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Caro spiritualis

Il relatore dott. Giuseppe Redaelli con Beretta Luigi

Il relatore dott. Giuseppe Redaelli con Beretta Luigi

 

 

 

Caro spiritalis, sed tamen caro.

Mistica femminile e comportamento alimentare nel Medioevo italiano.

di Giuseppe Redaelli

Cassago Brianza 2 settembre 2015

 

 

 

Introduzione

Chiara e le altre sue compagne vivevano nella più assoluta povertà e di ciò che veniva dato a lei per amor di Dio, o pane o qualcos'altro, S. Chiara voleva solo quanto le bastava appena per un pasto e dava ai poveri anche per amor di Dio tutto il resto e spesso anche ciò che era necessario per il suo vitto, sebbene lei stessa fosse poverissima. Testimoni suor Marina e suor Tomasa. Risponde la teste suor Tomasa [...] interrogata in quale povertà si trovavano le donne, disse che [...] a volte vide Chiara dare la sua parte [del pochissimo pane quotidiano assegnatole] a un'altra suora [...] ed essa rimaneva contenta di non avere voluto il pane, sebbene non avesse da mangiare nient'altro, tranne eventualmente delle erbe selvatiche che erano dentro il monastero [...] Disse anche [...] che vide più volte Chiara alzarsi dalla mensa senza avere toccato cibo e dare o mandare ai poveri, specie a quelli malati, tutta la sua porzione. In questa miseria e indigenza esortava le suore alla pazienza, celebrando la povertà in modo tale che si sentivano più sazie e più piene che se avessero avuto il solito cibo o anche molto di più. [1]

 

In occasione dell'Esposizione universale di Milano (Expo 2015), la Santa Sede ha creato un padiglione intitolato al motto evangelico di Matteo 4, 4: "Non di solo pane vive l'uomo...". Con la sua installazione, la Santa Sede intende ricordare il vero valore del cibo, contro gli eccessi e le disuguaglianze della società moderna; e insieme ricordare il valore della convivi alita quale movimento fondante di ogni comunità e momento di creazione e condivisione. Agostino d'Ippona, commentando il salmo 36, ri riferisce proprio a quel passo di Matteo e lega il cibarsi del pane all'ascolto della parola di Dio, all'interno di un processo di progressiva assimilazione e trasformazione:

 

Il pane è infatti la parola di Dio, che mai si allontana dalla bocca del giusto [...] Questo pane corporale lo mangi per un momento e lo lasci; ma quel pane che è la parola lo mangi giorno e notte. Infatti quando ascolti o leggi, mangi; quando poi rifletti rumini, essendo così un animale puro; non immondo. [...] Colui che ingoia, in modo cioè che non sia manifesto in lui ciò che ha mangiato, si dimentica di ciò che ha udito. Chi invece non se ne dimentica, riflette, e riflettendo, rumina, e ruminando si allieta. Perciò è detto: Il santo pensiero ti custodirà. Ed ecco, se la santa meditazione ti custodisce nel ruminare questo pane: mai hai visto il giusto abbandonato né la sua prole mendicare il pane.  [2]

 

L'ascolto della parola di Cristo è dunque interpretato come un cibarsi - e la parola è vista come alimento, nutrimento dell'anima. Per questo la parola, spiega il vescovo d'Ippona, non va ascoltata velocemente, quasi la si inghiotta intera; va invece meditata con attenzione, con un processo di lenta riflessione che l'assimila e la rende parte dell'individuo. Chi compie questo processo è giusto e il suo pensiero è santo. Tuttavia, sostiene Agostino, non tutti sono in grado di comprendere in modo immediato e diretto la voce di Dio. Nella presente condizione umana, decaduta e fragile, l'individuo è anzi incapace di nutrirsi del "pane celeste". Per questo motivo, come la madre nutre il piccolo assimilando gli alimenti per lui e trasformandoli in un latte che può digerire e che lo faccia pian piano crescere, finché, divenuto adulto, non riesca a nutrirsi di cibo solido; così, attraverso l'incarnazione, Cristo si è fatto corpo e pane, di cui si nutre il cristiano nel suo percorso verso l'eternità di Dio:

Sarai la mia guida, affinché io non mi allontani da te; e mi nutrirai, in modo che sia in grado di mangiare il pane con cui nutri gli angeli. Con il latte infatti ci ha nutriti Colui che ci ha promesso il cibo celeste, e ha usato con noi materna misericordia. Come la madre che allatta ingerisce nel suo corpo il cibo, che il fanciullo non è in grado di mangiare, e glielo porge convertito in latte (infatti il pargolo riceve ciò che avrebbe avuto a mensa, ma reso adatto a lui traverso il corpo della madre), così il Signore per convertire la sua Sapienza in latte per noi, è venuto a noi rivestito di carne. Parla dunque il corpo di Cristo, dicendo: e mi nutrirai. [3]

Quando il vescovo d'Ippona pronunciava i suoi discorsi di commento ai Salmi, le sue parole dovevano suonare insieme nuove e abituali al suo uditorio. Le immagini del nutrimento, dell'alimentarsi, del convenire attorno a un tavolo per condividere il pasto occupano infatti un ruolo centrale nel cristianesimo antico, fin dagli scritti del Nuovo Testamento.

Nei vangeli, per esempio, Gesù è spesso raffigurato mentre prende parte a banchetti e pasti comunitari - e anzi proprio durante tali momenti conviviali egli compie gesti e pronuncia discorsi fondanti la nuova comunità cristiana. E lo stesso san Paolo mostra di prendere molto sul serio il comportamento dei cristiani di Corinto ai banchetti comunitari con cui si celebra il giorno del Signore. [4] Nella seconda metà degli anni 1980, i due studi, pur estremamente distanti tra loro, di Rudolph Bell [5] e Caroline Walker Bynum [6] ebbero il merito di portare all'attenzione degli studiosi l'importanza che il comportamento alimentare - e in modo particolare la rinuncia al cibo e la devozione eucaristica - rivestono nella rappresentazione della mistica e della santità femminile medievale, e in modo particolare (ma non solo) del cosiddetto Basso Medioevo. Questo breve studio intende cercare una comprensione del fenomeno collocandolo in due contesti che gli sono propri nel senso più vero del termine: da un lato, nello studio del valore del cibo nell'epoca in cui quelle donne vissero la propria religiosità; dall'altro, inserendo il vissuto - o la rappresentazione del vissuto, dell'esperienza di trasformazione mistica all'interno dell'antropologia e della riflessione eucaristica di Agostino d'Ippona, il cui pensiero costituisce una delle radici - forse la più importante - del cristianesimo "occidentale", della Chiesa Cattolica come di ogni denominazione protestante.

 

 

Agostino: l'uomo lacerato e il corpo risorto

Pur nella varietà di concezioni filosofiche, teologiche e scientifiche, che la cultura medievale seppe produrre, il terreno su cui per più di un millennio si fondò la sua riflessione antropologica fu in sostanza unitario. Un solo autore, posto sul confine fra "cultura antica" e "medioevo cristiano", completò, da un lato, la disgregazione di quella biblioteca di auctoritates che avevano formato l'unità culturale del mondo antico [7]; dall'altro, attraverso numerosi scritti che godettero di grande e durevole fortuna, propose se stesso come auctoritas indiscussa. Anche con l'allargarsi dell'orizzonte culturale europeo, con la comparsa, prima in latino, poi nel rispettivo volgare, di nuovi autori, con la riscoperta di antiche opere a lungo dimenticate, con il differenziarsi delle scuole e delle correnti culturali, il suo pensiero continuò ad essere studiato, meditato, affermato, all'occorrenza combattuto o difeso. Anche se, in altri contesti culturali, altre immagini dell'uomo e del suo corpo si affermarono, questa specifica immagine, riconducibile ad un solo autore, continuò a costituire lo sfondo delle omelie dei grandi predicatori e delle guide spirituali. In quella veste, dunque, dovette giungere all'orecchio di donne e uomini che ne fecero lo sfondo, a volte inconscio o irriflesso, della loro esperienza religiosa. Questo sfondo, per quasi mille anni, fu formato dall'antropologia elaborata da Agostino, vescovo d'Ippona. Prima ancora di studiare il vissuto delle sante e delle mistiche medievali, è quindi opportuno rivolgersi all'opera del vescovo d'Ippona, per comprendere su quale humus tale vissuto affondi le proprie radici. La riflessione agostiniana sulla natura umana muove, in primo luogo, da un suo vissuto, da una sua esperienza, in modo profondo sentita e meditata: la debolezza della volontà umana, paralizzata di fronte alla scelta della salvezza. Contro la predicazione di un Pelagio, che voleva l'essere umano capace, con le sue sole forze, di vincere gli effetti del peccato e di raggiungere la salvezza seguendo l'esempio di Cristo, Agostino aveva osservato e sperimentato dentro di sé quella debolezza intrinseca della volontà, che fa sì che ogni sforzo dell'uomo teso a perfezionarsi nella vita cristiana, senza alcun aiuto divino, sia impossibile - ed anzi ne era stato profondamente travagliato. Quando, trentenne, dopo aver finalmente rettificato la sua conoscenza riguardo a Dio e alle verità propugnate dal cristianesimo, aveva ardentemente voluto abbracciare uno stile di vita cristiano, si era accorto di non poter realizzare quel desiderio. Voleva conformare il suo stile di vita ai suoi pensieri, certo; eppure, contemporaneamente, non voleva; voleva liberarsi della brama delle cose di questo mondo, e tuttavia se la teneva stretta; chiedeva a Dio di esserne liberato, "ma non ora" [8]. Anzi, preso dall'angoscia, gli era più facile far sì che quel suo corpo, che pure i suoi amati "platonici" dicevano tanto indocile e "pesante", obbedisse ai comandi della volontà, piuttosto che la volontà obbedisse a se stessa [9]. Nei gesti fisici, infatti, la volontà di compiere il movimento e il movimento da eseguire devono essere distinti; così, invece, non accade per i movimenti della volontà, laddove il movente e il mosso coincidono:

Compii dunque molti gesti in cui il volere non implicava il potere: e invece non facevo ciò che senza confronto mi piaceva di più, che diventava possibile nell'atto stesso in cui volevo, perché il volerlo realmente significava il volerlo efficacemente. Nel mio caso, potere e volere erano una stessa cosa; l'atto stesso della volontà segnava il principio dell'azione: e ciò nonostante nulla avveniva, ed il corpo più prontamente rispondeva ad un filo di volontà dell'anima, movendosi al cenno di questa, che non l'anima obbedisse a se stessa nell'attuazione di un suo solenne volere, per mezzo della sola volontà [10].

Che vi sia una separazione fra corpo e volontà, per cui il movimento del corpo segue quello della volontà, pareva insomma ad Agostino cosa ovvia, e collimava, in fondo, con quanto aveva derivato dalle sue letture di filosofia; che, poi, ci fosse una certa resistenza del corpo all'anima, anche questo era comunemente riconosciuto: gli esercizi dell'ascesi avevano appunto lo scopo di piegare il corpo di modo che fosse docile al volere dell'anima. Quello che, tuttavia, Agostino doveva, per esperienza personale, constatare stupito, era che proprio la volontà, deputata al comando, alla direzione delle membra, opponesse resistenza a se stessa, nell'atto stesso del volere, molto più di quanto non facesse il corpo. In se stessa, la volontà si presentava, agli occhi di Agostino, spezzata, frantumata, minata nella sua unità e perciò debole di fronte a se stessa.

La volontà riesce a muovere le membra, di modo che esprimano i moti interiori dell'angoscia, molto più di quanto non riesca a muovere se stessa: per ora bisogna assumerlo come un dato di fatto. Questo, comprende Agostino, accade perché tutti quei gesti sono diventati abituali attraverso la ripetizione, nel corso di una vita intera: l'abitudine agevola l'inclinazione della volontà, e, viceversa, il movimento della volontà è facilitato in ciò che è abituale. Per volere, invece, ciò che abituale non è, la volontà è costretta a comandare a se stessa. Ecco allora che, da un lato, rimane la volontà rivolta a quegli atti che, da tempo, si sono consolidati in abitudine; dall'altro, la nuova volontà (se si vuole, in termini moderni, il nuovo desiderio) cerca di creare una nuova inclinazione. Così, la volontà si ritrova doppiamente divisa in se stessa: alla volontà legata all'abitudine si contrappone la nuova volontà, che cerca di non scivolare nel solito e di affermare e consolidare il nuovo desiderio, di modo che diventi esso stesso abitudine; e nel contempo, la volontà, nel comandare a se stessa, si scinde in una volontà che comanda, e in una volontà cui si comanda:

Il fatto è che [sott. La volontà] non vuole in modo assoluto; quindi non comanda in modo assoluto. Comanda per quel tanto che vuole, e non è obbedita per quel tanto che non vuole; poiché la volontà comanda un atto volitivo, ma non uno qualunque, bensì quello corrispondente ad essa stessa: cioè, non comanda, in tutta la sua pienezza; perciò l'esecuzione le manca. [...] è debolezza dell'anima che non sa sollevarsi del tutto, spinta in alto dalla verità, gravata in basso dall'abitudine.

Due sono perciò le volontà, entrambe incomplete: l'una ha quello che manca all'altra [11].

All'intuizione e all'esperienza, nata dall'introspezione, la volontà dell'uomo si rivela non unitaria, ma scissa; non forte e salda e libera, ma indebolita e incatenata ed estenuata dal continuo combattimento contro se stessa. Sembrerebbe qui di dover dare ragione ai Manichei, che sostengono la presenza, nell'individuo, di due anime. Tuttavia, ribatte Agostino, è uno solo l'uomo, una sola l'anima - ma la scissione, che fin dal principio l'introspezione aveva rivelato, rimane. Agostino si chiede che cosa abbia minato la natura umana, rendendola a tal punto scissa in se stessa. Di certo, un Dio buono non avrebbe potuto crearla così malamente sofferente e claudicante. La stessa volontà, grazie alla cui libertà possiamo peccare, deve essere considerata un bene, non un male: certo, se non avessimo una volontà libera, eviteremmo il peccato e faremmo sempre il bene, ma non vi sarebbe merito alcuno nelle nostre azioni, e, in definitiva, non commetteremmo alcun bene, stante quanto sopra si è detto del peccato e della colpa [12].

Nel momento in cui aveva abbracciato la fede cristiana, Agostino aveva trovato una risposta a questo quesito nel libro della Genesi, laddove si narra della creazione dell'uomo e del peccato originale. Ma era una risposta che andava attentamente studiata, vagliata, esaminata, interpretata rettamente, per evitare che recasse a posizioni come quelle pelagiane o manichee [13]. Nel racconto biblico, Agostino legge che l'uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio - ma resta da chiarire il significato dell'espressione "ad immagine e somiglianza". Uomo e Dio, secondo questa definizione, sono uniti da un rapporto di conoscenza speculare: se è immagine di Dio, esaminando se stesso l'uomo può arrivare ad una qualche conoscenza del suo creatore, e, viceversa, contemplando Dio, saprà sempre di più su se stesso.

Ma che cosa sa l'uomo di se stesso? Secondo gli scettici dell'Accademia Media, che per un certo tempo Agostino aveva seguito, nessuna conoscenza certa è possibile, ed è dunque opportuno dubitare di tutto. Confutandoli, tuttavia, Agostino aveva riconosciuto che, pur potendo dubitare di tutto, anche del dubitare stesso, io che dubito devo pur essere qualcosa: se non esistessi, neppure potrei dubitare. L'esistenza deve dunque essere alla base del dubbio [14]. Tuttavia, è possibile enunciare questa proposizione, "io esisto", perché la si è pensata, e lo stesso dubitare è un modalità del pensiero; se, poi, Agostino non avesse desiderato cercare la verità, non avrebbe certo dubitato, né pensato. Dunque, "Io esisto, so, voglio: sono sciente e volente; so di esistere e di volere; voglio esistere e sapere". All'intuizione dell'uomo si presentano, perciò, tre caratteristiche fondamentali, tre principi del suo essere uomo: l'esistenza, il pensiero e la volontà. Questi tre principi sono nell'uomo distinti, ma solo la loro compresenza e compenetrazione fanno l'uomo come intero [15]. "Veda chi può, scrive Agostino, come in queste tre cose ci sia una vita inseparabile, un'unica vita, un'unica mente, un'unica essenza, e come la distinzione sia inseparabile, e tuttavia ci sia" [16]. Se poi rivolge verso di sé il proprio pensiero, l'uomo scopre al proprio interno la conoscenza, come conoscenza di un oggetto a lui presente (notitia) e ricordo di un oggetto incontrato nel passato (memoria); ma, poiché la conoscenza [17] è un atto della volontà, cioè un tendere a possedere ciò che ancora non si possiede (notitia), o a conservare quello si possiede già (memoria); e poiché, come già si è visto, si desidera solo ciò che è ritenuto degno d'essere desiderato, cioè solo ciò che è buono, e che perciò si ama; ne segue che l'amore è la molla che spinge il pensiero verso l'oggetto da conoscere; e allora il pensiero dell'uomo rivolto su se stesso si scopre pensiero, conoscenza e amore. "Così queste tre cose sono in modo mirabile inseparabili tra loro, e tuttavia ognuna di esse considerata a parte, è sostanza, ancorché si dicano in mutua relazione" [18].

La fede cristiana predica l'esistenza di un Dio che sia, contemporaneamente, Uno e Trino. Attraverso l'introspezione, è proprio della trinità divina che l'uomo ha ritrovato dentro di sé, cioè nella sua anima, l'immagine: in quanto dunque possiede queste tre facoltà, pensiero, conoscenza e amore, l'uomo porta in sé l'immagine di Dio.

Se procede nell'osservazione, tuttavia, l'uomo si scopre ben presto un essere composito: "Siamo composti di anima e corpo" [19]. L'introspezione aveva portato lo sguardo dell'uomo al suo interno, dove si era ritrovata l'immagine della trinità divina. In quanto interno, tuttavia, l'animo umano doveva, per forza di cose, rimandare ad un esterno, in base al quale venisse riconosciuta la sua interiorità: [20] il corpo.

Questo corpo, poi, in quanto corpo dell'uomo che si interroga su di sé, viene osservato sotto un duplice aspetto. Per prima cosa, il corpo è un oggetto esterno, che, al pari di qualsiasi oggetto materiale, si presenta alle porte dei sensi, può essere visto, toccato, percepito. Dall'osservazione del corpo, tuttavia, dalla perfezione e dall'ordine delle sue membra, come dalla contemplazione di tutta la natura creata, è possibile conoscere qualcosa di Dio: interrogate sul Dio che non sono, le cose del mondo attestano che Dio le ha create [21]. Per questo motivo, osservare il corpo come creatura parla dell'uomo come creatura, e ricorda che, benché creato ad immagine e somiglianza di Dio, l'uomo non è stato creato uguale a Dio. Come tutto il Creato è fatto di corpi materiali, così anche l'uomo, creatura di Dio, è fatto di un corpo vivificato da un'anima. E come le creature materiali sono state tratte dal nulla, così anche l'uomo: vi è perciò in lui tanto bene quanto essere gli deriva da Dio, ma di per sé, lontano da Dio, e di conseguenza dall'essere, l'uomo è puro nulla. Il corpo, tuttavia, non è per l'uomo solo un oggetto che percepisce, fra i tanti che lo circondano: è, invece, anche quell'oggetto particolare che lui stesso è, che lo individua, che lo colloca all'interno della Creazione, ma attraverso il quale, per mezzo del quale, nel quale lui vive. Seguendo quei filosofi "platonici", la cui lettura era stata determinante nella sua conversione, Agostino sostiene a chiare lettere che l'uomo è un'anima che si serve di un corpo. Il corpo, tuttavia, non è un male: è invece natura, creata da Dio, e, in quanto tale, è bene, perché, come si è detto sopra, Dio è sommamente buono [22].

L'introspezione attenta, tuttavia, rivela un'incongruenza, una macchia nel tessuto bianco della teoria della bontà del creato: se il corpo è buono, come giustificare quegli appetiti, quei desideri corporei che, nella migliore delle ipotesi, trascinano l'uomo nel sudiciume del peccato? La volontà ha finalmente deciso di fuggire la lussuria; e tuttavia ritornano, fantasmi di una consistenza quasi fisica, i ricordi dei piaceri goduti, ed anzi, quando sembra che lo spirito vigile abbia vinto definitivamente anche questi, ecco che ritornano nel sonno, quando la memoria del corpo tradisce le decisioni della volontà, e trascina indietro, lungo il sentiero abbandonato, più di quanto non riuscirebbe a fare di giorno; e spesso, il riposo notturno diventa esso stesso campo di battaglia fra virtù e vizio [23]. La stessa volontà, guidata dalla retta conoscenza, ha riconosciuto come beni inferiori i cibi gustosi, le melodie armoniose, i profumi inebrianti, i begli oggetti e i bei corpi e i bei volti: tutti beni, perché da Dio, ma non sommo bene, perché non Dio, e perciò da usare come mezzi, non da godere come fini; eppure, ancora e ancora, la loro bellezza porta a considerarli beni in sé, e a perdersi nel loro godimento [24]. Quando Agostino aveva avvertita la propria volontà lacerata, ribelle, gran parte di quella lacerazione era venuta proprio dalle abitudini che aveva contratte vivendo nel e con il proprio corpo, assecondandone i desideri: voleva conservarsi integro per l'amore, ma la lussuria l'aveva costretto a cercarsi una compagna, in attesa del matrimonio; avrebbe voluto dedicarsi agli studi, ma l'ambizione e la carriera lo avevano trascinato nel vortice dei favori e nella corsa alle cariche ...

