse: "Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile".

Allora Pietro gli rispose: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?". E Gesù disse loro: "In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, sederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi. (Mt 19, 23-30).

 

Il capitolo si chiude con il capovolgimento delle attese e delle strutture sociali: primo non sarà chi ora è considerato "grande" o "nobile", chi occupa una posizione di rilievo; ma chi, invece, ora è "ultimo", l'emarginato, lo scacciato, l'escluso. Ritornando al discorso su Luca, esempio di perfetta carità non sono il Levita e il Sacerdote, rappresentanti delle classi elette d'Israele; ma il Samaritano, colui che dagli Israeliti è scacciato e disprezzato.

I due passi evangelici, pur nella loro diversità, presentano dunque molti punti di contatto. Ed è proprio sulla scorta di questi punti che, nell'argomentazione della sua omelia, san Carlo ne unisce i nuclei in un unico, fondamentale insegnamento sull'essenza e il significato della carità. Commentando la parabola narrata da Gesù al capitolo 10 del Vangelo secondo Luca, l'arcivescovo di Milano scrive: "in questa allegoria troviamo racchiuse tutte quelle realtà che riguardano il mistero della salvezza del genere umano" [10].

 

 

SANT'AGOSTINO E SAN CARLO INTERPRETANO LA PARABOLA

 

"UN UOMO"

La cosiddetta parabola del buon Samaritano può essere considerata uno degli esempi più luminosi di vangelo della carità e della misericordia. Prima ancora di esserlo, però, questa parabola è racconto della caduta, della violenza, dell'infermità, dell'abbandono, dell'emarginazione. Tutto questo è subito da un solo personaggio, un uomo senza nome e senza volto, che anche nel tradizionale titolo della parabola viene dimenticato: intestando la parabola al "buon Samaritano", la tradizione popolare sembra quasi dimenticarsi dello sventurato che l'abitante di Samaria soccorre.

L'anonima vittima della violenza dei banditi e del disprezzo del sacerdote e del Levita è destinata a restare senza nome. Proprio nell'anonimato dell'aggredito, tuttavia, si ritrova il suo identificarsi con l'aggressione subita: egli non ha identità, se non per quello che fa e subisce.

Il suo fare, però, è limitato ad una singola azione; il subire è preponderante, è forse conseguenza dell'azione, ed occupa la scena con l'impotenza che l'accompagna. Nel subire il furto, il maltrattamento, la violenza e l'emarginazione, la vittima è sola e impotente.

L'unica azione di questo personaggio senza nome, senza volto, è lo scendere: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico" [11]. Tale azione è dunque una discesa, movimento verso il basso, dal significato simbolico inconfondibile: degradazione, perdita, smarrimento dell'altezza. Punto di partenza del moto è Gerusalemme, capitale del regno di Israele al massimo del suo splendore, sotto Davide e Salomone, sede della collina di Sion e del Tempio che vi sorge, luogo privilegiato d'incontro dell'ebreo con Dio. Agostino scrive che il nome Gerusalemme significa visione della pace [12]. Per il vescovo d'Ippona, pace è la felicità [13] e la tranquillità dell'ordine [14] - ma proprio per questa definizione vera pace si ha soltanto in Dio, principio e creatore dell'ordine [15]. Esempio e manifestazione di ordine è proprio la città, che per essenza è ordine armonioso, agglomerato di cose [16], moltitudine unanime di individui, uniti da un certo rapporto sociale: "La città non è altro che una moltitudine unanime di individui [...] [17] non è altro che una moltitudine di esseri umani unita e legata da un certo vincolo sociale." [18]

La concordia (concors, sopra tradotto con unanime) è un tratto fondamentale e distintivo della città, perché la rende una manifestazione di quell'ordine armonioso in cui i molti sono ridotti a unità, pur rimanendo ciascuno uno in se stesso e individuo.

Come ordine di individui che dovrebbero essere tra loro concordi, ogni città terrena è immagine imperfetta di un ordine perfetto. La Gerusalemme terrena, schiava del peccato, imperfetta e disordinata, è immagine, ombra e figura della Gerusalemme celeste, "nostra madre eterna": "Così Gerusalemme, che significa visione di pace, sebbene sia evidentemente una città di questa terra, è simbolo della Gerusalemme celeste, che è la nostra madre eterna nei cieli" [19]. Nel secondo libro delle Questioni sui Vangeli, dedicato all'evangelista Luca, Agostino conferma che "Gerusalemme è la città celeste della pace", il luogo di beatitudine in cui l'uomo viveva prima della caduta, e a cui, per la promessa misericordiosa di Dio, è destinato a tornare, se cammina sulla via tracciata da Cristo [20].

Come Gerusalemme è luogo d'inizio del discendere, così Gerico è il luogo verso cui l'ignota vittima dei banditi è diretta. Nella sua opera La genesi difesa contro i Manichei, Agostino rileva che "quando il Signore parla di quel tale, che scendeva da Gerusalemme a Gerico e fu lasciato sulla strada ferito, malconcio e mezzo morto, ci costringe a intendere queste località terrene proprio in senso spirituale, sebbene nel senso letterale si trovino sulla terra" [21]. Gerico, in modo particolare, sarebbe simbolo della condizione umana in questa vita: "Gerico, etimologicamente uguale a ‘luna', rappresenta la nostra condizione mortale, in quanto la luna nasce, cresce, invecchia e tramonta" [22].

Il luogo di inizio del movimento e la sua direzione permettono ad Agostino di dare un'identità al viandante: "Quell'uomo che giaceva sulla via tra la vita e la morte è indubbiamente l'intero genere umano." [23]

Altrove, egli riconosce nella vittima dei briganti Adamo "(quell'Adamo che siamo tutti noi), che percorse quella discesa e incontrò gli assassini" [24]. Il riferimento è qui all'interpretazione agostiniana della Lettera ai Romani, 5, 12, in cui Paolo scrive che "come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" [25].

Nell'esposizione del Salmo 50, Agostino commenta: "In Adamo, dice l'Apostolo, tutti hanno peccato" e nel Commento letterale alla Genesi ripete: "In Adamo, nel quale tutti peccarono, tutti muoiono" [26]. Nello stesso commento, il vescovo d'Ippona continua:

 

Come mai dunque l'Apostolo afferma che il nostro corpo è morto, parlando di persone ancor viventi, se non perché ormai la condizione di dover morire a causa del peccato dei progenitori è inerente nei loro discendenti? Poiché è naturale il nostro corpo come quello del primo uomo, ma anche nella sua condizione di corpo naturale il nostro è molto inferiore a quello di Adamo in quanto non può evitare la morte, mentre quello poteva evitarla [...] Quanto a noi, invece, anche se viviamo santamente, il nostro corpo è destinato a morire. A causa di questa ineluttabilità, proveniente dal peccato del primo uomo, l'Apostolo non dice che il nostro corpo è mortale, ma che esso è morto, poiché noi moriamo in quanto siamo tutti solidali con Adamo [27].

 

Nell'associare il viandante all'umanità, il vescovo d'Ippona riprende un'allegoria che, fin dai primi scritti, gli è molto cara: la vita umana è da lui vista come un pellegrinaggio, e il cristiano è, in questa vita, un esule, lontano dalla patria del Cielo e sempre in cammino verso la vita eterna [28]. Nella sua esposizione del salmo 118, egli sostiene, proprio in riferimento al passo di Luca 10, 27, che il genere umano si trova "sulla via" perché "costretto a peregrinare" [29].

