Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Settimana 2015 > Corti

Mangiare Dio

Il presidente dell'Associazione S. Agostino Luigi Beretta e il dott. Corti Giuseppe

Il presidente dell'Associazione S. Agostino Luigi Beretta e il dott. Corti Giuseppe

 

 

 

Mangiare Dio: il pasto rituale nelle società antiche e nel cristianesimo

(abbozzo di una lettura fenomenologica)

di Giuseppe Corti

 

 

 

Innanzitutto una premessa: considereremo il pasto rituale ed il sacrificio, due fenomeni che vedremo strettamente collegati, solo nell'aspetto comunitario; questo non significa che ci sia solo questo aspetto - c'è anche quello privato, che non è meno presente e meno forte -, ma che noi abbiamo scelto di limitarci ad esso. Un'altra precisazione è che faremo soltanto rapidi cenni a questi fenomeni nelle società antiche; anche qui ci concentreremo sulla ritualità che troviamo nel paganesimo dell'impero romano e nel cristianesimo proprio nel periodo in cui queste due realtà si sono confrontate e si sono definite nel reciproco rapporto [1].

Va subito detto che tutti i pasti, come hanno potuto accertare gli etnologi nello studio delle società primitive soprattutto dalla metà dell'800 in poi, sono atti collettivi che vanno al di là del concetto di famiglia mononucleare; alla caccia all'animale, che è spesso di grossa stazza, e comunque in genere pericoloso ed imprevedibile, partecipa tutta la comunità; e del pari tutte le famiglie partecipano alla consumazione del pasto. Questo aspetto si è conservato anche nelle società dove era prevalente l'allevamento o l'agricoltura, anche se in questo caso il concetto di famiglia s'era ristretto, perché minori erano i rischi e più definito il concetto di proprietà. Tuttavia anche in questi casi, accanto a momenti di minor attività o persino di ozio, c'erano periodi in cui si concentrava l'attività e bisognava attingere a tutte le forze disponibili per garantire, ad esempio, la tosatura o il raccolto; ed in queste circostanze anche la consumazione dei pasti andava al di là del semplice concetto di famiglia.

Questo aspetto s'è conservato nelle nostre zone, quando i nuclei abitativi erano pochi e le cascine più numerose, fino agli anni ‘30 e primi anni '50; l'aspetto odierno del pasto, limitato al proprio nucleo familiare, e qualche volta persino ai singoli membri, è il prodotto di una società prevalentemente urbana ed industriale, che in fondo ha pochi secoli di vita.

La caccia e la preparazione del pasto hanno avuto un ruolo determinante anche nel distinguere le funzioni dei due sessi: la caccia veniva svolta dall'uomo, che usciva dall'ambiente sicuro, la casa, per affrontare il rischio; il pasto veniva preparato dalle donne. Questo si è conservato anche nelle società di allevatori ed agricoltori: il pastore o il mandriano era un uomo, l'agricoltore pure, anche se nelle società agricole la collaborazione della donna s'è dilatata; però nella fase del raccolto era ancora nettamente prevalente l'attività dell'uomo; la donna, per il suo legame con la generazione, era presente soprattutto nell'attività di semina. Questa distinzione s'è conservata anche nel sacrificio: nell'antica Roma i sacerdoti che vi erano preposti erano tutti uomini; la partecipazione delle donne alla cerimonia era estremamente bassa; però la mola salsa, specie di farina salata, di cui veniva cosparsa la vittima del sacrificio - da cui è derivato il termine im-molare - veniva preparata rigorosamente dalle vestali, anzi era una delle loro funzioni principali [2].

C'è un altro aspetto del pasto che nel nostro tempo s'è completamente perso: esso aveva nel mondo antico un aspetto insieme riferibile al cosmico ed al sacro. Nutrirsi era re-integrare le proprie forze, continuare a vivere: era assimilabile al ritorno ciclico del sole, nelle società agricole alla pioggia che feconda la terra. Ma insieme non era un fenomeno certo, meccanico; donde il pasto era anche un atto di ringraziamento alla divinità che l'aveva reso possibile, che l'aveva favorito. Oggi per noi il pasto è una questione di scelta e di orari; ma non dimentichiamo che siamo la prima generazione che ha avuto questa fortuna; ed a parte il fatto che in molte parti del mondo si muore ancora di fame, ricordiamo che il secolo scorso ha vissuto in modo spaventoso la morte per fame: questo non è accaduto soltanto nei lager o nei gulag; nella Russia degli anni '30 i morti furono milioni; nella Germania, che era già una delle più grandi potenze industriali del mondo, negli anni tra il '20 ed il '30 ne morirono decine di migliaia. Per questo in passato in occasione della cena si diceva una preghiera, o si faceva il segno della croce, o si osservava un attimo di silenzio per meditare; il cosmico ed il divino entravano in questa esigenza naturale, ma incerta. Pensiamo ai graffiti pre-istorici: in essi vediamo raffigurati uomini a caccia di animali: si tratta di una raffigurazione a fini magici: era un invocare all'interno della propria casa sicura la protezione della divinità sulla caccia che l'uomo stava praticando. Per nutrirsi si rischiava la vita: non era possibile dare a questo atto un significato marginale: lì convergevano la vita in tutte le sue espressioni, l'universo ed il divino.