L'osservazione del corpo come oggetto fra gli altri oggetti, poi, rivelava la sua mutabilità, la sua debolezza, la sua fragilità, la sua inconsistenza, la sua mortalità: qualità negative condivise da tutti gli uomini di cui Agostino avesse esperienza. Una condizione tanto misera non poteva certo essere stata creata da un Dio che si voleva sommo bene; ad un primo esame, sembrava proprio che i manichei avessero avuto ragione, postulando una realtà delle Tenebre accanto al Dio buono. Confutati i manichei, tuttavia, rimaneva pur sempre il corpo, anzi tutta la persoerata e scissa in se stessa, anima contro corpo, volontà contro abitudine e volontà contro volontà, piacere contro ragione, amore contro lussuria.

Si era detto che l'uomo era stato creato ad immagine e somiglianza del suo Creatore - ma di certo non si poteva attribuire al Creatore di essere così scisso e mutevole quale era l'uomo. Anzi, ricorda Agostino nelle Confessioni, Dio non muta [25]: quando vuole, conosce e pensa [26]. In Dio non c'è scissione né lotta della volontà, né fra la volontà e il sapere e il pensiero, ma ogni cosa che pensa, la conosce e la sa e la vuole con lo stesso atto; se fosse altrimenti, se vi fosse cioè in Dio una successione di atti del pensiero, Dio sarebbe all'interno del mutare che il tempo porta con sé, e perciò non sarebbe più eterno, ma rientrerebbe Egli stesso nel Creato [27]. Dunque Dio, pur Trinità, deve essere nella sua sostanza uno, e nessuna scissione si può trovare in Dio. Ammessa tuttavia la bontà di Dio, donde veniva quella scissione dell'uomo, con il suo carico di sofferenza, di morte, di male? [28]

La risposta giunse ad Agostino da quello stesso racconto del Genesi, da cui aveva tratto la dottrina dell'immagine e della somiglianza, sotto la forma del mito della Caduta e del peccato originale [29]. Dio, sostiene Agostino, ha veramente creato l'uomo a Sua immagine e somiglianza, lasciando nella sua anima l'impronta della trinità e costituendo il suo corpo uno e indivisibile. Dio ha infatti posto, all'interno della materia, una forma rationalis, che, causa e principio immanente delle forme che vediamo nei corpi, si sviluppa concretamente [30] tramite la materia e attraverso la materia, fino a formare il corpo:

Vi è infatti una forma esterna di cui viene rivestita esteriormente la materia corporea: così fanno i vasai, i fabbri e quegli artefici che dipingono o scolpiscono immagini riproducenti corpi di animali. Ma vi è anche un'altra forma, la cui efficienza causale è interiore, proveniente dalla segreta e misteriosa volontà di una natura intelligente la quale, senza essere fatta, produce le forme naturali dei corpi e le anime stesse dei viventi. La prima forma si addice a tutti gli artefici; ma la seconda non si deve attribuire che all'unico artefice, il Dio creatore, il quale creò il mondo e gli angeli senza aver bisogno di alcun mondo, né di alcun angelo. Da questa stessa potenza divina, la quale fa tutto senza essere fatta, ricevette la sua forma la rotondità del cielo e del sole quando venne creato il mondo; e ricevette pure la sua forma la rotondità dell'occhio e quella del pomo e ogni altra figura naturale che vediamo non essere data dall'esterno agli esseri che nascono, ma dall'intima potenza del Creatore [...] La sua potenza segreta penetra ogni cosa con la sua presenza incontaminabile, facendo esistere tutto ciò che in qualunque modo è, e nella misura in cui è. Poiché senza l'azione di Dio questo essere non sarebbe né questo né quello, anzi non potrebbe semplicemente essere [31].

Il corpo dell'uomo è stato costituito da Dio animale e mortale: animale, perché per vivere deve ricevere nutrimento, e partecipa in questo della natura delle creature viventi; mortale, perché, in quanto creatura soggetta, come tutte le creature, alle leggi della creazione, muta con il mutare del tempo, nasce, cresce, e muore. Nel disegno originario di Dio, tuttavia, questo corpo doveva essere solo mortale, non morituro: doveva cioè avere in sé la possibilità della morte, in quanto animale, ma non era destinato alla morte. Posto dalla mano di Dio nel giardino dell'Eden, l'uomo avrebbe potuto sostentare il suo corpo nutrendosi dei frutti degli alberi che la sapienza divina aveva messi a sua disposizione. Mortale, mirabili Dei gratia era immortale, e la sua immortalità era quella stabilitas aetatis (eterna giovinezza e vigore stabile) che gli veniva dal cibarsi del frutto dell'albero della vita. Questo suo corpo era perciò, contemporaneamente, mortale e immortale: mortale a causa della sua natura animale (conditione corporis animalis), immortale per dono gratuito di Dio (beneficio Conditoris) [32]. A causa di ciò, l'immortalità di cui l'uomo godeva al momento della creazione non era data dall'impossibilità di morire, ma dalla possibilità di non morire [33].

A quel corpo animale, formato col fango della terra [34], mantenuto immortale dalla grazia divina, era stata insufflata, all'atto della creazione, un'anima, ad un tempo principio vitale e razionale. La parte più alta di quest'anima, la mens, comprende in sé ratio [35], la ragione argomentativa e ordinatrice, ed intelligentia, la capacità di penetrare nel cuore delle cose e di comprenderne l'essenza. Tramite l'intelligenza donata loro da Dio, i progenitori potevano perciò contemplare le verità eterne e i beni, e Dio, sommo bene. Perché potessero poi agire e vivere e crescere e prosperare, Dio diede loro la volontà, che, a sua volta, esige la libertà, perché un'azione possa dirsi meritoria [36].

Molteplice come era per sua natura, Adamo era tuttavia un essere unitario: la sua ratio, infatti, principio ordinatore e regolatore all'interno dell'anima, raccoglieva armoniosamente sotto di sé il corpo, con i suoi desideri e l'anima, con le sue funzioni, e la volontà, con la sua capacità di azione libera, affinché agissero come un tutt'uno [37]. In questo modo, al momento della loro creazione, gli esseri umani erano davvero fatti a immagine e somiglianza del Creatore: molteplici ma armonicamente coordinati e regolati, ogni loro azione era un singolo movimento che fluiva ordinatamente attraverso le facoltà dell'anima e si concludeva con il moto del corpo, senza discrepanza, senza scissione, senza lotta. Mortali per natura, immortali gratia Dei, i progenitori avevano nella comunione con il Sommo Bene la possibilità della felicità eterna. La volontà, creata pienamente integra e perfettamente libera, doveva solo seguire ciò che l'intelligenza le suggeriva fosse volontà del Creatore. Nell'uniformarsi alla volontà di Dio stava la vera felicità e la promessa di immortalità.

Proprio perché era libero, tuttavia, l'uomo scelse di distogliersi dalla contemplazione divina e di rivolgersi verso beni minori. Fatto a immagine e somiglianza di Dio, volle essere come Dio, e mangiò così di quell'unico frutto del Paradiso terrestre che gli era stato proibito. Dio aveva creato l'uomo infondendo il suo essere al nulla - per questo motivo, l'uomo era composto di essere e di nulla, di essere, in quanto da Dio, di nulla, in quanto creato dal nulla, e non dalla sostanza di Dio. In quanto creatura, l'uomo rimanda al Creatore: perciò, amando se stesso in quanto creatura, Adamo amava in sé l'essere di Dio. Amarsi in sé, tuttavia, significa amarsi non in quanto da Dio, e quindi essere, ma in quanto nulla. A sua volta, tuttavia, a causa della potenza assimilativa dell'amore, amare il nulla significa assimilarsi al nulla, diventare il nulla. L'uomo poteva già mutare e corrompersi e morire, prima del peccato, perché era "dal nulla". Nell'Eden, solo la grazia di Dio lo teneva nell'essere, e l'uomo, con il suo amore, tendeva all'assimilazione con Dio. Con il peccato, distolto da Dio il proprio sguardo, l'uomo ha iniziato quella corsa verso la morte, cioè verso l'annullamento, già insita nella sua natura, ma che l'essere di Dio impediva [38].

Il peccato di Adamo è duplice. Da un lato, è un peccato di superbia: l'uomo, creato perché fosse libero ed immortale nella conformità alla volontà divina, vuole farsi uguale a Dio e sostituirsi a lui, fruendo di quei beni che gli erano stati dati in uso per un fine più alto; dall'altro, quel primo peccato era peccato di disubbidienza dell'uomo a Dio, che aveva ordinato espressamente alla sua creatura di non cibarsi del frutto dell'albero del bene e del male. Per questo, duplice sarà anche la punizione inferta da Dio all'uomo per la sua trasgressione: effetto del peccato saranno infatti mortalitas e disruptio ordinis.

Poiché si era distolto da quella volontà divina, che sola, con la sua grazia, gli donava l'immortalità, Adamo non diventa davvero mortale (già lo era), ma morituro: nel momento in cui si distacca dalla fonte della sua vita, inizia una veloce corsa verso il decadimento e la morte (mortalitas) [39]. Compagne di questa corsa saranno la corruptio, vale a dire il graduale declinare delle funzioni del corpo, donde la vecchiaia, e la fragilitas, la debolezza intrinseca del corpo materiale di fronte alla malattia, al dolore, alla sofferenza. Perduto il vigore della giovinezza eterna, il corpo dei nostri progenitori cominciò a disfarsi e a morire [40].

Inoltre, poiché con quell'atto del libero arbitrio, con il quale avevano peccato, Adamo ed Eva avevano disubbidito al loro Creatore, ecco che il loro corpo iniziò a disubbidire loro. Se l'atto con cui avevano peccato aveva lacerato l'unità fra la loro volontà e la volontà divina, la pena per quel peccato fu la lacerazione della concordia fra l'uomo e il cosmo, fra l'uomo e la donna, e il sorgere della discordia e della divisione perfino fra l'anima e il corpo dell'uomo, ed anzi fin dentro le facoltà dell'anima.

Quella concupiscenza, o desiderio, appetito e volontà, che, prima della caduta, era regolata dalla ratio, cui era assoggettata, si era sollevata, dopo il peccato e in conseguenza di esso, contro quella stessa ratio, portando il disordine all'interno dell'anima ed indebolendo l'uomo.

Ad illustrare questo, Agostino osserva [41] che, prima del peccato, i progenitori non trovavano alcun motivo di vergogna nella loro nudità: erano, infatti, giusti e perfetti, rivestiti della grazia e dunque tutto il loro essere era perfettamente ordinato sotto il dominio della ratio; in seguito alla divisione ed al disordine causati dal peccato, scoprirono che il loro corpo si ribellava al loro volere, e questo fu per loro causa di vergogna [42]. Quando Dio aveva ammonito Adamo, riguardo al frutto dell'albero del bene e del male, "Nel giorno in cui ne mangerete, ne morrete (Gen 2,17), [...] in quella sola morte sono designate tutte le altre che senza dubbio sarebbero seguite" [43], cioè la morte fisica, con la dolorosa separazione dell'anima dal corpo e la morte dell'anima, conseguenza del suo allontanarsi da Dio, e la morte di entrambe, conseguenza della dannazione eterna. Nell'istante in cui sorse un movimento ribelle nella carne dell'anima obbediente, movimento che li indusse a coprire le parti intime, i genitori colpevoli sentirono già l'unica morte, quella in cui Dio abbandona l'anima. Questa morte venne significata dalle parole rivolte da Dio all'uomo che s'era nascosto per stolto timore: Adamo, dove sei? [Gn 3, 9]. Dio lo cercava, non perché ignorasse il luogo dov'era, ma per portarlo a considerare, con il rimprovero, che stava in un luogo dove Dio non era. Quando poi anche l'anima abbandonò il corpo, corrotto dal tempo e sfinito dalla vecchiaia, l'uomo sperimentò l'altra morte, quella che Dio gli aveva inferto dopo il peccato, dicendo: Tu sei terra e in terra ritornerai [Gn 3, 19]. Queste due morti insieme completano la prima morte, ossia la morte di tutto l'uomo; ad essa seguirà, alla fine dei tempi, la seconda morte, se l'uomo non ne viene liberato per la grazia. E il corpo, che è terra, non potrebbe far ritorno alla terra, se non mediante la morte che lo colpisce quando viene abbandonato dalla sua vita, cioè dall'anima [44].

Dall'insubordinazione della concupiscenza alla ragione, poi, e dalla conseguente divisione dell'uomo al proprio interno, e dalla rottura di quell'ordine armonico garantito in Adamo quando era in comunione con Dio, erano sorti la debolezza e il languore dell'anima, la sua infermità nei confronti della virtù:

A causa del peccato, è venuto meno il vigore interiore della mente, frutto della grazia presente nel primo uomo, che importava, non l'assenza del piacere, ma il dominio della ragione. La mancanza di questo vigore ha fatto cessare la felice corrispondenza tra piacere e dovere che c'era in Adamo prima del peccato, e che ci fu in Cristo, il quale quidquid concupivit, licuit, quidquid non licuit, non concupivit; a questo ideale deve tendere l'uomo con l'ascesi e la purificazione [45].

Al momento della creazione, sostiene Agostino, Dio non aveva creato subito tutte le generazioni che si sarebbero succedute nel flusso del tempo; le aveva, invece, poste come semi nei progenitori (rationes seminales), perché, quando fosse giunto il loro tempo, si sviluppassero secondo quell'ordine ed armonia voluti dalla divina ratio [46]. Peccando Adamo, avevano peccato con lui tutte le generazioni che gli sarebbero succedute. Così, anche se individualmente l'uomo non ha peccato, ha peccato comunque in Adamo, e riceve per questo la pena del peccato di Adamo: in questo modo si spiegano le parole di paolo, Rm 5, 12: "... per unum hominem peccatum intravit in hunc mundum et per peccatum mors ...".

Una volontà così minata alla sua stessa radice dalla concupiscenza corrotta, come Agostino aveva incontrata dentro di sé e trovata nella narrazione biblica, di certo non sarebbe stata, da sola, abbastanza forte per procurare la salvezza eterna. Il distacco da Dio era stato tale, il danno causato dal peccato originale tanto grande, che l'uomo, ormai miserrima creatura, non avrebbe mai potuto salvarsi con le sue sole forze.

Perché l'uomo si salvasse, incalza Agostino, occorreva che Dio stesso lo aiutasse, mandando il suo Verbo ad incarnare la fragilitas e la mortalitas di un corpo umano. E questo, non solo per fornire all'uomo un esempio da imitare, come pure i pelagiani sostenevano, ma anche per donargli quella grazia che lo avrebbe mondato dal peccato. Così, Agostino formulava la dottrina della doppia solidarietà, filo conduttore della storia del genere umano: come tutti gli uomini erano per natura solidali con Adamo, così tutti erano per grazia uno con Cristo: la grazia di Cristo purificava dal peccato tutti gli uomini, come la colpa di Adamo tutti li aveva condannati [47]. Con il peccato e la caduta, l'immagine di Dio, impressa nell'anima dell'uomo, era certo rimasta, ma come corrotta e incrostata e indebolita e piagata; l'azione della grazia, viceversa, la monda, la purifica, la ristora [48]. L'azione della grazia di Dio in questo mondo, tuttavia, non è istantanea, ma progressiva. Attraverso il battesimo, l'uomo è mondato dal peccato, ma solo nel senso che la colpa gli viene perdonata; la pena, invece, rimane, nella forma duplice della mortalitas e dell'infirmitas. Dopo il battesimo, l'uomo è ancora travagliato dal disordine della concupiscenza, anche se ora, con l'aiuto della grazia divina, può maggiormente tenerla a freno; ma la lotta con la concupiscenza è una costante di tutta la vita dell'uomo, che proprio tramite gli strumenti dell'ascesi, del continuo controllo sul corpo e della continua tensione dello spirito combatte, fino al giorno della morte fisica e del tanto agognato riposo in Dio [49].

Attraverso la cooperazione della grazia purificatrice e dello sforzo ascetico dell'uomo, inizia a verificarsi una lenta trasformazione dell'individuo, verso la piena unione con la giustizia divina; unione tuttavia che, in quanto realizzata tramite l'amore, è anche assimilazione a Dio, e quindi deificazione, secondo quel duplice movimento di Dio verso l'uomo e dell'uomo verso Dio di cui sopra si è già detto. La piena trasformazione, tuttavia, la piena spiritualizzazione avverrà solo dopo la resurrezione dai morti, nell'ultimo giorno.

Dopo la morte, l'anima dei giusti riposa nella speranza della risurrezione di quei corpi "nei quali hanno sofferto tanto, e nei quali non soffriranno più" [50]. Al momento della risurrezione, infatti, la loro carne sarà ricostituita carne spirituale, assoggettata allo spirito. Questo nuovo corpo spirituale, identico nelle sue perfezioni a quello che si possedeva durante la vita mortale, ma mondato dalle sue imperfezioni, non soffrirà più né dolore, né malattia, né vecchiaia o morte - come Adamo quando, prima del peccato, si nutriva del frutto dell'albero della vita, e come sarebbe stato per tutti gli uomini, se Adamo non avesse peccato.

A differenza del corpo dei progenitori, mortale per natura, immortale per grazia, che aveva necessità di protezione e di nutrimento, il corpo dei giusti risorti non avrà più bisogno di cibo - potrà mangiare e bere, certo, ma lo farà per volontà propria, non per necessità. I corpi dei martiri, restituiti alla loro forma originale, reintegrati in tutte quelle parti amputate o distrutte dai persecutori, conserveranno anche in cielo le loro cicatrici: ma queste, non più orripilanti e spaventose, saranno invece bellissime a vedersi, splendenti della gloria di Dio, come tutti i corpi dei risorti [51]. Armonia, proporzione e misura regneranno nei corpi rigenerati.

Nella risurrezione della carne, infatti, la statura di ogni corpo avrà per l'eternità le proporzioni che aveva o che avrebbe dovuto avere all'età della sua giovinezza, in forza della ragione seminale deposta nel corpo di ciascuno, il quale riceverà un'armoniosa bellezza e proporzione di tutte le membra [52].

Unita, senza quella divisione e ribellione delle sue parti sorte con il peccato originale [53], ad un corpo di carne redenta (carne spirituale, precisa Agostino, ma pur sempre carne) [54], libera da mortalitas e fragilitas, l'anima dell'uomo vedrà finalmente realizzata quella promessa per cui Dio l'aveva originariamente creata: l'immortalità.

Qui dunque, in questa tensione disperata verso un'unità perduta e pienamente raggiungibile solo nella risurrezione promessa, si collocano gli sforzi ascetici della mistica medievale - e insieme, come si vedrà, l'aspirazione della mistica a un'unità che muove da ciò di cui ci si nutre e dal discorso del pensiero, per giungere alla dimensione umana nella sua interezza. Il percorso mistico è un movimento che, dalla dispersione dell'esistenza umana, si protende con lo sforzo di una volontà insufficiente, sorretta dall'amore di Dio, verso un'unità piena e articolata, che corrisponde, per il cristiano, alla pienezza dell'esistere in quanto creatura.

 

 

Mistica, santità e comportamento alimentare: storie di donne medievali.

Nella sua biografia di Rita da Cascia, la "santa degli impossibili", Cristina Siccardi narra di come, verso la fine della sua esistenza terrena, la monaca agostiniana cada ammalata. Tra le sofferenze sempre più acute, e le estasi sempre più frequenti, Rita non si nutre più di cibo umano: "l'astinenza dai cibi era permanente e non voleva, né poteva bere. La nutriva la sola eucaristia" [55].

Già da qualche tempo, però, suor Rita dava segni di non avere più necessità di cibo umano: Non sedeva più in refettorio con le compagne e spesso non aveva neppure più bisogno di nutrirsi, ricolma del suo Gesù con il quale era diventata una cosa sola. Non aveva più bisogno di nulla, perché aveva il Tutto. L'astinenza mistica e totale dai cibi lascia intatte le facoltà mentali, ma anche quelle fisiche, senza distruggere né la salute, né il dinamismo" [56].

La sorella agostiniana non è l'unica, né la sola mistica del medioevo a mostrare una relazione particolare con il nutrimento e il cibo. Si prenda, per esempio, il caso di Caterina da Siena. Fin da piccola, Caterina Benincasa si sforza di diminuire sempre di più le quantità e le qualità di cibi che ingerisce, in un processo di ascesi volto a dominare i bisogni e i desideri del corpo. Come ricorda il suo biografo principale, un tempo confessore della santa, poi generale dei Domenicani, Raimondo da Capua, "fin dall'infanzia raramente mangiava carne"; tuttavia, dopo aver ottenuto dal padre il permesso di portare avanti le sue pratiche ascetiche, ottenuta una stanzetta tutta per sé, dove potesse ritirarsi a pregare, iniziò a rifiutare persino l'idea di mangiar carne, a tal punto che "le faceva male a sentirne perfino l'odore" [57]. L'astinenza dalla carne si estende ben presto anche ai condimenti, tanto che persino l'acqua zuccherata "si tramutava in veleno pel suo stomaco" [58]. Il rifiuto del cibo diventa così anche rifiuto del sapore: il vino, bevanda tenuta in gran considerazione, e pressoché onnipresente nel medioevo, Caterina lo beve solo fortemente annacquato, togliendo così tutto il sapore, e persino il profumo; dai quindici anni, poi, il frutto della vite è sostituito con della semplice, insipida acqua di pozzo. Così, con volontà ferrea, a poco a poco Caterina, prima bambina, poi adolescente, priva il suo mondo di ogni sapore e odore di alimenti: "Ogni giorno, a poco a poco, si privava di ogni cosa che fosse cotta, eccetto del pane; e in poco tempo, mortificando se stessa, si ridusse a cibarsi di pane e di erbe crude. A venti anni [...] finalmente si privò anche del pane, e si cibò soltanto di erbe crude" [59].

