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Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Settimana 2013 > Redaelli GiuseppeIl tema della fede nel Commento al Vangelo secondo Giovanni
Giuseppe Redaelli (a destra) nel corso della conferenza con il moderatore Luigi Beretta
IL TEMA DELLA FEDE NEL COMMENTO AL VANGELO SECONDO GIOVANNI DI SANT'AGOSTINO
di Giuseppe Redaelli
(c) 2013 Giuseppe Redaelli - Associazione Storico-culturale Sant'Agostino, Cassago Brianza (LC)
PREMESSA
Il giorno di Natale 1521, il teologo Andreas Bodenstein, detto Karlstadt, celebrò la messa nella chiesa del castello di Wittenberg, alla presenza di più di duemila persone. Il sacerdote, vestito di una tonaca nera e privo di paramenti sacri, pronunciò in tedesco le parole della consacrazione, poi, contro le usanze dell'epoca, distribuì l'eucaristia sotto le due specie del pane e del vino. E, contro le usanze dell'epoca, mise il pane e il calice del vino nelle mani dei fedeli. Si narra che un fedele si emozionò a tal punto da lasciar cadere il pane: Karlstadt "gli disse di raccoglierlo; ma costui, che aveva avuto il coraggio di venire avanti e di prendere con la propria mano la sacra particola dal piatto, quando la vide giacere al suolo sconsacrata fu talmente sopraffatto dal terrore [...] che non poté risolversi a toccarla nuovamente" [1]
Un simile senso di smarrimento aveva colpito il popolino di fronte alle norme, sempre ispirate da Bodenstein, che vietavano le immagini sacre nelle chiese; nuove paure, confusioni e incertezze avevano causato le violenze perpetrate da gruppi di riformatori contro sacerdoti, monaci e frati ancora fedeli alla Chiesa di Roma - ma anche ai danni di semplici cittadini che erano rimasti attaccati ai tradizionali modi del cristianesimo popolare: il 3 dicembre 1521, alcuni studenti e cittadini erano entrati a forza nella chiesa parrocchiale della città durante la messa e ne avevano cacciato il celebrante. Ad aumentare la confusione aveva poi contribuito anche la predicazione di tre personaggi itineranti, Niclas Storch, Thomas Drechsel e Marcus Stubner, che, autoproclamatisi "profeti di Dio", affermavano di essere guidati dallo Spirito, e di non aver quindi bisogno di leggere la Bibbia ma di annunciare la necessità di stravolgere la Chiesa e la società per rinnovarle. Ancora, nel gennaio 1522, alcuni monaci distrussero tutti gli altari nella chiesa del convento e gettarono via le immagini sacre. [2]
Di fronte allo strapotere assunto dall'ala radicale della riforma, e alle agitazioni sociali che ne erano seguite, il Consiglio municipale di Wittenberg chiese al suo cittadino più famoso, Martin Lutero, di tornare dal suo rifugio alla Wartburg. Lutero ritornò a Wittenberg nel marzo 1522. Nella quaresima di quell'anno, scrisse e pronunciò otto sermoni, in cui invitava i riformatori alla moderazione. Non era possibile, sosteneva Lutero, portare avanti la Riforma con la violenza; perché la vera fede si affondasse davvero le radici nel cuore del popolo, era necessario procedere con cautela, senza forzare, ma lasciando che fosse la parola di Dio a operare la trasformazione:
Eppure l'amore cristiano non dovrebbe qui far uso di metodi bruschi o forzare la situazione. Dovrebbe essere pregato e insegnato con la lingua e con la penna [...] La questione dovrebbe essere lasciata a Dio; la sua Parola dovrebbe compiere da sola l'opera, senza il nostro lavoro. Perché? Perché non è in mio potere plasmare i cuori degli uomini, come un vasaio plasma la creta, per poi farne quel che voglio. Io non posso andare oltre le orecchie umane; i cuori non posso raggiungere. E non posso versare fede nei loro cuori, né fare di loro quel che mi aggrada. [3]
Nell'invitare i riformatori a questo atteggiamento di attesa, Lutero ricordava l'insegnamento paolino [4] e, ancor più, l'insegnamento agostiniano sulla fede - ma ancor più mostrava ai suoi ascoltatori di vivere l'atteggiamento di totale, fiducioso abbandono alla promessa di Dio che contraddistingue il cristiano. E proprio da Paolo e da Agostino Lutero aveva appreso tale atteggiamento.
INTRODUZIONE
Giovanni si occupa della divinità di Cristo [...] Queste parole e le altre, se ce ne sono, che designano a chi le capisce debitamente la divinità di Cristo nella quale è uguale al Padre, è Giovanni che, esclusivamente o quasi, le ha poste nel suo Vangelo. Egli aveva bevuto più copiosamente e in certo qual modo più familiarmente il mistero della divinità di Cristo, attingendolo dallo stesso petto del Signore sul quale nella cena gli fu consentito di reclinare il capo [5]. Con queste parole, Agostino ci fornisce una motivazione indiretta, ma importante, del suo dedicarsi a un commento rigoroso e puntuale del Vangelo di Giovanni. Già nei Soliloqui, il futuro vescovo d'Ippona aveva scritto: "Desidero avere scienza di Dio e dell'anima. E nulla di più? Proprio nulla" [6].
Per rispondere a questo desiderio, la scelta di leggere e commentare il Vangelo di Giovanni sembra quasi necessaria: "Giovanni come aquila vola sopra le nebbie della fragilità umana e vede con l'occhio acutissimo e sicurissimo del cuore la luce della verità immutabile". [7]
La tradizione ecclesiastica identifica in Giovanni il "discepolo prediletto", il discepolo più amato da Gesù. Nel suo vangelo, la fede ricorre come uno dei temi fondamentali, tema che tocca da vicino l'esperienza personale di conversione di Agostino: il Vangelo di Giovanni (1, 9-12) è il riferimento costante per indicare la meta verso cui si volge l'anima del retore di Tagaste nell'episodio della sua conversione [8] ed è citato per esprimere la gioia per la conversione di Vittorino. [9]
La fede è tema del commento agostiniano in un duplice senso: ne è oggetto - una delle tematiche principali trattate dal testo - e forza trainante. Nell'affrontare l'esegesi del vangelo di Giovanni, infatti, il vescovo d'Ippona ritorna a più riprese sul tema della fede, così come appare nella narrazione delle vicende e nella predicazione del Cristo; ma in questo suo scavare nel testo evangelico, Agostino è sempre guidato dalla fede, che lo protegge dalle cadute e dai rischi di un'interpretazione troppo libera, lontana dalla lettera del testo, e lo ancora alla realtà dello scritto giovanneo nella sua concreta presenza. In questo senso, la fede, accettando la veridicità del vangelo nel suo contenuto letterale, così com'è presente all'esegeta, si protende verso ciò che nel testo non è subito evidente, il significato spirituale che esso cela.
La fede: aggrapparsi alla croce di Cristo
Il tema della fede si ritrova, nel testo giovanneo, fin dall'inno cristologico che ne costituisce il prologo:
Venne fra i suoi, / e i suoi non lo hanno accolto. / A quanti però lo hanno accolto /ha dato potere di diventare figli di Dio: /a quelli che credono nel suo nome, / i quali, non da sangue / né da volere di carne /né da volere di uomo, /ma da Dio sono stati generati [10].
Nel testo giovanneo il tema della fede è colto prima al negativo - la mancanza di fede da parte dei "suoi" che "non hanno accolto" la luce giunta nel mondo; poi il tema è colto al positivo - il potere trasformante della fede è la possibilità di "diventare figli di Dio" (In Io tr. 1, 12): si segna in questo modo l'inizio di un percorso verso la fede che ritornerà spesso nei discorsi del vescovo d'Ippona. Commentando il passo, Agostino assimila la fede a un tenere, a un aggrapparsi alla croce, così da poter attraversare il mare dell'esistenza terrena, verso la meta eterna:
Che Dio sia il nostro possesso ed egli possegga noi: che egli ci possegga come Signore, e che noi lo possediamo come nostra salvezza, come luce. Che cosa, dunque, egli ha dato a coloro che lo hanno accolto? Ha dato il potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome; affinché, tenendosi stretti al legno della croce, possano attraversare il mare [11].
Agostino, non lo si ricorderà mai abbastanza, è retore, e dunque sceglie con attenzione le parole. Il verbo chiave nel suo discorso è possideo, che ha sì il significato di "possedere", di "essere proprietario" di qualcosa, ma anche quello di "risiedere", "trovarsi" in un determinato luogo. Così la fede determina il reciproco possesso del fedele da parte di Dio, e di Dio da parte del fedele: è un attaccarsi a Dio che richiede l'abbandonarsi, un prendere possesso che richiede il donarsi. Nel suo secondo senso, però, il verbo dice di un risiedere: chi ha fede, possedendo Dio e abbandonandosi a Dio, risiede in Dio - fa di Dio la propria dimora, la propria sicurezza, la propria pace. Ciò cui l'individuo si abbandona, per fede, è la croce di Cristo. Così anche la parola latina lignum, che nella lingua classica indica un pezzo o un ciocco di legna da ardere, in opposizione al legname da costruzioni, ma che nella letteratura cristiana viene usata per indicare il "legno della croce" - in Agostino viene usata tanto nel senso cristiano, quanto come metonimia per indicare la nave [12].