Come s'è posto il cristianesimo delle origini - mi limito ai vangeli e soprattutto ai sinottici - di fronte al problema dell'alimentazione? Ha forse proposto i comportamenti radicali di cui parla soprattutto Matteo nella contrapposizione tra il "vi fu detto" ed "io vi dico"? (Mt 5, 21-48). Ebbene, la risposta la troviamo sempre nel vangelo di Matteo pochi paragrafi dopo nella preghiera del Padre nostro, l'unica che viene attribuita direttamente a Cristo e che è diventata il simbolo del cristianesimo [3]. Il Padre nostro, nella seconda parte, quella che riguarda le richieste concrete che l'uomo rivolge a Dio, parla esplicitamente soltanto di due cose: del pane, "dacci oggi il nostro pane quotidiano", e dell'usura, "rimetti a noi i nostri debiti". E' interessante notare che queste richieste compaiono sia nel testo di Matteo, che è il più lungo e quello che tradizionalmente viene recitato, sia in quello di Luca, che invece è più sintetico (Mt. 6, 11-12; Lc. 11, 3-4); il che indica quanto questi due elementi costituiscano un valore sentito dalle prime comunità cristiane.

Alcuni di voi, e tutti gli esegeti, mi accuseranno di semplificazione e mi inviteranno ad andare al di là delle nude parole; ma le nude parole hanno pure un loro valore, e non possiamo ignorarle; dobbiamo necessariamente partire da lì, altrimenti diventa possibile ogni costruzione fantastica; ed il Padre nostro parla effettivamente di pane e di debiti; a causa dei quali nella società ebraica, ma anche in quella greco-romana del tempo, si poteva morire, ed a causa dei quali si può morire, e si muore, anche oggi. Non è un caso che nel giubileo ebraico, dal quale è stato tratto molti secoli più tardi quello cristiano, uno degli adempimenti più importanti era proprio la remissione dei debiti [4],; il fenomeno non era universale, riguardava solo i membri della comunità ebraica; si trattava comunque di un gesto di grande importanza e di grande significato economico e sociale, che il giubileo cristiano non è riuscito a tradurre in pratica. In quest'ultimo assistiamo per l'appunto ad una lettura spirituale della disposizione del Padre nostro; ma si tratta di una scelta interpretativa, non di una deduzione corretta che va al di là delle nude parole: il Padre nostro dice un'altra cosa.

Quanto le prime comunità cristiane fossero attente al problema dell'alimentazione è dimostrato dal fatto che essa costituisce uno dei principali e dei più frequenti elementi di contrasto nei vangeli tra il Cristo e le comunità religiose ebraiche del suo tempo; non è un caso: evidentemente anche in ciò il cristianesimo ha voluto sottolineare la sua autonomia e la sua differenza. Se nei comportamenti etici il Cristo propone norme di vita molto severe, non è così per quanto riguarda l'alimentazione: il cristianesimo non è - nonostante alcune infondate interpretazioni posteriori - una religione ascetica [5], tutt'altro. al riguardo emerge subito la differenza radicale tra il comportamento del Cristo e quello di Giovanni Battista, che pure viene presentato come il suo precursore: entrambi propongono e si prefiggono un rinnovamento interiore, ma per il Battista ciò si accompagna ad una proposta di vita ascetica sia nel vestire che nell'alimentazione (Mt. 3, 4); tutto questo in Gesù è sparito, ed i discepoli del Battista glielo rimproverano [6], ed è sparito perché non viene reputato né necessario né importante. Non è insignificante se pensiamo al rapporto tra i due ed al ruolo che il Battista ha svolto nella vita di Cristo.

All'interno di una logica non ascetica si sviluppò nel primo cristianesimo un duro conflitto sul rispetto delle regole alimentari ebraiche, testimoniato soprattutto, ma non solo, da Paolo [7]. Vivendo in una società abbastanza omogenea da questo punto di vista, ci è difficile capire perché a questo particolare venga data tanta importanza: possiamo farcene un'idea se pensiamo al rigore con cui l'islam o gli ebrei osservano le loro regole alimentari. Esse non sono insignificanti: attenersi ad esse, rispettarle significa definirsi come popolo e come etnia; sono concepite come una componente della propria identità; svalutarle, o tradirle, significa negare, uscire dalla propria identità. Pensiamo al tradimento nella vita di coppia; non è un fatto marginale: esso coinvolge e modifica la vita sia di chi tradisce sia di chi è tradito.

Il "tradimento" delle regole alimentari è qualcosa di simile: si viene meno ad un elemento che costituisce la propria identità. Pensiamo per un attimo anche al momento storico: venir meno alle proprie regole significava dissolversi nella vasta marea del paganesimo; superarle ed ignorarle non fu una scelta facile per la prima comunità cristiana, in cui la maggior parte dei primi discepoli erano ebrei, ed era ebreo anche Paolo; e che erano consapevoli di fondare tutti la loro identità di ebrei anche sul rispetto rigoroso delle molte e sottili norme della legge mosaica che era stata determinante nel salvarli per secoli dall'assimilazione con il mondo pagano. La scelta aperta riguardo i cibi, e riguardo un altro tema altrettanto dibattuto, quello della circoncisione [8], non fu facile allora ed è stata di grande importanza nella storia del cristianesimo: essa ha accentuato l'interiorità della fede cristiana, ed ha contribuito alla svalutazione degli atti meramente formali. In un passo significativo Cristo afferma che non è ciò che entra nel corpo che corrompe l'uomo, ma ciò che esce da lui: i pensieri malvagi, le cattive azioni, gli inganni, le menzogne (Mt. 15, 11; 17-20). L'importanza, ed insieme la difficoltà nella conservazione di questa scelta, è dimostrata anche da un problema che si pose subito anch'esso alle prime comunità cristiane: come comportarsi di fronte alla carne dei sacrifici pagani. Ancora una volta la questione è affrontata soprattutto da Paolo: ma in questo caso si imporrà, non senza problemi - come possiamo capire dalla I lettera di Paolo ai Corinzi [9] -, l'obbligo di rifiutarla; anzi, proprio il rapporto con il sacrificio stabilirà la differenza tra il cristiano e l'apostata.