Quando la popolazione di Siena, turbata dalle sue stranezze, e timorosa di questa donna minuta che sconvolge l'ordine umano, l'accusa di volersi mettere in mostra, e addirittura di compiere prodigi con l'aiuto del demonio, Caterina replica: "Dio, pei miei peccati, mi ha colpita con una speciale sofferenza, per la quale mi resta impossibile mangiare; io vorrei mangiare a tutto mio agio, ma non posso"; e, subito, il suo biografo e confessore glossa: "Quasi volesse dire: Iddio fa questo e non io; e affinché non trasparisse un'ombra di vanagloria, dava la colpa di tutto ai suoi peccati [...] Tutto quanto accadeva di male lo attribuiva ai suoi peccati, e quanto di bene, a Dio: era la sua regola costante in tutte le cose" [60],. Cercando di mettere a tacere i maligni, Caterina decide di mettersi a tavola a mangiare, almeno una volta al giorno, ma inutilmente: inghiottire cibo, per lei, è un'autentica tortura, il suo stomaco non riesce a digerire nulla, e la sofferenza è così intensa che "quanto aveva ingerito, bisognava che uscisse per la via per la quale era entrato, altrimenti causava acutissimi dolori ed enfiature in quasi tutto il corpo" [61]. Persino i succhi dei pochi alimenti che tiene in bocca, assorbiti involontariamente, le sono così nocivi che, pur di rigettarli, acuisce ancora di più le sue pene già grandi [62]: ogni volta che cerca di dissimulare la propria santità, di mostrarsi una donna comune, Caterina ne ricava solo sofferenza.

Dunque, è innanzitutto tramite la privazione, che Caterina vuole fare dell'alimentazione una forma di ascesi. A volte, tuttavia, anche l'atto del nutrirsi diventa una forma di ascesi. E' il caso della visita della giovane Benincasa ad Andrea, una mantellata malata e tormentata da piaghe ulcerose: nonostante la devozione e l'amore con cui accudisce la consorella, la giovane mantellata non riesce a frenare la ripugnanza; per questo, lavate le piaghe di Andrea, Caterina "raccolse lavatura e marcia in una scodella, e bevve" [63], per ammaestrare i suoi sensi e vincere insieme il demonio, che con il disgusto l'aveva tentata al disprezzo delle creature sofferenti. Infatti, interrogata dai suoi confessori al riguardo, Caterina confesserà di non aver mai bevuto acqua più saporita [64]. La notte seguente a quest'avvenimento, mentre si trova raccolta in preghiera nella propria cella, Caterina riceve la visita di Cristo, le piaghe delle stimmate ben visibili sul suo corpo. Lo Sposo celeste loda l'abnegazione della giovane e le offre, in premio, di bere dal suo costato:

E ponendo la mano destra sul collo virgineo di lei, e accostandosela alla piaga del proprio costato, le sussurrò: "Bevi, o figliuola, la bevanda del mio costato, con la quale l'anima tua si riempirà di una tale dolcezza, che ne risentirà mirabilmente anche il corpo, che per me disprezzasti". E lei, ritrovatasi vicina a quel modo alla sorgente della fonte della vita, mise sopra alla santissima ferita le labbra del corpo, ma molto più quelle dell'anima, e bevve a lungo con avidità e abbondanza una bevanda ineffabile ed inesplicabile [65].

Solo un cibo non risulta indigesto alla giovane mantellata: l'eucaristia. Innamorata di Cristo, di cui si sa promessa sposa, Caterina non può sopportare troppo a lungo conversazione umana di sorta: appena può, se ne fugge nella sua celletta domestica, dove finalmente riprende il tanto desiderato colloquio spirituale con il Figlio di Dio. Anche questo, tuttavia, non le basta: la ragazza aspira a ben altro, vuole un'unione che non sia solo spirituale, ma anche fisica - quell'unione che, in questo mondo, si realizza nel sacramento della comunione. Fin da giovanissima Caterina esprime questo desiderio di comunione frequente, per realizzare un'unione fisica con Cristo, che sia la più duratura possibile:

Di lì cominciò a sorgere dentro di lei il desiderio, che poi si fece incontenibile, di ricevere spesso la santa comunione, affinché non solo lo spirito stesse unito allo sposo eterno, ma anche il corpo al suo corpo. Lei sapeva, infatti, che quantunque il venerabile sacramento del corpo del Signore produca nell'anima la grazia spirituale e la unisca al suo Salvatore, la quale unione è il fine per cui è stato istituito il Sacramento stesso, tuttavia chi se ne ciba veramente, subito si unisce al corpo di lui, benché non con un'unione del tutto corporea. Perciò volendo sempre più unirsi all'oggetto tanto nobile del suo amore, stabilì di fare quanto più spesso potesse la comunione [66].

Quando, per le trame e l'invidia di chi la circonda, le è negato recarsi alla messa per ricevere l'eucaristia, è lo stesso Cristo a nutrirla con il suo corpo. Un giorno, per esempio, Caterina riceve direttamente da Cristo un frammento dell'ostia consacrata che, all'atto dello spezzare il pane, il suo confessore aveva smarrito [67]. In un altro caso, la particola sembra, animata quasi di vita propria, scivolare o levitare dalle mani del sacerdote alla bocca di Caterina [68], sotto lo sguardo attonito di molti testimoni [69]. Molto spesso, come nell'episodio riportato sopra, a Caterina viene anche concesso, in visione, di bere dal costato di Cristo. Racconta infatti Raimondo che un giorno

mentre se ne stava lontana dall'altare sitibonda di ricevere il venerabile Sacramento, e diceva sottovoce, ma forte con l'anima: "Io vorrei il Corpo di nostro Signor Gesù Cristo", ecco che le apparve, come avveniva spesso, lo stesso Salvatore disposto ad accontentarla; ed accostò la bocca della vergine alla cicatrice del proprio costato, facendole cenno di saziarsi quanto voleva del suo corpo e del suo sangue. Lei non se lo fece ripetere, e bevve lungamente i fiumi di vita alla fonte del petto sacrosanto; e le scese nell'anima tanta dolcezza, che credette di morire di amore [70].

Da queste visioni, la giovane mantellata esce profondamente trasformata. Proprio dopo essersi nutrita del sangue di Cristo, infatti, Caterina si accorge di non poter più assimilare alcun cibo umano. Il contatto con il cibo sacro, nella visione e nel rito eucaristico della messa, ha a tal punto trasformato il corpo di Caterina, persino nella sua fisiologia, che il cibo naturale, che per gli uomini è fonte di sostentamento e di vita, per lei è invece cagione di morte; solo il contatto quotidiano con il Sacro può, viceversa, mantenerla in forze, ed anzi donarle forze persino superiori a quelle degli uomini, giovani e forti, del suo seguito [71]:

Dopo la visione raccontata cominciò a discendere nell'anima sua, specie quando riceveva la santa Comunione, un'abbondanza tale di grazie e di consolazioni celesti, che riversandosi per un certo traboccamento sul suo corpo veniva a temperarne l'umido radicale [72], e mutava in tal guisa la natura del suo stomaco, che non solo non aveva bisogno del cibo, ma nemmeno lo poteva prender senza pena. Se si sforzava a mangiare, il suo corpo pativa moltissimo, la digestione non avveniva, e bisognava che il cibo riuscisse per forza dalla via per la quale era entrato [...] per esperienza, si sentiva più forte e più sana senza mangiare, e [...] mangiando, invece, si sentiva più malata e più stanca,

tanto che, costretta un giorno dal suo confessore a mangiare, "cadde in tanto sfinimento da ridursi quasi a morire" [73]. Solo il cibo sacro, perciò, la può nutrire. Quando Caterina non riceve l'eucaristia, il suo corpo ne soffre come se non ricevesse cibo alcuno [74]. La sola eucaristia, viceversa, basta a mantenerla forte e sana e robusta come la più ricca delle diete. Così, per un'intera Quaresima, Caterina non tocca né cibo né acqua, e solo il giorno dell'Ascensione si risolve a nutrirsi: ma, anche allora, si tratta di cibi quaresimali, "pane di farina, cioè, ed erbe crude" [75], per ritornare subito dopo al digiuno più assoluto. Interrogata dal suo confessore, su come ciò possa avvenire, Caterina risponde:

E' tanta la sazietà che mi viene dal Signore nel ricevere il suo venerabilissimo sacramento, che io non posso in nessun modo sentire il desiderio per alcun cibo [...] Quando non posso ricevere il Sacramento, basta a saziarmi che gli sia vicina e lo veda; anzi, anche vedere un sacerdote che ha toccato il Sacramento mi consola tanto, che perdo ogni memoria di cibo [76].

Nel suo rapporto con il cibo, Caterina offre perciò un'immagine ambivalente: all'apparenza, minuta ed emaciata, sembra vittima di una delle tante carestie che colpirono il secolo in cui visse; eppure, "era internamente irrigata da un fiume di acqua viva, e in ogni occasione sempre piena di vita e di giocondità" [77]: lungi dall'essere opposti inconciliabili, nell'immagine che della giovane Benincasa l'agiografo ci offre, fame e sazietà, pienezza e privazione sono un tutt'uno, un'unità indissolubile. Solo quando rigetta ogni nutrimento umano; solo quando soffre più atrocemente i dolori della fame; solo quando è così debole da non potersi neppure alzare dal giaciglio per recarsi alla messa: solo allora Caterina Benincasa gode davvero della pienezza e dell'integrità delle sue forze.

Come Caterina da Siena, anche altre mistiche intrecciano simboli e rapporti complessi con il nutrimento quotidiano ed il pasto eucaristico. Molto tempo prima di Caterina, già Umiliana Cerchi, terziaria francescana, aveva seguito una rigida ascesi alimentare: "Cominciò a digiunare molto spesso, a pane e acqua, e a fare grandi astinenze", ma, come Caterina, incontrò l'opposizione e l'incomprensione degli uomini che la circondavano: "[...] ma il suo confessore fra Michele non le permise di continuare" [78]. Umiliana persevera comunque nella sua ascesi: la sera, l'ora di cena la trova immersa in profonda meditazione, insensibile ai richiami della compagna che le porta il cibo. Quando, finalmente, la donna torna in sé, la cena è già fredda, e Umiliana ne mangia solo qualche boccone. Spesso Umiliana, rapita in estasi, non tocca cibo, e molti giorni possono passare fra i suoi esili pasti: "a volte rimase tre giorni senza cibo corporale, nutrita dalla consolazione divina" [79]. Così, caduta in estasi un giovedì mattina, Umiliana rimane "assente" (e digiuna) fino al sabato sera, quando, "ristoratasi con un po' di cibo", si addormenta. Al suo risveglio, le si presenta un bambino che reca con sé mezzo pane bianco, e che la invita a mangiarne a sazietà:

E quando si alzò, trovò mezzo pane candido e profumato, e non poteva dubitare che fosse stato fatto da mani angeliche [...] lo prese, e, rese grazie, lo mangiò, e di quel mezzo pane visse tutta la settimana senza gustare di nessun altro cibo; e ne dette anche a molti. In quella settimana furono rafforzate molte debolezze del suo corpo, di cui soffriva in occasione dell'astinenza" [80].

"Per l'abbondanza dello spirito", Umiliana "si adempiva anche corporalmente, tanto che pareva strano che il suo corpo carnale non scoppiasse." [81] Durante la notte, infatti, "gustava realmente il pane di vita, di cui chi lo gusta ha sempre più fame" [82]. Cristo è cibo anche per Umiltà da Faenza, e il desiderio di unione con Cristo è sentito dalla donna come fame e sete fisiche: "Chi più beve di lui, più avrà sete di lui, e chi più mangia, più avrà fame" [83]; quando l'anima affamata trova finalmente, dopo lunga ricerca, il fanciullo divino incarnato, "come è ristorata e quanto è beata l'anima, quando può trovare un simile fanciullo, abbracciarlo e appropriarsi del suo fragrantissimo odore" [84]. La mistica prega Dio perché possa lei stessa nutrire, con il latte del proprio corpo, l'agnus Dei: "Portami nella pastura dove c'è l'erba novella, perché possa pascermi solo di fiori e ingrassare, sì da dare molto latte. E dopo questo, o Signore, dammi l'agnello immacolato, che succhia volentieri dalle mammelle e ha sempre fame, affinché sia sempre saziato da quelle e mai se ne allontani". E come l'agnello di Dio, cioè Cristo, che con il suo sangue lavò le colpe degli uomini, è sempre affamato del "rimedio dei peccati", così anche l'anima è una "pecorella belante per la fame", la cui pastura è Cristo: "E vuole andare dove c'è l'erba novella, e cogliere solo i fiori e contemplare la bellezza del suo diletto amore, e con il desiderio del cuore vuole riempire le sue mammelle del latte della carità, ed entrare nel suo giardino verace, e scegliere rose rosse e bianche, e bere nella purezza del sangue della passione da quel candido agnello" [85].

Un'altra donna impegnata nell'ascesi, e la cui pratica si concentra sul controllo del cibo, è Margherita da Cortona. Dal momento in cui, scacciata dai familiari, si converte alla vita di terziaria francescana, Margherita rinuncia a cibarsi di carni, anche se all'inizio continua ad usare grassi animali per preparare il cibo; più avanti eliminerà anche questi grassi e si limiterà ad usare olio d'oliva. La sua astinenza, tuttavia, è temperata dalla sua attività lavorativa:

In quel tempo, però, lavorava attivamente come ostetrica, e per non disturbare le famiglie delle sue pazienti a prepararle cibi speciali, mangiava quello che veniva servito alla famiglia, anche se con moderatezza. A palazzo Moscari poteva osservare una dieta più stretta, e si asteneva dalle uova e dal formaggio, ad eccezione del tempo di Quaresima, quando si nutriva di questi cibi ma rinunciava al pesce [86].

Ad un certo punto, per poter seguire un'ascesi più rigorosa, Margherita si rinchiude in una cella solitaria: lì la sua astinenza alimentare si fa di riflesso più severa, e per anni la sua dieta consiste in "pane, nocciole, verdure crude e acqua, tutto in piccole quantità, che mangiava dalle tre alle sei del pomeriggio" [87].

Così come Caterina da Siena, anche la devozione di Margherita si rivolge in modo particolare alla Maddalena e all'eucaristia, su cui riversa il suo bisogno di unione fisica con Cristo [88]. Come Caterina da Siena, anche Margherita riceve da Cristo il privilegio di bere dal suo costato: "Io ti comando che tu venga spesso alla ferita del mio costato e lì abbia da succhiare e assaporare ciò che ne è uscito per la salvezza del genere umano", le ordina infatti Cristo [89]. Nutrita dal sangue di Cristo, Margherita è trasformata: come le dice Cristo, lei è la sua pianticella, che "fai diventare verdi tutte le piante rinsecchite" [90]; lei germinerà nuovi germogli, che si diffonderanno per il mondo [91]; ma Margherita è anche una fonte: "da te sgorgherà l'acqua che irrigherà le radici degli alberi inariditi" [92].

Vanna da Orvieto, pur sottoponendosi a digiuni lunghi e durissimi, miracolosamente non deperisce, anzi, "era così grassa e corpulenta e di buona cera che" chi non la conosceva, avrebbe potuto pensare che "ella facesse uso frequente di bagni e di molte altre dilettevoli cure del corpo". In realtà, tuttavia, lei

veramente godeva in abbondanza della gioia, ma non del corpo, bensì dell'anima, che le veniva dal gustare spesso la celeste dolcezza [...] Quando nella contemplazione delle cose celesti il punto più acuto dell'anima si fissava ogni giorno in Dio che amava con tutto il cuore, si ingrassava nell'anima con un cibo celeste di dolce sapore, che le riempiva tutto il corpo fino alle labbra esteriori [93].

Nell'estasi della contemplazione, Vanna "si sentiva ricreata da una dolcezza così grande che poi non faceva che poco conto del cibo del corpo [94]". Lo stesso accadeva a Villana de' Botti, la quale, rimproverata dal suo confessore per i suoi digiuni troppo duri, rispondeva: "mi sento tanto nutrita nello spirito che subito non provo più alcun appetito per il cibo corporale" [95].

Chiara da Montefalco, dopo una visione della passione di Cristo, si immedesima a tal punto con la sofferenza, che "non distingueva affatto i sapori del mangiare e del bere. Tutto infatti era per lei insipido e amaro, come se inghiottisse la bevanda che Cristo aveva avuto sulla croce" [96]. Nell'unione con Dio, Chiara sente di essere "come un catino immerso in mezzo al mare, pieno d'acqua e risucchiato dall'acqua stessa" [97]. Smarrita nella preghiera, Angela da Foligno gusta un sapore talmente dolce da dimenticarsi d'ogni cibo corporale [98]. L'eucaristia, cibo quotidiano della mistica, si trasforma al palato e al tatto nella vera carne di Cristo [99]. Per lei, Dio è cibo disposto su di una mensa, ripiena d'ogni delizia [100], mentre il piacere che la donna trae dall'eucaristia è tale da essere paragonabile solo a quello degli angeli [101]: consumare l'eucaristia significa, per Angela, unirsi intimamente alla carne amata di Cristo [102]. E quando Caterina Vegri si comunica per la prima volta, dopo aver ricevuto la comprensione del mistero dell'eucaristia, "sentì e gustò la suavitade della purissima carne de l'agnelo immaculato Cristo Iesù" [103].

 

 

Il significato culturale del cibo nel medioevo cristiano

In un passo delle sue Historiae, Rodolfo il Glabro racconta, con accenti apocalittici, della terribile carestia che colpì l'Europa intera negli anni 1032-1033 e che al monaco sembrò, per le atrocità sofferte da uomini e bestie e per gli sconvolgimenti che gettarono nel caos tutto quanto il mondo, naturale e sociale, come il giusto castigo inflitto da Dio ai suoi figli disubbidienti per i loro molti peccati [104].

Benché forse non fossero tutte così terribili, come quella descritta da Rodolfo il Glabro, le carestie costituirono uno dei flagelli più diffusi e temuti del medioevo. In quei periodi terribili, l'ordine naturale sembrava sconvolto: smarriti i confini fra le stagioni, le acque, solitamente portatrici di vita, seminavano morte e distruzione; la fertilità della terra era corrotta dal germogliare di piante inutili e nocive, e il suolo un tempo produttivo non si sottometteva più all'opera dell'uomo; anche laddove gli sforzi umani riuscivano a riportare un po' di ordine, il successo era misero, i risultati scarsi.

Sconvolta la natura, il mondo umano non era certo risparmiato: debolezza, malattia e morte si diffondevano presto a macchia d'olio. Persino i "soliti" soprusi dei forti e potenti a danno di poveri e umili tacevano, anche se il male prendeva la forma odiosa della speculazione sui prezzi dei generi alimentari. Alla fine, la corruzione giungeva a toccare le radici stesse dell'ordine umano, e il male cresceva nelle sue forme più orrende e aberranti, fino alla necrofagia e all'infanticidio. Come il cavaliere dell'Apocalisse, la fame portava naturalmente con sé pestilenza e morte. Gli uomini e le donne, alla fine, erano tanto deboli che non riuscivano a sopravvivere neppure quando, finalmente, mettevano le mani su di un po' di cibo. Il volto stesso dell'uomo, immagine e somiglianza di Dio, si sfigurava in modo orribile, recando su di sé i segni della fame. Nessuno sforzo, nessun potere umani potevano arginare la sofferenza ed il male dilaganti: ogni tentativo in tal senso era frustrato dall'entità stessa del male, e persino la Chiesa di Dio era impotente. Peggiore fra tutti i mali, la carestia è una forza del caos, una prefigurazione del giorno del giudizio finale.

Di fronte alla carestia, ogni valore umano scompare: quando le stesse possibilità di sopravvivenza dell'uomo sono poste di fronte a un pericolo estremo e terrificante, i valori umani perdono significato. Nella descrizione che Rodolfo il Glabro ci dà di quei profittatori che vogliono trarre guadagno dalla sofferenza umana, speculando sul prezzo degli alimenti, traspare l'amara ironia di chi ha capito quanto profondamente vano sia il loro comportamento.

In un'epoca, come il medioevo, sempre minacciata dalla possibilità della carestia, il cibo costituì, un problema, e dunque, per riflesso, un valore "di carattere fondamentale", tanto dal punto di vista economico che da quello religioso [105]. La possibilità di disporre a piacimento di determinate quantità di cibo poteva segnalare la ricchezza di un individuo o di un gruppo sociale, mentre, viceversa, fame e malattia accompagnavano costantemente la povertà. Le stesse predilezioni culinarie dimostrano che il cibo medievale, soprattutto ad un certo livello della scala sociale (ma non solo) doveva essere ricco, anche di sapori e di odori.