La costrizione dipende dal fatto che "l'uomo è stato scacciato dal Paradiso e dalla Gerusalemme celeste" perché gli è piaciuto scegliere il sentiero che discende [30]. Agostino spinge così ognuno dei suoi ascoltatori ad accettare la propria personale responsabilità; in questo senso, vera causa delle ferite e del dolore non sono i briganti, ma la scelta di discendere: "se [il viandante] non fosse sceso per di là, non vi si sarebbe imbattuto [nei briganti]" [31]. Carlo Borromeo, commentando lo stesso passo evangelico, riassume in poche righe la posizione agostiniana: "L'uomo che scende da Gerusalemme è simbolo del genere umano, che nel progenitore dallo stato di innocenza è sceso in Gerico, ossia nello stato dei figli d'ira." [32]

 

 

I BRIGANTI

Nella discesa, prosegue la parabola, "quel tale si imbatté negli assassini" [33]. I briganti sono, secondo Agostino, "figura della morte" [34] o del diavolo e dei suoi angeli [35]. Con questa interpretazione concorda anche il Borromeo, che, infatti, spiega: "I briganti sono gli spiriti cattivi e diabolici che, a causa del peccato, hanno strappato all'uomo i doni soprannaturali, ossia la giustizia originale e la grazia, e l'hanno ferito nel corpo, cioè l'hanno diminuito le forze naturali dell'anima e del corpo" [36]. I briganti, infatti, commenta Agostino, "spogliarono l'uomo della veste dell'immortalità e, infertegli delle ferite inducendolo a peccare, lo lasciarono mezzo morto" [37].

Come nell'interpretazione dell'arcivescovo milanese, le ferite subite nella discesa sono per Agostino i peccati [38]. Leggendo alcuni passi agostiniani, sembra tuttavia che, poiché è il diavolo (i briganti) a causare tali ferite, la responsabilità personale dell'individuo sia ridimensionata: il viandante non può resistere ai briganti che lo assaltano, così come l'individuo è in balia del diavolo e dei suoi angeli.

Lo stesso vescovo d'Ippona sottolinea come il diavolo abbia il potere di sedurre e dominare [39], come insidi con tutte le astuzie ed assalga con tutte le forze [40]. Dopo la venuta di Cristo, tuttavia, "il diavolo, principe della città terrena, sia pure aizzando i propri gregari contro la città di Dio, esule in questo mondo, non ha possibilità di nuocerle in alcun modo" [41].

Dopo la venuta di Cristo, quindi, l'individuo cade in potere del diavolo, o, per dirla diversamente, viene ferito dal peccato, perché sceglie la discesa, la caduta, ponendosi così in balia del male. Da qui l'importanza delle parole di san Carlo, già menzionate: "a causa del peccato". Commenta Agostino: "Quello sventurato giaceva ferito ai bordi della strada appunto perché stava scendendo" [42]. L'essere umano, chiarisce Agostino, è prigioniero:

 

Chi, o fratelli, ci ha preso prigionieri? Quali sono stati i nemici dai quali, talvolta almeno, ci siamo sentiti condurre in prigionia? Quanto alla Gerusalemme storica, anche lei ebbe nemici che ne deportarono gli abitanti. Tali i babilonesi, i persiani, i caldei, e altri popoli delle stesse razze e regioni [...] Tutte le vicende occorse storicamente a quella città sono figure che simboleggiano noi, ed è facile dimostrare che noi siamo prigionieri. Non respiriamo infatti in quell'atmosfera di vera libertà, non godiamo della purezza di quella verità né di quella sapienza che, immutabile in se stessa, rinnova tutte le cose. Siamo sotto la tentazione che ci porta a godere delle realtà temporali, e dobbiamo ogni giorno lottare con l'attrattiva di piaceri illeciti. Sì e no durante la preghiera c'è dato respirare. Siamo prigionieri, lo comprendiamo [...] Sono stati dunque il diavolo e i suoi angeli a prenderci prigionieri: cosa che non avrebbero fatto se noi non avessimo loro consentito. A essere condotti prigionieri siamo stati noi. Dei nostri conquistatori ho già parlato: sono quegli stessi assassini che ferirono il viandante che da Gerusalemme scendeva a Gerico, che lo coprirono di piaghe e lo lasciarono mezzo morto [43].

 

Da questa prigionia, l'individuo verrà riscattato da Cristo, come vedremo in seguito.

 

 

LE FERITE E LA VITA DIMIDIATA

I briganti lasciano il viandante "coperto di ferite da sembrare tutto una piaga" [44] e mezzo morto. Gli effetti della caduta sono dunque l'infermità e una vita dimidiata: "l'uomo è vivo per quella parte che gli è dato comprendere e conoscere Dio, mentre è morto per quella parte che si corrompe sotto il peso dei peccati .Per questo si dice che fu lasciato mezzo morto" [45]. Così Agostino, nel breve commento che ha lasciato di questa parabola nelle sue Questioni sui vangeli. Nel Discorso 171, il vescovo d'Ippona sottolinea che i briganti "avendolo spogliato e dopo avergli inferto gravi ferite, lo abbandonarono sulla via, tra la vita e la morte". Se però il pellegrino è figura dell'intero genere umano, questo ritratto supera l'episodicità del racconto, per riflettersi nel quotidiano: ogni individuo vive un'esistenza dimidiata, mutila, sospesa tra la pienezza di vita, da cui però è lontana, e la morte, cui è invece prossima.

Alla radice del discorso intellettuale risuona la sensazione che la vita sulla terra, la vita nel mondo, se abbandonata al disordine delle passioni e della volontà, immiserita dall'incapacità dell'intelletto di comprendere chiaramente - che questa vita manchi di qualcosa di fondamentale; e che sia quindi davvero un vivere a metà. È la sensazione dell'uomo Agostino, che, come riporta nelle Confessioni, ha trascorso tutta la sua giovinezza - e buona parte della vita adulta - cercando quel qualcosa che gli garantisse una pienezza del volere, dell'amare, del conoscere, del vivere, che fino alla conversione aveva avvertita ora lontana, ora vicina, sempre sfuggente."

 

 

CHI È IL MIO PROSSIMO?"

Chi è stato ferito non è solo nella sua condizione di pellegrino. Altri camminano con lui e incrociano la sua strada: "Passò un sacerdote [...] passò un Levita [...] passò un Samaritano" [46]. L'anafora del verbo "passare" sottolinea questo la molteplicità dei viandanti e l'avvicendarsi degli incontri, ma rivela anche la profonda solitudine e l'emarginazione del ferito. Gesù, come si è visto, non dà alcuna indicazione riguardo l'identità della vittima dei briganti. Dal contesto del racconto, e dai personaggi che incrociano la sua strada, però, Gesù "in qualche modo lo indicò quale Israelita" [47]. E, continua Agostino, "passò un Sacerdote, senza dubbio prossimo per affinità di razza, andò oltre l'uomo che giaceva. Passò un Levita, anche costui prossimo quanto alla razza; anch'egli trascurò l'uomo che giaceva" [48]. Riscrivendo la parabola, Agostino pone in evidenza il rifiuto del ferito da parte di chi dovrebbe invece essergli vicino e accettarlo - perché come lui è viandante, ma anche perché appartenente allo stesso popolo. In questo modo il sacerdote e il levita fanno più che ignorare il ferito: lo pongono ai margini del popolo cui dovrebbe appartenere, lo allontanano dalla fratellanza tra simili, lo isolano quale pellegrino tra i pellegrini. E così aggravano il suo stato di esule e reietto.