Abbiamo visto che Cristo svaluta le regole alimentari, e sarebbe naturale dedurre una indifferenza parallela di fronte al cibo. Invece non è così, anzi succede il contrario; proprio la consumazione del pasto e l'attività che in senso lato lo precede diventano occasione di conflitto, ma anche di spiegazione della propria concezione, con coloro che i vangeli definiscono di norma i farisei, ma nella cui categoria penso che si possano mettere tutti i formalisti e i benpensanti di ogni epoca. L'addio ai discepoli, ed anche questo non è un caso, si compie nell'Ultima Cena; e sempre, e solo in quella circostanza Cristo istituisce l'unico rituale che intende tramandarne la memoria e costituire, definire la sua comunità [10]. I pasti diventano occasione per la manifestazione della sua potenza: pensiamo al miracolo di Cana, che per Giovanni inaugura la sua attività pubblica (Gv 2, 11-11); e soprattutto alla moltiplicazione dei pani che troviamo, il che non è frequente, in tutti gli evangelisti e che due di loro, Matteo e Marco presentano in due circostanze [11]. La cena viene anche associata al regno dei cieli, dunque al giudizio finale: ed in queste occasioni vengono chiariti i criteri di selezione [12].

La cena può anche costituire, lo vediamo nell'episodio di Zaccheo, motivo di conversione (Lc 19, 1-10). Diventa momento di riconciliazione e di perdono, come ce lo ricorda la conclusione della parabola del figliol prodigo ( Lc 15, 22-24). Sono note le polemiche, non solo dei farisei ma anche dei fedeli del Battista, contro la buona disposizione del Cristo e dei suoi discepoli ai banchetti [13]; gli vengono rimproverati anche i commensali con cui si confonde, i famosi pubblicani e le prostitute [14], con cui magari si ha commercio anche ora ma che ci si bada bene dall'invitare a cena. I comportamenti dei discepoli, legati in senso lato all'alimentazione, quando si tratta di raccogliere le spighe di sabato, diventano persino motivo di forte definizione dottrinale [15]: in quella circostanza c'è la nota affermazione di Cristo che il sabato è fatto per l'uomo, e non l'uomo per il sabato (Mc 2, 27); anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un'affermazione sovversiva, perché il primato viene posto non più nella norma, ma nell'individuo. Da questo elenco risulta evidente quanto venga considerato importante il pasto; non a caso viene proposta come prima opera di misericordia "dar da mangiare agli affamati". Ma un altro elemento è presente in tutti questi episodi: il pasto è un atto comunitario; e non ci si ritrova solo per mangiare, ma anche per discutere, per conoscersi e persino per mettere in gioco la propria vita.

Questa dignità del "pane quotidiano" acquista maggior rilievo se noi pensiamo per un attimo alla letteratura moderna ed al cinema; questo momento fondamentale della vita è trascurato nei romanzi e nei film. Nel mondo antico non era così; il pranzo è presente nella narrativa, nella poesia ed anche nella filosofia; in questo c'è una grande differenza con il mondo contemporaneo. In latino il pranzo comunitario viene chiamato convivium [16], in greco symposium [17]: fermiamoci un attimo sul valore delle parole, perché anche questo è indicativo: il con-vito indica proprio il con-vivere, il vivere insieme; i greci, forse perché più indulgenti nei confronti del vino, ne mettono in rilievo un'altra componente: il sin-posio significa infatti bere insieme, sarebbe il nostro rinfresco. In entrambi i casi diventa occasione per discutere di filosofia, di arte, di etica, di musica, persino di scienza; è un luogo di dibattiti anche sottili, di crescita intellettuale, anzi, direi che sia uno dei luoghi privilegiati proprio per questo.

Naturalmente non c'era soltanto questo: i pranzi servivano anche per esibizioni grossolane di ricchezza, basti pensare alla cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio. Ma è comunque certo che fosse uno dei luoghi deputati al dibattito ed alla definizione dei concetti; ciò trova un corrispettivo clamoroso nel vangelo più vicino alla sensibilità filosofica greca: nel vangelo di Giovanni l'Ultima Cena non ha lo svolgimento rapido e sintetico che troviamo nei sinottici: i discorsi di Gesù occupano ben 5 capitoli, dal 13 al 17, in un'opera che complessivamente ne ha 21; sono dunque poco meno di 1/4 dell'opera. L'Ultima Cena diventa qui il luogo della rivelazione e dell'auto-interpretazione della sua missione per opera di Cristo stesso.