Il primo scopo della cucina medievale doveva essere quello di risvegliare il palato. Per raggiungere un tal fine, si usavano condimenti dal sapore forte e pungente, come l'agresto, estratto dall'uva ancora verde, o l'aceto, o ancora un succo di agrumi amari, che entrano come basi nella composizione di molte salse e pietanze [106]. Questo sapore acidulo veniva poi irrobustito tramite l'aggiunta di spezie, per poter raggiungere quel sapore acido-speziato che sembra una costante della cucina di tutto il medioevo [107].

Aggiunte al cibo, pure o mescolate in salse e condimenti speciali, queste spezie ne arricchiscono il sapore [108]. Anzi, uno degli usi culinari dello spezie, che il medioevo deriva dal contatto con la cucina araba, è quello di differenziare i sapori, di aggiungere loro consistenza e varietà [109].

Ma ogni salsa, ogni spezia possiede anche un particolare colore - ed è per questa sua caratteristica che può essere scelta in un determinato accostamento con altre spezie e altri cibi. L'alta cucina medievale, infatti, non deve soddisfare solo il palato, ma anche gli altri cinque sensi, e in primo luogo la vista. Così, il mangiare in bianco, o biancomangiare, molto diffuso e apprezzato nel medioevo anche da un punto di vista medico [110] e religioso, viene prodotto aggiungendo a cibi poco speziati mandorle, farina di riso o zucchero. In quaresima, piatti a base di carne di pesce appositamente imbiancata sostituiscono gallina e cappone, e un cuoco italiano, Martino, descrive un metodo per realizzare un cappone bicolore, giallo e bianco, con l'aggiunta di due salse distinte. Come dolcificante, si raccomanda l'uso di vini dolci e frutta secca, per quei piatti cui si vuole dare colore scuro, e zucchero sparso a velo per ottenere piatti di colore bianco - benché la cucina medievale non distingua fra cibi dolci e salati, ma preferisca combinare sapientemente i due sapori. Per rafforzare l'effetto visivo, le pietanze possono poi essere disposte così da dare l'illusione che venga servito in tavola l'animale intero, o il volatile con tutte le sue penne, o il pavone ancora vivo, che dispiega la sua coda variopinta; o, ancora, gli arrosti possono essere farciti con un ripieno di uccelli vivi, che si alzino in volo quando l'involucro di carne arrostita viene tagliato [111].

Alla vista si aggiungono poi altri sensi: le spezie devono eccitare non solo il palato, ma anche l'odorato, e il tatto può gustare la delicatezza e la corposità dei cibi, mentre i musici che, con i loro strumenti e le loro canzoni, accompagnano il banchetto dei nobili, allietano l'udito, o mentre il lettore, che nei monasteri recita durante il pasto passi della Regola di Benedetto o delle Vite dei Santi, edifica e nutre lo spirito.

Laddove i sensi sono risvegliati e dispersi, i sapori e le sensazioni moltiplicati dalla varietà delle spezie, una dieta in cui queste siano eliminate è funzionale a ricondurre la persona all'unità. E mentre le spezie, con il loro potenziale in medicina, ricostituiscono gli appetiti più svariati, intossicando ed intorpidendo il corpo, una dieta semplice e purificata rende i sensi più affilati e li unifica, al di là delle distrazioni e dei piaceri; in questo modo il corpo, liberato dall'ottundimento delle droghe, può vivere fino in fondo quella condizione di profonda debolezza e sofferenza richiesta dall'imitatio. In questo si può vedere uno dei significati della rinuncia alle spezie, scelta dalle mistiche come primo passo verso l'ascesi.

Nelle spezie, la cucina del tardo medioevo prevede che sia bollita, prima della cottura, la carne, alimento principe della dieta medievale. In seguito alla fusione di una cultura alimentare germanica che, sviluppatasi in una civiltà di pastori e cacciatori, vedeva nella carne l'alimento più importante per la costituzione di un corpo robusto; ed una cultura alimentare mediterranea, che dava viceversa grande importanza ai derivati del grano, primo fra tutti il pane; l'uomo medievale baserà su queste due tipologie alimentari la propria dieta, con, nuovamente, significative differenze culturali e sociali, legate soprattutto a fattori di ordine socio-economico. Se, infatti, nell'alto medioevo una popolazione esigua poteva avere a propria disposizione ampie zone boschive, dove allevare allo stato brado ovini, bovini e soprattutto suini, dopo la cosiddetta "rinascita" economica del secolo XI, con la diminuzione dei boschi e delle foreste in favore dei campi coltivati, e con l'assegnazione privilegiata delle zone boschive alla nobiltà, "l'economia alimentare [basata sulla consumazione di carni] dovette cedere il passo, cosicché ebbe inizio una nuova fase alimentare, in cui prevalevano i prodotti cerealicoli" [112]. Tuttavia, certi significati assegnati al cibo dalla mentalità comune ed all'interno del fantastico manifestano una certa costanza di lungo periodo, tale che, a fronte di cambiamenti socio-economici anche notevoli, non si vedranno significativi mutamenti nelle strutture mentali e nelle credenze.

Per la tradizione germanica, e per quella medievale che ne è erede diretta, la carne è innanzitutto il pasto dell'uomo forte, del guerriero: e qui per carne si intendono innanzitutto le carni rosse, la selvaggina che cresce libera e vigorosa nelle foreste dove il nobile va a cacciare; o la carne dei grossi animali domestici, come il toro e il bue, che richiamano alla mente, con la loro stazza e la tranquilla potenza, le più importanti virtù guerriere. I medici, già in età carolingia, vanno argomentando che, se l'uomo è fatto di carne, nient'altro che la carne può essere il nutrimento adatto a lui: alla carne intesa come alimento andrà allora il compito di stimolare e rinforzare la carne umana vivente, vale a dire il corpo.

Degli animali, che il cacciatore uccide, la carne conserva l'energia, l'ardimento, la forza, ma solo a patto che sia cucinata a dovere. Al guerriero, infatti, mal si conviene la carne lessata, lasciata a lungo a bollire in una pentola sul focolare domestico, regno delle donne e dei bambini, insomma dei deboli. La carne del guerriero deve essere, invece, la carne arrostita sul fuoco, che, nel suo valore archetipico, rievoca scene di caccia e accampamenti intorno ad un falò, all'aperto, selvaggina infilzata su di uno spiedo: un cibo forte, che ancora conserva gli aspetti selvaggi e indomiti delle foreste e dei boschi più fitti, e che da un fuoco vivace e luminoso acquista ardore e vitalità. La carne bollita appartiene invece, come si è già accennato, ad un altro mondo, parallelo e complementare a quello del guerriero-cacciatore: è il mondo della cucina, della famiglia, della quiete e del riposo. Al centro, almeno ideale, della casa medievale, sul focolare, una pentola piena d'acqua, con all'interno carne tagliata su misura, è messa a bollire. La bollitura è un tipo di cottura estremamente diverso, per certi aspetti addirittura opposto a quello richiesto per ottenere un arrosto. Il fuoco, su cui la carne va posta a bollire, non deve essere troppo vivace, fra la carne e la fiamma si pone un recipiente (immagine femminile) riempito d'acqua (altra immagine femminile); i tempi di cottura sono più lenti, richiedono maggiore pazienza, ma sono anche più economici, perché permettono, attraverso la trasformazione dell'acqua in brodo e con l'aggiunta di verdure, di ottenere più pasti attraverso un solo procedimento; aggiungendo all'acqua sostanze nutritive, come erbe e spezie, il cibo può poi essere modificato, arricchito, trasformato - tutti processi che richiamano più l'ambiente domestico e la sapiente manipolazione femminile, che non l'esuberante ed irruente mondo maschile. L'arrosto è cottura immediata, manifesta, la bollitura è nascosta (fatta in casa, al chiuso, e dentro una pentola); l'arrosto conserva alla carne un sapore forte, la bollitura stempera i sapori, li rende più delicati, quasi indifferenziati; l'arrosto appartiene al mondo della foresta, della forza, della gioventù, il bollito al chiuso della cerchia domestica.

Così, laddove arrosti e selvaggina, carni rosse e sapori forti sono simbolo dell'aristocrazia, altri ambienti, più "dolci", si rivolgono di prevalenza alla bollitura dei cibi - è il caso della mensa monastica benedettina tradizionale, non "aristocraticizzata", che predilige una dieta di carni bianche e verdure bollite [113].

Certamente, molte di queste immagini si addicono più alla classe dei professionisti della guerra, che non ai ceti contadini, o, più tardi, ai ceti borghesi cittadini. Laddove, infatti, gli arrosti sono il pasto prediletto dei nobili, mentre i bolliti si ritrovano un po' in tutte le classi sociali, la popolazione più povera tende a consumare ogni parte dell'animale, e per questo ritroviamo nella dieta di contadini e braccianti anche piatti a base di minutaglie e interiora [114]. Eppure, anche in questi casi le immagini associate ai diversi tipi di carne restano costanti - come costanti restano, queste immagini, anche quando, con la diminuzione delle foreste, la caccia e la selvaggina diventeranno sempre più prerogativa unica delle classi nobiliari, e le altre classi saranno costrette a ripiegare su cibi meno "nobili" [115].

Tutti questi significati si dispiegano nell'atteggiamento ascetico verso la carne: in primo luogo, nel passaggio da un alimento forte (gli arrosti) ad un alimento più dolce e femminile (i bolliti), che non turbi i sensi e conduca ad un maggiore raccoglimento in se stessi, ma anche ad una maggiore apertura verso il divino; ma anche, nella rinuncia alla carne bollita, nella tensione verso quella debolezza e infirmitas del corpo di Cristo cui la mistica aspira: dato l'assunto che l'uomo si assimila a ciò di cui si nutre, assumere un certo tipo di cibo, cucinato in un certo particolar modo, significa incorporare i simboli di cui quell'alimento è portatore. E questo riguarda, non solo le carni, ma anche altri cibi propri della quotidianità medievale, come il pane: nutrirsi di un pane di segale, piuttosto che di frumento, di un pane scuro, meno pregiato, piuttosto che di uno bianco e profumato, significa assimilare nel corpo la semplicità, la povertà, la miseria connesse a quei cibi; viceversa, nutrirsi di quel pane bianco, ricevuto da Dio, significa assumere in sé e modellarsi sulla ricchezza e la purezza del corpo divino di Cristo.

Con i suoi piatti dal sapore speziato e forte, con i suoi vini dolci e delicati o robusti e "virili", la cucina del medioevo faceva del cibo non una semplice necessità quotidiana, ma una vera e propria miniera di piaceri, appetitosi e desiderabili per alcuni, insidiosi per altri [116]. I luoghi del piacere che popolano il fantastico sono, innanzitutto, dei veri e propri paradisi del cibo, come mostrano molti dipinti dell'epoca: così, nel dipinto omonimo di Pieter Bruegel il Vecchio, conservato all'Alte Pinakothek di Monaco, il "paese di Cuccagna" offre ricchissimi piatti di carne; i personaggi del quadro sono così satolli, da non essere nemmeno in grado di reggersi in piedi, ed uno di loro è addirittura costretto ad allentare la cinta dei pantaloni. Di riflesso, se l'ascesi richiedeva la rinuncia alla ricchezza ed al piacere, la rinuncia al cibo doveva essere norma di ascesi fondamentale [117].

Tuttavia, nell'Europa del tardo Medioevo il mangiare non era soltanto un'attività capace di demarcare sottili sfumature di condizione sociale, né era soltanto una fonte di piacere tanto intensa e sensuale da far sì che il rinunciarvi fosse al centro stesso della scelta religiosa di rinuncia al mondo. Mangiare era anche un'occasione di unione con i propri simili e con il proprio Dio, un convito che riceveva un'intensità tutta particolare grazie a quel pasto esemplare, l'eucaristia, che pareva aleggiare sullo sfondo di qualsiasi banchetto [118].

In uno dei ricordi più antichi che la comunità cristiana conservava di se stessa, Cristo stesso si era manifestato, dopo la sua morte, in un momento conviviale [119]. I discepoli di Emmaus riconoscono Gesù all'atto dello spezzare del pane, un rito, proprio della quotidianità ebraica, che al loro maestro era stato molto caro. Durante la Cena che aveva preceduto il suo arresto, il nazareno aveva utilizzato proprio questo rito per significare ciò che gli sarebbe successo, ed insieme fondare la nuova comunità. Dopo la sua morte, i discepoli avevano preso alla lettera l'invito del maestro a continuare a spezzare il pane in sua memoria [120]. In questo modo, l'atto conviviale dello spezzare il pane e condividere vino e cibo intorno a una stessa mensa era diventato il centro di aggregazione delle prime comunità cristiane. Durante il banchetto eucaristico, si rinsaldavano i legami fra i vari membri della comunità, e tutta la comunità insieme si riconosceva in un triplice simbolo. Il banchetto era, infatti, ricordo dell'Ultima Cena, e, insieme, di tutti i pasti consumati da Gesù in questo mondo insieme ai suoi discepoli; ma era anche, e proprio per questo, un modo per sentire tangibile la presenza di Dio all'interno della Comunità; ed era, infine, "un'anticipazione del banchetto messianico al quale gli eletti parteciperanno con Cristo nella gioia del Regno" [121]. Di questo pasto comunitario, il rito dell'eucaristia era il "momento propriamente sacro" [122].

Al pasto eucaristico era poi legata l'antichissima pratica del digiuno. Come ricorda la Bynum, "nelle società pre-industriali, le cui risorse sono limitate, uomini e donne spesso rispondono ai ritmi dell'abbondanza e della scarsità, del raccolto e della carestia, decidendo di controllarli grazie al digiuno volontario, confidando di potere costringere in tal modo gli dei a dispensare sogni e visioni, salute, fortuna o fertilità [123]". Una visione del genere si basa su di un profondo senso di compenetrazione e di appartenenza fra uomo e natura: l'uomo è naturale per via del proprio corpo, e il corpo, a sua volta, si differenzia dal mondo naturale per essere natura "interna" all'uomo. Come natura, il corpo può essere controllato dall'uomo, anzi: più della natura, il corpo sembra essere in buona parte (ma non del tutto) al servizio della volontà umana. Per questo, estendendo a certi aspetti del corpo il controllo della volontà, si spera di ottenere, per via simpatica, un corrispettivo controllo sulla natura "esterna [124]".

Ma le pratiche di controllo del cibo possono avere anche altri due significati religiosi fondamentali: possono cioè essere usate per espiare peccati commessi [125], o per attirare su di sé il favore della divinità. Infatti, in una società che viveva a stretto contatto con una natura che, "per il suo carattere erratico ed imprevedibile, infligge l'umiliazione della fame, allora ci si potrà punire o umiliare volontariamente dinanzi a Dio infliggendo a se stessi un'umiliazione dello stesso tipo" [126]. Per i cristiani dei primi secoli del medioevo, eucaristia e digiuno erano il cemento che teneva insieme la loro comunità:

ricevere il pane e il vino della comunione significava [...] presenziare ad un sacrificio che costituiva la vittoria e il trionfo della chiesa, a una morte che era insieme gloria e risurrezione [...] L'atto del digiunare, in preparazione per un simile pasto domenicale, o come attesa quaresimale dell'arrivo dello sposo promesso, oppure ancora come risposta stagionale al raccolto, significava unirsi alla scarsità affinché potesse sopraggiungere l'abbondanza [127].

Per i primi cristiani, il digiuno poteva costituire una forma di raccoglimento religioso o una purificazione o esorcismo dagli spiriti maligni; "serviva ad esprimere (così, per esempio, nei due o tre giorni di digiuno precedenti la Pasqua) il lutto per la partenza dello sposo. Era altresì un'opera meritoria verso Dio e verso il prossimo. Inoltre, il digiuno poteva essere penitenziale" [128].

Poiché il peccato di Adamo, che aveva gettato l'uomo nella miseria della sua condizione attuale, era stato un peccato di gola, Cristo aveva prima digiunato nel deserto, poi, con l'eucaristia ed il suo sacrificio sulla croce, era diventato egli stesso cibo di salvezza, che placasse l'ira divina e riscattasse le generazioni future dalla colpa dei progenitori. Digiunando, perciò, anche il cristiano si rende propizio Dio, e, imitando Cristo, compie un atto volto al beneficio di tutta quanta la comunità. Negando il cibo a se stesso, il cristiano lo rende disponibile per tutta la comunità, prevenendo la possibilità che questa soffra a causa delle carestie. Così, al digiuno vengono attribuite anche virtù terapeutiche, tanto collettive, quanto individuali, come ricorda lo Pseudo Atanasio: "Digiunare [...] cura le malattie, prosciuga gli umori corporei, mette in fuga i demoni, libera dai pensieri impuri, chiarisce la mente e purifica il cuore, santifica il corpo, e innalza l'uomo al trono di Dio" [129].

Da tutte queste concezione nascono i grandi digiuni rituali che punteggiano il calendario cristiano antico e medievale, come le antichissime stazioni (il digiuno del mercoledì e del venerdì) e le due quaresime di Pasqua e di Pentecoste, o ancora le quattro tempora, sorte per assorbire all'interno del cristianesimo antichissimi riti pagani collegati ai culti della fertilità [130].

In generale, digiunare non voleva dire astenersi dal cibo, ma solo astenersi da particolari alimenti "e limitarsi ad un unico pasto quotidiano, da assumere dopo il vespro" [131], anche se poi la lista dei cibi consentiti si assottigliava, e astinenza totale e digiuno finivano per sovrapporsi.

Nello svolgersi del tempo, tuttavia, accanto a questi valori comunitari dell'eucaristia e del digiuno, si assiste al sorgere di nuovi significati, di natura individuale, più che collettiva. Quando i missionari cristiani entrarono in contatto con le culture germaniche ed ugro-finniche rimaste ancora pagane, si rese possibile e, entro un certo limite, necessario, adattare i riti e le credenze cristiani alla mentalità dei popoli per i quali considerare l'irruzione del soprannaturale nel quotidiano era il centro della religiosità. Da un piano comunitario e sociale, perciò, l'eucaristia ed il digiuno si spostano, a poco a poco, ad un piano più personale e privato [132]. In questo modo, i due atti religiosi fondamentali nella vita quotidiana del cristiano finivano per acquistare un nuovo valore tutto individuale, dove il centro dell'atto sacramentale era, nel caso del digiuno, un particolare modo di vivere la religione attraverso il corpo, e, nel caso dell'eucaristia, l'unione fisica e reale del corpo dell'individuo con il corpo storico, altrettanto individuale, del Cristo. Da questa unione nasceva poi la fusione delle due sostanze, quella carnale e mortale dell'uomo decaduto, e quella, carnale anch'essa, ma immortale perché risorta, del Cristo-uomo. Quando, al momento del Sanctus, la liturgia latina ripete la formula di saluto "Benedictus qui venit in nomine Domini", che la popolazione festante di Gerusalemme aveva rivolto a Cristo [133], con queste stesse parole si invoca e si realizza la presenza reale di Cristo in mezzo all'assemblea, ma soprattutto sull'altare, come vittima sacrificale [134]. Le parole della Consecratio, pronunciate in prima persona, non sono più le parole del sacerdote, ma sono le parole di Cristo stesso, presente al rito sacrificale come sacrificante e come vittima [135]. Quando, al momento della fractio, il sacerdote spezza l'ostia, è il corpo di Cristo che viene spezzato dai tormenti della passione, e quando il rito prevede che il calice benedetto sia posto alla destra del pane, quel calice è lo stesso in cui, secondo la leggenda, Giuseppe d'Arimatea raccolse, dal costato aperto di Cristo, pane misto ad acqua: attraverso ogni atto rituale del sacerdote, la passione salvifica di Cristo viene rappresentata sull'altare, il velo del tempo squarciato e una finestra aperta sull'eterno verificarsi del sacrificio; ogni gesto, ogni oggetto si carica di una molteplicità di significati, gli uni sovrapposti e congiunti agli altri.

D'altro canto, la stessa comunione aveva perso, nel corso del medioevo, il proprio carattere di celebrazione comunitaria, soprattutto nell'organizzazione del rito: nel secolo XII, il sacerdote celebrava con la schiena rivolta all'assemblea dei fedeli, che spesso non erano neppure in grado di capire l'ufficio liturgico, celebrato in latino. I fedeli, nel frattempo, "erano impegnati in ogni sorta di devozioni personali [...] solo vagamente collegate alla cerimonia" [136]. "Con il secolo XIII", poi, "[...] l'eucaristia era divenuta un oggetto di adorazione" [137]. A partire dal secolo XII, tuttavia, si affermò l'uso di custodire le ostie consacrate in veri e propri ostensori, via via sempre più elaborati, costruiti proprio allo scopo di offrire il corpo di Cristo alla vista e all'adorazione dei fedeli - un po' come, da secoli, avveniva nel culto delle reliquie dei santi, persino in quello del sangue di Cristo. Il corpo di Cristo veniva così offerto alla vista dei fedeli anche al di fuori della consacrazione eucaristica propriamente detta, e l'ostia, la cui importanza era stata per secoli tutta interna al rito sacramentale, divenne oggetto separato di culto, da adorare e da portare in processione nel corso di determinate festività ed occasioni particolari [138]. Dal consumare il cibo eucaristico, il culto si era sensibilmente spostato verso una prevalenza della vista, del contemplare cioè l'ostia consacrata, innalzata al momento dell'elevazione o esposta al pubblico in teche riccamente decorate. "La pratica si diffuse rapidamente, e con essa la convinzione che vedere l'ostia avesse un valore spirituale, che si trattasse di una sorta di ‘doppio sacramento', parallelo all'atto dell'assunzione" [139].

