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L'avventura di una straordinaria conversione cristiana: il percorso di fede in sant'Agostino

Il relatore Luigi Beretta fra Mario Colnago (a sinistra) e p. Giancarlo Ceriotti OSA

Il relatore Luigi Beretta fra Mario Colnago (a sinistra) e p. Giancarlo Ceriotti OSA

 

 

 

L'AVVENTURA DI UNA STRAORDINARIA CONVERSIONE CRISTIANA: IL PERCORSO DI FEDE IN SANT'AGOSTINO

 

di Luigi Beretta

Cassago Brianza 4 settembre 2013

 

 

 

Nella recente lettera enciclica "Lumen Fidei" di papa Francesco, proprio nell'incipit, troviamo un'espressione che aiuta a comprendere cosa può essere e cosa si può intendere per fede nell'orizzonte umano cristiano. Più che una definizione, è un paragone dalla forza travolgente, che permea senza equivoci le sicurezze che sperimentiamo nella vita a partire dai nostri nostri sensi ed in particolare dalla vista. Noi conosciamo il mondo in modo privilegiato attraverso ciò che vediamo, ciò che vediamo lo sperimentiamo, ciò che sperimentiamo lo comunichiamo, ciò che comunichiamo appartiene alla conoscenza che ogni generazione trasmette alla successiva come un fosse un vero e proprio patrimonio, anzi – possiamo aggiungere – costituisce l'autentica ricchezza dell'umanità. La luce, questa incredibile proprietà del mondo fisico, è il presupposto indispensabile, irrinunciabile per la formazione delle nostre conoscenze dalle più semplici alle più complesse, è lo strumento che ci permette di conoscere il mondo nella nostra dimensione umana. Non c'è conoscenza profonda della realtà sensibile se non c'è la luce.

La luce è, nei fatti, una via per conoscere. Non meraviglia quindi l'accostamento, tra luce e conoscenza, in molte civiltà, anche diversissime fra loro. Ma per il cristiano questo accostamento esprime una prospettiva nuova e unica, irripetibile. "La luce della fede: con quest'espressione, inizia l'enciclica, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: « Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » "(Gv 12, 46)

Come la luce lo è per ogni uomo nel mondo sensibile, Cristo, dunque, è la fonte di ogni conoscenza, è la via della conoscenza, è la conoscenza, è la ratio ultima, dove per ratio si intende il rapporto, la relazione fra l'uomo e l'universo mondo, in cui tutto è compiuto.

Questa "novità" predicata dai cristiani fu dirompente per il giovane Agostino che a Milano, poco più che trentenne, stava ancora cercando qualche seria ragione per dare un senso alla sua vita.

Nulla di simile aveva trovato prima, per quanto avesse cercato ovunque con avidità nelle pieghe di molte dottrine, di varie esperienze umane, di incontri con i grandi uomini del suo tempo.

Ma per meglio avvicinarci all'esperienza agostiniana e comprendere l'origine e il progredire del suo percorso di fede, credo sia utile partire da un brano lontano qualche secolo, di un grande ammiratore di Agostino, quel Francesco Petrarca che portava sempre con sé una copia delle Confessioni. E' una notte come tante altre dell'anno 1347. Petrarca forse ha già deciso di rientrare in Italia, ha passato i quarant'anni ed avverte il senso di un tempo che passa e sfugge al potere umano. E si interroga sulla sua vita e sulla vita futura. E' il proemio del Secretum, un libro, per l'appunto segreto, che riflette sui dissidi interiori del poeta, una specie di diario personale che sarà letto e conosciuto praticamente solo dopo la morte di Petrarca.