Naturalmente non vorrei presentare i vangeli come una lunga sequela di pasti; so che non è così. Ma se ci mancassero quelle pagine ci mancherebbe qualcosa. Il che testimonia in quei testi l'attenzione minuta, ma anche partecipe, ai bisogni concreti dell'uomo. Ho parlato prima di rapporti tra cristianesimo ed il mondo greco-romano, ma questo vale per tutte le culture, anche quella ebraica e le culture pre-istoriche. Credo che sia stata la società contemporanea la prima che abbia rivoluzionato il modo di stare a tavola; è mutato il costume come è mutata la condizione: come ho detto, siamo i primi a non avere più il problema della fame.

 

 

Il sacrificio

Il pasto rituale è sovente collegato al sacrificio, che in genere lo precede. Il sacrificio, come hanno potuto constatare gli etnologi, è un fenomeno presente in quasi tutte le culture, anche le più primitive [18]; se vi sono forme religiose che vi si sottraggono, esse sono le più articolate e le più vicine a noi nel tempo. A quel che ne so, non ha particolare rilievo nella Cina confuciana, che è più un modello di vita che una forma di religione; e non è uno dei valori fondanti dell'islam, che però non ignora, ma valuta in altro modo la logica del martirio. Anche il cristianesimo propone una soluzione molto particolare e molto specifica, che vedremo poi. In genere oggetto dal sacrificio sono gli animali, in alcune società cerealicole le primizie della terra, in altre civiltà abbiamo anche i sacrifici umani: l'esempio più noto in merito è il caso degli aztechi, che tanto sconvolse i conquistadores spagnoli. Le civiltà antiche del Mediterraneo sembra che siano state immuni dalla pratica di sacrifici così cruenti, anche se in momenti di grande crisi vi fu questa tentazione [19]; comunque durante la crisi dell'impero nel III secolo e nella stagione del suo tramonto definitivo questa ipotesi non fu mai ventilata.

Se dunque il sacrificio è così presente in culture molto diverse per sviluppo ed in posti lontani ed estranei gli uni agli altri è evidente ci deve essere una ragione forte che li motivi; la logica del do-ut-des, ovvero del sacrificio in cambio di un beneficio da parte della divinità, che viene applicata soprattutto nell'interpretazione della logica di Roma antica, è, a mio giudizio, troppo limitativa ed utilitaristica.

Va detto che il sacrificio si presenta anche nel mondo ebraico all'epoca di Cristo; e questo ha il suo rilievo se pensiamo che l'attività di Cristo si svolge interamente in Palestina. Certo i riti ebraici si presentano meno cruenti ed anche meno vistosi di quelli romani [20], ma il tempio di Gerusalemme è anche luogo di sacrificio; ricordiamo la cacciata risentita dei mercanti dal tempio, che troviamo in tutti gli evangelisti e che trova la sua descrizione più completa in Giovanni; è un mercato concentrato soprattutto sugli animali del sacrificio [21]. Anzi alcuni studiosi ritengono che proprio la "fine dei sacrifici" sia stato uno degli elementi fondamentali della frattura tra mondo antico e cristianesimo [22]. Al riguardo, siccome entrambe le parti sono consapevoli che si sta consumando una modifica sostanziale, si sviluppa tra il cristianesimo ed il paganesimo del basso impero una polemica, che presenta aspetti un po' banali, ma anche gustosi. In genere nel sacrificio animale le parti che venivano immolate erano quelle meno commestibili: il cuore, i polmoni, il fegato, lo stomaco.

Le parti più pregiate venivano in parte cotte e consumate al momento, tra i sacerdoti che avevano svolto il rito e la famiglia allargata dell'offerente, in parte venivano consegnate ai macellai che le mettevano in vendita nelle loro botteghe; costituivano occasione per un consumo di carne che allora era molto più basso rispetto a quello di oggi. Tra l'altro questi macellai, come i pubblicani e le prostitute che abbiano appena ricordato, non godevano di buona fama, anche se nel complesso dei tempi greci avevano uno spazio specifico riservato a loro [23]. La polemica cristiana metteva in rilievo che veniva sacrificata agli dei la parte di minor valore dell'animale, quindi la divinità era un po' presa in giro, ce la si cavava con poco [24]. Teniamo presente che il sacrificio cristiano implicava la partecipazione diretta del proprio fondatore; il coinvolgimento qui era al massimo livello. Ma a questa obiezione i pagani rispondevano in modo non del tutto banale che le parti sacrificate erano sì le meno pregiate dal punto di vista alimentare, ma anche le più vitali: non si può vivere senza cuore o senza fegato [25]. Non bisogna considerare le parti che vi sono implicate, ma il principio che è una vita ad essere immolata.

Naturalmente al di là di questa banale polemica sia i cristiani che i pagani erano consapevoli che il sacrificio aveva valenze maggiori. Con il sacrificio si cerca di stabilire un rapporto tra l'uomo ed il divino, quindi vi troviamo due soggetti: l'uomo e la divinità: per l'uomo è il riconoscimento di una potestà superiore, della necessità di un aiuto divino; ma v'è insieme la consapevolezza che è possibile una relazione che l'uomo, appunto attraverso il sacrificio, cerca di stabilire. La comunità, ripeto che non considereremo il sacrificio familiare o individuale, fa una richiesta alla divinità, cerca di forzarla a venire incontro ai suoi desideri; però questo non si verifica necessariamente, la volontà della divinità resta libera; e per alcuni aspetti anche capricciosa, irrazionale. Donde la preoccupazione quasi angosciosa dell'uomo di conoscere il futuro, attraverso la lettura di fenomeni naturali o il comportamento di animali: il volo degli uccelli, l'interpretazione delle viscere [26]. Questo sfuggire del divino alla logica umana, questa libertà del suo operare, fino appunto all'irrazionalità, si trova anche nel mondo ebraico, nonostante qui Dio, a differenza di quello che accade nel mondo pagano, oltre che fondatore dell'etica - pensiamo ai dieci comandamenti - sia anche il signore della storia: c'è un finalismo nella storia ebraica, che anche il cristianesimo fa suo, e che il mondo pagano non conosce. Ma ciò non toglie che le richieste di Dio siano talora sorprendenti e persino illogiche. Tuttavia i tempi e i modi di questa "fine della storia", che furono tra le domande che i discepoli rivolsero al Cristo [27], e che molti cristiani si sono posti anche dopo, sono rimaste senza risposta. Questa forma di dialogo con il divino, il sacrificio, può quindi non decidere, non garantire il destino dei popoli.