La metafora della navigazione verso un porto sicuro, già usata nell'antichità classica, si arricchisce di senso accostando ad Agostino una lettera del filosofo romano Lucio Anneo Seneca. Questi, scrivendo della dottrina delle cause nella scuola platonica, aristotelica e stoica, illustra all'amico Lucilio il senso della ricerca filosofica:
tutte queste ricerche [...] alleggeriscono e innalzano l'anima, che, oppressa da un grave fardello, desidera liberarsene e tornare al mondo da cui proviene. Infatti, questo corpo è peso e pena dell'anima: sotto il suo peso l'anima è schiacciata, è in catene, se non interviene la filosofia, invitandola a riprendere fiato nello spettacolo della natura, allontanandola dalle cose terrene per condurla verso quelle divine. Questa è la sua libertà, questa la sua evasione: si sottrae alla prigione in cui è custodita e si rigenera nel cielo [13].
Agostino legge e si ispira anche lui, come Seneca, ai platonici; ma per il vescovo d'Ippona non è tanto il corpo in sé, simbolo della materia in cui l'individuo si trova gettato, ad essere fardello e peso insopportabile; lo è invece l'esistenza umana, minata dalla debolezza e dalla mortalità, che sono conseguenza del peccato. Per questo è opportuno, egli scrive, ritornare a Dio, oltre la vita presente: "la nostra felicità avrà inizio solo quando le cose di quaggiù saranno passate" [14].
Alcuni filosofi, riconosce anzi Agostino, "si impegnarono a cercare il Creatore attraverso le creature [...] essi videro ciò che è, ma videro da lontano. Non vollero aggrapparsi all'umiltà di Cristo, cioè a quella nave che poteva condurli sicuri al porto intravisto" [15].
Per questo motivo la conoscenza, senza la fede nella croce di Cristo, è sterile, soprattutto per l'essere umano che, a causa della colpa dei progenitori, è minato nel suo proprio essere, ed è quindi incapace di orientarsi da solo nell'esistenza, e tanto meno di salvarsi. Solo la fede può sopperire alla debolezza umana. Agostino chiarisce questo punto con una metafora tratta dal linguaggio medico: come un malato dalla vista debole non può vedere chiaramente, così l'anima, minata dalle conseguenze del peccato, non può cogliere con chiarezza la verità e la felicità. Il sacrificio di Cristo agisce da medicina e permette di vedere con chiarezza; e la fede nell'incarnazione di Cristo e nella sua identità di figlio di Dio è l'accettazione di questa medicina, che permette di avviarsi verso la piena guarigione - verso la piena felicità:
E poiché il Verbo si è fatto carne, e abitò fra noi, con la sua nascita ci ha procurato il collirio con cui ripulire gli occhi del nostro cuore, onde potessimo, attraverso la sua umiltà, vedere la sua maestà. Per questo il Verbo si è fatto carne, e abitò fra noi. Ha guarito i nostri occhi. E come prosegue? E noi abbiamo visto la sua gloria. Nessuno avrebbe potuto vedere la sua gloria, se prima non fosse stato guarito dall'umiltà della carne. [...] Polvere e terra erano penetrate nell'occhio dell'uomo e lo avevano ferito, tanto che non poteva più guardare la luce. Quest'occhio malato viene medicato; era stato ferito dalla terra, e terra viene usata per guarirlo. Il collirio, come ogni altro medicamento, non è in fondo che terra. Sei stato accecato dalla polvere, e con la polvere sarai guarito: la carne ti aveva accecato, la carne ti guarisce. L'anima era diventata carnale consentendo ai desideri carnali da cui l'occhio del cuore era stato accecato. Il Verbo si è fatto carne: questo medico ti ha procurato il collirio [16].
Se è opportuno che il cristiano tenda all'unità di fede e ragione, Agostino però accorda proprio alla fede la priorità sull'intelligenza: come è necessario guarire l'occhio perché questo possa vedere la luce, così è necessario risanare l'anima, minata dal peccato, perché sappia cogliere le verità eterne. Questa guarigione è portata solo dal sacrificio di Cristo, ed è accolta per fede. Il cristiano vive, infatti, dell'adesione profonda a Cristo nella sua umanità, fatta di incarnazione e umiliazione in croce. Solo in questa umanità, in questo farsi debole di Dio Agostino legge la possibilità della redenzione - la salvezza per un genere umano indebolito dalle conseguenze del peccato.
La fede legge il Vangelo
Il titolo completo dell'opera con cui ci stiamo confrontando, così come la tradizione ce l'ha consegnata, è In Evangelium Iohannis Tractatus. Si tratta di una serie di 124 discorsi, scritti tra il 406 e il 420 circa [17], e tenuti di fronte ai fedeli della città d'Ippona. Agostino ha sempre sentito il predicare e l'insegnare come uno dei compiti principali del presbitero. Fin dall'anno della sua ordinazione, scrivendo al vescovo Valerio, egli definisce il sacerdote come "un uomo che amministra al popolo i Sacramenti e la parola di Dio a contatto con la realtà stessa" [18].
L'insegnamento della parola di Dio, dunque, non deve essere avulso dalla quotidianità, dalla realtà, ma ne deve tener conto, per essere davvero vivo ed efficace. Spiegare le parole della Verità, scriverà Agostino più tardi, è un compito difficile e pesante, che lo affatica e reca con sé pericoli, e che egli, all'inizio del suo incarico ecclesiastico, vive come un'imposizione non desiderata: [19] avrebbe voluto dedicare la propria vita allo studio e alla meditazione della Scrittura, e si ritrova invece sacerdote, impreparato al proprio compito [20].
Vescovo maturo, alle prese con l'esegesi del Vangelo di Giovanni, commenterà però che la condivisione della fede è preciso dovere del presbitero, come di chi ha ricevuto il dono dell'intelligenza ed è avanzato nella comprensione delle verità di fede: Se quindi tu hai compreso qualcosa che non sia contrario alla regola della fede cattolica, e alla quale sei giunto seguendo la via che deve condurti alla patria, e hai maturato delle convinzioni sicure, porta avanti l'edificio, ma senza staccarti dal fondamento. È così che i fedeli maturi devono insegnare ai pargoli [...] [21].
Anche dopo anni trascorsi a educare e predicare, Agostino continuerà ad avvertire l'importanza e la difficoltà dell'insegnamento delle Scritture: il predicatore, egli scrive spesso, amministra la parola di Dio come cibo che deve nutrire l'anima:
[...] quanto a voi, le mie vivande sono queste parole. Non riesco a nutrire tutti del pane materiale e visibile: di quel che sono nutrito, di quello io alimento; sono un servo, non sono un padre di famiglia; pongo davanti a voi di quel che io vivo, del tesoro del Signore, delle vivande di quel Padre di famiglia che, da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi della sua povertà. Se vi presentassi del pane, una volta spezzato, potreste portarne via un frammento ciascuno; e, se ve ne presentassi molto, ad ognuno ne toccherebbe pochissimo. Al contrario, quanto io sto dicendovi, e tutti lo ricevono per intero e i singoli lo ricevono individualmente per intero. Avete forse diviso tra voi le sillabe delle mie parole? avete forse portato via le singole parole pure del discorso pronunciato? Ciascuno di voi lo ha ascoltato per intero [22].
Il predicatore, attraverso le sue parole, offre ai suoi ascoltatori un nutrimento per la loro anima, volto a rafforzare la loro vita spirituale. L'immagine del pane rimanda, da un lato, all'alimentazione semplice di un abitante del mondo romano; ma evoca anche l'immagine dell'eucaristia, del corpo di Cristo che, spezzato7, viene distribuito tra tutti i fedeli, nutrendo, rafforzando e trasformando chi l'accoglie: "La verità è il pane che nutre lo spirito, senza venir meno: essa trasforma chi di lei si nutre, ma non si converte in chi la mangia" [23].
Questo parallelismo tra la parola di Dio e l'eucaristia sarà ripresa dai Padri conciliari durante il Concilio Vaticano II e sarà inserita come una delle chiavi di volta della teologia della parola nella Costituzione Dogmatica Dei Verbum [24].
Il cibo, però, perché sia accettato dal corpo e possa operarvi una trasformazione salutare, deve essere adatto a chi se ne nutre. Ricordando la Lettera agli Ebrei (5, 12-14), Agostino afferma:
Negli stessi alimenti che prendiamo, il cibo solido è così poco contrario al latte, che esso dev'essere convertito in latte per adattarlo agli infanti, ai quali arriva attraverso la carne della madre o della nutrice. E come una madre si comportò la Sapienza, che, essendo solido nutrimento degli angeli in cielo, si degnò convertirsi come in latte, quando il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi (cf. Gv 1, 1-14). E' la stessa umanità di Cristo, che, nella verità della sua carne, della sua croce, della sua morte e risurrezione, è latte genuino dei pargoli, è nello stesso tempo, per chi lo scopre mediante l'intelligenza spirituale, il Signore degli angeli. Ecco perché non si devono nutrire i pargoli col latte da impedire loro di arrivare ad intendere Cristo come Dio; ma neppure si devono svezzare al punto da staccarli da Cristo come uomo. In altre parole: essi non debbono essere allattati in tal modo da non riuscire mai ad intendere Cristo come creatore; ma neppure debbono essere svezzati fino al punto di staccarsi da Cristo come mediatore. Qui non serve più l'immagine del latte materno e del cibo solido, ma bisogna riferirsi piuttosto a quella del fondamento dell'edificio. Infatti, quando il bambino viene svezzato, una volta che si è staccato dagli alimenti dell'infanzia e ha cominciato a nutrirsi di cibo più solido, non cerca più il seno della madre come faceva prima; mentre Cristo crocifisso è ad un tempo latte dei pargoli e cibo solido per quanti sono cresciuti [25].