Di fronte al sorgere e al mutare di queste pratiche, il medioevo vede anche il proliferare di riflessioni teologiche sulla natura del sacrificio eucaristico e del pane e del vino che ne sono protagonisti. Ne sono testimonianza, per esempio, in due epoche distantissime tra loro, il De corpore et sanguine Christi di Pascasio Radberto nel IX secolo e la Summa theologiae di Tommaso d'Aquino nel XIII secolo. Alla radice di queste meditazioni, tuttavia, si pone la posizione, estremamente complessa e articolata, espressa da Agostino d'Ippona nella sua riflessione e predicazione.

 

 

L'eucaristia nella riflessione filosofica e religiosa di sant'Agostino

Agostino non ha lasciato un trattato dedicato interamente al valore e al significato dell'eucaristia: la sua posizione sull'argomento va perciò ritrovata scavando tra discorsi, lettere e altre opere in cui ne ha discusso [140].

Per Agostino, l'eucaristia, insieme al battesimo, è esempio principe di sacramento - ma la concezione che il vescovo d'Ippona ha di questo aspetto fondamentale della vita cristiana è diverso da quella che, pur rifacendosi spesso al suo pensiero, formuleranno i teologi medievali. Scrive Agostino nel De doctrina cristiana che il sacramento del battesimo e la celebrazione del corpo e del sangue del Signore sono segni "facilissimi a farsi, venerabilissimi a comprendersi, santissimi a osservarsi" [141]. Nello stesso testo, il vescovo d'Ippona esamina con attenzione la natura del segno, ritenendo la dimensione simbolica fondamentale all'interno della vita di fede del cristiano:

parlando dei segni dico che bisogna considerare non ciò che sono in sé ma piuttosto il fatto che sono segni, cioè che significano qualcosa. Difatti il segno è una cosa che, oltre all'immagine che trasmette ai sensi di se stesso, fa venire in mente, con la sua presenza, qualcos'altro [diverso da sé] [...]. Dei segni, peraltro, alcuni sono naturali, altri intenzionali [...] Segni intenzionali sono quelli che gli esseri viventi si scambiano per indicare, quanto è loro consentito, i moti del loro animo, si tratti di sentimenti o di concetti. [...] Abbiamo stabilito di considerare ed esporre questa categoria di segni per quanto si riferisce agli uomini, poiché anche i segni dati da Dio che sono contenuti nelle sante Scritture sono stati resi manifesti a noi tramite gli uomini che li hanno scritti [...] Certamente il Signore diede un significato anche al profumo dell'unguento con cui furono profumati i suoi piedi, e alla sunzione del Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue diede il significato che volle e la donna che fu guarita toccando l'orlo della sua veste ci indicò qualcosa [...] [142]

Il punto da cui muove Agostino è il signum facere, l'atto dell'indicare che fa del segno quello che è: il segno muove da sé, da ciò che è e che appare, per indicare altro da sé. È la presenza di un'assenza, e insieme un modo per richiamare alla memoria - o alla mente - ciò che al presente i sensi non restituiscono dal mondo esterno. In questo senso il segno non è realtà statica, ma movimento della conoscenza dal visibile verso l'invisibile. Laddove il segno nasce da un'intenzione comunicativa, il processo di comprensione risalirà dal gesto, lungo il percorso tracciato dall'intenzione, fino al messaggio velato dal segno che lo rappresenta. In questo senso ogni atto di Gesù, come descritto nei Vangeli, diventa segno di una realtà più profonda, nascosta allo sguardo di chi non è pronto a riceverne la conoscenza diretta. È anzi proprio il percorso che dal segno conduce alla sua interpretazione, e dunque allo svolgere la densità di significato avvolta in sé e nascosta nel segno, che l'anima può iniziare il suo percorso di comprensione e visione del mistero [143]. Centrale tra questi segni, perché meta ultima del percorso di catecumenato e pratica fulcro dell'intera vita cristiana, è la sunzione del Corpo e del Sangue.

Agostino considera dunque l'eucaristia è dunque come un segno. Così, nel libro decimo della Città di Dio, Agostino ricorda come Cristo, diventato uomo, in questo e per questo sia diventato anche unico e solo sacrificio: Quindi il Mediatore, in quanto prendendo la forma di schiavo è divenuto l'uomo Cristo Gesù mediatore di Dio e degli uomini, riceve nella forma di Dio il sacrificio assieme al Padre con cui è un solo Dio. Tuttavia nella forma di schiavo preferì essere che accettare il sacrificio affinché con questo pretesto non si pensasse che si deve sacrificare a una creatura. Per questo è sacerdote, egli offerente, egli offerta. E volle che il sacramento quotidiano di questa realtà sia il sacrificio della Chiesa la quale, essendo il corpo di lui in quanto capo, sa di offrire se stessa per mezzo di lui. Gli antichi sacrifici dei Patriarchi erano i molteplici e vari segni di questo sacrificio vero, perché in molti si figurava l'unico come se con diverse parole si esprimesse un solo concetto [144].

Alla base del sacrificio redentore, Agostino legge, seguendo la lettera ai Filippesi [145], il farsi uomo del Verbo di Dio. La logica su cui il passo è costruito è quella dello svuotarsi di Dio, la kenosis, su cui tutto il cammino di redenzione è costruito. Rinunciando alla propria potenza divina, assumendo nella carne il corpo e la mortalità umani, Cristo si sottomette alla servitù del peccato: questo è il significato dell'appellativo di schiavo con cui è qui caratterizzato, privo com'è della libertà propria dello stato di grazia. Come Dio, il Verbo riceve sacrifici; nell'abbassamento e nell'umiliazione, nel suo farsi nulla, invece, diventa egli stesso sacrificio. Alla base di questo processo di abbassamento, di svuotamento, vi è l'impronta della volontà, che sceglie e opera il cammino di sacrificio, evidenziata dai verbi con cui Agostino indica le azioni del Mediatore: "preferì" (maluit) e "volle" (voluit). Il sacrificio è dono scelto da Dio, per il quale Cristo è vero sacerdote e vera vittima sacrificale: mentre nel rito ebraico la vittima è scelta dal sacerdote, e va al sacrificio non volendolo, il Mediatore sale sulla croce con un atto di volontà autodeterminante [146].

Altrove, tuttavia, la stessa eucaristia è considerata in senso reale. Nella lettera 98, per esempio, discutendo del rapporto tra il segno e il suo significato, Agostino scrive al vescovo Bonifacio che tale rapporto ha natura analogica, e che qualcosa del significato è presente nel segno che lo rappresenta. Così, per esempio, quando un cristiano si riferisce alla Pasqua, intesa come festa del calendario, usa il termine in senso analogico, riferendosi alla festa presente che ricorda l'avvenimento passato. Eppure, per quanto riguarda i sacramenti, la relazione è ancora più stretta e profonda:

Cristo non s'è forse immolato da se stesso una sola volta? Eppure nel mistero liturgico s'immola per i fedeli non solo ogni ricorrenza pasquale, ma ogni giorno. E non mentisce di certo chi, interrogato se Cristo veramente s'immola, risponde di sì. Poiché se i sacramenti non avessero alcun rapporto di somiglianza con le realtà sacre di cui sono segni, non sarebbero affatto sacramenti. Da tale rapporto di somiglianza prendono per lo più anche il nome delle stesse realtà sacre. Così il sacramento del Corpo di Cristo è in certo qual modo il Corpo di Cristo, il sacramento del Sangue di Cristo è lo stesso Sangue di Cristo [147].

Nel primo discorso esegetico sul Salmo 33, riprendendo il parallelismo tra Melchidesech e Cristo già istituito dalla Lettera agli Ebrei [148], Agostino sottolinea il carattere di nutrimento reale del pasto eucaristico:

[...] il Signore nostro Gesù Cristo. Nel suo corpo e nel suo sangue ha voluto che fosse la nostra salvezza. Ma come ci ha raccomandato il suo corpo e il suo sangue? Con la sua umiltà. Se non fosse stato umile, infatti, non lo potremmo né mangiare né bere. Guarda la sua sublimità: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio ed era Dio il Verbo. Ecco il cibo eterno: ma lo mangiano gli angeli, lo mangiano le sublimi virtù, lo mangiano gli spiriti celesti, e mangiandolo si saziano, e intatto resta ciò che li sazia e li allieta. Ma quale uomo può giungere a tal cibo? Dov'è un cuore adeguato a questo nutrimento? Era dunque necessario che quella vivanda si facesse latte, per poter pervenire ai piccoli. E come può diventare latte un cibo? come si trasforma in latte, se non passando attraverso la carne? Così infatti fa la madre. Ciò che mangia la madre mangia anche il piccolo; ma poiché il bimbo è incapace di nutrirsi di pane, la madre incarna quel pane, e con l'umiltà delle mammelle ed il succo del latte nutre, con quel pane stesso, il bambino. In quale maniera con tale pane ci ha nutrito la Sapienza di Dio? Poiché il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi. Osservate l'umiltà, dato che l'uomo, come sta scritto, ha mangiato il pane degli angeli: dette loro il pane del cielo, l'uomo mangiò il pane degli angeli, cioè: il Verbo sempiterno di cui si nutrono gli angeli, e che è uguale al Padre, l'uomo lo ha mangiato; perché essendo nella natura di Dio, non considerò una rapina l'essere uguale a Dio. Si nutrono di lui gli angeli, ma egli annientò se stesso affinché l'uomo mangiasse il pane degli angeli, assumendo la forma di servo, fattosi simile agli uomini, e nell'atteggiamento riconosciuto come un uomo; si umiliò facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce, in modo che ormai dalla croce stessa venisse mostrato a noi il nuovo sacrificio: la carne e il sangue del Signore [149].

Il passo, denso di citazioni scritturistiche intessute nell'argomentazione agostiniana a prova e sostegno della tesi principale, ruota attorno all'idea di nutrimento e di sostentamento. Gli esseri umani possono trovare la salvezza solo nel nutrimento del corpo e del sangue del redentore. Poiché, però, nel suo stato di caduta e scissione l'essere umano non è in grado di assumere tale nutrimento, il sacrificio di Cristo lo ha donato in una forma più facilmente assimilabile. La similitudine della madre, che trasforma il cibo solido in latte all'interno del suo corpo, esprime il concetto in un'immagine vivida e immediata, così che l'uditorio la possa facilmente far propria, sperimentando nell'immaginazione la realtà degli affetti e del concetto cui le parole di Agostino alludono. Al cuore di questa immagine si pongono due elementi chiave: da un lato la minorità dell'essere umano, ancora incapace di affidarsi solo alle forze della sua anima, ancora bisognoso di aiuto e sostegno sulla via della salvezza; dall'altro la figura materna, consolatrice e premurosa di Dio, che aiuta l'essere umano a crescere e rafforzarsi. La virtù necessaria in questo rapporto stretto - come il rapporto privilegiato, intimo tra la madre e l'infante allattato al seno - è ancora una volta l'umiltà: l'umiltà dell'uomo che si riconosce bisognoso, debole, ma prima ancora l'umiltà di un Dio che rinuncia alla propria grandezza, si riduce per permettere alle sue creature, ai suoi figli di crescere.

Il cibo, tramite cui il cristiano può crescere, è trasformato perché possa essere ingerito e assimilato; e insieme trasformato perché risulti più accettabile a chi se ne nutre:

quando il nostro Signore Gesù Cristo parlava del suo corpo disse: Se uno non avrà mangiato la mia carne e bevuto il mio sangue, non avrà in sé la vita; perché la mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. E i suoi discepoli che lo seguivano si spaventarono, inorridirono a quelle parole; e non comprendendole ritennero che il Signore nostro Gesù Cristo dicesse non so che di duro, nel dire che dovevano mangiare la sua carne che vedevano, e bere il suo sangue; non sopportando tali discorsi, quasi dicevano: In qual modo è? [...] Gli dissero infatti: In qual modo può costui darci da mangiare la sua carne? Ritenevano il Signore impazzito, [credevano] che non sapesse quello che diceva, che fosse divenuto folle. Ma egli che ben sapeva quello che diceva [...] annunziava il sacramento [150].

Il corpo e il sangue di Cristo, suggerisce qui Agostino, sono dunque realmente presenti nell'eucaristia, ma la loro forma è velata nell'aspetto del pane e del vino, perché risulti più accettabile, meno folle a chi è chiamato a nutrirsene.

In un discorso pronunciato in occasione della solennità pasquale, Agostino ritorna sul tema dell'eucaristia. Rivolgendosi ai neobattezzati, Agostino li invita ad avvicinarsi al sacramento presente dell'eucaristia con piena cognizione di causa:

Cristo Signore nostro dunque, che nel patire offrì per noi quel che nel nascere aveva preso da noi, divenuto in eterno il più grande dei sacerdoti, dispose che si offrisse il sacrificio che voi vedete, cioè il suo corpo e il suo sangue. Infatti il suo corpo, squarciato dalla lancia, effuse acqua e sangue, con cui rimise i nostri peccati. Ricordando questa grazia, operando la vostra salute (che poi è Dio che la opera in voi), con timore e tremore accostatevi a partecipare di quest'altare. Riconoscete nel pane quello stesso [corpo] che pendette sulla croce, e nel calice quello stesso [sangue] che sgorgò dal suo fianco. [151]

Nell'eucaristia si ha dunque presenza vera e reale - presenza che l'occhio profano non sa riconoscere; il vescovo-insegnante assume allora il compito di svelare tale presenza all'iniziato, così che si accosti a un pasto comunque reale con cognizione di causa. Solo in tal modo, infatti, potrà ricevere la piena guarigione corroborante, recata dagli alimenti di cui sta per nutrirsi. In questo pasto, l'iniziato ai misteri cristiani si trasforma, il suo corpo si sublima, il suo essere si amplia ad accogliere l'universalità del totus Christus:

Prendete dunque e mangiate il corpo di Cristo, ora che anche voi siete diventati membra di Cristo nel corpo di Cristo; prendete e abbeveratevi col sangue di Cristo. Per non distaccarvi, mangiate quel che vi unisce; per non considerarvi da poco, bevete il vostro prezzo. Come questo, quando ne mangiate e bevete, si trasforma in voi, così anche voi vi trasformate nel corpo di Cristo, se vivete obbedienti e devoti. Egli infatti, già vicino alla sua passione, facendo la Pasqua con i suoi discepoli, preso il pane, lo benedisse dicendo: Questo è il mio corpo che sarà dato per voi. Allo stesso modo, dopo averlo benedetto, diede il calice, dicendo: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, che sarà versato per molti in remissione dei peccati. Questo già voi lo leggevate o lo ascoltavate dal Vangelo, ma non sapevate che questa Eucarestia è il Figlio stesso; ma adesso, col cuore purificato in una coscienza senza macchia e col corpo lavato con acqua monda, avvicinatevi a lui e sarete illuminati, e i vostri volti non arrossiranno. Perché se voi ricevete degnamente questa cosa che appartiene a quella nuova alleanza mediante la quale sperate l'eterna eredità, osservando il comandamento nuovo di amarvi scambievolmente, avrete in voi la vita. Vi cibate infatti di quella carne di cui la Vita stessa dichiara: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo, e ancora: Se uno non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà la vita in se stesso

Non solo l'assimilazione del pane e del vino nell'eucaristia ha lo scopo di cementare i vincoli tra gli individui all'interno della comunità cristiana; quando, dopo adeguata preparazione e purificazione, assimila la carne e il sangue del Verbo di Dio, l'iniziato diventa parte del corpo eterno, unito al suo interno a tutti i cristiani, ai martiri e ai santi che l'hanno preceduto e che lo seguiranno. Nell'assimilazione consapevole dell'eucaristia, sostenuta dalla fede e dal desiderio di Dio, il cristiano supera i limiti della propria corporeità debole e franta, e si espande in una dimensione trans-storica - assaporando nell'esperienza del totus Christus un assaggio dell'eternità di Dio. Tale trasformazione, tuttavia, avviene non nella conoscenza di un simbolo, ma attraverso il fare propria nel proprio corpo la carne assunta dal Verbo di Dio, che si fa di nuovo reale e realmente presente nel sacramento dell'eucaristia [152].

In un discorso tenuto ai fedeli di Tagaste in occasione della Pasqua, Agostino usa una metafora a lui cara per illustrare questo concetto. Riferendosi al pane eucaristico, egli invita il suo uditorio a immaginare il progresso che ha portato alla produzione dell'alimento:

Ripensate che cos'era una volta nei campi questa sostanza, come la terra la partorì, la pioggia la nutrì e la fece diventare spiga; poi il lavoro dell'uomo la radunò nell'aia, la trebbiò, la ventilò, la ripose [nei granai], poi la tirò fuori, la macinò, l'impastò, la cosse, ed ecco finalmente la fece diventare pane. Ed ora pensate a voi stessi: non eravate e siete stati creati, siete stati radunati nell'aia del Signore, siete stati trebbiati col lavoro dei buoi, ossia di coloro che annunziano il Vangelo. Quando da catecumeni eravate rinviati, venivate conservati nei granai. Poi avete dato i vostri nomi; avete cominciato ad essere macinati con digiuni ed esorcismi. Quindi siete venuti all'acqua e siete stati impastati e siete diventati una cosa sola. Col sopraggiungere del fuoco dello Spirito Santo siete stati cotti e siete diventati pane del Signore [153].

L'immaginazione di ogni singolo fedele è chiamata ad agire, a impegnarsi nell'inseguire le immagini che il vescovo via via evoca; e attraverso il richiamo agli elementi naturali, il pane eucaristico è legato ai processi naturali e all'operare dell'uomo. Il testo latino, con un uso sapiente e dosato della retorica, risulta ancora più efficace e offre uno spaccato di come la parola agostiniana sappia riplasmare la realtà, per evocarla nella presenza dinnanzi agli occhi del fedele - e del lettore oggi. È vero infatti che il pane viene dapprima ricondotto agli elementi e ai processi naturali da cui è generato; ma allo stesso tempo questi processi sono umanizzati: come una madre, la terra partorisce il germoglio (peperit); la pioggia non si limita a irrigarlo, ma lo nutre (nutrivit); e mentre il ritmo del discorso, nel succedersi di sillabe pari e dispari e nel gioco allitterativo, evoca i ritmi della natura, il nome di creatura (molto più significativo dell'italiano sostanza) unisce il mondo umano e naturale: entrambi sono frutto dell'opera creatrice di Dio. Così le scelte stilistiche di Agostino evocano l'esperienza di quell'unità, che il discorso illustra, e di cui i cristiani entrano a far parte nell'eucaristia.

La frase seguente, con la lunga enumerazione delle azioni umane, evoca con forza il ritmo energico del lavoro e dell'opera trasformatrice; mentre il linguaggio tecnico rimanda all'attenzione, alla cura, alla precisione poste in questa trasformazione. Così, per traslazione dal significato metaforico all'esperienza cristiana, i fedeli possono sperimentare il percorso attento e preciso che, dallo stato di dispersione sociale ed esistenziale, li porta all'unità in se stessi e con Dio. Così come le azioni agricole che portano alla produzione del pane e del vino richiedono l'impegno solerte della mano del produttore, così il percorso non è dato o ricevuto. Per raggiungere il totus Christus, accanto al dono del sacramento seguito al sacrificio di Cristo, è necessario anche l'impegno attivo da parte dell'individuo. Lo sforzo necessario muove dall'accettazione alla messa in opera dei comandamenti evangelici, illuminati dalla più profonda comprensione di chi ha compiuto il catecumenato, e sorretti dalla partecipazione alla mensa di Cristo. Solo a seguito di questo sforzo, e come premio al dolore e alla fatica che esso costa, si può gustare la felicità piena della comunione di Cristo e con Cristo. Tale felicità è da Agostino evocata tramite l'immagine del vino, prodotto dalla compressione e dalla spremitura violenta di tanti acini (e violenta è anche l'immagine del torchio, che tale spremitura evoca), ma che proprio da questo processo produttivo ottiene il suo sapore dolce (suavitate):

Questo è quello che avete ricevuto. Come dunque vedete che esprime unità tutto quel che è stato fatto, così anche voi siate uno, amandovi, mantenendo l'unità della fede, l'unità della speranza, l'indivisibilità della carità. Quando questa cosa la ricevono gli eretici, ricevono una testimonianza contro se stessi, perché essi vanno cercando la divisione, mentre questo pane è segno di unità. Allo stesso modo anche il vino era in tanti acini e ora è una cosa sola; è uno nella soavità del calice, ma prima è stato spremuto nel torchio. E anche voi, dopo quei digiuni, dopo le fatiche, dopo l'umiliazione e la contrizione, ormai nel nome di Cristo siete confluiti in un certo senso nel calice del Signore. Siete dunque qui sulla mensa, siete qui nel calice. Tutto questo lo siete insieme con noi. Insieme infatti ne prendiamo, insieme ne beviamo, perché insieme viviamo [154].

Così la vita eterna, pur frutto del percorso e dello sforzo dell'individuo, è anche vita condivisa, così come è condivisa l'eucaristia che unisce tutti i fedeli intorno alla mensa, oltre oltre le divisioni e le differenze operate dal tempo e dallo spazio, nell'unico totus Christus.