Se esso non piega la divinità alla volontà, ai desideri dell'uomo potremmo chiederci che senso ha farlo: la risposta è molto semplice: c'è una convinzione che il divino esista, e che esso operi nell'umana vicenda. Il mancato raggiungimento di un fine immediato non autorizza affatto a recidere il rapporto con il divino, anzi per alcuni versi chiede una cura ancora maggiore; questo spiega perché il politeismo romano si presenti tanto inclusivo verso culti stranieri [28]; è opportuno non ignorare nessuna divinità, tutte possono essere utili. Ma nel sacrificio pubblico c'è anche un altro elemento da valutare: la partecipazione collettiva: la comunità si trova unita e coinvolta nello stesso rito. Capita di trovare nei testi antichi che qualcuno dei presenti venga allontanato perché la sua presenza "disturba" il sacrificio [29]. Troviamo questo aspetto comunitario anche nella messa, soprattutto dopo la riforma conciliare, che ha cercato di modificare, forse senza riuscirci del tutto, l'aspetto di distacco anche tra i fedeli che aveva caratterizzato la riforma tridentina. Non siamo individui che stanno partecipando ad una celebrazione, ma una comunità che vi vive dentro, che ci si ritrova dentro. Pensiamo ad una funzione cristiana che si svolge poco distante da un rito islamico: a prescindere dalla valutazione di merito, l'essere presenti a quella funzione cristiana non è solo una presenza, è anche una definizione di sé.

Le componenti del sacrificio sono molto simili - e forse sembrerà una sorpresa - nel rituale pagano ed in quello cristiano. In entrambi i casi c'è bisogno di uno spazio sacro [30]: là il tempio, che non a caso si presenta sempre sopraelevato rispetto al terreno su cui sorge, e che ha al suo centro l'ara del sacrificio, utilizzata sia per le offerte di animali che per le primizie del lavoro agricolo; qui la chiesa, volta ad oriente, con pochissime eccezioni, ovvero là dove sorge il sole - e la scelta è simbolica, sole di verità, sole di giustizia -, con al centro della zona più sacra l'altare, dove si svolge il rito essenziale trasmesso da Cristo ai discepoli, ovvero il rito eucaristico [31]. La zona sacra in entrambi i casi è una zona ben definita, spesso recintata, dove alcune attività umane, altrove assolutamente normali, sono precluse; oppure anche dove altri comportamenti, non necessariamente legati al sacro, ricevono un nuovo significato proprio dall'essere coinvolti nel rito: pensiamo per esempio al canto, alla musica, alla danza, all'arte stessa: fenomeni assolutamente laici, ma che le religioni hanno assunto ed elaborato come atti religiosi; è un patrimonio della fede degli antichi che il cristianesimo, sopratutto il cattolicesimo, ha fatto propri [32].

Il rito ha anche bisogno di un officiante: il sacerdote opera sia nel mondo romano che in quello cristiano, e non a caso il termine è conservato nella sua versione e nei suoi significati latini; in entrambi i casi durante lo svolgimento del rito il sacerdote si carica della stessa sacralità del rito, ha una dimensione più che umana, è intoccabile; ed infatti l'atto più violento e più dissacrante che può essere compiuto è la violenza o l'uccisione del sacerdote durante il compimento del rito; l'eco che hanno avuto i pochi casi in cui ciò si è verificato lo dimostra; ed è un'eco che esisteva già anche nel mondo antico. Il sacerdote è il mediatore che tratta con il divino: non è un atto normale; è un atto importante ed insieme drammatico. La tradizione cristiana, assumendo in questo caso i valori della tradizione ebraica, ha distinto la figura del sacerdote da quella del laico [33]; la funzione religiosa è riservata soltanto a lui. Nel mondo antico il pontefice, o anche solo il sacerdote, non svolgeva soltanto quell'attività, e siccome il rito era un atto pubblico, talvolta persino eminentemente politico, poteva essere adempiuto anche dalle massime autorità politiche [34]; gli imperatori romani da Augusto fino all'età di Ambrogio, dunque in un impero già cristianizzato, hanno svolto ininterrottamente anche la funzione di pontefice massimo, anche questa una definizione passata pari pari al cattolicesimo. Le statue o i bassorilievi che raffigurano Augusto con il capo velato o anche altri imperatori - capita di frequente con Marc'Aurelio, che a questo ruolo ci teneva - li colgono nella loro funzione di pontefici. Non è un fatto marginale: la massima autorità dello stato fa da mediatore con la potenza ultraterrena: è la misura estrema di coinvolgimento dello Stato nel rapporto con Dio, la massima dimostrazione del significato che si attribuisce al rito. Alla luce di questo possiamo capire l'orrore e l'ostilità del mondo pagano per la mancata partecipazione dei cristiani ai loro sacrifici [35].