Nelle Questioni sui vangeli, Agostino dà un'identità particolare al Sacerdote e al Levita: essi "rappresentano il sacerdozio e il ministero dell'Antico Testamento, incapaci di giovare alla salvezza" [49]. Questo è "segno che la legge non era in grado di guarire l'uomo" [50].

Così commenta Carlo Borromeo: "Il Sacerdote indica la Legge Mosaica, il Levita il discorso dei Profeti, perché né la Legge, né la predicazione dei Profeti sono valse a riportare il genere umano in quello stato dal quale era caduto" [51]. Il passare oltre si rivela così non solo volontà di aiutare, ma anche incapacità di fare davvero qualcosa: entrambi i personaggi sono irrigiditi nelle convenzioni, nelle usanze, nell'obbedienza cieca e assoluta alla legge del loro popolo, ed è questo che, nelle parole di Agostino e di Carlo, li rende incapaci di giovare davvero al ferito. Fossilizzati in un'identità stantia, i due personaggi possono solo passare oltre, preparando la strada a quel personaggio che, invece, vorrà e potrà aiutare la vittima del male. Passati il Sacerdote e il Levita, il viandante ferito resta abbandonato sulla via da Gerusalemme verso Gerico. Certo, se tante sventure ha portato la discesa verso Gerico, molto meglio allora invertire la rotta, lottare con ogni forza per tornare a Gerusalemme: "Scendendo siamo stati feriti. Saliamo, dunque, e cantiamo. E proseguiamo con costanza il cammino, in modo da arrivare alla meta" [52].

Contro il pensiero di chi, come Pelagio e i suoi seguaci, vorrebbe credere l'individuo capace di salvarsi con le proprie e sole forze, Agostino replica: "Dove andrebbe, dove fuggirebbe chi non può camminare perché è mezzo morto sulla strada, piagato dalle ferite dei ladroni? Il sacerdote che passava è andato oltre, e così pure l'ha abbandonato passando il Levita" [53].

 

 

IL BUON SAMARITANO

Dai propri compagni di esilio e di cammino, da chi è viandante e appartiene al suo popolo, il pellegrino ferito non riceve soccorso né aiuto. Lo riceve, invece, da uno straniero, un Samaritano, anche lui, come il pellegrino, il Sacerdote e il Levita, di passaggio. A differenza degli altri due personaggi, tuttavia, egli si ferma: mentre Sacerdote e Levita vanno oltre, il Samaritano, "forestiero per razza, prossimo per compassione, gli si avvicinò per curarlo e offrirgli soccorso" [54].

In linea con il metodo eziologico in voga presso molta cultura ellenistica, Agostino attribuisce alla parola Samaritano il significato di custode e afferma che questo personaggio è "figura del nostro Signore Gesù Cristo" [55]: raccontando la parabola, egli "volle farsi vedere in quel Samaritano" [56]. In riferimento a Gv 8, 48-59, il vescovo d'Ippona continua:

 

i Giudei, quando bestemmiavano con tante ingiurie, gli dissero: Non diciamo con verità noi che sei un Samaritano e hai un demonio? Quindi, essendo due le parole oltraggiose lanciate contro il Signore, poiché gli era stato detto: Non diciamo con verità noi che sei un Samaritano e hai un demonio? poteva rispondere: Non sono un Samaritano, né ho un demonio; rispose invece: Io non ho un demonio. In quel che rispose espresse una ripulsa, in quel che tacque, una conferma. Negò di avere un demonio, egli che metteva fuori i dèmoni; non negò di essere il Custode dell'infermo. Dunque: Il Signore è molto vicino, perché il Signore si è fatto prossimo per noi [57].

 

Il Samaritano fascia le ferite, versandovi olio e vino. San Carlo commenta a questo proposito:

 

Quel Samaritano straniero è figura di Cristo salvatore, che è straniero per la sua divinità. Egli, per curare la ferita del genere umano, si serve delle fasce esterne della dottrina e infonde l'olio della misericordia e della sua grazia; aggiunge poi l'asprezza della disciplina e della penitenza per purificare la ferita [58].

 

Di ognuno di questi gesti compiuti dal Samaritano e degli oggetti da lui utilizzati, Agostino dona una particolare interpretazione: "La fasciatura delle ferite è il freno imposto ai peccati, l'olio è la consolazione derivante dalla buona speranza che viene dalla remissione della colpa e porta alla riconciliazione e alla pace; il vino è l'esortazione ad agire con spirito il più possibile fervente" [59]. Allo stesso tempo, olio e vino sono simboli del battesimo, che distrugge i peccati di chi si converte alla fede e accetta la salvezza offerta dal Cristo:

 

Nel sacramento del Battesimo sono distrutti tutti i peccati, assolutamente tutti i peccati, in parole, in opere, in pensieri.

Tutti vengono distrutti. Questo, però, corrisponde a ciò che fu infuso lungo la via: olio e vino. Voi tenete a mente, carissimi, come quell'uomo semivivo, perché ferito dai briganti lungo la via, sia stato rianimato ricevendo olio e vino sulle sue ferite [60].

 

Il Samaritano poi raccoglie il ferito sul suo cavallo e lo conduce ad una locanda, dove rimane con lui per un certo tempo. Il cavallo, secondo Agostino, significa la carne di Cristo e allude al mistero dell'incarnazione: "il suo giumento è la carne con cui si è degnato di venire tra noi" [61]. Scendendo, abbassandosi alla condizione mortale, facendosi uomo di carne e sangue, Cristo accoglie in sé la condizione mortale dell'uomo e la eleva in sé; se il movimento del pellegrino ferito ha direzione discendente, il Samaritano lo solleva; e se i briganti lo abbandonarono mezzo morto, e per così dire lo gettarono via, il così il Samaritano raccolse "quel tale" e lo "sollevò sul suo cavallo" [62]: così Gesù Cristo "ci caricò sul suo giumento, cioè ci prese nella sua carne" [63] e "essere posti in sella al giumento è credere nell'incarnazione di Cristo" [64]. L'azione del Samaritano si pone quindi in diretta antitesi con quella del viandante ferito: mentre quello discendeva, il Samaritano solleva - porta dal basso verso l'alto, dall'abiezione alla redenzione.

 

 

LA LOCANDA E L'ALBERGATORE

La locanda permette ad Agostino di collegare ancora una volta questa parabola alla metafora dell'esistenza come viaggio, pellegrinaggio verso la città celeste: "La locanda è la Chiesa, dove trovano ristoro i pellegrini che dal paese remoto tornano alla patria eterna" [65]. E ancora: "La locanda, se la riconoscete, raffigura la Chiesa. Locanda al presente, perché durante la vita siamo di passaggio" [66]. La Chiesa viene così indicata quale luogo di riposo momentaneo dalle fatiche del viaggio. La piena guarigione, tuttavia, si avrà solo nel Regno dei Cieli: "diventerà la dimora, da dove non andremo mai via quando, guariti, saremo arrivati al Regno dei Cieli".

Il Samaritano, nel partire, affida il ferito alle cure dell'albergatore, pagando in anticipo per la sua degenza:

 

Il giorno successivo è il tempo dopo la resurrezione del Signore. I due denari sono i due precetti della carità che gli apostoli ricevettero in dono dallo Spirito Santo per cui si misero a predicare il Vangelo ai presenti. Ovvero sono le promesse della vita presente e della futura, di cui fu detto: In questo tempo riceverà sette volte tanto e nell'altro mondo otterrà la vita eterna. L'albergatore è quindi l'Apostolo. Ciò che spende in più concerne il consiglio di cui Paolo dice: Riguardo alle vergini non ho un'ingiunzione da parte del Signore, ma io stesso consiglio. Potrebbe però riguardare anche il fatto che egli lavorava manualmente per non gravare nessun fratello infermo nello spirito a causa della novità usata nell'annunziare il Vangelo sebbene a lui fosse consentito ricavare il sostentamento dal Vangelo [67].