Nell'opera agostiniana, dunque, si afferma tanto il carattere simbolico, quanto, e soprattutto, quello reale del sacramento dell'eucaristia, il pasto sacro preparato dallo stesso Cristo con l'offerta del suo corpo e del suo sangue, la mensa del pane e del vino che dona la vita eterna a chi vi partecipa:

la Sapienza di Dio, cioè il Verbo coeterno al Padre che nel grembo della Vergine si costruì come casa il corpo umano e che ad esso unì la Chiesa come membra al Capo, che sacrificò come vittime i martiri, che preparò la mensa col pane e col vino, in cui si manifesta anche il sacerdozio secondo l'ordine di Melchisedec [...] nell'altro libro, intitolato l'Ecclesiaste, dice: Non v'è bene per l'uomo se non ciò che mangerà e berrà. Con maggiore attendibilità nel passo si ravvisa ciò che riguarda la partecipazione alla mensa che lo stesso sacerdote Mediatore della Nuova Alleanza offre secondo l'ordine di Melchisedech dal suo corpo e dal suo sangue. Questo sacrificio sottentrò a tutti i sacrifici dell'Antica Alleanza che erano offerti come adombramento del futuro. Perciò anche nel Salmo trentanove ravvisiamo la voce del Mediatore che parla profeticamente: Non hai gradito sacrificio e offerta, ma mi hai dato un corpo, perché in luogo di tutti i sacrifici e offerte, si offre il suo corpo e si dispensa ai partecipanti. Che l'Ecclesiaste nel concetto del mangiare e del bere, che spesso ripete e raccomanda vivamente, non intenda il banchetto del piacere sensibile, lo dimostra la frase: È meglio andare in una casa in cui si piange che andare in una casa in cui si gozzoviglia; e poco dopo: Il cuore dei saggi nella casa in cui si piange e il cuore degli stolti nella casa in cui si fa baldoria [155].

Il passo si apre ricordando l'incarnazione, il farsi piccolo della Sapienza di Dio, del Verbo di Dio. Tali espressioni sanciscono due attributi divini - "di Dio" è infatti genitivo soggettivo, per cui "Sapienza di Dio" equivale a "Dio è sapiente", o, meglio ancora, nel linguaggio teologico dell'epoca, "Dio è Sapienza"; e "il Verbo di Dio" equivale a "Dio è Verbo" o, in una traduzione meno gravata dal peso della tradizione, "Dio è Parola". Questo Verbo è situato nell'eternità divina - fuori dal tempo - ma edifica nel tempo una casa per sé. Tale casa è il corpo umano di Gesù, generato all'interno del grembo di Maria. In questo passo, tuttavia, tale corpo non si limita a manifestare la divinità, la ospita nel mondo: attraverso il corpo, Dio si fa abitante e risiede nel mondo della materia, nel mondo del tempo. E come abitante, tuttavia, resta fuori dal tempo.

Tra eternità e storia, e a conclusione e sunto di entrambe, Cristo "preparò la mensa col pane e col vino". Agostino lega quest'immagine all'offerta del corpo e del sangue sulla croce: e con questa offerta i cristiani sono resi partecipi della mensa (participem fieri), che Agostino fa coincidere con l'iniziare ad avere la vita (incipere habere vitam) [156]. Il termine vita qui indica l'eternità, la vita eterna o vera vita, un'esistenza piena e pienamente felice, autentica e non soggetta alla sofferenza, al decadimento e alla morte. Solo chi, sedendo alla mensa di Cristo, cioè avvicinandosi al mistero del sacrificio salvifico, e, reso partecipe dell'eucaristia, si nutre del corpo e del sangue del Verbo di Dio, inizia (incipere) ad avere la vita, a vivere in modo autentico, nel cammino verso la vita eterna.

Nel libro IX delle Confessioni, discutendo degli ultimi desideri della madre Monica circa la propria sepoltura, Agostino racconta che la donna

non si preoccupò che il suo corpo venisse composto in vesti suntuose o imbalsamato con aromi, non cercò un monumento eletto, non si curò di avere sepoltura in patria. Non furono queste le disposizioni che ci lasciò. Ci chiese soltanto di far menzione di lei davanti al tuo altare, cui aveva servito infallibilmente ogni giorno, conscia che di là si dispensa la vittima santa, grazie alla quale fu distrutto il documento che era contro di noi, e si trionfò sul nemico che, per quanto conteggi i nostri delitti e cerchi accuse da opporci, nulla trova in Colui, nel quale siamo vittoriosi [157].

Il desiderio di Monica dice molto del valore attribuito all'eucaristia all'epoca. Prossima alla morte, la donna rigetta le pratiche sociali in uso presso la società romana dell'epoca, e chiede invece che sia messa in atto una nuova pratica. Alle vesti sontuose, al corpo imbalsamato, al monumento funebre, che estendono la presenza terrena, nel tempo, del defunto; Monica vuole sostituire la vicinanza al sacrificio eucaristico, ciclicamente ripetuto nel tempo, immagine temporale di una presenza eterna - sacrificio che lei identifica come la porta d'ingresso verso l'eternità divina. Offerta sull'altare, l'eucaristia diventa sacrificio redentore, anzi il sacrificio più grande l'unico vero sacrificio capace di operare la trasformazione di chi vi si affida:

Con la sua morte, l'unico sacrificio assolutamente vero offerto per noi, tutto ciò che c'era in noi di colpevole e che dava il diritto ai principati e alle potestà di costringerci a espiare con i supplizi, egli ha pulito, abolito, estinto, e con la sua risurrezione a una vita nuova ha chiamato noi, i predestinati, chiamati ci ha giustificati, giustificati ci ha glorificati.

Come ricordo e rinnovamento incruento del sacrificio di Cristo sulla croce, l'eucaristia è sacramento di vitale importanza. Come cibo e bevanda, pane e vino nutrono fisicamente e spiritualmente chi li riceve, e così facendo ne incrementano (augent) la vita spirituale, mentre, in virtù della fede del singolo e della grazia divina, cancellano i peccati. Ma l'eucaristia ha per effetto anche l'unione dei singoli fedeli fra di loro, e del corpus fidelium con Cristo, che ne è, secondo l'espressione paolina, il capo - e mantiene dunque, accanto alle più "moderne" funzioni di salvezza individuale, l'originale valore comunitario che già le era stato attribuito dai Padri della Chiesa, da Cipriano a Leone I Magno. Questa concezione dell'eucaristia si ritrova anche nel vissuto di Angela da Foligno. Il sacrificio eucaristico, dice Angela, è stato infatti istituito da Cristo non solo in memoria della sua morte, ma anche perché Cristo stesso potesse "rimanere tutto e sempre con noi" [158]. Nelle specie del pane e del vino è presente, in modo misterioso, Cristo stesso, e di queste verità la fede dona all'uomo una conoscenza più certa di quella ottenuta tramite l'esperienza sensibile:

Noi sappiamo bene e conosciamo per fede in modo certissimo, senza ombra di dubbio, che quel pane e quel vino benedetto, per la divina e infinita potenza e le santissime parole che pronunciò il suo autore, Cristo, Dio fatto uomo, e che deve dire e dice il sacerdote, diventano sostanzialmente Cristo. Così nella consacrazione quella sostanza del pane e del vino si transustanzia e diventa Cristo, Dio e uomo, rimanendo il colore, il sapore, la forma, la capacità, il modo e tutta la qualità del pane e del vino, non in Cristo, ma, per la potenza divina, in se stessi, al di sopra della loro natura: il colore in se stesso, il sapore in se stesso, la forma in se stessa, la qualità in se stessa [159].

L'unione con Dio attraverso il sacramento è un atto marcatamente fisico, materiale, tangibile: coloro, infatti, che si comunicano a Cristo, "lo posseggono, lo vedono, lo sentono, lo gustano e gli sono vicini" [160]. Il corpo di Cristo "soddisfa, riempie e sazia [...] pervade, rallegra" chi se ne nutre [161]. "Il pezzetto di Ostia, che si mangia fisicamente" è proprio "quel Bene eterno e infinito, creato e increato" che "è cibo sacramentale, pasto, arca e fonte dell'anima e del corpo". Per questo motivo è necessario che, quando l'anima si accosta all'eucaristia, lo faccia "tutta lavata e splendente", purificata dall'acqua [162].

Ma anche la sola meditazione sul sacrificio eucaristico ha il valore del sacramento. Meditando sulle verità contenute nel sacrificio eucaristico, ha luogo, all'interno dell'anima dell'uomo, quella stessa trasformazione che comporta l'assunzione "fisica" dell'ostia consacrata. Qui, nelle parole di Angela, è possibile vedere come si realizza il passaggio dalla centralità del pasto sacro nella vita del fedele, al culto eucaristico come contemplazione del corpo sofferente di Cristo. Sono tre le "grandi verità" che l'anima deve considerare nel santo sacrificio. Prima fra tutte è lo

sguardo [...] dell'ineffabile amore che egli [scil. Cristo] aveva per noi; dobbiamo vedere come era tutto appassionato d'amore per noi e si lasciò a noi tutto e per sempre. Il secondo è lo sguardo dell'indicibile dolore mortale che egli aveva per noi; dobbiamo vedere come, partendo, cioè allontanandosi per la morte dolorosissima, dovette passare attraverso quei dolori, che erano acutissimi in modo inenarrabile e in cui doveva restare abbandonato. [...] Coloro che vogliono celebrare e ricevere questo sacrificio [cioè l'eucaristia] devono scrutare questa verità [163].

E' a causa del suo amore per l'umanità che Cristo, il Dio-uomo, ha deciso di lasciare tutto se stesso nel sacrificio che ha istituito. La presenza reale di Dio nel sacrificio sull'altare è possibile in virtù della sua onnipotenza. Angela invita il fedele a sospendere il giudizio su ciò che, per la vastità di Dio, gli è incomprensibile:

Notate e vedete chi è Colui che volle rimanervi! Egli è Colui che è e lui è restato tutto in questo santissimo Sacrificio! Perciò nessuno si meravigli del fatto che egli possa stare simultaneamente su tanti altari, al di là del mare e al di qua, e che stia così lì come qui e così qui come lì. Egli, infatti, disse: "Io, che sono Dio, sono per voi incomprensibile" e ancora: "Io, che sono Dio, ho operato senza di voi, agisco senza di voi e nulla mi è impossibile fare". Perciò di fronte a quello che non capite, stringete le spalle [164].

Se l'anima si lascia trasportare dalla meditazione alla contemplazione dell'amore divino non può non essere da questo assimilata: "Quale anima, vedendo questo sguardo amorosissimo del Figlio, è così crudelissima da non trasformarsi subito tutta nell'amore?". Infatti, "l'amore divino ha una regola: unisce sempre a sé la cosa amata e la porta fuori di se stessa e di tutte le cose create, e del tutto è nell'Increato" [165]: rapita dall'amore di Dio, l'anima è assimilata al divino, trasformata nell'amore stesso. Lo stesso accade quando l'anima si accosta alla contemplazione della sofferenza divina: "Come fu trasformata nell'amore, attraverso lo sguardo dell'amore, così l'anima viene trasformata nel dolore, attraverso lo sguardo dolorosissimo dell'Amato abbandonato. Infatti, mentre l'anima lo ammira in quello sguardo amareggiato, egli la trasforma tutta nel dolore; lei non trova nessun rimedio di consolazione e diventa lo stesso dolore" [166]. Non è più l'assunzione del corpo di Cristo nelle specie del pane eucaristico, l'agente che opera la trasformazione, ma è Dio stesso, raggiunto attraverso la contemplazione, nell'eucaristia, del suo amore e del suo dolore, che attira al proprio interno l'anima del credente, e così facendo la trasforma. In questa visione, l'assunzione fisica, il mangiare letteralmente il corpo di Cristo, rimane sullo sfondo. La terza verità, infatti, mostra il modo in cui l'anima può accedere alla visione ei due sguardi di Cristo Dio e uomo: una via che passa innanzitutto per la contemplazione, e quindi per la partecipazione immaginativa all'amore ed al dolore di Cristo, e dove i due opposti vanno considerati insieme, perché l'uno mitighi l'altro.

Ma il cibo eucaristico fonda anche una scissione all'interno dell'alimentazione umana: da un lato, infatti, si pone il cibo profano, alimento quotidiano dell'uomo e della donna inseriti nella realtà cittadina, a cui si contrappone, dall'altro, il cibo sacro, il corpo della divinità, nutrimento straordinario. La mistica si trova a dover scegliere fra i due poli di questa opposizione: scegliendo di fare del cibo sacro il suo (unico) cibo, l'alimento ordinario, testimonia di volersi portare oltre la scissione, unificando i due momenti del pasto di sostentamento e del rituale religioso e sublimando il primo nel secondo.

Nutrendosi in modo privilegiato del corpo di Cristo, la mistica e la santa si inseriscono all'interno di questo intreccio simbolico. Nel processo dell'imitatio, il loro corpo si trasforma in quella carne di Cristo di cui si sono nutrite, mentre, ingerendo i rifiuti dei corpi altrui, assimilano in sé il massimo dell'abiezione, come Cristo ha fatto incarnandosi nel seno della vergine; ma, come Cristo, compiendo miracoli, ha nutrito chi lo seguiva, e come, tramite il suo stesso corpo è diventato, nella comunione, cibo per le masse dei fedeli, così la mistica diventa, con la sua azione nel mondo e i suoi miracoli, nutrice e sostentatrice della cerchia ristretta dei suoi seguaci, ma spesso anche di tutta la popolazione del Comune. Dispensatrice di cibo, la donna nutre chi la circonda fisicamente, in modo miracoloso, ma anche, più semplicemente, facendo opera di carità - e talvolta persino il bambino Gesù si fa allattare da lei, invertendo così quel ruolo che l'aveva visto abbeverare la donna al suo costato; altre volte, nutrita alla fonte della sapienza divina, la mistica diventa lei stessa sapienza e dispensatrice di quella sapienza, guidando così la comunità al cui interno è inserita.

Trasformata nel corpo, la santa porta a compimento il processo di imitatio Christi assumendo sulla sua persona le caratteristiche del redentore incarnato. Umiliana de' Cerchi, per esempio, prende su di sé le sofferenze umane, in particolare di chi è debole e indifeso. Questo accade non solo attraverso l'attività caritativa, che porta la santa di casa in casa, tra i poveri e gli indigenti; ma anche, e soprattutto, attraverso il miracolo, per cui la donna guarisce chi soffre facendo propria la sua sofferenza. Così narra, per esempio, fra Vito da Cortona, uno dei primi compagni di Francesco d'Assisi, biografo di Umiliana de' Cerchi:

Un giorno, mossa a compassione durante una delle sue visite, si avvicinò a un bambino gravemente ammalato, e quando lo vide torcersi per la crudeltà del dolore, disse [...] "Vuoi dare a me questa tua malattia [...] faccia il Signore questo per me [...] la dia tutta a me". Rispose il bambino: "Non voglio che tu la abbia tutta, ma una parte: prendi su di te il dolore che soffro al fianco e allo stomaco e portatelo via adesso, che io non lo senta più". E Umiliana rispondendo disse: "Sia fatto di me come hai detto "[167].

Come Cristo accoglie su di sé le sofferenze del mondo, così la donna accoglie su di sé quelle di un bambino, che però, lascia intendere il testo, altri non è che lo stesso Gesù. La vicenda agiografica si modella, allora, su quella di san Cristoforo: come il traghettatore si scopre incapace di sorreggere Gesù bambino sulle spalle, mentre attraversa il fiume, così Umiliana non può accogliere su di sé in una sola volta tutta la sofferenza del bambino; deve invece avvicinarsi alla perfetta imitatio per gradi, e due volte torna al capezzale del piccolo malato, per ripetere la sua offerta.

Ogni ritorno è accompagnato da una formula, che riecheggia le parole con cui Maria accetta il messaggio dell'angelo e offre se stessa, ancilla domini, per essere madre di Dio [168]. Il parallelismo è accentuato dalle scelte stilistiche dell'agiografo: come, dopo la formula di accettazione di Maria, l'angelo se ne diparte (in latino: recessit ab illa angelus), così Umiliana, dopo aver acconsentito ad accogliere su di sé il dolore del bambino, ritorna a casa (in latino: Et cum recessisset). Il verbo latino è lo stesso (recedere), a sottolineare il forte parallelismo tra il gesto di Maria e quello di Umiliana. Come Maria accoglie nel proprio grembo il figlio di Dio, e in questo si piega docile al volere della divinità; così anche Umiliana si apre al dolore del bambino sofferente, ma con umiltà accetta il proprio limite umano; e con gioia accetta che quanto ha richiesto le venga dato, non secondo i suoi termini, ma secondo la volontà divina. Nel percorso con cui giunge ad accogliere il dolore del bambino, l'io di Umiliana si fa più piccolo, e quasi svanisce: dove infatti la prima formula ancora conserva coscienza di un io che vuole e si apre, con il proprio desiderio, con la propria volontà, all'azione divina (in latino: Fiat, inquit, mihi sicut dixisti); nel ritornare presso il bambino, Umiliana si svuota a tal punto di sé, che resta solo l'azione divina: Fiat iuxta verbum tuum, in un'eco non solo del vangelo dell'Annunciazione, ma anche della preghiera di Cristo nel Getsemani [169].

Perfettamente docile alla volontà di Dio, aperta al suo dolore, Umiliana è trasformata nel corpo. La sua carne mortale, infatti, non può essere danneggiata neppure dal fuoco su cui, sconvolta dal dolore, la donna cade:

E quando il fuoco fu acceso e si volle scaldare, affaticata dall'eccessivo dolore non poté mantenersi in piedi; cadde distesa nel fuoco, e non riuscì ad alzarsene prima che il fuoco non fosse spento del tutto [...] Ma miracolosamente Dio fece in modo che il fuoco non la toccasse, e che lei non ne sentisse il calore [170].

Come reca sollievo alle sofferenze del mondo, trasformata dal pasto eucaristico, la santa diventa dispensatrice di nutrimento, vita e saggezza per la sua comunità. Così, abbeverata e nutrita al costato di Cristo, Margherita da Cortona diviene una "pianticella, da lui [i.e. da Cristo] piantata nel giardino disseccato del mondo". Rivolgendosi a lei in visione, Cristo continua: "tu, mia pianticella, potrai germinare rami nuovi ed espanderli, cosicché si diffondano in mezzo ai miei fedeli. Voglio che da questi rami si effondano le acque della misericordia per irrigare tutte le pianticelle disseccate del mondo".

L'immagine della pianticella, giovane, verde, carica di vitalità, narra ad un tempo del rinnovamento della santa, e insieme della potenza di cui il contatto intimo con Dio l'ha riempita. Ella dispensa ora la viriditas, la potenza verdeggiante della primavera che fa rinascere la natura e fiorire il mondo. La pianticella è infatti legata a immagini di nascita, crescita e d'espansione, con un vigore che non conosce limite né morte. In contrasto diretto con la plantula si pone il mondo, dominato dall'arsura, colmo di piante disseccate che necessitano (siccas mundi plantulas humidandas) l'acqua che fluisce (fluant) dai rami della pianticella. All'immagine dell'arbor vitae si unisce quella della fons vitae: come dal fianco di Cristo era fluita l'acqua mista a sangue che l'aveva trasformata, così la santa diventa essa stessa fonte da cui scaturisce acqua carica di potenza salvifica, in grado di rinverdire il deserto dell'esistenza umana nel peccato.

Come Umiliana, anche Umiltà da Faenza si nutre e si disseta di Cristo fino a diventarne lei stessa nutrice: nutrita al pascolo di Dio padre, i suoi seni si gonfiano di latte e può così nutrire l'agnello immacolato, che succhia volentieri dalle mammelle e ha sempre fame, affinché sia saziato da quelle e mai se ne allontani". In questo modo, trasformata dalla "purezza del sangue della passione", la santa nutre Cristo - e in Cristo nutre tutta la comunità dei credenti, tutta la Chiesa, e l'intera umanità [171].

Trasformata dall'eucaristia di cui si nutre, la carne assume alcune delle caratteristiche che avrà il corpo risorto: caro spiritalis, sed tamen caro, anche come reliquia il corpo santo conserva la virtù dell'incorruttibilità. Racconta, nella sua Leggenda, Gerolamo di Giovanni che il corpo di Villana de' Botti, "giacque inumato per trentasette giorni nella cappella di santa Caterina vergine, del tutto immune da ogni traccia di corruzione, finché non fu poi portato nella tomba preparata per lei [...] le sue membra [...] tanta è la potenza della sua santità, tuttora rimangono intatte e incorrotte" [172].

Così accade anche al corpo di Caterina Vegri (o de' Vigri), che "abendo recevuta l'ostia sacrata in boca, sentì e gustò la suavitade della purissima carne de l'agnelo immaculato Cristo Iesù" [173].

 

 

Conclusione

Il rifiuto di cibo umano da parte delle mistiche italiane del basso medioevo si rivela come un allontanamento dalla materialità della vita comune e mortale. L'ascesi, con il percorso di progressiva astensione da sapori, colori e odori - e infine dal cibo stesso - sfalda e disgrega la carnalità del corpo della donna, il suo essere carne minata dal peccato, mortale e moritura. In questo progressivo privarsi di ogni alimento, il corpo della mistica si assottiglia, e pian piano muore alla propria esistenza umana - mentre lo speciale nutrimento eucaristico lo rafforza nella sua esistenza spirituale.