Un altro elemento che accomuna il rito pagano e quello cristiano è la fissità rigorosa del rituale: la messa non esce dai suoi canoni rigidissimi: i gesti, le parole, persino l'abito dell'officiante sono definiti in modo rigoroso; non rispettarli significa compiere gesti irregolari, come se ci trovassimo di fronte ad un reato; ed infatti, nell'eventualità di un errore - una lettura sbagliata, una posposizione degli atti nello svolgimento di una messa -, si ritorna indietro, perché la parte compiuta nell'errore non è valida, viene cancellata. Questi scrupoli sono figli della ritualità antica: anche lì bisognava attenersi rigorosamente ai comportamenti prescritti; e se nel rito interveniva qualcosa di anomalo, o semplicemente di non previsto, il rito doveva essere ripetuto dall'inizio; le regole intervenivano persino nello stabilire sesso e stazza dell'animale, il suo comportamento prima e durante il sacrificio. Si arrivava a ripetizioni plurime del rito se continuavano ad esserci elementi di disturbo; la forma doveva essere rigorosamente rispettata; in questo caso essa era veramente sostanza. D'altra parte il rapporto con Dio non era una cosa banale; nei sacrifici pubblici si invocava la sua protezione sullo Stato, gli si chiedeva di garantirne benessere e continuità. E' evidente che di fronte a tali richieste dovessero essere consoni pure il comportamento e le parole.

Concludo questa parte riallacciandomi al pasto di cui ho parlato prima: come abbiamo visto l'animale sacrificato veniva in parte mangiato sul posto ed in parte messo in vendita; anche nella messa cristiana nei primi secoli veniva distribuito materialmente il pane ed il vino: il gesto venne poi regolato e limitato quando crebbe il numero dei fedeli. In entrambi i casi l'azione del nutrirsi non è semplicemente la soddisfazione di un'esigenza fisiologica, ma assume una connotazione più forte: la carne dell'animale sacrificato divisa tra i commensali, ed a maggior ragione il pane ed il vino condiviso tra i discepoli, hanno un rapporto diretto con il sacro e ne assumono, per così dire, la forza. Le cose, dopo questi riti, non sono più le stesse: ne sono consapevoli i discepoli, ma ne erano consapevoli anche gli antichi. Se i pagani fondavano molta parte del loro disprezzo sull'assenza dei cristiani ai sacrifici pubblici collettivi, da parte loro uno dei principi più rigorosi per i cristiani era proprio l'astenersi dalla partecipazione a questi sacrifici; era "tradire" il loro status, perdere la loro identità. Per entrambi, ma rivolgendosi ad un Dio diverso, e stando molti attenti a non confondersi, la scelta dei luoghi, dell'officiante, la liturgia correttamente svolta attestano che l'uomo ha compiuto la sua parte; ora aspettano, usando per tutti la felice espressione che Paolo attribuisce a Cristo nell'Ultima Cena, che "Dio venga" (I Cor. 11, 26), ovvero che faccia la sua parte, che risponda alle attese degli uomini.

Giunti a questo punto ci potremmo chiedere in cosa il cristianesimo si differenzia dal mondo pagano, anche andando al di là della semplice logica liturgica; abbiamo visto quanto sia presente l'eredità antica nei suoi comportamenti e nel significato che gli viene attribuito. Il cristianesimo non è estraneo alla cultura in cui è sorto e si è sviluppato; si è misurato con essa e in parte l'ha combattuta, ma ne ha anche assorbito gli elementi. In caso contrario sarebbe diventato un movimento non solo radicale, ma anche fanatico, come vediamo in alcune interpretazioni religiose nel Medio Oriente contemporaneo. Tuttavia ci sono anche differenze sostanziali. Notiamo subito un particolare importante: il rito antico chiede solo la presenza, non entra nella dimensione spirituale del partecipante. Il rito cristiano - erede di un annuncio che chiede un'adesione coinvolgente, non solo formale - esige anche la purezza del partecipante: nell'Ultima Cena Giuda viene allontanato [36]; non ci può essere confusione tra il fedele ed il traditore. A Milano Ambrogio allontana l'imperatore, che pure ha proclamato il cristianesimo religione di stato e ne sta garantendo la diffusione, per il massacro di cui s'è reso colpevole [37]. La comunione che unisce il "corpo dei cristiani" esige una moralità autentica ed intransigente; esserne parte è una scelta, ma della quale se ne deve pagare il prezzo; nel primo cristianesimo le penitenze, anche per colpe lievi, erano impressionanti [38].