Non molto tempo fa ero assorto e pensavo con sgomento, come faccio spessissimo, in che modo fossi entrato in questa vita e come ne sarei dovuto uscire. Non ero però oppresso dal sonno, come succede a chi è spiritualmente debilitato, e mi parve allora di vedere – angosciato e ben desto com'ero – una donna di un'epoca e di uno splendore inenarrabili e d'una bellezza che noi uomini non riusciamo interamente a comprendere. Non sapevo per quali vie fosse giunta sino a me - così mi si rivolse: "Non temere - ho avuto compassione dei tuoi errori e sono giunta da lontano per portarti sollecito aiuto - Io sono colei che nella nostra Africa tu hai descritto con curiosa eleganza -"

Aveva appena finito di parlare e - non vedevo chi altri potesse essere colei che mi parlava se non la Verità ... mi volgo intorno per vedere se intorno a lei ci fosse qualcuno, o se fosse invece entrata da sola nella nascosta intimità della mia solitudine: m'accorgo allora d'un vecchio dall'aspetto maestoso e venerando. Non ci fu bisogno che ne chiedessi il nome. L'aspetto sacerdotale, la modestia del volto, la serietà dello sguardo, la dignità del portamento, l'abito africano ma l'eloquenza romana: tutto indicava che si trattava del gloriosissimo padre Agostino .

Udii d'un tratto il dolce suono di quel nome dalla bocca stessa della Verità - "Oh Agostino tu che tra mille e mille mi sei caro ! -. Anche tu - hai sofferto molte pene simili a quelle di quest'uomo finché sei stato chiuso nel carcere del corpo - ti prego di rompere questo silenzio con la tua sacra voce, che io amo in modo così speciale -" Al che egli: "Sei tu la mia guida, la mia consigliera, la mia padrona, la mia maestra."

Il brano è esplicito: Petrarca riconosce ad Agostino il suo profondo desiderio di Verità. Anzi non ha proprio alcun pudore a mettere in bocca ad Agostino quest'ultima affermazione: "Sei tu, o verità, la mia guida, la mia consigliera, la mia padrona, la mia maestra."

Ma cosa è questa verità di Petrarca, questa verità così agognata e così amata da Agostino ?

Non è certo quella che si cerca nei tribunali, che il brillante retore Agostino aveva frequentato da giovane, non è certo quella che cercavano e cercano i filosofi con le loro elucubrazioni, non è certo quella che proclamano i maestri che in ogni secolo hanno agito per imbonire gli uomini.

La verità di Petrarca, la verità di Agostino non è un'idea, non è una parola astratta: è un fatto concreto, è soprattutto un uomo. E quale uomo ! «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».

Con queste parole, riportate nel Vangelo di Giovanni, Gesù ha cercato di chiarire a Tommaso, e a tutti gli altri uomini, l'importanza della sua venuta e del suo operare sulla Terra. Giovanni, tramandando alle generazioni l'affermazione di Gesù, chiarisce che dobbiamo affidarci a Cristo, se vogliamo giungere alla Vita e che dobbiamo accogliere da Cristo stesso la Verità. L'uomo ha fame di verità. Ha un desiderio insopprimibile di conoscere la ragione del suo esistere, che prima o poi nel corso della vita affiora nella sua mente e nel suo animo. Anche Agostino ha percorso questa via, dove ha imparato a muovere i suoi passi sin dalla gioventù. C'è un brano nel De beata Vita, un'opera scritta durante il soggiorno a Cassiciaco nella villa di Verecondo, che illustra bene il suo cammino verso la Verità, tortuoso a tratti, erroneo in altri, sfiduciato o spesso senza un riferimento duraturo, e infine la scoperta della stella polare, la scoperta di una luce che non tramonta e segna, come la cometa dei re Magi, la direzione in cui procedere per percorrere la valle della vita. Agostino si sta confidando con Manlio Teodoro, l'unico, a suo dire, capace di comprendere il suo intento, e lo invita ad ascoltarlo perché rivelerà quali persone lo hanno condotto a lui, quale è il suo attuale stato d'animo e soprattutto quale aiuto si aspetta da lui. Ebbene candidamente Agostino confessa l'origine del suo cercare: "Fin dal diciannovesimo anno della mia vita, dopo aver letto, nella scuola del retore, il libro di Cicerone, dal titolo L'Ortensio, fui preso da tanto amore per la filosofia che subito decisi di dedicarmi ad essa."

