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L'AVVENTURA UMANA DI SAN CARLO BORROMEO "DARE LA VITA PER I PROPRI AMICI"

Locandina dell'incontro su san Carlo

Locandina dell'incontro su san Carlo

 

 

 

L'AVVENTURA UMANA DI SAN CARLO BORROMEO

"DARE LA VITA PER I PROPRI AMICI"

di Alessandro Molteni

 

 

 

"Fa', o Signore, che d'ora in poi il nostro cuore sia tuo, e nulla più ci strappi dal Tuo amore. Poichè nessuno mai potè avere un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici."

S. Carlo

 

Perché parlare oggi di S. Carlo?

"Fà che il mio cuore sia tuo e nulla più ci separi dal Tuo Amore".

 

L'Amore di Cristo rigenera l'umano e rende l'uomo consapevole che la vita è fatta per essere donata: questa è la sintesi dell'esistenza di S. Carlo - il "buon pastore che dà la vita per le sue pecore"-  e in questo diventa interessante per noi nel periodo storico di crisi che stiamo attraversando.

S. Carlo nasce il 2 ottobre 1538 ad Arona, sul Lago Maggiore, come secondogenito della famiglia Borromeo; il primogenito era Federico, destinato ad ereditare il patrimonio di famiglia (da non confondere con il Federigo dei Promessi Sposi, che era arcivescovo di Milano e cugino di Carlo). In quanto secondogenito egli venne destinato subito alla carriera ecclesiastica, per evitare di disperdere i beni di famiglia: a 7 anni ricevette il titolo di abate, con tutti i vantaggi economici derivanti dalle rendite ad esso connesse.

Quando lo zio fu eletto al soglio pontificio con il nome di Pio IV, chiamò subito il giovane nipote Carlo come segretario personale (fino a diventare una sorta di segretario di stato); a 21 anni il giovane Borromeo ricevette anche il titolo di cardinale (il cosiddetto nepotismo era una pratica accettata a quei tempi, tanto che lo stesso Carlo veniva definito come "cardinale nepote"). In questo periodo la Chiesa era in piena Riforma: le 95 tesi di Martin Lutero, oltre ad aver avviato la riforma protestante, avevano accelerato quel processo di riforma della Chiesa Cattolica, già invocato da molti al suo interno: il Concilio di Trento - iniziato nel 1545 - è la testimonianza più grande di questo tentativo di rinnovamento del cattolicesimo che a quei tempi veniva spesso accusato di essere troppo attento alla difesa del proprio potere e dei privilegi, tralasciando la cura delle anime. Il Concilio verrà interrotto in due occasioni - a causa di una guerra e di un'epidemia - e riprenderà definitivamente nel 1560, per concludersi nel 1563; Carlo non partecipò mai direttamente alle sedute del Concilio, ma ne seguì da vicino i lavori e fin da subito intensificò i suoi sforzi per rendere operativi i decreti da esso stabiliti, tanto che oggi possiamo identificare in lui la vera figura di spartiacque tra la Chiesa pre e post-tridentina. Ma il giovane cardinale come viveva a quel tempo?

I suoi biografi parlano di quest'epoca della sua vita come di un periodo in cui "visse un cristianesimo senza infamia e senza lode": irreprensibile moralmente, ma sempre dedito alle passioni mondane (la caccia, il gioco degli scacchi, la cura dei matrimoni d'interesse), di cui Roma era ricca a quel tempo. Nel 1560 il processo di conversione di Carlo verso un Cristianesimo autentico ricevette una decisa accelerazione: egli chiese l'ordinazione diaconale, con la conseguente scelta del celibato. Ma sarà il 1562 l'anno in cui il Borromeo visse il dramma più grande della sua vita: la morte di Federico, fratello maggiore di Carlo ed unico erede del patrimonio di famiglia. Carlo si trovava così di fronte a una scelta: proseguire nel cammino verso una vita consacrata o tornare allo stato laicale per sostituire il fratello Federico; il Papa stesso era disponibile a concedere una dispensa eccezionale affinché Carlo potesse propendere per questa seconda scelta.