Ma l'elemento più importante è chiaramente un altro: nel cristianesimo, e solo in esso, l'oggetto del sacrificio è anche il soggetto. Qui il Cristo si sacrifica; la funzione di mediatore con il divino che, come abbiamo visto, poteva coinvolgere la massima autorità dello Stato, ma restava sempre un atto indiretto, qui non è svolta da chi riceve la sacralità per e nell'atto che compie, ma da chi per sua natura è santo. Ed il sacrificio, nella forma cruenta che seguirà l'Ultima Cena, non ha più bisogno di essere rinnovato: è stato compiuto una volta per sempre. E non ha più neppure bisogno di essere interpretato: l'eucaristia è il lascito spirituale che Cristo affida ai suoi discepoli, ovvero la sua predicazione che si propone come Nuovo Testamento; e lo dice esplicitamente: la sua carne ed il suo sangue sono le sue parole, come dice espressamente l'esordio vertiginoso del vangelo di Giovanni: "In principio era il Verbo". Ed alla funzione religiosa cristiana non è più associato nessun rito divinatorio; non si cercano i segni, non si chiede la conoscenza del futuro [39]. Qui la divinità non è solo invocata, è presente, fissa le modalità ed i termini del rito; affida, da vivo, una memoria che dovrà essere ripetuta. Non c'è nulla di tutto ciò nel sacrificio pagano: non aveva una memoria da rinnovare, non un lascito etico da vivere. Si limitava a cercare il rapporto con la divinità nella sua correttezza formale. Si capisce ora perché il cristiano non potesse partecipare a sacrifici pagani dopo aver partecipato a quello cristiano. Dopo questo sacrificio personale di Cristo non è più necessario ripetere sacrifici; basta farne memoria, ed è giusto quello che Lui stesso raccomanda. Nella consapevolezza che ciò è stato fatto "per molti" , quindi ha un carattere pressoché universale, che garantisce per i tempi futuri della storia (conservate il "corpo" della mia dottrina di cui vi siete nutriti) e dell'eterno (consumerò di nuovo il frutto della vite nel regno del Padre) . In questo senso tornano in gioco due elementi che sembra che siano stati trascurati, quel "mangiare Dio" nell'eucaristia, di cui parlavo nel titolo, e quel "mangiare Dio" in senso interiore o spirituale che è la novità del cristianesimo. Ed in tutto ciò, il che non accadeva nei riti antichi, vengono coinvolti sia l'intelletto che l'azione, dunque le due componenti che maggiormente caratterizzano la vita dell'uomo.

 

 

Conferenza tenuta a Cassago Brianza in occasione della Settimana agostiniana il 3 sett. 2015

 

 

 

 

Note

 

(1) - Per quanto attiene alla storia delle religioni mi sono basato su: M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 2008; G. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Torino 1975; si tenga presente che la I ediz. delle 2 opere risale rispettivamente al 1948 e al 1933. Per quanto attiene i culti romani: M. Beard, J. North, S. Price, Religions of Rome I A History, Cambridge 1998; J. Scheid, La religion des Romains, Paris 1998; R. Turcan, Rome et ses dieux, Paris 1998. Sugli argomenti trattati, con esclusione del sacrificio ed attenzione all'iconografia ed alla cinematografia, vd. Luoghi dell'Infinito, 196, giugno 2015, 4-53, dal taglio giornalistico comunque preciso e stimolante.

(2) - J. Scheid, Religion des Romains, 72-73.

(3) - Sul Padre nostro vd. H. Leclercq, Oraison Dominicale, Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie XII, 1936, 2244-55; A. Solignac, Dictionnaire de Spiritualité (in seguito DS) XII1, 1984, 388-413 (lettura totalmente mistica); V. Luz, Vaterunser, Theologische Realenzyclopädie (in seguito TRE) XXIV, 2002, 504-12, particolarmente 509-10; sulla preghiera ed il suo sviluppo N. Philonenko, Le Notre Père: de la prière de Jésus à la prière des disciples, Paris 2001.

(4) - Sul giubileo R. Foreville, Jubilé, DS VIII, 1974, 1478-87, sopratutto 1478-80; A. Meinhold, Jubiljahr, TRE XVII, 1988, 280-81; P.F. Beatrice, Giubileo, Nuovo Dizionario patristico e di Antichità cristiane 20072, 2268-69.

(5) - Al riguardo R. Bultmann, Gesù, Brescia 19843, 82-86.

(6) - Mt 9, 14; Mc 2, 18; Lc 5, 33.

(7) - Act. 10, 10-15; 11, 2-9; Gal. 2, 12.

(8) - Act. 11, 2-3; 15, 1-11; Rm. 4, 9-12.

(9) - I Cor. 8, 7 - 10, 31: in questi capitoli viene trattato anche il problema degli alimenti frutto del sacrificio pagano, e la soluzione è incerta: è preferibile rifiutarli, ma Paolo accetta anche la scelta contraria; il principio che deve sempre guidare il cristiano è di non essere motivo di scandalo al commensale. Cfr. anche Act. 15, 19-29. Il principio del rifiuto intransigente fino al martirio è posteriore. Comunque lo possiamo dedurre già dal carteggio di Plinio con Traiano, Plin. epistulae, X, 96, 10 e dagli Atti del martirio di Agape, Irene e Chione 3, 1, che risalgono alla grande persecuzione dioclezianea; testo in: H. Musurillo (ed.), The Acts of the Christian Martyrs, Oxford 1972, num. 22, pg. 280-93.

(10) - Mt 26, 20-29; Mc 14, 17-25; Lc 22, 14-22; l'episodio ha uno sviluppo del tutto diverso in Gv; la prima testimonianza dell'istituzione dell'eucaristia si trova comunque in Paolo, I Cor. 11, 23-27.

(11) - Mt 14. 13-21; 15, 32-38; Mc 6, 31-44; 8, 1-9; Lc 9, 10-17; Gv 6, 1-13.