Ma cos'è questa filosofia ? Agostino, nel libro ottavo della Città di Dio chiarisce che «il nome stesso di filosofia, tradotto in latino, significa amore di sapienza; e se Dio è sapienza e da lui tutto fu creato, come la divina autorità e la verità dimostrano, il vero filosofo è amante di Dio».

La lettura dell'Ortensio ciceroniano fu sicuramente un episodio chiave nella maturazione del giovane Agostino, tanto da venire citato con enfasi anche nelle Confessioni, circa dieci anni dopo. L'episodio viene riferito all'anno 372, e cade in un periodo in cui Agostino desidera primeggiare e soddisfare le sue vanità umane. Ebbene "fu appunto il corso normale degli studi che mi condusse al libro di un tal Cicerone, ammirato dai più per la lingua, non altrettanto per il cuore. Quel suo libro contiene un incitamento alla filosofia e s'intitola Ortensio. Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Avevo allora diciotto anni e mio padre era morto da due." (Confessioni 3, 4, 7)

L'effetto più straordinario di questa lettura fu il desiderio di Agostino di cercare quella che definisce "la sapienza immortale", che noi possiamo declinare come docilità alla Verità. "Le sue parole mi stimolavano, mi accendevano, m'infiammavano ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente non già l'una o l'altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov'era." (Confessioni 3, 4, 8)

E dove va a cercarla ?

Incredibilmente si accosta ai testi che sua madre Monica aveva, senza gran frutto, cercato di proporgli con amorevole cura in gioventù. "Perciò mi proposi – scrive Agostino - di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture, per vedere come fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l'ingresso o piegare il collo ai suoi passi." Agostino resta deluso da questo incontro. Non capisce, non riesce a vedere con chiarezza, non ha la capacità o forse il cuore per comprendere.

Al cospetto di Manlio Teodoro Agostino deve ammettere che passarono altri quattordici anni in cui "non mancarono nebbie, per cui il mio navigare fu senza mèta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano e che inducevano nell'errore." Questo espressivo riferimento alle stelle che tramontano nell'oceano e, scomparendo, lasciano da solo il navigante, materializza il disagio di chi è tormentato dall'inquietudine e dalla difficoltà di trovare la pienezza del vivere felice. Tra le stelle che tramontano all'orizzonte, incapaci dunque di assicurare un riferimento assoluto in ogni momento, Agostino ricorda la sua "falsa e puerile interpretazione della religione" che lo distoglieva dall'indagine, dalla ricerca della verità. Un errore comune a molti, che, come Agostino, maturando in età, pensano di allontanarsi dalla foschia, persuadendosi "che ci si deve affidare più a coloro che usano la ragione che a coloro che usano l'autorità."

Qui per ragione è opportuno intendere la ratio, cioè il procedimento che cerca di mettere in relazione fenomeni, cose, avvenimenti. Ma come ben insegna l'esperienza, così come la scienza, che si affida ai procedimenti matematici intrinsecamente coerenti per evitare contestazioni, il ragionare di per sé non conduce alla verità, perché è solo uno strumento e i suoi procedimenti si possono applicare in modo corretto, ma pure in modo errato: il mondo è colmo di tali errori, così come la storia conserva memoria di quelli che sono stati definiti "falsi profeti", di coloro cioè che si credono sapienti in questo mondo. Se ne accorse anche Agostino. Non fu facile capire l'errore, non fu facile distinguere gli erranti.