 

Altrove, Agostino interpreta l'immagine dell'albergatore come gli "inviati" di Gesù e, in modo particolare, l'apostolo Paolo; e i due denari come

 

i due precetti della carità: la carità di Dio e quella del prossimo. Sono questi, infatti, i due comandamenti in cui si compendia tutta la legge e i profeti. Alla fine, rivolto all'albergatore gli disse: Se avrai speso di più, te lo rifonderò al ritorno.

Effettivamente l'Apostolo spese di più, nel senso che, pur essendo stato permesso ai banditori del Vangelo in genere di ricevere compensi dal popolo, come soldati di Cristo mantenuti dalle popolazioni di provincia, egli al contrario preferì lavorare di propria mano e lasciare ai suoi dipendenti i sovvenzionamenti che spettavano a lui. Sono cose avvenute a puntino. Scendendo siamo stati feriti. Saliamo, dunque, e cantiamo. E proseguiamo con costanza il cammino, in modo da arrivare alla meta [68].

 

Così commenta il Borromeo, concludendo la sua omelia del 18 settembre 1569:

 

[Il Samaritano] conduce [il ferito che ha raccolto per via] alla locanda, ossia alla Chiesa, e per un certo tempo, cioè sino all'Ascensione, rimane con lui; e nel partire all'albergatore, ossia al capo della Chiesa, lascia due denari, i due Testamenti, affinché il ferito possa procurarsi la medicina; promette, al suo ritorno, di voler restituire se qualcosa d'altro dovesse spendere in più per la sua cura, interpretando cioè e dilatando gli insegnamenti che si trovano nell'uno e nell'altro Testamento e applicandoli all'indole, ai costumi e alle utilità dei singoli [69].

 

Così, attraverso queste sue parole, san Carlo ci conduce dall'interpretazione del testo evangelico alla sua pratica applicazione nella vita quotidiana di ogni cristiano.

 

 

L'IMPEGNO ALLA CARITÀ

Nell'interpretazione agostiniana, la parabola diventa uno strumento per insegnare al fedele ad andare oltre le sue false certezze, i luoghi comuni e le credenze superficiali. Questo può avvenire tanto su un piano personale, individuale, quanto a livello dell'intera società.

Secondo la prassi della catechesi cristiana, Agostino invita i fedeli a non "discendere da Gerusalemme a Gerico". La parabola del buon Samaritano, con la sua rappresentazione dell'anonima vittima del male, viene a sostegno di tale monito: non solo la "discesa" è causa di quanto accade al viandante, ma l'anonimato della vittima e la casualità dell'incontro mettono in guardia il fedele contro di esso. Nel credersi libero nella propria esistenza, l'individuo sbaglia: come già si è visto, l'uomo nasce prigioniero di una concupiscenza che, a causa della sua colpa, sfugge al suo controllo; e a causa della stessa colpa, nasce mortale. Di fronte alla supponenza di chi crede che il Battesimo costituisca garanzia di salvezza per il cristiano, è presentata l'immagine della locanda, riposo temporaneo per il viaggiatore che ancora non ha forze sufficienti a riprendere il cammino:

 

Vi sono infatti degli uomini per nulla riconoscenti alla grazia, che concedono tanto alla natura spoglia e ferita. E' vero che l'uomo, nel momento della creazione, fu dotato dei grandi poteri del libero arbitrio, ma li perdette peccando. Finì in mano alla morte, divenne infermo, fu lasciato semivivo sulla via dai briganti; passando, il Samaritano - nome cui si dà il significato di " Custode " -, lo caricò sul suo giumento; va conducendolo sino a una locanda. Di che si fa grande? E' ancora sotto cura. A me basta - dice - di aver ricevuto nel Battesimo la remissione di tutti i peccati. E' forse guarita l'infermità per il fatto che è stato distrutto il peccato? Ho ricevuto - dice - la remissione di tutti i peccati. E' senz'altro vero. Nel sacramento del Battesimo sono distrutti tutti i peccati, assolutamente tutti i peccati, in parole, in opere, in pensieri. Tutti vengono distrutti. Questo, però, corrisponde a ciò che fu infuso lungo la via: olio e vino. Voi tenete a mente, carissimi, come quell'uomo semivivo, perché ferito dai briganti lungo la via, sia stato rianimato ricevendo olio e vino sulle sue ferite.Senz'altro è stato già concesso indulto all'errore di lui [del battezzato], pur tuttavia lo stato di debolezza riceve cure nella locanda. La locanda, se la riconoscete, raffigura la Chiesa. Locanda al presente, perché durante la vita siamo di passaggio; diventerà la dimora, da dove non andremo mai via quando, guariti, saremo arrivati al regno dei cieli. Frattanto, lasciamoci curare volentieri nella locanda; tuttora deboli, non vantiamoci della guarigione; non facciamo, montando in superbia, di procurare nient'altro che di tener lontana la salute, poiché non ci lasciamo curare [70].

 

Questo discorso assume poi un valore particolare nel momento in cui Agostino si oppone alle idee di Pelagio: se la pienezza esistenziale e di senso si acquista solo nell'unione perfetta con la sorgente di ogni vita, fino al momento in cui ciò avverrà l'individuo, per quanto rinfrancato dal Battesimo, continuerà a vivere un'esistenza dimidiata, monca e imperfetta - troppo debole e fragile per essere bastante a se stessa.

L'omelia di san Carlo Borromeo giunge in aiuto dell'infermo con consigli preziosi:

 

Come nel Samaritano viene lodata la compassione e la misericordia, così nel ferito era necessaria la pazienza ed utile l'obbedienza, al punto che non sarebbe per nulla giovata la benignità di chi aveva compassione, se l'animo del malato non fosse stato obbediente. A quale fine vengono fasciate le ferite, se subito sono sfasciate dall'impazienza del ferito? [...] Perciò prego tutti voi: coloro che sono feriti non nascondano le proprie ferite e non rifiutino i rimedi loro offerti [71].

 

Come l'interpretazione di Agostino è un monito alla superbia, perché chi sia stato battezzato non si creda in possesso della piena salute, e resti aperto all'azione della Grazia redentrice, così il commento di Carlo è un invito all'umiltà: al sapere cioè riconoscere le proprie mancanze, i difetti del proprio stile di vita e le sofferenze che esso causa, per sottoporsi all'azione rinfrancante di chi è preposto alla cura d'anime.

Questa contemporanea vicinanza e differenza, negli scritti dei due vescovi, al medesimo passo evangelico è anche riflesso dei tempi in cui vivono: se, infatti, come si è visto, Agostino si rivolge anche ai Pelagiani, di cui intende correggere la fiducia, per lui eccessiva, nella capacità dell'uomo di redimersi con le proprie forze; Carlo Borromeo, che vive ed opera all'epoca della Riforma cattolica, si sente in dovere di controbattere a chi, convertitosi alle idee di Lutero e dei Protestanti, rifugge ogni mediazione tra sé e Dio in nome dei principi di sola Scriptura e sola fide. Contro quest'ultimo assioma, in particolare, ricordando l'evangelico "Va', e anche tu fa' lo stesso", il vescovo di Milano invita il fedele ad agire sull'esempio del Samaritano:

 

A questo punto sarà lecito rilevare la cecità degli eretici: questi ritengono che le opere buone non conducano alla giustificazione dell'uomo, benché vedano che quel cieco dottore della legge non ignorava la verità. Dice infatti: Che cosa devo fare, non che cosa devo credere, per avere la vita eterna? E il Signore soggiunge: Fa' questo e vivrai; non: credi questo e vivrai [...] Noi invece, che aspettiamo la corona di Cristo nostra guida e Re, seguiamo la sua dottrina e mediante le opere buone rendiamo certa la nostra vocazione [72].