(12) - Mt 22, 1-14; Lc 14, 15-24; la cacciata del commensale non vestito in abito di nozze si trova solo in Matteo.

(13) - Mt 9, 14; Mc 2, 18; Lc 5, 33.

(14) - Mt 9, 10-11; 11, 19; Mc 2, 15-16; Lc 5, 29-30; 7, 34; 15, 2; 19, 7

(15) - Mt 12, 1-8; Mc 2, 23-28; Lc 6, 1-5.

(16) - Convivium, Pauly-Wissowa Realenzyclopädie (in seguito PWRE) IV1, 1201-8.

(17) - Symposion, PWRE IV A1, 1266-70; ibid. IVA2, 1273-82.

(18) - Sul sacrificio pagano vd. Scheid, Religion des Romains, 72-89 ; sull'argomento nelle religioni in genere Leeuw, Fenomenologia, 276-84; M. Eliade, Trattato, § 130-32 (dedicato sopratutto ai sacrifici umani); A. Gaudel, Sacrifice, Dictionnaire de Théologie Catholique XIV1, 1939, 662-92 (lettura cristiana).

(19) - Vd. M. Beard et alii, Religions of Rome, 80-84 ; R. Turcan, Rome et ses dieux, 55-56.

(20) - A. Caquot, La religione di Israele dalle origini alla cattività babilonese. Il giudaismo dalla cattività babilonese a Bar-Kokheba, in: Storia delle religioni (a cura di H.-C. Puech), vol. II 1, Roma-Bari 1976, 102-4; 120-21; 188-90; D. Hutchinson-Edgar, Les grandes institutions juives, in: Histoire du christianisme 14, 2001, 373-74.

(21) - Mt 21, 12-13; Mc 11, 15-17; Lc 19, 45-46; Gv 2, 13-16.

(22) - Vd. in merito G. G. Stroumsa, La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose nella tarda antichità, Torino 2006. Ivi anche la bibliografia anteriore.

(23) - Sulla cattiva fama vd. A. McGowan, Ascetic Eucharistics: food and drink in early Christian ritual meals, Oxford 1999, 224; sulla collocazione nell'ambito del tempio Leeuw. Fenomenologia, 186.

(24) - Con feroce ironia Tertulliano, Apologeticum XIV, 1; ID., Ad Nationes I, 10, 35.

(25) - Vd. M. Beard et alii, Religions of Rome I, 36-37. J. Scheid, Religion des Romains, 83-84.

(26) - Vd. J. Scheid, Religion des Romains, 94-105. Sul valore e la pratica della divinazione nelle popolazioni primitive : L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Torino 1975, 149-208 (I ediz. nel 1922).

(27) - Mt 24, 3; 36; Mc 13, 4; 32-33; Lc 21, 7; in quest'ultimo manca l'indicazione che il tempo è ignoto.

(28) - Vd. M. Beard et alii, Religions of Rome I, 245-312; R. Turcan, Rome et ses dieux, 157-228.

(29) - Vd. Lattanzio, De mortibus persecutorum X, 1-3.

(30) - Leeuw, Fenomenologia, 308-15; J. Scheid, Religion des Romains, 54-67; V. Saxer, Culte et liturgie, in: Histoire du christianisme 1, 2000, 438-42.

(31) - V. Saxer, Culte et liturgie, in: Histoire du christianisme 1, 2000, 467-84.

(32) - B. Pouderon, Les chrétiens et la culture antique, in: Histoire du christianisme I, 2000, 843-46 ; 868-78 (con la bibliografia anteriore). Su questo argomento molto dibattuto mi limito a rimandare a 2 classici riconosciuti : W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze 1974; A. Cameron, Christianity and the rhetoric of the empire: the development of Christian discourse, Oxford 1991.

(33) - M. Simon, Les sectes juives au temps de Jésus, Paris 1960, 117. A. Caquot, La religione di Israele. Il giudaismo dalla cattività babilonese, in: Storia delle religioni II, 1, 105-6 ; 116-18 ; 187-92; S. Safrai - M. Stern, The Jewish People in the First Century, Assen 1974, 580-612; 874-80 (sul sacerdozio entro il Tempio di Gerusalemme); D. Hutchinson-Edgar, Les grandes institutions juives, in: Histoire du christianisme 14, 2001, 372-75; L. Pietri, L'organisation d'une société cléricale, in: Histoire du christianisme 2, 1995, 557-83.

(34) - M. Beard et alii, Religions of Rome I, 18-30; 99-108; J. Scheid, Religion des Romains, 110-22; R. Turcan, Rome et ses dieux, 82-91.

(35) - Celso, Contro i cristiani, VIII, 21; 24; 28. M. Felix, Octavius 12, 5.

(36) - Mt 26, 20-29; Mc 14, 17-29; Lc 22, 19-23; solo in Gv 13, 21-30 il tradimento non si accompagna all'istituzione dell'eucaristia.

(37) - Si tratta del massacro di Tessalonica; l'episodio in Ambrogio, Epistulae extra collectionem 11.

(38) - C. Vogel, En rémission des péchés: recherches sur les systèmes pénitentiels dans l'Eglise latine, Aldershot 1984 (raccolta di saggi già pubblicati in precedenza).

(39) - Al contrario nel rito pagano era uno degli elementi costitutivi: M. Felix, Octavius 7, 1; vd. J. Scheid, Religion des Romains, 72-75; R. Turcan, Rome et ses dieux, 15-16.