"M'incontrai allora - ricorda - con individui i quali ritenevano che la luce sensibile si deve venerare fra le cose altamente divine. Non ero d'accordo, ma supponevo che intendessero celare una nobile dottrina in concetti arcani. In seguito me li avrebbero svelati. Ma quando, dopo averli esaminati attentamente li abbandonai, soprattutto con la traversata di questo mare, a lungo gli accademici tennero il mio timone fra i marosi in lotta con tutti i venti." Manichei e scettici, questi sono gli individui che gli prospettano una falsa luce. La cultura elitaria proposta dai Manichei, in evidente contrasto con l'educazione popolare che sembrava affiorare da alcuni brani della Bibbia, avvince Agostino, che si ritrova così a cercare risposte in opinioni che invece lo condannano alla falsità per lunghi anni: "Ripetevano: verità, verità, e ne facevano un gran parlare con me, eppure mai la possedevano, e dicevano il falso non su te soltanto, che sei davvero la verità, ma altresì sui princìpi di questo mondo, che da te sono creati -" (Confessioni 3, 6, 10)

La liberazione dall'interpretazione manichea della vita, che l'aveva coinvolto per un decennio, non risolve la sua ricerca di verità. Anzi, questa liberazione è piuttosto il frutto della adesione allo scetticismo accademico e della persuasione che il dubbio sistematico sia il metodo per conoscere. Forse questo convincimento è l'esito della reazione alla delusione provocata dalle false promesse manichee, che proponevano un modello di verità che non poteva essere accolto ragionevolmente: "Nel mio dubitare di tutto, secondo il costume degli accademici quale è immaginato comunemente, e nel fluttuare fra tutte le dottrine, risolsi di abbandonare davvero i manichei. (Confessioni 4, 14, 25)

Una volta stabilitosi in Italia, Agostino si era impegnato a riflettere dentro di sé e ad esaminare seriamente non già se restare nella setta dei manichei nella quale si pentiva di essere capitato, ma in quale modo dovesse cercare il vero, per il cui amore sospirava ardentemente. Spesso gli sembrava che fosse impossibile trovarlo e le grandi folate dei suoi pensieri lo inducevano a favorire gli scettici. Dai manichei agli accademici, Agostino trasborda da una certezza senza discussione al dubbio sistematico, e si convince della certezza di non poter conoscere la Verità. "Mi era nata infatti anche l'idea che i più accorti di tutti i filosofi fossero stati i cosiddetti accademici, in quanto avevano affermato che bisogna dubitare di ogni cosa, e avevano sentenziato che all'uomo la verità è totalmente in conoscibile." (Confessioni 5, 10, 19)

Sono momenti difficili, drammatici per Agostino. E' la crisi necessaria perché quest'uomo "bramoso della verità" potesse liberarsi dalle falsità maniche per riconoscere finalmente la "stella polare" cui affidarsi. Alle volte invece, vedendo, per quanto gli era possibile, la mente umana così vivace, così sagace, così perspicace, riteneva che la verità gli rimaneva nascosta solo perché non conosceva il modo per cercarla e che questo stesso modo doveva riceverlo da qualche autorità. Restava da individuare quale mai fosse questa autorità, dal momento che, pur tra tanti dissensi, molte persone promettevano di darla. (L'utilità del credere 8, 20)

In quel periodo aveva la pretesa di avere la conoscenza su ciò che non poteva vedere con gli occhi - l'anima, Dio - con la stessa certezza con cui era sicuro che sette più tre fa dieci! Voleva comprendere allo stesso modo tutte le altre verità, sia quelle corporee non sottoposte ai suoi sensi, sia quelle spirituali. (Confessioni 6, 4, 6)

Si accorge tuttavia che la vita stessa gli propone ogni giorno un incalcolabile numero di fatti a cui crede senza vederli e senza assistere al loro svolgimento. Considera la moltitudine degli eventi storici, delle notizie di luoghi e città mai visitate di persona, delle cose per cui necessariamente, se vogliamo agire comunque nella vita, si dà credito agli amici, ai medici, a persone di ogni genere. E infine si stupisce di "come ero saldamente certo dell'identità dei miei genitori, benché nulla potessi saperne senza prestare fede a ciò che udivo" (Confessioni 6, 5, 7) Agostino ha finalmente capito che la verità e la sua ricerca non sono più un fatto esclusivamente personale o soggetto ad algoritmi puramente logici: la verità è piuttosto un patrimonio collettivo perché è un bene che si consegna, cioè si tramanda e si fa conoscere ad ogni uomo.