Laddove l'attaccamento al messaggio di Cristo - la fede - offre all'individuo una prima forma di nutrimento, l'indagine attenta e la comprensione gli offrono invece un cibo più solido, che va a rafforzarlo e a trasformarlo. Ma il predicatore è sempre ben conscio che le capacità di ognuno vanno rispettate: "san Giovanni evangelista non vuole alimentarci sempre con latte, ma vuole sostenerci con cibo solido. Chi però non è ancora in grado di ricevere il cibo solido della parola di Dio, si nutra col latte della fede, accettando senza esitazione la parola che non riesce a comprendere" [26].
Discorsi e prediche, in questo senso, diventano i libri per chi non sa leggere [27] così che tutti possano essere nutriti nella fede. Il predicatore condivide un cibo di cui egli stesso è nutrito: "Abbiamo un padrone comune: noi distribuiamo il cibo ai nostri compagni di servizio; viviamo anche noi attingendo allo stesso magazzino. Non siamo nostri ma di colui che per noi ha sborsato il prezzo, il suo sangue [28].
Secondo il dettato evangelico, unico maestro è il Cristo [29] il presbitero, invece, è istruito dal Signore come un qualsiasi fedele e nutre gli altri di ciò di cui egli stesso è nutrito [30].
Utilizzando una metafora diversa, la parola di Dio è denaro che arricchisce chi l'ascolta; e il presbitero, afferma Agostino, è amministratore di questa ricchezza, ma non la possiede: "per quanto stava in noi vi abbiamo dato quello che avevamo ricevuto; né siamo stati noi a darvelo ma Dio ve l'ha donato per mezzo nostro. È denaro del Signore: noi siamo degli incaricati della distribuzione, non dei donatori" [31].
La stessa fede, con cui l'individuo si rivolge al maestro interiore perché lo guidi nella comprensione, è dono di Dio [32], anzi il primo dei suoi doni: "Qual è la prima grazia che abbiamo ricevuto? E' la fede: camminando nella fede, camminiamo nella grazia [33].
È per mezzo della fede e dei segni che la rappresentano e la manifestano, che si possiede Cristo nel cuore: Se tu sei buono, se appartieni al corpo della Chiesa, rappresentato da Pietro, hai Cristo ora e nel futuro: ora mediante la fede, mediante il segno della croce, mediante il sacramento del battesimo, mediante il cibo e la bevanda dell'altare. Hai Cristo ora e lo avrai sempre nel futuro [...] La Chiesa ha goduto della sua presenza fisica solo per pochi giorni: ora lo possiede mediante la fede [...] [34].
Nel riconoscimento del ruolo di Dio quale maestro unico della verità, il ruolo del presbitero si abbassa: egli non è tanto un maestro, quanto un primus inter pares - un padre o un fratello maggiore. In questo modo i discorsi sul vangelo di Giovanni diventano un dialogo intimo con chi lo ascolta [35] che risponde applaudendo ed esclamando [36].
Agostino lamenta spesso la propria debolezza, ammette dei limiti avvertiti con sconforto, a volte con dolore, soprattutto quando si tratta di esporre concetti complessi: Quando il mio cuore e la mia lingua saranno capaci di parlarne come vorrei? Anzi, forse non ne parlerei in modo adeguato, anche se riuscissi a parlarne come vorrei; e allora, dato che non posso neppure come vorrei, tanto meno potrò farlo in modo adeguato. Per questo più che parlarvene io, vorrei ascoltare uno più capace di me [37].
Solo attraverso un atteggiamento di fede, di abbandono al richiamo profondo di Dio, è possibile superare il limite umano nel comprendere i misteri divini:
La lezione evangelica di oggi - continuazione dei sermoni tenuti ieri e l'altro ieri - ci proponiamo di commentarla punto per punto, non come meriterebbe, ma secondo le nostre forze; come voi, del resto, attingete a questa fonte non secondo la sua abbondanza, ma secondo la vostra capacità limitata. Né possiamo noi far risuonare alle vostre orecchie la voce potente della fonte, ma solo quanto possiamo attingere, e questo noi trasmettiamo ai vostri sensi, persuasi che il Signore opera nei vostri cuori più efficacemente di quel che possiamo noi parlando alle vostre orecchie. Il tema è profondo, e chi lo tratta non è all'altezza, essendo piuttosto modesto. Tuttavia, colui che essendo grande per noi si fece piccolo, c'infonde speranza e fiducia. Poiché, se egli non ci incoraggiasse e non ci invitasse a comprenderlo, ma ci abbandonasse come esseri trascurabili (dato che non potremmo accogliere la sua divinità, se egli non avesse assunto la nostra condizione mortale e non fosse sceso fino a noi per annunciarci il suo Vangelo); se insomma non si fosse reso partecipe di quanto in noi v'è di abietto e infimo, non potremmo convincerci che ha assunto la nostra pochezza appunto per comunicarci la sua grandezza. Dico questo perché nessuno ci consideri presuntuosi se osiamo esporre queste cose, e nessuno disperi di poter intendere, con l'aiuto di Dio, ciò che il medesimo Figlio di Dio si è degnato rivelargli. E' da credere, dunque, che era sua intenzione che noi intendessimo ciò che si è degnato dirci. E se non ci riusciamo, pregheremo e ci farà dono di questa comprensione colui che, senza essere pregato, ci ha fatto dono della sua parola [38].
Il farsi piccolo di Cristo, nella debolezza della carne, diventa allora possibilità e insieme motore della comprensione. È, questo farsi piccolo, immagine dell'atteggiamento di fede che, come si vedrà meglio in seguito, l'individuo deve assumere nell'ascolto e nello studio del Vangelo: a differenza di Nicodemo, che, nelle sue vesti di maestro di Israele, si rivolge a Gesù solo per vedere il proprio orgoglio beffato [39], chi vuole comprendere deve abbandonare le proprie pretese e farsi debole, per chiedere a Cristo, il maestro interiore, la forza:
Chi non riuscirà a capire, non lo rimproveri a me, ma alla propria lentezza, e si rivolga a colui che apre il cuore perché vi riversi il suo dono. Se qualcuno, poi, non intende per il fatto che io non parlo in modo adeguato, compatisca l'umana fragilità e supplichi la divina bontà. Abbiamo dentro di noi il Cristo come maestro. Qualunque cosa non riusciate a comprendere per difetto della vostra intelligenza e della mia parola, rivolgetevi dentro il vostro cuore a colui che insegna a me ciò che dico, e distribuisce a voi come crede. Colui che sa dare, e sa a chi dare, si farà incontro a chi domanda e aprirà a chi bussa [40].
Il motivo della debolezza di Gesù ricorre spesso nel commento a Giovanni. Si veda, per esempio, il commento al capitolo 4, che narra l'incontro di Gesù con la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. "Affaticato per il viaggio", Gesù siede presso il pozzo [41].
Agostino è affascinato da questa manifestazione di debolezza, tanto che la sottolinea per mezzo dell'exergasia: "Gesù è stanco, stanco del viaggio" [42].
Tutto il paragrafo è costruito su ripetizioni, che evocano l'arrancare sfinito del viaggiatore. La meditazione dell'esegeta si rivolge però al contrasto tra la potenza del Verbo e l'umanità di Gesù - che ripete il contrasto tra Dio e uomo. Nella propria divinità, il Verbo è potenza creatrice di Dio, è Dio nel creare; e compie e crea tutto "senza fatica". [43]
La debolezza, segno di mortalità, non appartiene a Dio, ma all'essere umano nella sua separazione da Dio, conseguenza del peccato [44].
Secondo l'interpretazione agostiniana del racconto della creazione, l'essere umano partecipa dell'essere in quanto è da Dio, ma è in se stesso un nulla, in quanto tratto dal nulla. Peccando, l'essere umano si allontana da Dio e si rivolge al nulla. Incarnandosi, Cristo si annienta, si fa nulla questo è il senso della sua missione [45]. Facendosi uomo nell'incarnazione, il Verbo divino si umilia e assume la debolezza umana, così da poter segnare agli esseri umani la via verso la felicità e la vita: non nella grandezza e nella superbia, ma nel riconoscersi dipendenti da Dio e poco o nulla, nella lontananza dal creatore [46].
Se la debolezza, negli esseri umani, è imposta quale conseguenza del peccato, in Cristo è scelta dettata dalla misericordia [47].
"Con la sua forza ci ha creati, con la sua debolezza è venuto a cercarci" [48].