 

Lo stesso invito ad un'azione che operi nel mondo, in linea con i precetti e gli insegnamenti espressi nella parabola del Samaritano, si trova nell'opera di Agostino d'Ippona. In un mondo che muta velocemente, in cui si assiste a scontri tra popoli ed etnie, in cui l'ordine, sancito dall'Impero Romano e creduto, per molti secoli, stabile, inizia a vacillare, Agostino insegna, attraverso il suo commento alla parabola del buon Samaritano, a vedere l'altro, lo straniero, il barbaro in modo diverso:

 

Ci vennero dati due precetti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. L'altro: Amerai il prossimo tuo come te stesso. E chi l'udì, chiese: E chi è il mio prossimo? Pensava che il Signore avrebbe detto: tuo padre e tua madre, tua moglie, i tuoi figli, i tuoi fratelli, le tue sorelle. Egli, che voleva far valere ogni uomo quale prossimo per ogni uomo, non così rispose, ma prese a raccontare. Disse: Un uomo. Chi? Un tale, uomo tuttavia. Un uomo. Di che uomo si tratta, allora? Di un tale, però uomo. Discendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti. Sono chiamati briganti anche coloro che ci perseguitano. Ferito, spogliato, abbandonato mezzo morto sulla via, non destò l'attenzione di passanti, un sacerdote, un levita; la sua vista colpì, invece, un Samaritano di passaggio. Si accostò a lui sollevandolo sulla cavalcatura con premurosa cautela, lo condusse in una locanda; comandò di averne cura, pagò le spese. A colui che aveva posto la domanda vien chiesto chi fosse stato prossimo a costui mezzo morto. A suo riguardo due uomini si erano mostrati indifferenti, anzi, proprio essi, i prossimi, l'avevano trascurato, lo straniero si era fatto vicino. Infatti l'interlocutore oriundo di Gerusalemme considerava quali prossimi i sacerdoti e i leviti, stranieri i Samaritani. I prossimi passarono oltre e lo straniero si fece prossimo. Chi era stato allora prossimo a costui? Rispondi tu che hai posto la domanda col dire: Chi è il mio prossimo? Rispondi ormai secondo verità. A interrogare era stata la superbia, sia la natura a rispondere. Che dice dunque? Ritengo sia stato colui che ne ha avuto compassione. E il Signore a lui: Va' e anche tu fa' lo stesso [73].

 

L'interpretazione agostiniana del passo insegna al fedele ad abbattere le false certezze per andare oltre le comuni aspettative, ad essere aperto alla sorpresa, all'inatteso capovolgimento, all'impensato. Chiunque può essere "il prossimo", anche e soprattutto lo straniero, l'estraneo, l'emarginato, il reietto.

L'essere aperto alla sorpresa, al capovolgimento delle aspettative, riguarda anche l'interpretazione della Scrittura: Agostino invita infatti a non imprigionare il senso del testo all'interno delle attese del luogo comune; a chi fa così, il vescovo di Ippona si offre quale esempio di una lettura attenta, aperta alla novità dell'insegnamento: io "piego il mio orecchio alla parabola" [74]. Come il Sacerdote e il Levita, "parenti" del ferito perché anch'essi Giudei, lo abbandonano nella sua prostrazione, nel suo dolore, e così si rivelano a lui estranei, mentre il Samaritano, che gli è estraneo, soccorrendolo, è divenuto prossimo; allo stesso modo il parente può essere estraneo e l'estraneo può farsi parente. Riprendendo il comandamento evangelico: "Va', e anche tu fa' lo stesso", Agostino conclude: "Colui cui tu fai misericordia è dunque tuo prossimo" [75]. Così anche Carlo, commentando il passo di Luca in cui il dottore della legge chiede a Gesù: "E chi è il mio prossimo?" rileva che "ogni uomo ci è prossimo e deve essere amato con carità", pur individuando poi, come si vedrà in seguito, dei precisi gradi secondo cui si deve svolgere l'ordine della carità. Nell'illustrare il proprio pensiero, Carlo usa però un artificio retorico:

 

[...] quell'uomo che, discendendo da Gerusalemme a Gerico, è incappato nei ladroni, è spogliato di tutto ciò che aveva ed è ferito nel corpo, quest'uomo viene ritenuto prossimo dallo straniero Samaritano [...]  [76]

 

Mentre ricostruisce con le proprie parole l'episodio evangelico, il Borromeo trasforma il "questo" della prima frase nel "quello" della seconda: si realizza così la sensazione di un avvicinamento, di un azzeramento della distanza che separa personaggio e narratario, così che, nello svolgersi della narrazione, l'ascoltatore diventa vicino, anzi vicinissimo (in latino proximus, prossimo) allo sconosciuto viandante ferito, vittima dei briganti. Nell'atto con cui il Samaritano consegna il ferito alle cure dell'oste, san Carlo legge il comandamento di Cristo Gesù all'impegno della carità, che ogni cristiano deve assumere come propria norma di vita e principio d'essere. Tale impegno indica, per san Carlo come per sant'Agostino, il farsi prossimo, sulla base del comandamento "Va' e anche tu fa' lo stesso" con cui si conclude il passo del vangelo di Luca. Non si tratta tanto di chiedersi chi sia il prossimo, quanto di "farci, noi stessi, prossimi agli altri con una vita di carità operosa e generosa condivisione" [77]. In questo senso, e in riferimento proprio alla parabola del buon Samaritano, la pratica della carità diventa imitazione di Cristo: come il dottore della legge è invitato a imitare il Samaritano, così il fedele, appreso che il Samaritano è lo stesso Gesù, è invitato ad agire come lui [78]. La carità deve essere esercitata, secondo l'insegnamento di Carlo Borromeo, a tutti i livelli della società, tanto dagli ecclesiastici, quanto dai laici. La carità del pastore si esprime nel suo ministero ed è paragonata dal vescovo della Riforma all'amore di una madre che nutre i propri figli. Così anche il sacerdote in cura d'anime nutre lo spirito dei fedeli attraverso la parola, attraverso l'esempio e attraverso i sacramenti. Anche i laici, però, sono invitati ad agire in questo secondo il loro ruolo e i loro compiti. Dice infatti il Borromeo:

 

Ma non solo i sacerdoti e i prelati ha stabilito Iddio a nostra cura, poiché ad ogni uomo altresì ha fatto comandamento di prendersi cura del suo prossimo. Per questo anche oggi ai singoli Cristo comanda nel Vangelo: Se il tuo fratello commette un colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello (Mt 18, 15). E perché mai a tutto viene comandata la correzione fraterna, se non perché tutti ci preoccupiamo per la salvezza gli uni degli altri?  [79]

 

Le indicazioni relative all'azione caritatevole sono tratte proprio dalla lettura e dallo studio della parabola del Samaritano:

 

Siamo convinti che quanto il nostro Signore dice al dottore della legge verso la fine del Vangelo d'oggi riguardi tutti noi: Va' e anche tu fa' lo stesso. Sono molti, infatti, quelli che scendono da Gerusalemme verso Gerico, cioè che dallo stato di virtù e di grazia e rovinano quelli della natura e li lasciano semivivi, ossia con una fede inferma, una devozione esigua, una carità fredda, una tenue misericordia, con il rischio che, se non arrivi chi cura le ferite, finiscano per morire.