Questa conoscenza è possibile solo se si partecipa ad una memoria più grande, che Agostino trova all'interno della comunione della Chiesa. L'esito finale di questo processo ha un senso ed è realistico perché abbiamo fede, cioè diamo credito a ciò che ci viene detto: la fede è la luce, la via, lo strumento per donare e assicurare la verità a chiunque. A Milano incomincia a conoscere il volto della Chiesa "piena di fede e di santità", dove "i fedeli avanzavano, l'uno in un modo, l'altro in un altro" ma sempre assieme nella testimonianza del Cristo risorto. Agostino ormai si avvicina al passo decisivo.

"Alfine giunsi in questa regione - scrive nel ritiro di Cassiciaco - e qui conobbi la stella polare cui affidarmi." (De beata Vita) A Milano, dove si trasferisce per gustare la fragranza degli onori, conosce il vescovo Ambrogio. Nei suoi discorsi, che segue con una certa continuità, intravede che all'idea di Dio non si deve associare col pensiero nulla di materiale e neanche all'idea dell'anima, che nel mondo è il solo essere assai vicino a Dio. Manlio Teodoro lo aiuta in questa scoperta, ma Agostino stesso confessa che era trattenuto dal volare in seno alla filosofia dagli allettamenti della donna e del successo. Quest'uomo "in carriera" era convinto che, una volta conseguiti questi due obiettivi - una sorte tra l'altro toccata a pochi fortunati - finalmente avrebbe potuto dedicarsi alla filosofia e raggiungere la felicità desiderata. Ma la vita dell'uomo non è nelle sue mani e così anche i progetti di Agostino non vanno nella direzione che aveva programmato. Basta poco, bastano alcuni libri. In una mente disposta ad accogliere senza pregiudizi, vera fucina di pensiero, la lettura di questi libri dischiude nuovi orizzonti.

"E letti assai pochi libri di Plotino, di cui so che (tu Manlio Teodoro) sei grande ammiratore, e, per quanto mi fu possibile, messa a confronto con essi anche l'autorità che ci ha trasmesso la sacra dottrina, m'infiammai talmente da voler levare subitamente tutte le ancore." (De Beata Vita) Nella Confessioni Agostino narra alcuni episodi che ci aiutano a comprendere quanto sta accadendo in lui in questo periodo che culminerà nel battesimo, quali sono i confronti che lo stimolano, quali le ragioni autorevoli che lo costringono a interrogarsi. Ci parla di Simpliciano e del suo amico Vittorino, di Ponticiano e dei suoi racconti ambientati a Treviri, ci ricorda l'episodio dell'ubriaco, descrive drammaticamente la scena del giardino con il richiamo del tolle lege. Ma questi episodi non sono casuali, né improvvisati. La loro genesi ha un substrato profondo, che affonda le sue radici nella testimonianza che gli offre soprattutto l'Apostolo Paolo, la cui lettura lo avvince e lo rigenera. Agostino affronta con avidità le sacre scritture, ma prima di tutto legge proprio l'apostolo Paolo, la cui figura lo accompagnerà per tutta la vita, trasformando la sua boriosa sapienza in una via all'umiltà.

Iniziata la lettura, Agostino confessa di avere trovato che quanto di vero aveva letto nei libri platonici, qui è detto con la garanzia della grazia divina, in modo che chi vede non si vanti, quasi non abbia ricevuto non solo ciò che vede, ma la facoltà stessa di vedere. (Confessioni VII, 21, 27) In san Paolo trova una conferma che la fede è il fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Scopre che per questa fede i credenti del passato sono stati approvati da Dio, che per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall'invisibile ha preso origine quello che si vede. Rilegge con occhi nuovi le storie del Vecchio Testamento, non più favole per bambini, ma percorso ininterrotto e vero dell'alleanza fra Dio e l'umanità.