Ma lui rimase fedele alla scelta di una vita consacrata, abbandonando l'ipotesi - apparentemente più "ragionevole" - di seguire una carriera mondana. I primi biografi di Carlo evidenziano questa come una tappa decisiva nel cammino di conversione del santo, ma vedremo come questo processo proseguirà fino alla morte.

Il 17 luglio 1563 Carlo ricevette l'ordinazione sacerdotale e nel giorno della festa di S. Ambrogio dello stesso anno venne ordinato vescovo. Il 12 maggio 1564 arrivò infine la nomina ufficiale ad Arcivescovo di Milano. Carlo si rese subito conto dei gravi problemi che doveva affrontare dentro e fuori la Chiesa ambrosiana; primo fra tutti la dimenticanza del valore autentico del ministero episcopale, poiché diffusissima era l'usanza dei vescovi di risiedere fuori dalle proprie città, godendosi i privilegi e curandosi poco del popolo che era stato affidato loro. Si pensi al caso di Milano, in cui Ippolito I e Ippolito II - predecessori di San Carlo sulla cattedra ambrosiana - avevano accumulato altre cariche ecclesiastiche tra cui il primariato di Ungheria, e avevano sempre vissuto fuori da Milano.

Ma proprio il Concilio di Trento aveva riportato all'attenzione questo problema, mettendo in luce il vescovo come un pastore, che deve vivere in mezzo al suo gregge, in quanto egli stesso "sposo" della Chiesa che gli era affidata. Spinto da questo desiderio riformatore e terminati i suoi doveri verso il Papa, Carlo ottenne quindi il permesso di trasferirsi stabilmente a Milano, sede della sua cattedra episcopale: iniziò qui il lungo rapporto tra S. Carlo e i milanesi che lo porterà a risiedere in città fino alla sua morte, senza allontanarsi nemmeno in occasione della terribile epidemia di peste del 1576.

Ma chi era Carlo Borromeo?

Ecco come lo descrive il biografo Carlo o Bascapè: "Carlo fu di statura superiore alla media, grande anche nelle sue membra, almeno per quanto riguarda le ossa, perché di carne ne aveva quel tanto consentito dai continui digiuni. Gli occhi erano grandi e azzurri; grosso il naso, dai lati del quale partivano fino al mento alcuni solchi profondi. I capelli tendevano al nero. La barba al biondo; la portò arruffata finchè la tagliò negli ultimi anni. Grande era il senso di autorità che traspariva dal volto pallido e scarno, il quale mostrava nel suo più alto grado la santità dei sacerdoti antichi. [...] non lasciava apparire nulla che mostrasse ricercata eleganza o leggerezza profana, nulla che contrastasse con la gravità e la santità del suo grado. Si prendeva cura del suo corpo quel tanto che lo richiedevano l'ufficio o la pietà, senza preoccuparsi della salute[...]. Dormiva cinque ore su un lettuccio di paglia; spesso, se necessario anche per uno spazio più breve o addirittura brevissimo, stando seduto su una sedia. [...] Quando meditava si concentrava con la mente e il cuore [...]. Poiché di giorno era occupato negli affari, pregava durante la notte; e quando doveva misurarsi con questioni di particolare importanza trascorreva in orazione notti intere. [...] la sua si poteva definire una preghiera continua."

(da: C. Bascapè, De vita et rebus gestis Caroli S.R.E. cardinalis, tituli S. Praxedis archiepiscopi Mediolani libri septem; in: San Carlo Borromeo, la casa costruita sulla roccia, edizioni di pagina).

 