Nel narrare la stanchezza di Gesù, il testo evangelico illustra il mistero, la debolezza assoluta scelta dal Dio onnipotente al momento dell'incarnazione. La stanchezza è il peso della materialità, così come "il suo cammino", per cui è stanco, è "la carne" che il Verbo ha assunto "per noi" [49].
L'accettare nella fede la rivelazione del significato e del senso dell'incarnazione dona però forza all'individuo che deve affrontare il cammino dell'esistenza. Agostino esorta i suoi fedeli a non abbattersi: "Gesù è debole nella carne, ma tu non devi essere debole; dalla debolezza di lui devi attingere la forza, perché la debolezza di Dio è più forte degli uomini" [50].
Per illustrare questo punto, Agostino reinterpreta in senso simbolico un episodio biblico a lui caro - il racconto della creazione di Eva, cui già aveva fatto riferimento in più occasioni [51], ma cui qui dona un senso nuovo.
Nel racconto del Genesi, Dio fa "scendere un torpore" su Adamo, gli toglie una costola e con questa plasma una donna, che dona al primo uomo come compagna [52]. A questo passo, Agostino accosta l'episodio della morte di Cristo in croce, così come lo narra lo stesso Giovanni [53].
Il torpore in cui cade Adamo diventa immagine della morte di Gesù - che acquista una sfumatura densa di significato nell'implicito riferirla, come il torpore, alla volontà e alla scelta di Dio. In questo momento di assoluta debolezza, il fianco di Gesù è trafitto con una lancia. La costola che viene tolta ad Adamo è vista allora come immagine del sangue e dell'acqua, fuoriusciti dal fianco di Cristo - liquidi che sono, a loro volta, simboli del vino dell'eucaristia e dell'acqua battesimale - fondamenti dell'assemblea dei cristiani, la Chiesa [54].
San Paolo, ricorda Agostino, chiama Adamo figura di Cristo [55] e la Chiesa è interpretata dalla tradizione come sposa di Cristo. La creazione di Eva dal fianco di Adamo diventa quindi segno della nascita della Chiesa, sposa di Cristo, intesa come insieme di tutti i cristiani, resa possibile dalla morte (e risurrezione) di Cristo. Nell'interpretare un passo alla luce dell'altro, l'attenzione di Agostino è attratta soprattutto dal contrasto tra la costola, tratta dal fianco di Adamo, e la carne messa al suo posto. Come osso, la costola possiede la qualità della durezza, ed è dunque segno di forza; la carne, invece, è relativamente più tenera dell'osso, e rappresenta quindi la debolezza. L'osso - la forza - tolta ad Adamo diventa la forza della donna da lui generata; così come Adamo, privato di quell'osso, diventa debole. Conclude Agostino: "Qui c'è il mistero di Cristo e della Chiesa: la debolezza di Cristo è la nostra forza" [56].
Nell'esegesi, ognuno degli elementi incontrati nella narrazione assume significato via via più profondo. Comprendere il testo è un calarsi passo passo nel pozzo, presso cui è seduto il Cristo e in fondo al quale scorre acqua di sorgente, a dissetare l'individuo per restituirlo alla vita. L'interprete muove da ciò che è chiaro - si direbbe: da ciò che è ovvio - la potenza di Cristo, e muove verso ciò che è oscuro, la debolezza di Cristo. Un'immagine apre la possibilità di attingere all'esperienza ordinaria, così che testo del vangelo e quotidianità si fondono. In Mt 23, 37, infatti, Agostino legge queste parole in bocca a Gesù: "ho tentato di raccogliere i tuoi figli, come la gallina raccoglie i pulcini sotto le ali". Cristo è così abbassato alla quotidianità dimessa della vita nei campi, il Verbo di Dio è assimilato a una gallina, volatile che, non potendo volare, è costretto a terra - con un'immagine di pesantezza e limite che, in questo contesto, si contrappone in modo implicito all'aquila, simbolo dell'evangelista Giovanni, che vola alto e vede lontano. La descrizione, però, non si ferma all'immagine di Matteo, si fa viva e muta all'interno di un quadro dettagliato e realistico:
Abbiamo tutti i giorni davanti agli occhi passeri che fanno il nido; vediamo rondini, cicogne, colombe fare il nido; ma soltanto quando sono nel nido, ci accorgiamo che sono madri. La gallina, invece, si fa talmente debole con i suoi piccoli, che, anche quando i pulcini non le vanno dietro, anche se non vedi i figli, ti accorgi che è madre. Le ali abbassate, le piume ispide, la voce roca, in tutto così dimessa e trascurata, è tale che, anche quando - come ho detto - non vedi i pulcini, t'accorgi tuttavia che è madre [57].
Agostino elenca le qualità della gallina che ne sottolineano la debolezza: l'animale, umile abitante di aie e cortili, è paragonato a uccelli di più alto valore poetico e di maggiore bellezza: le rondini, che col loro volo segnano la rinascita del mondo a primavera; le cicogne, che, combattendo i serpenti, sono messe in relazione a Cristo e ai discepoli [58]; la colomba, indicata dagli evangelisti come simbolo dello Spirito Santo [59].
Le ali abbassate - a differenza delle ali spiegate di rondini, cicogne e colombe - ne segnalano il restare a terra; le piume ispide e la voce roca - in contrasto con la grazia degli altri uccelli - sono segno di umiltà e mancanza di valore. Eppure proprio la gallina, in questo suo essere umile e dimessa, è madre che nutre i pulcini e li protegge - e in questo viene da Agostino presentata quale illustrazione della debolezza di Cristo e immagine della fede che il cristiano è invitato a far propria: "dalla debolezza di lui devi attingere forza" [60].
Quando il discorso sulla debolezza di Cristo è ricondotto al tema della fede, il suo senso diventa più chiaro: la fede è non affidarsi solo alle proprie forze, ma abbandonarsi alla croce di Cristo perché conduca l'individuo attraverso e oltre il mare dell'esistenza, verso la felicità eterna in Dio. L'episodio del vangelo di Matteo (Mt 14, 25), in cui Gesù cammina sulle acque, è letto come segno della necessità di attraversare il mare dell'esistenza. L'essere umano, però, a causa della sua debolezza, non può seguirlo: "tu, che non puoi camminare sul mare come lui, lasciati trasportare da questo vascello, lasciati portare dal legno: credi nel Crocifisso e potrai arrivare" [61].
Ogni momento dell'insegnamento e dell'ascolto della parola di Dio ruota intorno alla necessità della fede: la comprensione richiede un ripiegarsi sull'interiorità, nella tensione verso il maestro interiore e nel dialogo costante con lui. In questo dialogo, la fede sopperisce alla debolezza umana - l'incapacità di spiegare con chiarezza dell'esegeta, l'incapacità di comprendere dell'uditorio. Anche in questo la fede si pone alla base di ogni percorso conoscitivo verso Dio. L'invito a "bussare" perché il testo dischiuda al cristiano i suoi segreti è spesso ripetuto nei diversi discorsi che compongono il commento a Giovanni. Chi è presente tra gli uditori è chiamato, per prima cosa, all'ascolto - a protendersi, cioè, verso la comprensione del testo. Non si tratta qui di cercare errori all'interno dei passi che sono oscuri. Al contrario: ogni aspetto del testo evangelico viene scrutato con attenzione, nella convinzione che tutto quello che vi è scritto, così com'è scritto, è parola di Dio. Le debolezze e le contraddizioni che si possono riscontrare nel testo sacro sono solo apparenti [62], dipendono dal limite della capacità umana di comprensione; ed è sempre possibile all'esegeta, aiutato da Dio e guidato dalla fede, districare i nodi più stretti. Per tutto il commento Agostino esprime così la fede implicita nella perfezione del testo sacro. Lo stesso testo richiama il lettore e l'interprete perché vi si avvicinino, perché ne scrutino le profondità: "Tutto ciò vuol suggerirci qualcosa, vuol rivelarci qualcosa; richiama la nostra attenzione, c'invita a bussare. Ci apra, a noi e a voi, quello stesso che si è degnato esortarci dicendo: Bussate e vi sarà aperto (Mt 7, 7)" [63].
La ripetizione del verbo volere insiste sulla natura del testo, fatto in modo che lo si interroghi, che non ci si arresti alla sua superficie. La volontà di suggerire diventa volontà di rivelare - di svelare i significati, togliendo il velo che li cela alla vista: l'oscuro vuole essere chiarito, il mistero vuole essere colto e compreso. La volontà, l'intenzione si fa richiamo, poi invito ad accostarsi, a chiedere. Perché l'urgenza del richiamo sia avvertita, però, il lettore deve essere già proteso in ascolto verso il testo, in un atteggiamento di fede che unico renderà possibile la comprensione: chi apre e dispiega le verità è lo stesso Gesù, unico maestro, la cui voce è però possibile ascoltare solo nell'adesione della fede. Proprio in questa fede sta il senso dell'invito a bussare: non bisogna forzare l'interpretazione; il testo va interrogato muovendosi con rispetto e cautela. L'immagine dell'acqua sorgente in fondo a un pozzo restituisce l'idea di questo scavo, di questa discesa attenta e progressiva nelle profondità del testo:
Giunge, dunque, in una città della Samaria chiamata Sichar, vicino al podere che Giacobbe diede a suo figlio Giuseppe. Lì c'era il pozzo di Giacobbe (Gv 4, 4-6). C'era un pozzo. Ora, un pozzo è anche una sorgente, ma non ogni sorgente è un pozzo. Dove c'è dell'acqua che scaturisce dalla terra, ad uso di chi l'attinge, diciamo che lì c'è una sorgente; se essa è a portata di mano e alla superficie del suolo, la chiamiamo semplicemente sorgente; se invece si trova in profondità, sotto la superficie del suolo, allora si chiama pozzo, pur restando sempre una sorgente [64].