L'apostolo Paolo gli propone esempi efficaci: per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino, per fede Enoch fu trasportato via, in modo da non vedere la morte, per fede Noè, avvertito divinamente di cose che ancora non si vedevano, costruì con pio timore un'arca a salvezza della sua famiglia, per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. (Lettera agli Ebrei, 11, 1-8)

La questione del credere è un argomento chiave, su cui Agostino tornerà più volte con le certezze paoline e lo farà in modo chiaro in un'opera "La fede nelle cose che non si vedono", dove contesta quelli ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Ebbene per confutare coloro cui sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, Agostino, benché non sia in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine in cui i cristiani credono, tuttavia dimostra alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono, perché sono il fondamento dell'amicizia e del vivere sociale. Nel tempo Agostino riserverà espressioni drammatiche a chi ha deciso di non credere: "Voi che credete quel che vi talenta e rigettate quel che non vi garba, non credete il Vangelo, ma voi medesimi. Voi volete porre voi medesimi in vece dell'autorità." (De Morib. Eccl.).

A Milano Agostino ormai vede la mèta, si affida all'autorità della Chiesa e trova la via per raggiungerla: "Cercavo la via - ma non l'avrei trovata, finché non mi fossi aggrappato al mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù - Egli ci chiama e ci dice: "Io sono la via, la verità e la vita" egli mescola alla carne il cibo che non avevo forza di prendere, poiché il Verbo si è fatto carne affinché la tua sapienza, con cui creasti l'universo, divenisse latte per la nostra infanzia." (Confessioni VII, 18, 24) Grazie a Paolo Agostino ha fatto sua la lezione giovannea secondo cui la tradizione della Chiesa riconosce in Gesù colui che è venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in lui non rimanga nelle tenebre. "Uno solo - aveva testimoniato Paolo - è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l'ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo - dico la verità, non mento -, maestro dei pagani nella fede e nella verità." (Prima lettera a Timoteo 2, 5-7)

Dico la verità, non mento: san Paolo è chiaro. E poi, con altrettanta fermezza, di nuovo ribadisce che è stato fatto banditore e apostolo, maestro dei pagani nella fede e nella verità. Fede e verità sono un binomio indissolubile: la verità è la rivelazione e la fede è lo strumento, la condizione indispensabile per trasmetterla. Senza fede sarebbe difficile cogliere la verità.

Per il cristiano la fede è credere nella Incarnazione e Risurrezione di Cristo, è fede in un Dio che si è fatto uomo per entrare nella nostra storia. Agostino ne è consapevole e in più occasioni ritorna sull'argomento per valorizzare ogni aspetto con cui la fede può presentarsi all'uomo. Agostino ha percepito che la fede non è una luce illusoria che impedisce alla ragione di cercare. Nello stesso tempo ha la netta percezione che la fede non è solo lo spazio misterioso dove non può arrivare la ragione e che pertanto è destinata a sparire man mano che avanzano le conoscenze restringendo il perimetro del mistero. Al contrario la memoria giovannea, che è il cuore della fede, ha per Agostino ha un significato universale tale da illuminare tutta quanta la vita di un uomo.

La fede è una grazia che nasce nell'incontro con Dio, dove ci viene rivelato il suo amore capace di sorreggerci nella costruzione della vita intera.

La questione non è di poco conto, soprattutto per gli uomini moderni del dopo Galileo, che hanno ridato nuova linfa al pensiero accademico. Rivisitare la relazione fra fede e verità, tra fede e razionalità è più che mai necessario in un mondo come quello odierno segnato dalla crisi della verità. Ciò è tanto più necessario in quanto ogni scienza dipende da una filosofia o da una ideologia, che ne detta lo sviluppo. La scienza galileiana ha ripreso i due principi della filosofia classica secondo cui vale l'eternità della materia e soprattutto c'è una causa che determina i fenomeni, principi decisamente discussi da Agostino (Conf. XI, 29, 39). Ma v'è di più.

La conoscenza, per il metodo scientifico, si acquisisce attraverso l'esperienza e questa conoscenza sperimentale viene identificata con il vero. Ogni affermazione è vera, quindi esprime un aspetto della verità, quando è dimostrabile. Per la scienza dimostrabile significa soprattutto ripetibile, nuovamente verificabile.