Il percorso di conversione di Carlo non era una solitaria ascesi, bensì un cammino all'interno della compagnia cristiana, quindi lui stesso aveva dei testimoni e degli amici da seguire: si pensi al grande arcivescovo riformatore portoghese Bartolomeo de Martyribus, che Carlo ebbe a indicare come un esempio per lui stesso; ma anche all'amicizia con i teatini (da cui ereditò il grande senso ascetico) e la profonda sintonia con il metodo di preghiera di Sant'Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia del Gesù (tanto da scegliere un gesuita come suo padre spirituale). Carlo amava ripetere che "ogni altro errore è più rimediabile che non quello di non volere consiglio"; e in questa sua ricerca arrivò addirittura ad essere definito "ladro rapacissimo d'uomini" da San Filippo Neri, tanti erano i suoi sforzi per portare con sé i migliori tra gli oratoriani che a quel tempo stavano conoscendo una grande fioritura di vocazioni. Il Borromeo arrivò anche a formare una Congregazione di sacerdoti che facevano voto di obbedienza direttamente al vescovo: gli Oblati di Sant'Ambrogio, una sorta di fraternità sacerdotale in cui vita in comune era un aspetto centrale, al quale S. Carlo teneva molto; si racconta infatti che lui stesso si metteva a lavare i piatti poichè desiderava essere trattato come tutti gli altri della Congregazione. Potremmo dire che il motto di S. Carlo, oltre alla parola humilitas impressa nel suo stemma (che aveva voluto rinunciando a quello prestigioso dei Borromeo), si può riassumere nella frase: "la candela per far luce deve consumarsi".

Questo diveniva evidente guardando al suo instancabile anelito pastorale, che lo portò a percorrere oltre 30.000 chilometri, talvolta anche a piedi e su strade pericolose o di montagna, per visitare due o tre volte ognuna delle parrocchie della sua immensa diocesi, spingendosi fino alle valli svizzere, terra di confine davanti all'avanzare della riforma protestante.

 

Carlo era molto attento ad ogni particolare della vita della sua diocesi e utilizzava le visite pastorali come occasione per comprendere a fondo lo stato di ogni parrocchia, fino a distribuire questionari molto dettagliati a cui i suoi sacerdoti dovevano rispondere, o emettendo numerosi decreti riguardanti i più svariati argomenti, dalla dotazione e utilizzo dei paramenti liturgici, fino alle dimensioni delle finestre degli edifici sacri. L'intento di Carlo -in un tempo di confusione e crisi quale quello del Cinquecento- era di educare il popolo a vivere ogni istante della vita davanti alla Presenza del Cristo, portando la fede a confrontarsi con ogni aspetto della vita quotidiana. Si pensi a riguardo al libriccino di istruzioni "Ricordi ai fedeli della Diocesi di Milano" che riportava consigli sia sulla vita spirituale che sui comportamenti sociali, in un'unità di vita che rivelava la convenienza umana dell'esperienza cristiana. Carlo riformò la parrocchia, dando grande impulso alla formazione di scuole di dottrina cristiana, in cui i giovani venivano educati -oltre che a leggere e a scrivere in un tempo in cui ancora non esisteva la scuola pubblica- ai rudimenti della fede cristiana; ma anche alle confraternite (quali quelle del Santissimo Sacramento) e quindi alle processioni religiose, come quella del Corpus Domini, guidate spesso dallo stesso arcivescovo. Inoltre chiedeva ai suoi fedeli di accostarsi più spesso al Sacramento dell'Eucaristia, vero cuore della fede cristiana.

Due erano i pilastri della vita di questo santo: l'amore a Cristo (e quindi a tutti gli uomini) e la preghiera. Il crocifisso rappresenta una straordinaria sintesi di tutto questo e la stessa iconografia carolina ne trasmette la centralità nella vita del santo.

Ancora due esempi raccontano di come in S.Carlo davvero "l'intelligenza della fede" sia diventata "intelligenza della realtà": la formazione dei seminari e l'epidemia di peste a Milano.

Riguardo ai seminari bisogna ricordare che ai quei tempi l'educazione dei giovani che sceglievano la vita consacrata veniva svolta principalmente nelle canoniche, da sacerdoti che a volte non comprendevano nemmeno il significato delle formule liturgiche che ripetevano; solo pochi avevano accesso agli studi teologici in università. In questo quadro di ignoranza dilagante, Carlo istituì dei veri e propri seminari, dove i giovani venivano davvero educati e imparavano a conoscere non solo le formule, ma soprattutto le ragioni del loro ministero; furono creati anche dei seminari e dei collegi speciali, sia per quei giovani destinati alle pievi rurali, sia per coloro che - in quanto destinati alle valli svizzere - avrebbero dovuto fronteggiare più da vicino, anche teologicamente, la riforma protestante.