Seguendo la narrazione, e accettando per fede sia la veridicità del racconto evangelico che il suo carattere polisemico, Agostino inizia a di-spiegarne le immagini - e insieme a lui, proviamo anche noi a scendere nel testo, per vedere dove il suo studio, guidato dalla fede, ci porti. Il pozzo è legato all'immagine della sorgente, definita "acqua che scaturisce dalla terra" - è un'acqua che si trova in profondità, che scaturisce dal profondo, sotto la superficie. Questo pozzo viene a sua volta legato, tramite l'immagine del riposo, al tema della stanchezza e della debolezza, cui sopra si è già accennato, e su cui si ritornerà ancora. La sorgente viene riferita all'acqua viva che Gesù prometterà alla Samaritana in Gv 4, 10: [...] comunemente si chiama acqua viva quella che zampilla dalla sorgente. L'acqua piovana, che si raccoglie nei fossi o nelle cisterne, non vien chiamata acqua viva. Potrebbe anche essere acqua di sorgente, ma se è stata raccolta in qualche luogo e non è più in comunicazione con la sorgente, essendone tagliata fuori, non si può più chiamare acqua viva. Acqua viva si chiama solo quella che si attinge alla sorgente. Ora, tale era l'acqua che si trovava in quel pozzo [65].
In questo modo, l'acqua che scaturisce in fondo al pozzo si lega alle parole di Gesù, al suo insegnamento e alle sue promesse: in fondo al pozzo si potrà attingere l'acqua viva, si potrà trovare la verità della promessa di Cristo. Agostino sottolinea come, di fronte alle parole di Cristo, la Samaritana resti interdetta: Tuttavia, interdetta, la donna esclamò: Signore, tu non hai nulla per attingere, e il pozzo è profondo (Gv 4, 11). Come vedete, acqua viva per lei è l'acqua del pozzo. Tu mi vuoi dare acqua viva, ma io possiedo la brocca con cui attingere, mentre tu no. Qui c'è l'acqua viva, ma tu come fai a darmela? Pur intendendo un'altra cosa e ragionando secondo la carne, tuttavia bussava alla porta, in attesa che il Maestro aprisse ciò ch'era chiuso. Bussava più per curiosità che per amore della verità. Era ancora da compiangere, non ancora in condizione d'essere illuminata. Il Signore parla più chiaramente dell'acqua viva. Come nel testo è Gesù che, dialogando con la Samaritana, illustra il significato del simbolo dell'acqua, così Agostino invita i suoi lettori all'ascolto attento - a prestare fede alla parola che viene detta, così come viene detta, e ad interpretare restando vicini e fedeli al testo: [...] Ci spieghi, dunque, il Signore che cosa intende per acqua viva. Rispose Gesù: Chiunque beve di quest'acqua avrà sete ancora; ma chi beve l'acqua che io gli darò non avrà sete in eterno: l'acqua che io gli darò diverrà in lui sorgente d'acqua zampillante per la vita eterna (Gv 4, 12-14). Il Signore ha parlato in modo più chiaro: Diverrà in lui sorgente d'acqua zampillante per la vita eterna. Chi beve di quest'acqua non avrà sete in eterno. Nulla è più evidente che egli non prometteva un'acqua visibile, ma un'acqua misteriosa. Nulla è più evidente che il suo linguaggio non era materiale ma spirituale. Se il testo è evidente, la mancanza di comprensione, spiega Agostino, non può che essere frutto dell'incapacità umana di ascoltare: come la samaritana, gli esseri umani ascoltano sulla base della propria esperienza materiale, costruita nel mondo della quotidianità tramite le testimonianze dei cinque sensi, guidati da desideri e paure umani (come di non far fatica, di non soffrire più la sete), e sempre legati alla vita nel mondo. Nella loro interpretazione, gli uomini portano se stessi, con la loro esperienza; sulla base di se stessi filtrano il messaggio evangelico, e non sanno andare oltre se stessi, non sanno udire la voce del testo, nella sua purezza, così come parla a loro:
Tuttavia la samaritana continua ad intendere il linguaggio di Gesù in senso materiale. E' allettata dalla prospettiva di non dover più patir la sete, e crede di poter intendere in questo senso materiale la promessa del Signore. [...] Ma non dimentichiamo che il Signore prometteva un dono spirituale. [66].
Si ripresenta, qui, l'immagine del bussare: la donna, di fronte alla propria incapacità di capire, interroga il proprio interlocutore - interroga Cristo, perché l'aiuti nello sforzo di comprensione, rendendole chiaro ciò che ancora è oscuro. Agostino chiarisce anche il limite incontrato dalla donna: ella comprende "secondo la carne", senza fare appello alla fede, che sola dischiude le realtà spirituali. Di fronte all'incomprensione di chi, intendendo in modo umano ("secondo la carne"), non sa scorgere le realtà spirituali, è a Gesù, al maestro interiore, che bisogna affidarsi per comprendere: Agostino invita a rimettere l'interpretazione ultima nelle mani di Cristo, che si rivela, per lui, sempre il centro, la fonte e il garante della verità. Di contro all'interpretazione letterale, legata a un'esperienza quotidiana limitata dalla natura corporea e dai bisogni fisici, è necessario cercare un'interpretazione spirituale, possibile solo all'intelletto, sorretto e nutrito da Cristo. Nel suo commento, Agostino istituisce un parallelismo tra la Samaritana e l'anima, intesa, in senso classico, come principio vitale - e in questo senso si sottolinea come l'anima sia comune tanto agli esseri umani, quanto agli altri animali. I cinque mariti della donna sono interpretati come i cinque sensi, le cui impressioni dominano la vita quotidiana, "secondo la carne". Il marito legittimo, che Gesù chiede alla donna di chiamare, è da intendere come l'intelletto, quella parte dell'anima che, illuminata da Dio, la illumina a sua volta [67].
Solo comprendendo le cose spirituali, l'intelletto può guidare l'esistenza umana verso la felicità. Perché possa diventare guida dell'anima, l'intelletto deve accostarsi alla verità in modo graduale: quando la Samaritana riconosce in Gesù un profeta (Gv 4, 19), Agostino commenta: "Comincia ad arrivare il marito, ma non è ancora arrivato del tutto" [68].
L'uomo con cui la Samaritana convive, che "non è [suo] marito", rappresenta invece un'esistenza priva di intelletto, di quella capacità di comprensione razionale, profonda, che rende gli esseri umani quello che sono. Il ricorso ai cinque sensi è necessario per orientarsi nella vita materiale, ma è insufficiente per comprendere le realtà spirituali, per le quali è invece fondamentale l'opera dell'intelletto. Questo è, infatti, l'unica facoltà umana capace di cogliere e contemplare, per quanto in misura imperfetta, le verità oggetto di fede, precluse alla percezione dei sensi:
Ecco perché tu non capisci ciò che dico, perché il tuo intelletto non è presente; io parlo secondo lo spirito, e tu ascolti secondo la carne. Ciò che dico non ha relazione alcuna né con il godimento delle orecchie, né con quello degli occhi, né dell'olfatto, né del gusto, né del tatto; solo lo spirito può cogliere ciò che dico, solo l'intelletto; ma se il tuo intelletto non è qui presente, come puoi intendere ciò che dico? Chiama tuo marito, rendi presente il tuo intelletto. A che ti serve avere l'anima? Non è gran cosa, ce l'hanno anche le bestie. Perché tu sei superiore ad esse? Perché hai l'intelletto che le bestie non hanno. Che vuol dire dunque: Chiama tuo marito? Tu non mi capisci, non mi intendi; io, ti parlo del dono di Dio e tu pensi a cose materiali; non vuoi più soffrire la sete materiale, mentre io mi riferisco allo spirito; il tuo intelletto è assente, chiama tuo marito. Non voler essere come il cavallo ed il mulo, che non hanno intelletto (Sal 31, 9). Dunque, fratelli miei, avere l'anima e non avere l'intelletto, cioè non usarlo e non vivere conforme ad esso, è un vivere da bestie. C'è infatti in noi qualcosa che abbiamo in comune con le bestie, per cui viviamo nella carne, ma l'intelletto deve governarlo. L'intelletto regge dall'alto i movimenti dell'anima che si muove secondo la carne, e desidera effondersi senza misura nei piaceri della carne. Chi merita il nome di marito? Chi regge, o chi è retto? Senza dubbio, quando la vita è ben ordinata, chi regge l'anima è l'intelletto, che fa parte dell'anima stessa. L'intelletto non è infatti qualcosa di diverso dall'anima; così come l'occhio non è una cosa diversa dalla carne, essendo un organo della carne. Ma pur essendo l'occhio parte della carne, esso solo gode della luce; le altre membra del corpo possono essere inondate di luce, ma non possono percepirla; soltanto l'occhio può essere inondato di luce e goderne. Così, ciò che chiamiamo intelletto è una facoltà della nostra anima. Questa facoltà dell'anima che si chiama intelletto o mente, viene illuminata da una luce superiore. Questa luce superiore, da cui la mente umana viene illuminata, è Dio Era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. (Gv 1, 9).