Ma Gesù Cristo, la sua vicenda umana e soprattutto la sua risurrezione, sono fenomeni irripetibili, sono unici. Ben poco di quanto lo riguarda, e non certamente la questione fondamentale - la sua risurrezione - può essere dimostrata secondo i canoni scientifici, può essere ripetuta e verificata. Questa irrepetibilità è un macigno che Agostino ha rimosso grazie alla fede, alla testimonianza degli Apostoli, di Paolo, di Ambrogio, della Chiesa milanese. Nell'omelia 49 sulla resurrezione di Lazzaro, Agostino scrive: "apprendiamo dal Vangelo che tre sono i morti risuscitati dal Signore ... Risuscitò la figlia del capo della sinagoga, che si trovava ancora in casa (cf Mc 5, 41-42); risuscitò il giovane figlio della vedova, che era già stato portato fuori della città (cf. Lc 7 14-15); risuscitò Lazzaro, che era stato sepolto da quattro giorni." In quell'apprendiamo, sta la forza della tradizione conoscitiva, lì si radica la potenza stessa della fede. La fede in lui non è più contrapposta alla ragione, ma diventa luce e guida per la ragione.

Emblematico è l'avvio del discorso 2 dove Agostino riflette sulla figura di Abramo, il padre della fede. Agostino si meraviglia, non capisce perché tutte le volte che si legge l'episodio del sacrificio di Isacco, il racconto desti tanta impressione nella mente degli ascoltatori come se fosse la prima volta. Agostino vi riconosce la grande fede di Abramo, una grande pietà non solo verso Dio, ma anche verso il suo unico figlio, al quale crede di non fare nulla di male eseguendo quanto aveva ordinato di fare colui che l'aveva creato. Abramo, sottolinea Agostino, aveva potuto essere padre del figlio suo secondo la generazione fisica, ma non creatore ed artefice per un suo potere. E aggiunge che Isacco è nato da Abramo non secondo la carne, ma da una promessa, quella stessa promessa che è alla base della Alleanza fra Dio e il popolo di Israele.

L'uomo fedele per Agostino è colui che crede a un Dio che promette: il Dio fedele è colui che concede ciò che ha promesso all'uomo (In Psal. 32, 2, I, 9). Nella sua visione Agostino insegnerà che la fede di Gesù Cristo ha conquistato il mondo intero mediante la santità, la castità, la pazienza, la costanza degli apostoli, dei martiri e delle vergini. La fede ha vinto e debellato ogni perfidia, cosicché né il Giudeo, né l'eretico non hanno più contro di lei nessun potere (De utilit. credendi, c. XVII). Perciò conclude che non vi sono ricchezze, non tesori, non onori, non cosa alcuna al mondo che uguagli o anche solo pareggi l'eccellenza della fede. La fede cattolica salva i peccatori, illumina i ciechi, guarisce gli infermi, battezza i catecumeni, giustifica i fedeli, riabilita i penitenti, moltiplica i giusti, corona i martiri (Serm. I, de Verbo Apost).

Altrove dirà che la fede è medicina (Conf. 6, 4, 6), fortezza (Ep. 118, 32), nido (Sermone 51, 5, 6), scorciatoia (Ep. 102, 38 e de Cons. Evang. 1, 35, 53), nonché schermo (De moribus Eccl. 1, 2, 3 e 7, 11).

L'adolescente Agostino nella sua spasmodica ed entusiasmante ricerca della verità ha finalmente trovato la sua pace. Si era posto un obiettivo che può porsi qualsiasi uomo o qualsiasi intellettuale, ed ora ha scoperto, da adulto, un porto sicuro e un riferimento, la fede, che è ripartenza per un cammino di rigenerazione che durerà tutta la vita. La fede, con la verità, ci salva, rende sicuri i nostri passi. Altrimenti, come dice papa Francesco, resterebbe una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità, qualcosa che ci accontenta solo nella misura in cui vogliamo illuderci.