Manzoni ebbe a dire riguardo all'epidemia del 1576-1577: "Fu chiamata - ed è tuttora - la peste di San Carlo. Tanto è forte la carità!". La peste fu un evento che colpì profondamente la diocesi ed in particolare la città di Milano; Carlo non solo restò in città, ma diede tutto per aiutare i poveri e gli ammalati, arrivando perfino a vendere le tende, la tappezzeria dei suoi palazzi e i suoi vestiti personali, per ricavarne vestiti per i poveri; inoltre visitava personalmente gli appestati, guidava le processioni e chiedeva con forza ai suoi sacerdoti di fare lo stesso. Mentre le autorità civili fuggivano da Milano, il vescovo rimaneva vicino alla sua gente. Un esempio dell'intelligenza e della passione della sua opera, sta nell'erigere dei grandi crocifissi agli incroci delle strade, perché potessero rappresentare un segno per tutti, in particolare per quanti - per evitare il dilagare del contagio - dovevano stare rinchiusi nelle proprie abitazioni. Ancora una volta l'intelligenza della fede diveniva intelligenza della realtà, come testimoniato dal fatto che lo stesso vescovo era in prima linea per far rispettare le prescrizioni igieniche che le autorità sanitarie raccomandavano per evitare l'allargamento del contagio.

Nella vita di ogni santo ci sono delle ombre, poiché -vale sempre la pena ricordarlo- la santità non è una coerenza con dei dettami, ma una cogenza, cioè un'appartenenza totale a Cristo attraverso la compagnia della Chiesa: nelle prigioni del vescovo furono rinchiuse molte persone e alcune vennero anche condannate a morte; ma forse si capisce meglio quale era il clima dell'epoca se si pensa che S. Carlo stesso subì un attentato a colpi di archibugio -dal quale uscì miracolosamente illeso- da parte degli Umiliati, ordine che voleva sopprimere poiché troppo corrotto. Oppure si può pensare alla rivolta dei canonici di S. Maria alla Scala contro la visita del vescovo nella loro chiesa. Riguardo a queste ostilità possiamo anche citare un esempio che si riferisce ancora al "periodo romano" di Carlo: un tale le Annibal Caro, umanista ostile al Borromeo, scrivendo a un monsignore bolognese in procinto di recarsi a Roma, dice: "Le ricordo che ci si viene ora per orare e non per pascere", riferendosi alla riforma per cui Carlo si stava tanto adoperando. Lo stesso Annibal Caro scriverà poi al duca Torquato Conti: "Di Roma, non attendendo a nuove, non so che me Le dire, se non che quell'acconciastagni e candelieri ha tolto a rifarla tutta: e non gli basta Roma, che vuol fare il medesimo per tutto", evidenziando la forza di rottura che la personalità del Borromeo portava nel suo desiderio autentico di riforma e di conversione innanzitutto personale.

In questo clima di scontro dobbiamo annoverare anche le tensioni con il potere spagnolo che dominava su Milano nella figura del governatore.

Ma l'evento della morte di Carlo mise in luce davanti a tutti il vero valore di quest'uomo: egli si trovava in preghiera al Sacro Monte di Varallo (proprio lui aveva dato grande impulso a questa forma di devozione, come baluardo visibile della fede), quando fu investito da forti febbri (forse a causa della malaria) e venne quindi trasportato fino a Milano attraverso il Naviglio; quando arrivò era ormai già morente e il 3 novembre 1584, fissando per un'ultima volta il quadro di Gesù nel Getsemani, spirò. Subito la notizia si diffuse e un intero popolo si radunò a salutare il grande vescovo, compresi gli spagnoli e quanti - dopo averlo tanto osteggiato in vita - non potevano non riconoscere ora la sua fama di santità (che verrà riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa nel 1610).

A 46 anni Carlo moriva, consumato anche carnalmente nell'amore a Cristo e al suo popolo e avendo ri-generato quella stessa Chiesa che gli era stata affidata.

Queste parole di Don Luigi Giussani sono quanto mai adeguate per descrivere il suo - e il nostro - cammino umano: "Il Cristianesimo è qui, tutto: non delle cose da rispettare, delle leggi. Ma una presenza da guardare, una presenza umana da guardare. Una presenza di cui stupirsi, una presenza da pensare, con cui imparare, da implorare: una Presenza. E' un Tu che domina, non delle cose".