Bisogna stare attenti per non trascurare senza compassione, insieme a quel Sacerdote, questi uomini miseri e tanto pericolosamente feriti, e per non passare oltre come il Levita; ma per impegnarci a fare piuttosto come quel Samaritano, che fasciò dapprima le sue ferite, infuse poi l'olio che mitiga il dolore e il vino che aspramente punge per purificare la ferita, ed infine lo pose sul suo giumento e lo condusse a una locanda [80].

 

Il vescovo di Milano espande e approfondisce, dunque, quanto già Agostino aveva scritto a commento del passo evangelico; la sua originalità, però, non si ferma qui, perché nella stessa Omelia Carlo Borromeo offre ai suoi ascoltatori degli esempi pratici per ognuna delle tre azioni che, nel suo commento al Vangelo, ha individuato:

 

Fascia la ferita colui che con l'esortazione o la predicazione o in altri modi persuade ad abbandonare la via cattiva. Infonde l'olio chi mostra i beni preparati per coloro che vivono bene, e chi consola colui che è triste, lo rincuora con la speranza e gli promette indulgenza. Mesce il vino che purifica con l'asprezza chi, con aspri rimproveri e con la minaccia dei castighi, trattiene dall'empietà. Bisogna mescolare le cose dolci con quelle amare, le lievi con le aspre, quelle gioiose con quelle fastidiose, e così, usando dell'uno e dell'altro modo, si trova un giusto mezzo: in tal modo le persone non vengono né esasperate da eccessiva durezza né assolte da eccessiva indulgenza [81].

 

L'azione della carità, però, non deve seguire solo il principio astratto stabilito nel Vangelo; deve invece agire nel mondo in rapporto alla natura ed alle esigenze delle situazioni entro cui si colloca [82]. Come ricorda Tettamanzi, già Agostino aveva osservato che il rispetto dei Comandamenti, che costituisce la virtù del cristiano, è una manifestazione della carità ordinata agli oggetti verso cui si rivolge:

 

La bellezza fisica, che è certamente un bene prodotto da Dio ma temporale carnale infimo, è amata male perché si trascura Dio, bene eterno spirituale perenne, come con la violazione della giustizia l'oro è amato dagli avari non per un peccato dell'oro ma dell'uomo. Così è ogni creatura. Essendo un bene si può amare bene e male, cioè bene nel rispetto dell'ordine, male nella violazione dell'ordine [...] Se il Creatore si ama secondo verità, cioè se non si ama invece di Lui altro che Egli non è, non è possibile che sia amato di amore cattivo. Anche l'amore si deve amare ordinatamente perché con esso si ama l'oggetto che si deve amare affinché sia in noi la virtù con cui si vive bene. Mi sembra quindi che la definizione breve e vera della virtù sia l'ordine dell'amore [83].

 

Così anche Carlo si richiama all'ordine della carità nell'indicare in quale modo si debba applicare l'insegnamento del Vangelo:

 

D'altra parte non si deve qui sconvolgere l'ordine della carità, e neppure devono essere amati nello stesso modo i buoni e i cattivi. Infatti le opere più grandi di carità (se eguale è la necessità di tutti) devono essere compiute per coloro che ci sono più vicini, ossia per il padre, la madre, i fratelli e gli altri parenti che ci sono legati; dobbiamo venire in aiuto ai cristiani piuttosto che agli infedeli, ai cattolici piuttosto che agli eretici, a pari condizione di necessità; siamo tenuti ad amare i buoni come membra vive del medesimo corpo mistico, i cattivi invece, come creature di Dio, non dobbiamo disprezzarli o trascurare la loro salvezza; né dobbiamo aver compassione di un uomo a tal punto da non correggerne i vizi, ma nell'unica e identica persona dobbiamo amare il bene che è stato compiuto e punire il male che essa ha fatto: perché non succeda che il perdonare imprudentemente le colpe sia, non giù un compatire per carità, ma un lasciar perire per negligenza [84].

 

Si avverte dunque in Carlo, accanto alla stessa tensione mistica e pastorale che animava le parole di Agostino, una forte esigenza pratica, che lo spinge a fornire ai suoi fedeli chiari esempi e modelli di comportamento. Mentre le parole di Agostino ispirano e suggeriscono, lasciando poi che l'ascoltatore ritrovi un'applicazione pratica attraverso la riflessione, nella sua vita quotidiana, Carlo suggerisce ed indica chiaramente la strada da seguire e il modo in cui applicare i principi nella vita quotidiana. Si tratta però di indicazioni abbastanza ampie da conservare un valore universale, pur nella loro diretta applicabilità. Lo stesso Carlo, nella sua azione di riorganizzazione della diocesi milanese a sostegno della Riforma cattolica, ordinò o riordinò la vita del clero e dei fedeli, così da applicare nella pratica gli insegnamenti evangelici. Ne sono esempio autorevole le confraternite religione, di cui lo stesso vescovo di Milano regola la vita e la condotta dei membri in modo esatto e preciso, e in cui vengono definiti ruoli precisi che rispondono all'esigenza di mettere in pratica il Vangelo della carità in base alle esigenze della società del tempo [85]

 

 

CONCLUSIONE

Pur nella sua praticità, l'azione di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, successore di Ambrogio, resta saldamente radicata nella norma evangelica e nella riflessione che da essa scaturisce: una meditazione costruitasi all'interno della tradizione della Chiesa cattolica, entro cui la predicazione del Borromeo si inserisce in modo programmatico. L'omelia del 18 settembre si apre, infatti, con tre citazioni, che si susseguono rapide, veloci. La prima è costituita da due versetti tratti dal Vangelo secondo Giovanni:

 

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 34-35).

 

La seconda citazione è composta da tre versetti distinti, tutti tratti dalla prima lettera di Giovanni:

 

Se uno dicesse "Io amo Dio" e odiasse il fratello, è un mentitore (1Gv 4, 20).

Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non vi è in lui occasione d'inciampo (1Gv 2, 10).

Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio? (1Gv 3, 17).

 

Anche la terza citazione è composita: si tratta di tre sentenze di san Paolo, tratte una dalla lettera ai Galati e due dalla Lettera ai Romani:

 

Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso (Gal 5, 14).

Chi ama il suo simile ha adempiuto la legge [...] L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore (Rm 13, 8.10).

 

Attraverso queste tre citazioni, Carlo si inserisce già da subito nella Tradizione: in primis cita le parole dello stesso Gesù - attinge alla fonte da cui la Tradizione della Chiesa ha origine; le fa seguire dalle parole di Giovanni, il discepolo prediletto, custode della madre del Signore; infine le parole di Paolo, l'apostolo delle genti; e da Paolo e Pietro ha inizio la successione apostolica romana e, con essa, la Tradizione sacra della Chiesa cattolica. Il percorso all'interno delle citazioni è però anche intellettuale.