In questo percorso, l'eucaristia diventa supporto e sostentamento unico dell'asceta: il corpo e il sangue di Cristo, unico alimento di cui la mistica si nutra, forniscono la sostanza con cui il corpo femminile, umano, è ricostruito in corpo santo. La carne, pur rimanendo carne, mortale per natura e moritura in questa esistenza precedente il giorno della risurrezione, si spiritualizza: nelle parole di Agostino, al compimento del percorso di trasformazione, la mistica ottiene una caro spiritalis, sed tamen caro.

Così trasformato, il corpo della mistica diventa manifestazione terrena della gloria e del potere di Dio, e dimostrazione dell'adempimento delle promesse di beatitudine e risurrezione. Rigenerato, il corpo santo diventa fonte di nutrimento, rigenerazione e guarigione [servono qui esempi tratti dalle vite delle sante].

Dopo la morte della Santa, il corpo resta tra i fedeli, ricordo tangibile di una trasformazione beatifica avvenuta già in vita. Così, subito dopo la sua morte, il corpo di Villana de' Botti "cominciò ad emanare un odore così soave, da non sembrare la sua camera quella di un malato o di un defunto, ma un negozio ricco di ogni specie di aromi. E quel soave odore vi rimase per molti giorni, dando a tutti quelli che entravano, il sollievo di una gioia meravigliosa" [174]. Nel corpo santo, ormai reliquia, persiste quella potenza divina che già si era manifestata quando la mistica era in vita : potenza che reca gioia e sollievo, che guarisce e salva. Come toccare anche solo le vesti di Cristo aveva guarito l'emorroissa, così, per esempio, il corpo di Rita da Cascia guarisce chi vi si accosti: il Codex miraculorum, che viene inaugurato dieci anni dopo la morte della santa, elenca undici miracoli di guarigione di altrettanti fedeli, avvenuti al cospetto delle spoglie della suora appena riesumate, nel decimo anniversario della morte, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno del 1457 [175].

Il percorso mistico trasforma la donna che lo intraprende: e la meta è una nuova esistenza, caratterizzata da pienezza e bellezza spirituali, vissute fino in fondo come anticipazione della risurrezione promessa. Così Margherita da Cortona, a compimento del suo percorso ascetico, si rivela "abbellita di ogni virtù e bellezza, quasi dimentica di quella penitenza con la quale aveva obbligato il corpo a servire allo spirito, dimentica delle fatiche, dei timori e di tutte le altre virtù alle quali era ormai salita oltre ogni credibile misura umana e spirituale [176]".

In questo modo, nel racconto del vissuto delle grandi mistiche del medioevo si sente un'eco di un discorso tenuto da Agostino a Ippona, in occasione della Pasqua:

Quel che vedete sulla mensa del Signore, carissimi, è pane e vino; ma questo pane e questo vino, con la mediazione della parola, diventa il corpo e il sangue del Verbo. Infatti il Signore che in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio, per quella sua misericordia a motivo della quale non trascurò quel che aveva creato a sua immagine, si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, come sapete. Così questo Verbo assunse l'uomo, ossia l'anima e la carne dell'uomo, e si fece uomo pur rimanendo Dio. E siccome anche patì per noi, in questo sacramento ci ha affidato il suo corpo e il suo sangue; e anche noi ha trasformati in esso. Noi pure infatti siamo diventati suo corpo e, per la sua misericordia, quel che riceviamo lo siamo [177].

 

 

 

Bibliografia

 

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Note

 

(1) - Atti del processo di canonizzazione di Chiara da Montefalco, pubblicati in Santa Chiara da Montefalco - Agostiniana, Bollettino trimestrale del Monastero agostiniano S. Chiara della Croce, Montefalco (PG), Gennaio/Marzo 2015, p. 24, passim

(2) - Agostino, Esposizioni sui Salmi, 36/3, 5

(3) - Agostino, Discorsi sui Salmi, 30/2, 10

(4) - Cfr. 1Cor 10, 14-21

(5) - R. Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari: 1987

(6) - C. Walker Bynum, Holy Feast and Holy Fast: The Religious Significance of Food to Medieval Women, California University Press, 1987

(7) - Mt. Fumagalli Beonio Brocchieri, Le bugie di Isotta. Immagini della mente medievale, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 9-11

(8) - Agostino, Conf., 8, 7, 17: "Da mihi castitatem et continentiam, sed noli modo"

(9) - Cfr. Agostino, Conf., 8, 8, 20: "Denique tam multa faciebam corpore in ispis cunctationis aestibus, quae aliquando volunt homines et non valent, si aut ipsa membra non habeant aut ea vel conligata vinculis vel risoluta languore vel quoque modo impedita sint. Si vulsi capillum, si percussi frontem, si complexis digitis amplexatus sum genu, quia volui, feci. Potui autem velle et non facere, si mobilitas membrorum non obsequeretur"

(10) - Ibidem: "Tam multa ergo feci, ubi non hoc erat velle quod posse: et non faciebam, quod et inconparabili affectu amplius mihi placebat et mox, ut vellem, utique vellem. Ibi enim facultas ea, quae voluntas, et ipsum velle iam facere erat; et tamen non fiebat, faciliusque obtemperabat corpus tenuissime volutati animae, ut ad nutum membra moverentur, quam ipsa sibi anima ad voluntatem suam magnam in sola voluntate perficiendam"

(11) - Agostino, Conf., 8, 9, 21: "Non itaque plena imperat; ideo non est, quod imperat. Nam si plena esset, nec imperaret, ut esset, quia iam esset. Non igitur monstrum partim velle, partim nolle, sed aegritudo animi est, quia non totus assurgit veritate sublevatus, consuetudine praegravatus. Et ideo sunt duae voluntates, quia una earum tota non est et hoc adest alteri, quod deest alteri"

(12) - Cfr. Agostino, De libero arbitrio, II

(13) - È lecito parlare di una "antropologia agostiniana" come se fosse una dottrina unitaria e sistematica? Il metodo storico-critico ci insegna che le posizioni filosofiche del vescovo di Ippona evolsero a stretto contatto con i problemi che considerava, o che la sua carica gli imponeva, di volta in volta, di affrontare: così, per fare un solo esempio, il De Libero Arbitrio, scritto durante la polemica antimanichea, piacque tanto ai seguaci di Pelagio, che Agostino dovette rivedere la sua concezione la sua concezione della volontà in una direzione che ne limitasse la portata. Sappiamo, d'altronde, che molte posizioni tenute dal vescovo di Ippona nella tarda maturità erano già contenute, in nuce, nei dialoghi scritti a Cassiciaco, nel 386, dopo la conversione, ma prima del battesimo. Né va dimenticato che, fra il 426 e il 427, dunque tre anni prima della morte, Agostino scrisse le Retractationes, in cui, rileggendo le proprie opere, ne considerava il contenuto in rapporto a quanto era loro seguito, ai problemi che aveva affrontato e alla sua dottrina nel complesso - una dottrina, che lui desiderava fosse vista collimare con quella della tradizione ecclesiastica cattolica. Cfr. A. Trapé, "Introduzione ... ", cit., pp. CXXII - CXXVII. Anche tenuto conto delle acquisizioni del metodo storico-critico, in particolare sui tempi e i modi in cui Agostino affrontò il problema del peccato generale, è qui questione di quel che la "mentalità medievale" ricevette in eredità

(14) - Cfr. Agostino, C. Acad., 3, 1

(15) - Agostino, Conf., 13, 11, 12: "Sum enim, scio et volo: sum sciens et volens et scio esse me et velle et volo esse et scire". L'espressione agostiniana è eloquente: l'uomo è (esistenza) sciente (pensiero) e volente (volontà); sa (pensiero) di esistere (esistenza) e di volere (volontà); vuole (volontà) conoscere (pensiero) ed esistere (esistenza)

(16) - Agostino, Conf., 13, 11,12: "In his igitur tribus quas sit inseparabilis vita et una vita et una mens et una essentia, quam denique inseparabilis distinctio et tamen distinctio, videat qui potest"

(17) - Si intenda, qui, la conoscenza in quanto atto del conoscere, attraverso i sensi o lo studio, distinta dalla conoscenza come possesso stabile del sapere, o scientia. Cfr. De civ. Dei, 11, 27.

(18) - Agostino, De Trin., 9, 5, 8. Si riprende qui la categoria aristotelica della relazione, che il vescovo d'Ippona aveva usato, nel quinto libro del De trinitate, per chiarire i rapporti fra Unità e Trinità divina. La sostanzialità delle tre persone (qui, delle tre facoltà dell'animo) fonda la loro esistenza unitaria, ma, poiché non possono sussistere realmente l'una senza l'altra, la categoria della relazione ne fonda e giustifica l'articolazione trinitaria: così, come Dio si dice Padre solo in relazione al Figlio, ma si tratta pur sempre dell'unica sostanza divina; allo stesso modo, la conoscenza è tale in quanto articolazione del pensiero, con cui è in relazione, ma si tratta sempre della stessa anima. Cfr. Agostino, De Trin., 5, 5; 10, 18.

(19) - Agostino, De beata vita, II, 7: "ex anima et corpore nos esse compositos"

(20) - Cfr. Agostino, Conf., 10, 6, 9

(21) - Cfr. Agostino, Conf., 10, 6, 9

(22) - Con il problema della bontà del corpo, contro gnostici, origeniani ed encratiti, si era già confrontato Aurelio Ambrogio, in difesa del dettato letterale della Bibbia che vedeva la materia "cosa buona" (Gn 1, 31). Ambrogio aveva conservato una posizione ambivalente nei confronti del corpo, considerandolo, secondo il dettato neoplatonico, "vestito logoro", da cui l'anima aspira giustamente a separarsi; ma esaltandone poi la bellezza, l'ordine e la perfezione (compiutezza) in sé, come la più sublime delle opere dei sei giorni. Il vescovo di Milano aveva esposto entrambe queste sue posizioni ai fedeli di Milano durante la Quaresima del 387 in un sermone sul sesto giorno della creazione: Agostino, che fu battezzato quell'anno, era probabilmente presente. Si veda Ambrogio, Exameron, giornata 6, discorso 9, par. 39 e seguenti. D'altro canto, confrontandosi con il problema delle relazioni fra corpo ed anima, Agostino doveva mediare posizioni tanto diverse fra loro come quella biblica e quella platonica, oltre che evitare gli estremismi di manichei ed encratiti, da un lato, e di un Tertulliano, dall'altro. Questo appare chiaramente nel De libero arbitrio (III, 20, 56-21, 59) dove, dopo aver elencato le quattro ipotesi platoniche sull'origine dell'anima, afferma di non voler prendere posizione decisa sull'argomento. Certamente, le anime sono create da Dio: ma Agostino si convincerà a sostenere il traducianesimo, contro la posizione creazionista, solo quando la disputa con i pelagiani e i suoi doveri pastorali lo costringeranno ad esprimersi sull'argomento. Cfr. A. Trapé, "Introduzione ...", cit., pp. 123-125

(23) - Agostino, Conf., 10, 30, 41

(24) - Ivi, 10, 31-36

(25) - Ivi, 1, 6, 10

(26) - Ivi, 13, 16, 19 : "essentia tua scit et vult inconmutabiliter et scientia tua est et vult inconmutabiliter et voluntas tua est et scit inconmutabiliter"

(27) - Ivi, 11

(28) - Il problema del male sembra essere il filo conduttore lungo il quale è più agevole leggere l'intera opera - anzi, l'intera vita di Agostino. Attraverso le risposte che il vescovo d'Ippona cercò, e riuscì a dare, a questo problema, è possibile osservare il formarsi di tutto quanto il suo pensiero. Ciò che qui interessa è l'antropologia agostiniana, ma, naturalmente, lo stato d'esistenza dell'uomo nel mondo include per forza in sé anche quel male, di cui l'uomo è responsabile, o spettatore, o vittima

(29) - Qui l'argomentare di Agostino, più che filosofico, potrebbe dirsi teologico ed esegetico, almeno secondo padre Trapé ("Introduzione...", cit., p. XCII): è tuttavia difficile separare, nel retore africano, questi momenti, dato che la sua riflessione, preso di partenza il dato scritturistico, mira a giustificarlo, a spiegarlo e ad approfondirlo, senza apparente coscienza di una distinzione fra questi momenti. Cfr. Agostino, De pecc. mer. et rem., 3,4,7

(30) - Nel senso etimologico "cum - cresco", crescere insieme: come la forma della foglia si sviluppa attraverso la foglia e nella foglia, o come la struttura del cristallo si sviluppa dentro il cristallo, attraverso il cristallo, insieme al cristallo

(31) - Il problema del male sembra essere il filo conduttore lungo il quale è più agevole leggere l'intera opera - anzi, l'intera vita di Agostino. Attraverso le risposte che il vescovo d'Ippona cercò, e riuscì a dare, a questo problema, è possibile osservare il formarsi di tutto quanto il suo pensiero. Ciò che qui interessa è l'antropologia agostiniana, ma, naturalmente, lo stato d'esistenza dell'uomo nel mondo include per forza in sé anche quel male, di cui l'uomo è responsabile, o spettatore, o vittima. Agostino, De civ. Dei 12, 25 : "Cum enim alia sit species, quae adhibetur extrinsecus cuicumque materiae corporali, sicut operantur homines figuli et fabri atque id genus opifices, qui etiam pingunt et effingunt formas similes corporibus animalium; alia vero, quae intrinsecus efficientes causae habet de secreto et occulto naturae viventis atque intellegentis arbitrio, quae non solum naturales corporum species, verum etiam ipsas animantium animas, dum non fit, facit: supra dicta illa species artificibus quibusque tribuatur; haec autem altera non nisi uni artifici, creatori et conditori Deo, qui mundum ipsum et angelos sine ullo mundo et sine ullis angelis fecit. Qua enim vi divina et, ut ita dicam, effectiva, quae fieri nescit, sed facere, accepit speciem rotunditas pomi et ceterae figurae naturales, quae videmus in rebus quibusque nascentibus non extrinsecus adhiberi, sed intima Creatoris potentia [ ... ]cuius occulta potentia cuncta penetrans incontaminabili praesentia facit esse quidquid aliquo modo est, in quantumcumque est; quia nisi facente illo non tale vel tale esset, sed prorsus esse non posset"

(32) - Cfr. Agostino, De Gen. ad litt., 6, 25, 36

(33) - Agostino, De civ Dei 22, 30, 2: "Prima immortalitas ... posse non mori"

(34) - Cfr. Agostino, De civ Dei 13, 23

(35) - Si preferisce, qui, mantenere la dizione latina del termine: più del suo equivalente italiano "ragione", infatti, il latino ratio esprime il legame fra il ragionamento logico e l'ordine proprio delle discipline matematiche, entrambi compresenti nell'idea agostiniana di un principio armonico e regolatore. Si veda E. Gilson, Introduzione allo studio di sant'Agostino, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 61-62

(36) - E' importante tuttavia notare che il corpo non è per Agostino, come era stato per i platonici, "carcere dell'anima"; al contrario, l'anima era stata creata per vivificare il corpo, e perché vi fosse intimamente unita, a formare un'unica creatura: cfr. Conf., 10, 6, 10: "Anima vegetans molem corporis tui praebens ei vitam"

(37) - Cfr. Agostino, De civ Dei, 13, 18: "Tantum valet, in habendis etiam terrenis corporibus, quamvis adhuc corruptibilibus atque mortalibus, non quantitatis pondus, sed temperationis modus"

(38) - Ivi, 14, 13

(39) - E' evidentissima, in questo passo, l'influenza di Seneca, autore importantissimo nella formazione retorica del giovane Agostino. Cfr. Seneca, Epistole a Lucilio, I, 1-3

(40) - Cfr. Agostino, De pecc. mer. et rem., 1, 16, 21. E' questo corpo, nato dal peccato di Adamo, che va considerato prigione dell'anima: cfr. De civ. Dei, 13, 16.

(41) - Ivi, 13, 13

(42) - A. Trapé, "Introduzione ...", cit., p. LXXIII

(43) - Agostino, De civ. Dei, 13, 15: "Deum denuntiasse mortem in eo quod ait: Qua die ederitis ex illo, morte moriemini [ ... ] in ea morte etiam ceterae denuntiatae sunt quae procul dubio fuerant secuturae"

(44) - Ibidem: "Nam in eo, quod inobediens motus in carne animae inoboedientis exortus est, propter quem pudenda texerunt, sensa est mors una, in quam deseruit animam deus. Ea significata est verbis eius, quando timore dementi sese ascondenti homini dixit: Adam, ubi es? non utique ignorando quearens, sed increspando admonens, ut attenderet ubi esset, in quo Deus non esset. Cum vero corpus anima ipsa deseruit aetate corruptum et senectute confectum, venit in experimentum mors altera, de qua Deus peccatum adhuc puniens homini dixerat: Terra es et in terram ibis; ut ex his duabus mors illa prima, quae totius est hominis, compleretur, quam seconda in ultimo sequitur, nisi homo per gratiam liberetur. Neque enim corpus, quod de terra est, rediret in terram nisi sua morte, quae illi accidit, cum deseritur sua vita, id est anima".

(45) - A. Trapé, "Introduzione ... ", cit., p. LXII

(46) - Cfr. Agostino, De diversis quaestionibus 83, q.46; Retractationes, I, 3; De civ. Dei, 13, 14

(47) - Cfr. A. Trapé, "Introduzione ... ", cit., pp. CXII - CXVII, passim: Sulla dottrina della duplice solidarietà si fonda anche "l'unità genetica e sociale del genere umano [ ... ] La storia della salvezza si riassume in due uomini (unus et unus) dai quali ci viene un influsso di segno diverso: la morte o la vita; l'influsso di questi due uomini, che riassumono tutta la storia umana, si esercita su tutti gli altri, tutti senza eccezione (omnes et omnes), ma nel senso di un influsso causale, universale ed esclusivo, non in quello d'un influsso numericamente uguale; questo influsso non si esercita per imitazione, ma per propagazione ed infusione: propagazione della natura ed infusione della grazia; o, che è lo stesso, per generazione e rigenerazione".

(48) - Ivi, p. CXXXV

(49) - Cfr. Agostino, Conf., 13, 35-38: queste affermazioni non sarebbero forse dispiaciute a Pelagio e ai suoi seguaci, tanto che si è potuto affermare: "Il pelagianesimo, ossia quel consistente sistema di idee provvide di conseguenze, era nato, ma nella mente di Agostino [ ... ]" (P. Brown, Agostino d'Ippona, Einaudi, Torino 1971, p. 350). In realtà, come ricorda Trapé, il problema era un altro: Agostino poteva anche essere d'accordo con quanto sosteneva Pelagio sull'ascesi, ma sentiva che la teoria di Pelagio, da sola, non era sufficiente: andava integrata con la teoria della grazia adiuvante di Dio. Nei confronti di Pelagio, il vescovo d'Ippona si pone più come pastore e correttore, che come avversario. Ben altrimenti si comporterà con Giuliano di Eclano, l'ultimo dei pelagiani (in ordine cronologico) che affronterà: la loro disputa sarà acida e velenosa, e durissima la posizione del vescovo d'Ippona. Si veda P. Brown, Agostino ... , cit., pp. 378-401

(50) - Agostino, De civ Dei, 13, 20: "In quibus multa dura perpessi sunt, nihil in eis ulterius tale sensuri"

(51) - Ivi, 13, 22

(52) - Ivi, 22, 20, 3: "In resurrectione carnis in aeternum eas mensuras habeat corporum magnitudo, quas habebat perficiendae sive perfectae cuiusque indita corpori ratio iuventutis, in membrorum quoque omnium modulis congruo decore servato. Quod decus ut servetur, si aliquid demptum fuerit indecenti alici granditati in parte aliqua constitutae, quod per totum spargatur, ut neque id pereat et congruentia partium ubique teneatur: non est absurdum, ut aliquid inde etiam staturae corporis addi posse credamus, cum omnibus partibus, ut decorem custodiant, id distribuitur"

(53) - Al corpo saranno perciò restaurati anche gli organi genitali, in quanto natura: Cfr. Agostino, De civ. Dei, 22, 17

(54) - Ivi, 22, 21: "Caro spiritalis, sed tamen caro"; contro quanti, ad iniziare dagli origenisti, volevano vedere nella carne la punizione del peccato e quindi nella risurrezione la rinascita in un corpo spirituale, Agostino si preoccupa di ribadire la bontà del corpo, qua natura.

(55) - C. Siccardi, Rita da Cascia. La santa degli impossibili, Ed. La Fontana di Siloe, Torino: 2013, Kindle Edition, pos. 1514 di 1732.