Proprio per il suo nesso intrinseco con la verità, - ricorda ancora papa Francesco (Lumen fidei, 23-24) - la fede è capace di offrire una luce nuova, superiore ai calcoli del re, perché essa vede più lontano, perché comprende l'agire di Dio, che è fedele alla sua alleanza e alle sue promesse. Nella pienezza e nella consapevolezza di questa esperienza, Agostino traccia, nella sua camera, in una sera come questa, nella villa dell'amico Verecondo, la direzione del suo esistere. Nell'incipit dei Soliloquia, confrontandosi con la ragione, così discute:

R. - Che cosa dunque vuoi sapere?

A. - Desidero conoscere di Dio e dell'anima.

R. - E nulla di più?

A. - Nulla di più.

Già nel De beata vita arriva a scoprire che solo in Dio c'è la felicità, ma questo sapere non commuove di per sé il suo cuore. La fede lo ha trasformato e la sua vita si è aperta all'amore. Chi ama capisce che l'amore è esperienza di verità che gli dischiude una finestra dove guardare la realtà con occhi nuovi. Egli si accorge che diventa pieno di gratitudine e dice grazie solo quando è preso in braccio dal Signore e «umile abbraccia l'umile Dio Gesù», e in questa gratitudine diventa anche buono.

Nel suo cuore quella felicità è speranza. Per Agostino, la gioia promessa dal Signore ai suoi è data e vive in spe, in speranza. L'espressione in spe indica che questa felicità è sempre una grazia, non nasce da noi, non la possiamo costruire noi e nemmeno conservare e padroneggiare noi. Non è nelle nostre mani, non è un progetto. È la felicità dei poveri, che ne godono come dono gratuito. Perché è una cosa bella vivere sicuri che il Signore ci ama per primo, ci cerca per primo.

L'immagine più suggestiva di questa esperienza di conversione di Agostino, più che i racconti delle Confessioni, è forse il modo in cui egli racconta e commenta l'incontro di Gesù con Zaccheo. In Zaccheo è raffigurato ogni cristiano, in Zaccheo c'è dentro tutto Agostino. Zaccheo è piccolo e vuole vedere il Signore che passa, e allora si arrampica sul sicomoro. Racconta Agostino: «et vidit dominus ipsum Zacchaeum. Visus est, et vidit."

Il Signore guardò proprio Zaccheo. Zaccheo fu guardato, e allora vide. Colpisce, questo triplice vedere: quello di Zaccheo, quello di Gesù e poi ancora quello di Zaccheo, dopo essere stato guardato dal Signore. Agostino ha cercato la Verità dell'esistere, ma non si è fermato come Cicerone alla soddisfazione di una curiosità. Ha voluto salire sull'albero della vita per vedere e lì, la luce della fede nei testimoni gli ha riproposto quello stesso sguardo, quello di Gesù a Zaccheo, che lo ha toccato. Senza questa grazia, che riconoscerà sempre con gratitudine, il suo non sarebbe stato un incontro, l'incontro decisivo per la sua vita errabonda.

La sua esperienza è l'esperienza di una moltitudine di uomini che, anche nel recente passato, hanno vissuto gli esiti del conformismo delle ideologie e hanno provato che cosa significhi cercare nel mondo risposte alla libertà e alla speranza di una vita migliore. Che aspetto avesse una vita senza Dio, un mondo senza Dio, era inimmaginabile solo cinquant'anni fa. Ora lo si conosce crudamente nella realtà quotidiana contemporanea. E' a partire da questo vuoto di Dio, che possiamo riscoprire, come Agostino, la ricchezza della fede e la sua indispensabilità. Come ebbe a esprimersi papa Benedetto XVI nelle sue catechesi "la conversione di Agostino non è stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall'inizio, ma un vero e proprio cammino. Essa resta per noi un modello - Agostino era un uomo di passione e di intelligenza altissima, che cercava la verità, e incontrò Cristo."

Questa è la grande speranza che rimane al cristiano: noi non possiamo trovare da soli la Verità, ma la Verità, che è Persona, ci trova.