Questa luce era Cristo, questa luce parlava con la samaritana; ma essa non era presente con l'intelletto, perché potesse essere illuminata da quella luce: e non solo per essere inondata da essa, ma per poterne godere. Insomma, è come se il Signore volesse dirle: colui che io voglio illuminare, non è qui; chiama tuo marito; usa l'intelletto mediante il quale potrai essere illuminata, e dal quale potrai essere guidata. Dunque, fate conto che l'anima, senza l'intelletto, sia la donna, e che l'intelletto sia come il marito. Ma questo marito non potrà guidare bene la sua donna, se non è a sua volta governato da chi è superiore a lui. [69]
Anche l'intelletto non può guidarsi da solo: come l'anima ha bisogno di un'autorità superiore che la guidi, così l'intelletto deve essere sottoposto a un'autorità più grande: "Questa luce superiore, da cui l'anima è illuminata, è Dio". [70]
Lungo la via spirituale, l'intelletto gioca un ruolo fondamentale, ma non basta a se stesso; deve, invece, condurre all'ascolto dell'insegnamento di Dio, cui si sottomette e si abbandona. L'intelletto deve, insomma, condurre alla fede. Nel commento agostiniano, tuttavia, è lo stesso Cristo che richiede l'uso dell'intelletto, quando dice alla donna: "Chiamalo, e torna qui con lui, e mi comprenderai"
[71].
La fede si pone all'inizio e alla fine del percorso spirituale. Perché possa essere piena, deve appoggiarsi alla comprensione - all'intelletto, di cui sarà orizzonte e guida. Così Agostino insiste sulla centralità della fede nella vita della Chiesa e di ciascuno dei suoi membri:
"Le dice Gesù: Credi a me, o donna ... (Gv 4, 19-21). La Chiesa verrà, come è stato detto nel Cantico dei Cantici, verrà, e proseguirà il suo cammino, prendendo le mosse dalla fede (Ct 4, 8 sec. LXX). Verrà, per andare oltre, e non potrà andare oltre, se non cominciando dalla fede. E la donna, presente ormai il marito, merita di sentirsi dire: Donna, credi a me. E' presente ormai in te colui che è in grado di credere, perché è presente tuo marito. Hai cominciato ad essere presente con l'intelletto, quando mi hai chiamato profeta. Donna, credi a me, perché se non crederete, non potrete capire (Is 7, 9 sec. LXX)." [72]
La fede non è un oggetto posseduto una volta per tutte - è invece una componente viva dell'esistenza del cristiano, che inizia con l'annuncio della verità e cresce con l'esperienza e l'apprendimento:
Molti samaritani di quella città credettero in lui per ciò che aveva detto la donna, la quale attestava: Mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Quando, dunque i samaritani andarono a lui, lo pregavano di restare con loro; ed egli rimase là due giorni. E molti di più credettero per la sua parola, e alla donna dicevano: Non è più per quanto hai detto tu che noi crediamo; noi stessi lo abbiamo ascoltato e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo (Gv 4, 39-42). Soffermiamoci un momento su questo particolare, dato che il brano è terminato. Dapprima fu la donna a portare l'annuncio, e i Samaritani credettero alla testimonianza della donna e pregarono il Signore di restare con loro. Il Signore si trattenne due giorni, e molti di più credettero; e dopo aver creduto dicevano alla donna: Non è più per quanto hai detto tu che noi crediamo; noi stessi lo abbiamo ascoltato e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo. Cioè, prima credettero in lui per ciò che avevano sentito dire, poi per ciò che avevano visto con i loro occhi. E' quanto succede ancor oggi a quelli che sono fuori della Chiesa, e non sono ancora cristiani: dapprima Cristo viene loro annunciato per mezzo degli amici cristiani; come fu annunziato per mezzo di quella donna, che era figura della Chiesa; vengono a Cristo, credono per mezzo di questo annunzio; egli rimane con loro due giorni, cioè dà loro i due precetti della carità; e allora, molto più fermamente e più numerosi credono in lui come vero salvatore del mondo. [73]
L'episodio dell'incontro con la samaritana è simbolo del modo in cui la fede nasce e cresce nell'individuo e all'interno della comunità. Perché tale nascita sia possibile, è necessaria una disposizione al dialogo, all'ascolto - disposizione che germina nel cuore umano per opera di Dio. Questa prima disposizione, che è seme della fede e, in sé, già fede, deve essere accompagnata dalla volontà dell'individuo che, andando oltre se stesso e il proprio egocentrismo, sappia farsi piccolo e debole nell'imitazione del Cristo incarnato.
I frutti della fede
Chi apre la porta a Cristo, chi cioè gli si protende nell'ascolto e ne accoglie la parola per mezzo della fede, lo riceve nel proprio cuore: per mezzo della fede, Cristo abita nell'intimo di ogni cristiano [74]. La fede "sola" permette all'anima di purificarsi, liberandosi così dall'umiliante prostrazione che è conseguenza del peccato [75].
Attraverso la fede l'individuo è purificato e, nell'accettarla e tenerla come propria, si eleva oltre la condizione umana decaduta [76]
Anche questo è lo scopo dei miracoli compiuti da Cristo - e tuttavia, sottolinea Agostino, la fede di chi non ha bisogno di miracoli per credere è superiore: Abbiamo udito il Vangelo, abbiamo aderito al Vangelo e per mezzo del Vangelo abbiamo creduto in Cristo: non abbiamo visto alcun prodigio, non pretendiamo alcun prodigio [...] quelli che lo crocifissero lo videro e lo palparono, e così pochi credettero; noi non abbiamo visto e non abbiamo toccato con mano: abbiamo udito e abbiamo creduto [77].
Per questo motivo Agostino contrappone il centurione di cui narra il Vangelo di Matteo (Mt 8, 8-11), per il quale è sufficiente la parola di Cristo ad operare il miracolo, all'ufficiale di cui racconta Giovanni (Gv 4, 45-53), che chiede a Gesù di "scendere" nella propria casa [78]. Dono di Dio, la fede è l'origine di ogni opera buona [79], ma muove e opera solo nell'amore e in unione con l'amore [80].
Anche i demoni, spiega Agostino, credono nell'esistenza di Dio, ma la loro fede manca di carità: Gran cosa è la fede, ma non ti giova nulla se non hai la carità. Anche i demoni confessavano Cristo; credendo in lui senza amarlo, dicevano:
che cosa c'è tra noi e te (Mc 1, 24)? Avevano la fede, ma non avevano la carità. Non per nulla erano demoni. Non vantarti della fede, non ti distingui ancora dai demoni [81].
Per questo motivo si può credere senza amare (come fanno i demoni), ma non è possibile amare se non si ha la fede, e solo nella fede vive il vero amore per Dio e per il prossimo:
Laddove dunque è la carità, che cosa potrà mancare? E dove non è, che cosa potrà giovare? Il diavolo crede (cf. Gc 2, 19), ma non ama; e tuttavia non si può amare se non si crede. Sia pure invano, tuttavia anche chi non ama può conservare la speranza del perdono, ma non può perderla nessuno che ama. Dunque, laddove c'è l'amore, c'è necessariamente la fede e c'è la speranza; e dove c'è l'amore del prossimo, c'è necessariamente anche l'amore di Dio. Chi infatti non ama Dio, come potrà amare il prossimo come se stesso, dal momento che non ama neppure se stesso? Egli è un empio e un uomo iniquo; e chi ama l'iniquità, non solo non ama ma odia la sua anima (cf. Sal 10, 6). Manteniamoci dunque fedeli a questo comandamento del Signore, di amarci gli uni gli altri, e osserveremo tutti gli altri suoi comandamenti, perché tutti gli altri comandamenti sono compresi in questo. Certo, questo amore si distingue da quell'amore con cui reciprocamente si amano gli uomini in quanto uomini; ed è per distinguerlo da esso che il Signore aggiunge: come io ho amato voi. E perché ci ama Cristo, se non perché possiamo regnare con lui? A questo fine dunque noi dobbiamo amarci, in modo che il nostro amore si distingua da quello degli altri, che non si amano a questo fine perché neppure si amano. Coloro che invece si amano al fine di possedere Dio, si amano davvero: per amarsi, quindi, amano Dio [82].
"Quelli che credono e operano nella fede sono vivi" [83]: vivere la fede e agire nella fede significa sperimentare una vita gioiosa [84], più piena e autentica. Per mezzo di questa fede che si abbandona senza altra certezza oltre a se stessa, l'anima risuscita [85] nel presente, in senso spirituale, nella vita terrena:
Colui che crede risorge [...] Ecco, noi siamo già risorti; chi ascolta Cristo, chi crede, passa dalla morte alla vita e non incorre nel giudizio; viene l'ora, anzi è già venuta, in cui chi ascolta la voce del Figlio di Dio, vivrà; era morto, ha ascoltato, ed ecco che risorge [...] Esiste certamente questa risurrezione che avviene ora: gli infedeli erano morti, ed erano morti anche gli iniqui, ed ora vivono, in quanto giusti, e passano dalla morte dell'infedeltà alla vita della fede [86].