I due versetti tratti dal Vangelo secondo Giovanni, infatti, mostrano come la salvezza stia nel seguire il comandamento dell'amore: è questa la via breve e sicura - a patto di comprendere che cosa tale sequela significhi ed implichi. I tre versetti tratti dalla prima lettera di Giovanni iniziano allora a definire come necessario il legame tra l'amore di Dio e l'amore del prossimo - dove non c'è alcun amore del prossimo senza amore di Dio. I tre versetti di Paolo, infine, risolvono l'amore di Dio nell'amore per il prossimo. L'omelia 65 di Agostino d'Ippona sul Vangelo secondo Giovanni contiene alcune suggestioni, poi ricevute nel sermone di Carlo Borromeo. Il vescovo africano, infatti, lega Gv 13, 34-35 al versetto del Vangelo secondo Matteo, in cui Gesù, interrogato da un dottore della legge, gli risponde enunciando la legge dell'amore - è il passo di Matteo parallelo a quel capitolo 10 di Luca, al centro della predica del Borromeo:

 

Gli rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i profeti" (Mt 22, 37-40).

 

Commentando questo passo, Agostino sottolinea che:

 

per chi li intende bene, ciascuno dei due comandamenti si ritrova nell'altro; perché chi ama Dio, non può non tener conto del suo precetto di amare il prossimo; e chi ama il prossimo di un amore sincero e santo, chi ama in lui se non Dio? Questo amore, che si distingue da ogni espressione di amore mondano, il Signore lo caratterizza aggiungendo: come io ho amato voi. Che cosa, infatti, se non Dio, egli ha amato in noi? Non perché già lo possedessimo, ma perché lo potessimo possedere; per condurci, come dicevo prima, là dove Dio sarà tutto in tutti. E' in questo senso che giustamente si dice che il medico ama gli ammalati: cosa ama in essi, se non la salute che vuol ridonare, e non la malattia che vuole scacciare?  [86]

 

Agostino utilizza qui una metafora tratta dal linguaggio della medicina: nell'ammalato, il medico ama non la malattia presente, ma la salute futura. Allo stesso modo, quando dice "come io ho amato voi" (Gv 13, 34), Gesù ama nell'uomo la salute futura, che è il possesso di Dio. Il possesso di Dio, che è salute e felicità per l'uomo, perché coincide con la beatitudine [87], non è presente nello stato di peccato, ma è futuro, possibile. Anche Carlo Borromeo cita il versetto di Matteo 22, 40, legandolo a un passo illustre della Lettera ai Corinzi di san Paolo: "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna (1Cor 13, 1)":

 

Infatti come un cembalo ben risonante procura agli altri il piacere mentre non sente per se stesso diletto, così la profezia, le scienze, la conoscenza dei misteri, l'elemosina e tutte le altre opere in qualche modo buone, senza la carità, non conducono per nulla a meritare la vita eterna [88].

 

Molti secoli prima, Agostino lega lo stesso passo di Matteo al medesimo versetto della Lettera ai Corinzi:

 

Gli altri miei doni li hanno in comune con voi anche coloro che non sono miei: non soltanto la natura, la vita, i sensi, la ragione, e quella salute che è comune agli uomini e agli animali; essi hanno anche il dono delle lingue, i sacramenti, il dono della profezia, il dono della scienza e quello della fede, quello di distribuire i loro averi ai poveri, di dare il loro corpo alle fiamme. Ma essi non hanno la carità, per cui, a modo di cembali, fanno del chiasso, ma in realtà non sono niente e questi doni non giovano loro a niente (cf. 1 Cor 13, 1-3). Non è da questi miei doni, quantunque eccellenti, e che possono avere anche quelli che non sono miei discepoli, ma è da questo che conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri [89].

 

Lo sguardo del vescovo d'Ippona coglie l'intera esistenza umana come dono di Dio. Ogni suo dettaglio, ogni sua parte è data gratuitamente da Dio all'umanità: la natura, la vita, i sensi, la salute; e anche quei doni che distinguono l'individuo all'interno del gruppo sociale cui appartiene (come il dono delle lingue, la profezia, persino i sacramenti). Vera eredità per i suoi discepoli, vero segno di riconoscimento è la carità, l'amore reciproco che i cristiani nutrono e coltivano come il più alto dei doni. Nelle parole del Borromeo citate sopra, invece, la carità diventa ciò che arricchisce la vita di diletto, di gioia di vivere, rendendola non solo un dono, ma anche un piacere. Le interpretazioni dei due vescovi sono dunque differenti, ma complementari: nello spirito paolino, per entrambi tutti gli altri doni, per quanto possano essere straordinari, restano privi di sapore e di consistenza, senza la carità.

Nell'immagine dello strumento risonante, presente nelle parole del vescovo di Ippona, è il vuoto ad occupare la scena: una vita ricca di tutti gli altri doni dello Spirito, ma priva dell'amore perfetto, è vuota, fa clamore privo di senso, come un cimbalo che risuona perché non ha nulla dentro. Nell'assenza di diletto sottolineata dal Borromeo, invece, aleggia l'immagine di un'esistenza fredda, arida, fatta di grandi meraviglie e prodigi, ma priva di meraviglia di fronte al prodigio. Una vita, anch'essa, che è vuota, e che nel suo vuoto risuona di se stessa, ma che si lascia vivere, e non è vissuta. La carità, l'amore perfetto, è invece quell'ingrediente che fa la differenza, che riempie il suono di affetto e significato, fino a renderlo tanto più splendido, luminoso, quanto umilmente muto nella sua ricchezza. E questa è, per entrambi i vescovi e santi, l'eredità attiva, rigenerata e rigenerante, lasciata da Cristo a coloro che lo seguono.

In Agostino la carità è il segno che distingue i cristiani. Carlo Borromeo spiega/dispiega ciò che è implicito in Agostino: la carità, infatti, dona piacere a chi la prova, e conduce a meritare la vita eterna:

 

Da questa carità, invece, tutte le cose ricevono sapore e diventano gradite a Dio, perché tutto ciò che viene comandato (dice san Gregorio) riceve consistenza dalla sola carità: come i molti rami di un albero scaturiscono da un'unica radice, così le molte virtù sono generate dall'unica carità e il ramo dell'opera buona non è per nulla verdeggiante se non rimane nella carità [90].

 

Come il ramo è nutrito dalla radice dell'albero, la virtù riceve sostanza dalla carità. Senza la carità la virtù è vuota, come un bronzo che risuona o un cimbalo che tintinna: un piatto concavo, che risuona proprio perché vuoto, a causa del suo carattere difettivo. Proprio in questa immagine dell'albero si avverte la cifra della predicazione del Borromeo: da un lato, ogni precetto ed ogni azione vengono radicati nell'unico comandamento della carità, così come viene espresso nel capitolo 10 del Vangelo secondo Luca ed esemplificato nella parabola del buon Samaritano; dall'altro, il moltiplicarsi dei rami dell'azione di laici ed ecclesiastici ritrova una sua unità nella comune provenienza dalla radice della Tradizione cattolica. In questo modo la carità in azione può "essere verdeggiante"; può cioè possedere la caratteristica della viriditas: la fecondità, la capacità, il potenziale di portare frutto, in un legame simbolico con la rinascita portata dalla primavera, e il vigore, l'espansione inesauribile di un'eterna giovinezza, sempre rinnovata in Cristo dall'azione della carità.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Per le Opere di Sant'Agostino si è utilizzata l'edizione Città Nuova, Roma: 1967-2011. A questa edizione, e alle traduzioni delle singole opere in essa contenute, fanno riferimento citazioni e note, tranne dove altrimenti indicato. Tutti i testi in traduzione italiana e nell'originale latino, secondo la lezione raccolta dal Migne, sono disponibili on line sul sito www.sant-agostino.it ultimo accesso 29 agosto 2011.