Effetto del rapporto reciproco tra Dio e l'individuo, e insieme di questo abbandonarsi, è un'adozione: chi con fede accetta il messaggio del Cristo e vi si abbandona, diventa, per dono gratuito di Dio, suo figlio: [...] così ha agito Dio: l'unico Figlio che egli aveva generato e per mezzo del quale tutto aveva creato, questo Figlio, lo inviò nel mondo perché non fosse solo, ma avesse dei fratelli adottivi. Noi infatti non siamo nati da Dio come l'Unigenito, ma siamo stati adottati per grazia sua. L'Unigenito infatti è venuto per sciogliere i peccati, che ci impedivano d'essere adottati: egli stesso ha liberato coloro che voleva fare suoi fratelli, e li ha fatti con lui eredi [87].
La fede autentica innalza l'esistenza umana al soprannaturale, stringendo un rapporto diretto con Dio. Essa è infatti un atto volontario, che scaturisce da un moto dell'interiorità: "E' dalle radici del cuore che sorge la professione di fede". [88]
Sorgendo dal cuore, però, la fede non sembra essere soltanto una scelta cosciente dell'individuo - sembra, invece, che a essa l'individuo sia chiamato, con un moto che nasce sì dall'interiorità, ma che è indipendente dalla sola volontà umana: "Mirabile esaltazione della grazia! Nessuno può venire se non è attratto" [89] e ancora: "Credere, dunque, è un dono; credere non è una cosa da poco. Se credere è una grande cosa, rallegrati se sei credente, ma non insuperbirti: che cosa hai infatti, che tu non abbia ricevuto? (1 Cor 4, 7)" [90].
La fede unisce tutti i credenti in Cristo:
Il Signore Gesù, dopo aver pregato per i suoi discepoli che erano allora presenti, e dopo aver esteso la sua preghiera a tutti gli altri dicendo: Non prego soltanto per questi, ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola (Gv 17, 20), come se gli avessimo chiesto per qual motivo si rivolgesse al Padre e che cosa intendeva chiedere, subito aggiunge: affinché tutti siano una cosa sola come tu, Padre, sei in me ed io in te, affinché anch'essi siano una cosa sola in noi (Gv 17, 21) [...] Dopo aver detto: affinché anch'essi siano una cosa sola in noi, aggiunge: cosicché il mondo creda che tu mi hai mandato (Gv 17, 21). Che significa questo? Forse che il mondo crederà solo quando saremo tutti una cosa sola nel Padre e nel Figlio? Ma non è questa la pace perpetua, e quindi più il premio della fede che non la fede stessa? Saremo una cosa sola, infatti, non per poter credere, ma perché avremo creduto.
Solo nella fede si può quindi realizzare il totus Christus, l'unione mistica di tutti i cristiani nel Cristo risorto, per cui l'esistenza dell'individuo trascende il presente, le limitazioni del tempo e dello spazio [91].
Per effetto della fede, anzi, questa unione è possibile al cristiano già in vita, secondo l'insegnamento paolino della Lettera ai Galati:
E' vero che anche in questa vita, in virtù della comune fede, quanti crediamo nell'unico Salvatore siamo una cosa sola, secondo l'affermazione dell'Apostolo: Tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3, 28). Ma anche in questo caso, l'essere una cosa sola non è condizione ma effetto della fede. Cosa vuole intendere il Signore dicendo: Che tutti siano una cosa sola, affinché il mondo creda? Tutti vuol dire il mondo dei credenti. Coloro che saranno una cosa sola e il mondo che crederà, dato che gli uni e gli altri saranno una sola cosa, non sono realtà diverse, poiché, evidentemente, le parole: che tutti siano una cosa sola, son dette di coloro cui erano state rivolte le altre: Non prego soltanto per questi, ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola; soggiungendo subito: affinché tutti siano una cosa sola. [...] E' appunto in virtù di questa fede che il mondo viene riconciliato a Dio, quando crede in Cristo come mandato da Dio [92].
Anche in questo caso, tuttavia, il principio della fede si ritrova in Dio: nel passo evangelico commentato da Agostino, è di Gesù l'iniziativa della preghiera, per mezzo della quale i cristiani ottengono da Dio il dono della fede: con il sostegno autorevole dell'apostolo Paolo, il vescovo d'Ippona può affermare che
Se, insomma, per la terza volta sottintendiamo il verbo "prego", o, meglio, se facciamo dipendere tutto da questo verbo, il senso di questo passo diverrà chiaro: Prego affinché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me ed io in te; prego affinché anch'essi siano uno in noi; prego affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. Inoltre ha precisato: in noi, perché si tenga ben presente che se noi diventiamo una cosa sola in virtù della fede e della carità, lo dobbiamo, non a noi, ma alla grazia di Dio. E' quanto c'insegna l'Apostolo, quando, dopo aver detto: Un tempo foste tenebra, mentre adesso siete luce, affinché nessuno se ne attribuisca il merito, aggiunge: nel Signore (Ef 5, 8) [93].
Effetto ultimo e frutto della fede sono l'immortalità del corpo e la salvezza dell'anima [94], in quella visione di ciò che la fede ha spinto a credere e sperare [95]: Allora noi potremo finalmente vedere ciò che ora crediamo. Infatti, anche ora egli è in noi e noi siamo in lui; ma questo ora noi lo crediamo, mentre allora ne avremo la piena conoscenza. Ciò che ora conosciamo credendo, allora conosceremo contemplando. Finché, infatti, siamo nel corpo come è adesso, cioè corruttibile e che appesantisce l'anima, siamo esuli dal Signore; camminiamo infatti nella fede e non per visione (cf. 2 Cor 5, 6). Allora, quando lo vedremo così come egli è, lo vedremo faccia a faccia (cf. 1 Io 3, 2.). Se Cristo non fosse in noi anche ora, l'Apostolo non direbbe: Se Cristo è in noi, il corpo è bensì morto per il peccato, lo spirito invece è vita per la giustizia (Rm 8, 10). Egli stesso apertamente afferma che fin d'ora noi siamo in lui, quando dice: Io sono la vite, voi i tralci (Gv 15, 5). In quel giorno, dunque, quando vivremo quella vita in cui la morte sarà stata assorbita, conosceremo che egli è nel Padre, e noi in lui e lui in noi; perché allora giungerà a perfezione quanto per opera sua è già cominciato: la sua dimora in noi e la nostra in lui [96].
La visione beatifica apporterà la pace perpetua al cristiano [97] - e il compimento della promessa sarà raggiunto solo alla fine dei tempi. E tuttavia, se Dio opera nell'animo per farvi sorgere la forza e la virtù della fede, quella pace, quella felicità non si situano solo alla fine: vivono e crescono, invece, nel presente, in ogni istante vissuto nella fede e per la fede. In questo senso la fede è apportatrice di una gioia che il cristiano avverte già in vita, e che poi si perfeziona nel premio della risurrezione, alla fine dei tempi.
Conclusione
Nei trattati che compongono il commento al Vangelo di Giovanni, la fede assume un triplice volto. Essa è, innanzitutto, un credere nell'esistenza di Dio, che l'individuo ha in comune con i demoni, ma che si pone, come dono di Dio stesso, alla base della vita spirituale. A questo dono, l'individuo deve assentire di propria volontà - e proprio a esortare questo assenso sono destinate molte delle omelie di cui si compone il commento. La fede è tuttavia anche un credere alle promesse di Dio, sottomettendo le proprie scelte e il proprio intelletto alla sua volontà. Questa è la fede che accetta la parola divina che non ancora l'intelletto non giunge a comprendere [98], questa è la fede che garantisce l'unica possibilità di un inizio nella cammino verso la salvezza [99], e che informa la vita nella carne del cristiano come vita di fede e nella fede [100].
La fede, infine, si rivela essere anche un itinerario e un cammino - un movimento verso Dio, che avviene nell'amore e per l'amore, e che conduce il cristiano alla risurrezione spirituale e a una gioia, in questa vita, che preparano la pace e la beatitudine della visione divina nella vita eterna: Esiste dunque per noi una certa pace, quando, secondo l'uomo interiore ci compiacciamo nella legge di Dio; ma questa pace non è completa, in quanto vediamo nelle nostre membra un'altra legge che è in conflitto con la legge della nostra ragione (cf. Rm 7, 22-23). Esiste pure per noi una pace tra noi, in quanto crediamo di amarci a vicenda; ma neppure questa è pace piena, perché reciprocamente non possiamo vedere i pensieri del nostro cuore, e, per cose che riguardano noi, ma che non sono in noi, ci facciamo delle idee, gli uni degli altri, in meglio o in peggio. Questa è la nostra pace, anche se ci è lasciata da lui; e non avremmo neppure questa, se non ce l'avesse lasciata lui. La sua pace, però, è diversa. Ma se noi conserveremo sino alla fine la nostra pace quale l'abbiamo ricevuta, avremo quella pace che egli ha, lassù dove da noi non potranno più sorgere contrasti, e nulla, nei nostri cuori, rimarrà occulto gli uni agli altri [101]
In quella pace, scrive Agostino, sarà possibile godere della bellezza che sazia senza saziare [102], nell'unione mistica del corpo di Cristo, in una conoscenza perfetta, priva di morte [103]; allora l'esistenza sarà piena e la felicità perfetta. Ma quella pace, perfetta aspirazione umana, è già presente nella fede: chi ha fede la riceve, e già la possiede nella speranza. Per questa fede, che trasforma il cuore, lo rivolge alla meta spirituale e gli fa credere propria la felicità che gli è stata promessa - per questo cuore prega Agostino: "Dammi un cuore che ama, e capirà ciò che dico. Dammi un cuore anelante, un cuore affamato, che si senta pellegrino e assetato in questo deserto, un cuore che sospiri la fonte della patria eterna, ed egli capirà ciò che dico" [104].
BIBLIOGRAFIA
Per il testo della Bibbia, si è fatto riferimento alla traduzione CEI 2008, disponibile sul sito: www.bibbiaedu.it Ultimo accesso 25/08/2013.
Per le opere di Sant'Agostino, si è fatto riferimento al testo latino e alla traduzione pubblicati dalla casa editrice Città Nuova e disponibili anche on line sul sito: http://www.augustinus.it/italiano/index.htm per la versione italiana
http://www.augustinus.it/latino/index.htm per la versione latina Entrambi i siti sono stati consultati in data 25/08/2013.
Per il testo della Costituzione Dogmatica Dei Verbum si è utilizzata la versione disponibile on line sul sito istituzionale della Santa Sede:
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651118_dei-verbum_it.html Ultimo accesso in data 25/08/2013.
Il discorso di Joseph T. Kelley, speditomi dall'Autore e tenuto a Roma, in occasione del Congresso dei Laici Agostiniani, il 13 luglio 2012 è disponibile on line all'indirizzo: http://www.friendsofaugustine.org/pdffiles/klc.pdf Ultimo accesso 25/08/2013.
Si sono inoltre consultati i seguenti testi:
H. Beidermann, Knaurs Lexicon der Symbole, Munchen, 1989, p. 120s;
G. Ferguson, Signs and symbols in Christian Art, Oxford University Press, New York: 1954.
B. A. Fitzgerald (ed.) Augustine through the Ages, W. B. Eedermans Pub., Grand Rapids: 1999.
J. T. Kelley, The "Totus Christus" in the writings of St. Augustine, address to the Augustinian Laity Congress, July 13, 2012.
M. Luther, Works of Martin Luther with Introduction and notes (complete), tr. ing. di C. M. Jacobs, Library of Alexandria, s.l., s.n.
L. A. Seneca, Lettere a Lucilio, 65, 16, in Id., Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, a cura di G. Reale, tr. It. di M. Natali, Rusconi, Milano: 1994.
A. W. Steffler, Symbols of the Christian faith, Eerdmans Pub., Grand Rapids: 2000.
A. Vita, Introduzione, in Agostino d'Ippona, Opere di Sant'Agostino. Vol. XXIV/1: Commento al Vangelo e alla prima Epistola di San Giovanni, Città Nuova, Roma: 1968.
Note al testo
(1) - R. H. Bainton, Lutero, tr. it. D. Cantimori, Einaudi, Torino: 1960, p. 174.
(2) - M. Luther, Works of Martin Luther with Introduction and notes (complete), tr. ing. di C. M. Jacobs, Library of Alexandria, s.l., s.n., p. 1307
(3) - Ivi, p. 1414
(4) - Cfr. Rm 3, 28
(5) - De cons. Ev. 1, 3, 6-4, 7
(6) - Sol. 1, 2,7
(7) - De cons. Ev. 1, 6, 9
(8) - Cfr. Conf. 8, 1, 2
(9) - Conf. 8, 4, 9
(10) - Gv 1, 11-13; ma Agostino legge: "In sua propria venit. Et sui eum non receperunt. Quotquot autem receperunt eum, dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius, qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt
(11) - In Io tr. 2, 13
(12) - Si consideri, a questo proposito, il testo di In Io tr. 2, 4: "Noluerunt tenere humilitatem Christi, in qua navi sicuri pervenirent ad id quod longe videre potuerunt; et sorduit eis crux Christi. Mare transeundum est, et lignum contemnis?"; più avanti, la figura di ripetizione: "navi portare, lignum portare" indica la sovrapposizione tra le due espressioni.
(13) - L. A. Seneca, Lettere a Lucilio, 65, 16, in Id., Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, a cura di G. Reale, tr. It. di M. Natali, Rusconi, Milano: 1994, pp. 1060-1061
(14) - In Io tr. 10, 13
(15) - In Io tr. 2, 4
(16) - In Io tr. 2, 16
(17) - A. Vita, Introduzione, in Agostino d'Ippona, Opere di Sant'Agostino. Vol. XXIV/1: Commento al Vangelo e alla prima Epistola di San Giovanni, Città Nuova, Roma: 1968, p. XVII. A. Fitzgerald (ed.) Augustine through the Ages, W. B. Eedermans Pub., Grand Rapids: 1999, p. 474
(18) - Ep. 21, 3
(19) - Ep. 29, 7
(20) - Ep. 21, 1-2, passim
(21) - In Io. tr. 98, 7
(22) - Disc. 339.4
(23) - In Io. tr. 41, 1
(24) - Costituzione Dogmatica Dei Verbum, 6, 21
(25) - In Io. tr. 98, 6
(26) - In Io. tr. 48, 1
(27) - Disc. 227, 1: "I vostri codici siamo noi"
(28) - Disc. 260D, 2
(29) - In Io. tr. 12, 6
(30) - In Io. tr. 98, 8; In Io. tr. 2, 1
(31) - Disc. 260D, 2
(32) - In Io tr. 53, 8
(33) - In Io tr. 3, 8
(34) - In Io. tr. 50, 12-13
(35) - In Io. tr. 36, 5
(36) - In Io. tr. 18, 8
(37) - In Io. tr. 5, 10
(38) - In Io. tr. 22, 1
(39) - In Io. tr. 12, 5-6
(40) - In Io. tr. 20, 3
(41) - Gv 4, 6b
(42) - In Io tr. 15, 6
(43) - Ibidem
(44) - In Io tr. 3, 12-13
(45) - In Io tr. 26, 19
(46) - In Io tr. 2, 3.16
(47) - In Io tr. 31, 5
(48) - In Io tr. 15, 6
(49) - In Io tr. 15, 7
(50) - Ibidem
(51) - Si veda, per esempio De bono coniugali, 1, 1; De genesi contra Manichaeos, 2, 12,16 ; De civitate Dei, 12, 27, 1
(52) - Gn 2, 21-22
(53) - Gv 19, 33-35
(54) - In Io tr. 15, 8
(55) - Rm 5, 14
(56) - In Io tr.15, 8
(57) - In Io tr. 15, 7
(58) - H. Beidermann, Knaurs Lexicon der Symbole, Munchen, 1989, p. 120s; G. Ferguson, Signs and symbols in Christian Art, Oxford University Press, New York: 1954, p. 25. Mt 3, 16; Lc 3, 22; Gv 1, 32
(59) - Cfr. A. W. Steffler, Symbols of the Christian faith, Eerdmans Pub., Grand Rapids: 2000, p. 40
(60) - In Io tr. 15, 7
(61) - In Io tr. 2, 4
(62) - In Io. tr. 15, 2-3
(63) - In Io. tr. 12, 6
(64) - In Io. tr.15, 5
(65) - In Io. tr. 15, 12
(66) - In Io tr. 15, 13-16
(67) - In Io tr. 15, 19-20
(68) - In Io tr. 15, 22
(69) - In Io tr. 15, 19-20
(70) - In Io tr. 15, 19
(71) - In Io tr. 15, 22
(72) - In Io tr. 15, 24
(73) - In Io. tr. 15, 33
(74) - In Io. tr. 57, 2
(75) - In Io. tr. 42, 16
(76) - In Io. tr. 24 ,1
(77) - In Io. tr. 16, 3-4, passim
(78) - In Io. tr. 16, 5
(79) - In Io. tr. 82, 2
(80) - In Io. tr. 44, 6
(81) - In Io. tr. 6, 21
(82) - In Io. tr. 83, 3
(83) - In Io. tr. 22, 7
(84) - In Io. tr. 83, 1
(85) - In Io. tr. 49, 3
(86) - In Io. tr. 22, 7-12, passim
(87) - In Io. tr. 2, 13
(88) - In Io. tr. 26, 2
(89) - Ibidem
(90) - In Io tr. 27, 7
(91) - J. T. Kelley, The "Totus Christus" in the writings of St. Augustine, address to the Augustinian Laity Congress, July 13, 2012, p. 9 (copia personale ricevuta dall'Autore).
(92) - In Io. tr. 110, 2
(93) - Ibidem
(94) - In Io. tr. 86, 1
(95) - In Io. tr. 111, 3-4
(96) - In Io. tr. 75, 4
(97) - In Io. tr. 110, 2
(98) - In Io. tr. 48, 1
(99) - In Io. tr. 15, 24
(100) - In Io. tr. 45, 9
(101) - In Io. tr. 77, 4
(102) - In Io. tr. 3, 21
(103) - In Io. tr. 105, 3
(104) - In Io. tr. 26, 4