Per i passi della Sacra Scrittura citati è stata usata la nuova edizione CEI, disponibile on line sul sito www.bibbiaedu.it ultimo accesso 31 agosto 2011.

Per i passi da Lutero, si è usata l'edizione in lingua italiana: M. Lutero, Scritti religiosi, a. c. di V. Vinay, Utet, Torino: 1967.

Fonti secondarie e fonti per gli scritti del Borromeo:

G. Filoramo (cur.), Storia delle religioni. Vol.2: Ebraismo e cristianesimo, Laterza, Roma-Bari: 1995.

M. Galizzi, Vangelo secondo Luca. Commento esegetico- spirituale, Elledici, Torino: 2006(3).

D. J. Harrington, SJ, Il Vangelo di Matteo, Elledici, Torino: 2005.

D. Jackman, W. Philip, Teaching Matthew. Unlocking the Gospel of Matthew for the Bible Teacher, PTMedia, Londra: 2009.

L. T. Johnson, Il Vangelo di Luca, Elledici, Torino: 2004

D. Tettamanzi, Farsi prossimo in san Carlo, San Paolo, Torino: 2003.

D. Tettamanzi, Dalla tua mano. San Carlo, un riformatore inattuale, Rizzoli, Milano: 2010.

 

 

Note al testo

 

(1) - M. Lutero, Prefazione all’Epistola ai Romani, in Scritti religiosi, a. c. di V. Vinay, Utet, Torino: 1967, p. 520

(2) - M. Lutero, Sulla servitù dell’arbitrio, 2, 146

(3) - Carlo Borromeo, Discorso nel primo Sinodo Provinciale, 15 ottobre 1565, in Quale amore ti ha mostrato Cristo! Preghiere e testi di san Carlo Borromeo, cur. E. Apeciti, Centro Ambrosiano, Milano: 2010, pp. 35-36

(4) - Id., Omelia per la lavanda dei piedi, Duomo di Milano, 27 marzo 1567, in Quale amore ti ha mostrato Cristo! Preghiere e testi di san Carlo Borromeo, cur. E. Apeciti, Centro Ambrosiano, Milano: 2010, p. 25

(5) - Cfr. tuttavia gli altri due sinottici: in Marco (12, 28-31) e in Matteo (22, 34-40), sono nominati due comandamenti, chiaramente distinti l’uno dall’altro nel discorso; in Luca, invece, i due comandamenti sono riuniti in un solo periodo formato da due coordinate. In questo modo essi diventano un solo comandamento, in cui l’amore per Dio è posto sullo stesso piano dell’amore per il prossimo. Questo è particolarmente importante per la riflessione che sant’Agostino e san Carlo costruiranno proprio muovendo da questi (e da altri) passi scritturali

(6) - Cfr. Johnson, p. 157

(7) - Cfr. Galizzi, p. 250

(8) - Jackman and Philip, p. 168

(9) - Farley, p. 258

(10) - Tettamanzi 2003, p. 137

(11) - Lc 10, 30

(12) - Cfr. Agostino, De Genesi contra Manichaeos, 2, 10, 13

(13) - Agostino, De civitate Dei, 2, 29.2

(14) - Ivi, 19, 13, 1

(15) - Ivi, 21, 8, 2

(16) - Ivi, 4, 15

(17) - Ivi, 1, 15, 1: "cum aliud civitas non sit quam concors hominum multitudo"

(18) - Ivi, 15, 8, 2: “civitas […] nihil est aliud quam hominum multitudo aliquo societatis vinculo colligata”

(19) - Agostino, De genesi ad litteram, 12, 28, 56

(20) - Agostino, In evangelium quaestiones, 2, 19

(21) - Agostino, De genesis contra Manichaeos, 2, 10, 13

(22) - Agostino, In evangelium ..., 2, 19

(23) - Id., Discorso 171, 2

(24) - Id., Esposizione del Salmo 125, 15

(25) - Id., Esposizione del Salmo 50, 10

(26) - Id., Commento letterale alla Genesi, 6, 9, 15 (la traduzione è mia)

(27) - Ivi, 6, 26, 37

(28) - Cfr. Agostino, La città di Dio, 1, 15, 2; 14, 9, 1; 17, 13

(29) - Id., Esposizione del Salmo 118, 6

(30) - Id., Esposizione del Salmo 125, 15

(31) - Ibidem

(32) - Tettamanzi 2003, p. 136

(33) - Agostino, Esposizione del Salmo 125, 15

(34) - Id., Discorsi, 131

(35) - Id., Questioni sui Vangeli, 2, 19

(36) - Tettamanzi 2003, p. 136

(37) - Agostino, Questioni sui Vangeli, 2, 19

(38) - Id., Esposizione del Salmo 68/II, 11: “Egli chiama sue ferite i peccati”

(39) - Id., La città di Dio, 20, 7, 2

(40) - Ivi, 20, 8, 3

(41) - Ivi, 18, 51, 1

(42) - Id., Esposizione del Salmo 125, 15

(43) - Id., Esposizione del Salmo 136, 7

(44) - Ibidem

(45) - Id., Questioni sui Vangeli, 2, 19

(46) - Id.

(47) - Id., Discorsi, 171, 2

(48) - Ibidem

(49) - Id., Questioni sui vangeli, 2, 19

(50) - Id., Esposizione sul Salmo 125, 15

(51) - Tettamanzi 2003, p. 137

(52) - Agostino, Esposizione sul Salmo 125, 15

(53) - Id., Commento al Salmo 30/II, 8

(54) - Id., Discorsi, 171, 2

(55) - Id., Esposizione sul Salmo 125, 15

(56) - Id., Discorsi, 171, 2

(57) - Ibidem

(58) - Tettamanzi 2003, p. 137

(59) - Agostino, Questioni sui vangeli, 2, 19

(60) - Id., Discorsi, 131, 6

(61) - Id., Questioni sui vangeli, 2, 19

(62) - Id., Esposizione del Salmo 68/II, 11

(63) - Id., Esposizione sul Salmo 125, 15

(64) - Id., Questioni sui Vangeli, 2, 19

(65) - Ibidem

(66) - Id., Discorsi, 131, 6

(67) - Id., Questioni sui Vangeli, 2, 19

(68) - Id., Esposizione del Salmo 125, 15

(69) - Tettamanzi 2003, p. 137

(70) - Agostino, Discorsi, 131, 6

(71) - Tettamanzi 2003, pp. 135-136, passim

(72) - Ivi, p. 129

(73) - Agostino, Discorsi, 299/D, 2

(74) - Id., Esposizione del Salmo 48/I, 14

(75) - Ibidem

(76) - Tettamanzi 2003, p. 130

(77) - Ivi, p. 7

(78) - Ivi, pp. 9-10

(79) - Omelia al popolo di Saronno, 7 giugno 1583, citata in Tettamanzi 2003, p. 52

(80) - Carlo Borromeo, Omelia del 18 settembre 1859, citata in Tettamanzi 2003, pp. 133-134

(81) - Ibidem

(82) - Cfr. Tettamanzi 2003, p. 131

(83) - Agostino, La città di Dio, 15, 22

(84) - Carlo Borromeo, Omelia del 18 settembre 1859, citata in Tettamanzi 2003, pp. 131-132

(85) - Cfr. Tettamanzi 2003, pp. 62-77

(86) - Agostino, Discorsi, 65, 2

(87) - Id., La città di Dio, 12, 1.2.3

(88) - Tettamanzi 2003, p. 125

(89) - Agostino, Discorsi, 65, 3

(90) - Tettamanzi 2003, p. 125