(56) - Ivi, pos. 1422 di 1732

(57) - RC, pag. 58: "etiam ipsarum odorem ferre non poterat absque corporis læsione" (tr. it. cit. p. 70)

(58) - Ibidem: "cuncta dulcia, nociva suo corpori essent reddita" (tr. it. cit. p. 71)

(59) - Ibidem: "Coctum quodcumque, præter panem, a se paulatim quotidie auferebat, ac infra breve tempus ad esum panis ac crudarum herbarum seipsam coercendo reduxit. Tandem, si non fallor, ætatis suæ anno XX [ ... ] etiam se a panis esu privavit, solarum crudarum herbarum usu sibi tantummodo derelicto." (tr. it. cit. p.71)

(60) - Ivi, par.174: "Deus propter peccata mea percussit me singulari quadam passione sive infirmitate, per quam a cibi sumptione sum totaliter impedita: ac ego libentissime vellem comedere, sed non possum. Orate obsecro pro me, ut ipse indulgeat mihi peccata mea, propter quæ patior omne malum. Ac si aperte diceret: Deus facit hoc ac non ego: sed ne species appareret jactantiæ, propter peccata sua fatebatur hoc accidisse [ ... ]Quidquid enim mali eveniebat, imputabat totum peccatis suis; quidquid boni, Deo: ac hac semper veritatis regula utebatur in omnibus" (tr. it. cit. p. 193)

(61) - Ivi, par. 176: "quidquid stomachum illum intrabat, totum regredi per eandem viam, per quam ingressum fuerat, oportebat" (tr. it. cit. p. 195)

(62) - Ibidem

(63) - Ivi, par. 413 : "loturamque cum foedissima sanie in quadam scutella collegit, ac bibit" (tr. it. cit. p. 417)

(64) - Ivi, par. 162

(65) - Ivi, par. 163: "Applicansque dexteram ad collum virgineum, ac ipsam ad lateris proprii vulnus approximans, Bibe, inquit, filia, de latere meo potum, quo anima tua tanta suavitate replebitur, quod etiam in corpus, quod propter me contempsisti, mirabiliter redundabit. At illa cernens se positam ad fistulam fontis vitæ, sacratissimo vulneri os applicans corporis, sed longe amplius os mentis, ineffabilem ac inexplicabilem potum hausit per non parvæ moræ spatium, tam avide quam abunde" (tr. it. cit. p. 180) (il corsivo è nostro)

(66) - Ivi, par. 124: "Tunc coepit in ea oriri desiderium, quod dum vixit in corpore semper crevit, sacræ scilicet Communionis sumendæ; ut non tantum spiritus ejus Sponso uniretur æterno, sed ac super hoc corpus posset corpori sociari. Sciebat enim, quod quamvis supervenerabile Sacramentum Corporis Domini, spiritalem gratiam causet in anima, ac ipsam suo uniat Salvatori; quod est principale intentum, quare ipsum Sacramentum est institutum: tamen verum corpus ipsius, veraciter a sumentis corpore sumitur, ac corpus corpori absque cunctatione aliqua sociatur, etsi non modo corporeo usquequaque. Propter quod volens magis ac magis semper uniri amoris sui objecto tam nobili, sacram decrevit Communionem, quam valeret, sæpissime frequentare" (tr. it. cit. p. 141).

(67) - Ivi, par. 316-324

(68) - Ibidem

(69) - Si tratta di Fra Bartolomeo di Domenico (1343 - 1415), confessore e compagno di Caterina. Cfr. ivi, par. 324

(70) - Ivi, par. ar. 187: "dum sic a longe altaris, venerabilis Sacramenti sumptionem summe sitiens, mente fortissime, voce vero corporea plane, diceret, Ego vellem corpus Domini nostri Jesu Christi; ipse Salvator, ut ejus desiderio satisfaceret, ei apparuit, juxta quod sæpius consueverat, applicavitque os virginis ad lateris proprii cicatricem; innuens ut se, quantum vellet, de corpore suo ac sanguine satiaret. Quod illa non segniter exequens, de sacratissimi pectoris fonte diu potavit fluenta vitæ. Ex quo potu tanta cordi ejus infusa est dulcedo, quod ex puro amore putavit vitam corpoream terminare" (tr. it. cit. p. 204) (il corsivo è nostro)

(71) - Ivi, par. 44 e par. 171: "Vidi ego ipse, non semel, sed aliquoties, corpusculum illud, quod nullo corporeo cibo, nullo præterquam aquæ frigidæ potu confortabatur, deduci usque ad extremam debilitatem, ita ut ultimum exitum spiritus trementes putaremus adesse tam ego quam alii: ac tamen nacta seu præsentata ei occasione procurandi aliquem nominis divini honorem vel aliquam animarum salutem, intra brevissimum spatium, absque quocumque corporali remedio, recuperare non modo vitam, sed vires" (il corsivo è nostro)

(72) - Il concetto di humidum radicale ha origine alchemica: Alberto Magno lo fa corrispondere all'anima umida della materia originaria. In questo senso, la trasformazione dell'umido radicale nel corpo di Caterina significa la trasformazione del sostrato su cui la materialità del suo corpo si fonda

(73) - Cfr. C. G. Jung, "Psicologia e alchimia", in Opere di C. G. Jung, vol. 12, p. 178]. Ivi, par. 167: "tanta in mentem ejus descendit copia gratiarum ac consolationum cælestium post visionem prædictam, ac potissime quando recipiebat sacram Communionem; quod redundans in corpus per supereffluentiam quamdam, consumptionem radicalis humidi adeo temperabat, stomachique naturam taliter immutabat, quod sumptio corporalis cibi non modo necessaria non erat, sed nec fieri poterat absque corporali ejus tormento. Et si violenter fiebat, corpus patiebatur gravissime; nec aliqua digestio sequebatur: sed oportebat quod totum quod ingressum fuerat, violenter etiam per eamdem viam regrederetur [ ... ] experimentaliter se invenire, quod sine sumptione cibi sanior esset ac fortior; cum autem cibum sumeret, infirma efficeretur ac languida [ ... ]in tantum devenit corporis languorem, ut pene mortem incurreret " (tr. it. cit. p. 185)

(74) - Cfr. ivi, par. 166

(75) - Ivi, par. 170: "materialem panem hunc, ac pulmentum olerum, vel herbas crudas" (tr. it. cit. p. 188).

(76) - Ivi, par. 171: "Tanta est satietas, quam mihi confert Dominus in sui Sacramenti venerabilissimi sumptione, quod nullo modo possum appetere cibum aliquem corporalem [ ... ]Quando Sacramentum sumere non possum, sola me ipsius præsentia ac visio satiat: imo, inquit, non tantum Sacramenti, sed etiam Sacerdotis, quem scio ipsum tetigisse Sacramentum, præsentia adeo consolatur, quod omnis cibi memoria recedit a me" (tr. it. cit. p. 189).

(77) - Ibidem

(78) - UC, III, 28: "Incepit multum ieiunare in pane et aqua, et facere magnam abstinentiam: sed illam viam sibi tenere frater Michael confessor suus non permisit" (tr. it. in L. Leonardi, "Umiliana Cerchi", cit., p. 83).

(79) - Ibidem: "et aliquando tribus diebus sine cibo corporali mansit"

(80) - Ivi , III, 29: "Et cum surrexisset, inventi medium panem valde candidum et odoriferum, de quo non poterai dubitari quin esset manibus angelicis fabricatus [ ... ] et accipiens panem cum gratiarum actione comedit; et de illo medio pane vixit tota hebdomada illa, et nullum cibum, alium degustavit; de quo etiam panem pluribus dedit. Et in ipsa hebdomada consolidate sunt multe corporis ipsius debilitates, quas occasione abstinentie sustinebat". (tr. it. cit. p. 84 (il corsivo è nostro)).

(81) - Ivi, III, 32: "et gustabat in nocte illum panem vitae realiter, de quo qui gustant esuriunt" (tr. it. cit. p. 85) (il corsivo è nostro).

(82) - Umiltà da Faenza, Sermo primus. In Natale Domini: "Qui plus de eo bibit, plus de eo sitiet ; et qui plus comedit, amplius esuriet" (tr. it. in A. degl'Innocenti, Umiltà da Faenza, in G. Pozzi, C. Leonardi (a cura di), Scrittrici ... , cit., p. 99).

(83) - Ivi , III, 31: "per abundantiam spiritus etiam corporaliter implebatur, in tantum quod mirum erat, si non saepe viscera sua corporalia irrumpebantur" (tr. it. cit. p. 85).

(84) - Ibidem: "O quam refecta est anima et quam beata, quae tale puerum potest invenire, et amplecti, et attractare odorem eius fragrantissimum" (tr. it. cit. p. 99)

(85) - Cfr. Umiltà da Faenza, Sermo sextus seu oratio in honorem Iesu Christi : "O bone pastor regis, ne me derelinquas, Domine, in terra sicca ; duc me ad pasturam, in qua est recens herba, ut me solum pascam floribus, et apprehendam pinguedinem, ita quod multum lac obtineam. Et post hoc, mihi, Domine, da agnum immaculatum, qui ubera sugit libenter, et semper est esuriens, ut de meis uberibus semper sit satiatus, et numquam se separet ab ipsis [ ... ] Ista namque ovicula balans propter famem, quae petit pastura, qua possit pingue fieri, est anima fidelis, quae cum Christo vult manere, qui est sua pastura. Et ire vult ad recentem herbam, et flores tantum carpere, et contemplare pulchritudinem sui amoris dilecti, et implere sua ubera cordis desiderio lactis caritatis, et intrare in viridarium sui veracis amoris, et legere illas rosas, quae sunt rubicundae et albae, et potare de illo agno candido puritate ruboris in passione, qui propter nostra peccata in cruce levatus est" (tr. it. cit., p. 101).

(86) - R. Bell, La santa anoressia, cit., p. 115

(87) - Ibidem

(88) - C. W. Bynum, Sacro convivio ... , cit., p. 160

(89) - MC, XI, 7: "tibi mando, quod saepe venias ad vulnus lateris, et sugas inde, ac sentias quid exivit pro salute umani generis" (tr. it. in L. Leonardi, "Margherita da Cortona", cit., p. 123).

(90) - Ivi , VI, 17: "Que siccas plantas virides facies" (tr. it. cit., p. 120)

(91) - Cfr. Ivi, XI, 7

(92) - Ivi, VI, 17: "De te consurget aquas ad irrigandas radices arborum aridarum" (tr. it. cit. p. 120)

(93) - Giacomo Scalza, Leggenda ... , VI: "Ita pinguis et corpulenta erat, ut si quis eam non cognoscens vidisset, credidisset eam balneorum usu et multis corporis deliciis abundare [ ... ] vere non corporis sed anime et caelestis suavitatis degustationum frequentium deliciis affluebat [ ... ] cum in contemplatione caelestium in Deum, quem toto diligebat affectu, mentis aciem infixisset, quodam mellei saporis cibo celesti saginabatur in anima, qui totum corpus eius usque ad labias etiam exteriora comlplebat". (tr. it. F. Santi, "Vanna da Orvieto", cit., p. 198).

(94) - Ibidem: " tanta dulcedine reficiebatur in anima, ut modicum postea de corporis cibo curaret" (tr. it. cit. p. 196)

(95) - Gerolamo di Giovanni, Legenda beatae Villanae de Bottis, cit. in F. Santi, "Villana de' Botti", cit., p. 222: "Mente sic reficior, ut omnis diffugiat cibi corporalis appetitus".

(96) - Berengario di Sant'Africano, Vita di Santa Chiara della Croce: "Cibi et potus sapores nullatenus discernebat. Cuncta enim sibi erant insipida et amara ac si potum quem in cruce Christus habuerat transgluctisset" (tr. it. cit. in A. degl'Innocenti, "Chiara da Montefalco", cit., p. 211).

(97) - Ivi, p. 213: " videbatur quasi esset unum beccerium in medio maris mersum, plenum aqua et infra ipsam aquam absortum"

(98) - Cfr. LB, pp.139-158

(99) - Ivi, p. 310

(100) - LE, par. 133

(101) - LB, p. 594

(102) - Ivi, pp. 726

(103) - Caterina Vegri, Sette armi spirituali, par. 8

(104) - Cfr. G. Andenna, O. Tuniz (a cura di), Storie dell'Anno Mille. I cinque libri delle Storie di Rodolfo il Glabro, Europia 1998, pp. 137-139

(105) - C. W. Bynum, Sacro convivio ... , cit., p. 14

(106) - Cfr. J. Verdon, Il piacere nel medioevo, Baldini e Castoldi, Milano 1999, p. 111

(107) - Cfr. ivi, pp. 113-115: L'uso delle spezie, in parte derivato dalla cucina romana di epoca tardo-imperiale, variava in modo anche notevole, a seconda soprattutto dell'area geografica e del ceto sociale della popolazione. Naturalmente, cucine regionali diverse prediligevano l'uso di spezie diverse, spesso anche in relazione con la produzione locale: così, nella penisola italiana è molto diffuso lo zafferano prodotto in loco, rispetto a quello importato dall'oriente, più sofisticato e più prezioso, mentre in Francia si preferisce abbinare zenzero e cannella. I ceti meno abbienti, ovviamente, non potevano permettersi spezie pregiate o alla moda, importate da paesi lontani, come la meleghetta o melegueta, di origine africana; spesso, tuttavia, non potevano permettersi neppure spezie più "comuni", quali cannella o noce moscata: dovevano perciò ripiegare sul pepe (importato fin dall'epoca tardo-antica in grandi quantità, e che Arnaldo da Villanova, medico di papa Bonifacio VIII, chiamava "il condimento del povero") e su semplici ed erbe odorose, come aglio e cipolla.

(108) - Accanto al valore propriamente culinario, veniva riconosciuto alle spezie anche un valore "medico" e terapeutico: da un lato, come i semplici, molte spezie costituiscono la base della farmacopea antica e medievale - mescolarle gli alimenti è allora un modo per prepararle; molti ricettari medievali, tuttavia, consigliano di aggiungere particolari spezie, calde e secche, a cibi umidi e "freddi", per temperarne la qualità e renderli così più digeribili e nutrienti, con un evidente richiamo alla teoria medica, di origine ippocratica e galenica, dei quattro umori. Cfr. A. Barlucchi, Tutti i sapori dell'Eden, in "Medioevo" 6(17), Giugno 1998, p. 71

(109) - Ivi, p. 70

(110) - Tanto per la sua digeribilità quanto per l'associazione, di valore antropologico, bianco-purificazione e quindi guarigione, in un'epoca in cui si crede che molte malattie siano la conseguenza di un peccato o di un maleficio

(111) - J. Verdon, Il piacere nel medioevo, cit., pp. 116-121

(112) - Cfr. W. Roesener, I contadini nel medioevo, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 122

(113) - Tuttavia, nel momento in cui monachesimo ed aristocrazia si mescolano, il primo deriva dalla seconda molte abitudini alimentari, che con l'originaria regola benedettina hanno ben poco a che spartire. Così, con la coscienza del riformatore, Bernardo di Chiaravalle può rimproverare ai monaci di Cluny le sregolate abitudini alimentari: "Mi meraviglia, dove ha potuto svilupparsi fra i monaci tanta intemperanza nel magiare e nel bere [ ... ]". Bernardo di Clairvaux, Apologia a Guglielmo di Saint-Thierry, cit. in G. M. Cantarella, I monaci di Cluny, Einaudi, Torino 1993, p. 259.

(114) - Cfr. W. Roesener, I contadini nel medioevo, cit., p. 124

(115) - Anche in quel caso, tuttavia, la carne rimane piatto privilegiato nei desideri dell'uomo comune: dai vari Paesi immaginari, dove si può magiare carne a sazietà, al mito di chi, come Robin Hood, può scorrazzare per la foresta e nutrirsi della sua selvaggina in spregio alle leggi nobiliari, fino alla ballata inglese del secolo XIV, dove Geordie è condannato ad essere impiccato per aver rubato tre cervi "nel giardino del re".

(116) - Secondo Tommaso d'Aquino (Sum. Theol., II-II, q. 148), la gola, in quanto proveniente dal disordine della concupiscenza, è peccato, e, in quanto distoglie da Dio per concentrare tutti i desideri sui piaceri del ventre, è peccato mortale (a.1 e 2); assecondando la gola, l'uomo diventa scurrile, stupido, immondo, loquace e ottuso (a.6).

(117) - Cfr. C. W. Bynum, Sacro convivio ... cit., p. 14

(118) - Ivi, p. 15.

(119) - Lc 24, 30sgg

(120) - Lc 22, 19; 1Cor 11, 24

(121) - Agostino (Conf., 7, 2,2) ricorda anche un rito in uso presso le prime comunità cristiane, poi proibito dalle autorità, e che consisteva nel portare il pane e il vino eucaristici sulle tombe dei defunti: in questo modo l'eucaristia consentiva di stabilire non solo un legame fra i fedeli contemporanei, ma gettava un ponte verso i fedeli già morti, travalicando così l'univocità e l'unidirezionalità del tempo.

(122) - M. Simon, A. Benoît, Giudaismo e cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 155

(123) - C. W. Bynum, Sacro convivio ... , cit., p. 48

(124) - Si tratta, in fondo, di quel principio che etnologi e antropologi riconoscono alla base della magia cosiddetta "simpatica": esiste fra gli oggetti del mondo, e fra gli oggetti e l'uomo, un legame "occulto", solitamente definibile secondo le leggi dell'associazione di idee di aristotelica memoria (somiglianza, continuità e contrasto: cfr. De mem. et rem., II 451b 18-20); la presenza di questo legame permette, operando su di un oggetto, di ottenere un effetto sull'oggetto collegato. Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d'oro, Boringhieri, Torino 1973, p. 23.

(125) - Anche colpe che si ignorano, come ricorda Zofar il Naamatita all'amico Giobbe (Gb 11, 1 sgg.)

(126) - C. W. Bynum, Sacro convivio ... , cit., p. 48

(127) - Ivi, p. 47

(128) - Ivi, p. 49

(129) - Ivi, p. 51

(130) - Cfr. ivi, p. 52

(131) - Ivi, p. 52

(132) - Si è già visto un simile spostamento per quanto riguarda le pratiche penitenziali; lo si può osservare anche nel pensiero teologico di Pascasio Radberto (790ca.-865ca.), che nel De corpore et sanguine Christi afferma la presenza reale del corpo storico del Cristo nell'eucaristia: in questo modo, il teologo e biografo franco rende più forte e concreta la presenza reale del Cristo nelle specie del pane e del vino, e dunque l'ingerire l'eucaristia diventa ingerire il corpo fisico del Cristo storico - un atto miracoloso che innanzitutto è volto a mettere il singolo in contatto con la divinità. Cfr. Mt. Fumagalli Beonio Brocchieri, M. Parodi, Storia della filosofia medievale, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 137; M. G. de Sandre Gasparini, "Momenti di vita religiosa dell'Occidente", in S. Collodo, G. Pinto (a cura di), La società medievale, Monduzzi, Bologna 1999, p. 265. Per i teologi dei primi tempi, viceversa, in quale modo Cristo fosse presente nel pane e nel vino dopo la consacrazione non aveva avuto una grande importanza. Cfr. C. W. Bynum, Sacro convivio ..., cit., p. 65

(133) - Cfr. Lc 19, 35-39

(134) - Cfr C. G. Jung, "Il simbolo della trasformazione nella messa", in Opere, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino: 1979, p. 206. Questo avviene secondo il principio che "nominare una cosa significa evocarla", o, come anche scrive M. Heidegger, (Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1971, p. 251): "Il chiamare proviene in verità già dal luogo dove si dirige".

(135) - Cfr. C. G. Jung, "Il simbolo ... ", cit., p. 207

(136) - C. W. Bynum, Sacro convivio ... , cit., p. 71

(137) - Ibidem

(138) - Così per la festa del Corpus Domini, la cui istituzione era stata oggetto delle visioni di Giuliana da Cornillon, e che, approvata ufficialmente nel 1264, dall'originaria zona di Liegi si diffuse in tutto l'occidente cattolico all'inizio del secolo XIV: cfr. C. W. Bynum, Sacro convivio ... , cit., p. 70

(139) - Ivi, p. 69

(140) - P. Jackson, Eucharist, in Augustine through the Ages. An encyclopedia, cur. A. D. Fitzgerald, Wm. B. Eerdmans Publishing Company, 2009: Grand Rapids, Michigan, p. 330.

(141) - Agositno, De doctrina cristiana, 3, 9, 13

(142) - Ivi, 1, 1 - 3, 4 passim

(143) - Cfr. Agostino, De fide et operibus, 6, 9: "Del resto, a che serve tutto il tempo nel quale portano il grado e il nome di catecumeni, se non ad apprendere quale deve essere la fede e la vita del cristiano, in modo che, solo dopo che avranno messo se stessi alla prova, mangino dalla mensa del Signore e bevano dal suo calice? Perché chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna. Questa istruzione è peraltro impartita per tutto il tempo in cui la Chiesa ha stabilito, ai fini della salvezza, che coloro che aderiscono al nome di Cristo figurino come catecumeni".

(144) - Agostino, De civitate Dei, 10, 20

(145) - Cfr. Fil 2, 6-8: "egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce"

(146) - Cfr. Agostino, De civitate Dei, 10, 20; 16, 22; 18, 35. Id., De Trinitate, 4, 13, 17

(147) - Agostino, Lettere, 98, 9

(148) - Eb 7, 11

(149) - Agostino, Esposizioni sui Salmi 33 1, 6

(150) - Ivi, 8

(151) - Agostino, Discorsi 228/B, 2

(152) - Ivi, 228/B, 3

(153) - Agostino, Sermones, 229, 1: "Recordamini quid fuit aliquando creatura ista in agro, quomodo eam terra peperit, pluvia nutrivit, ad spicam perduxit; deinde labor humanus ad aream comportavit, trituravit, ventilavit, recondidit, protulit, moluit, consparsit, coxit, et vix aliquando ad panem perduxit. Recordamini et vos: non fuistis, et creati estis, ad aream Dominicam comportati estis, laboribus boum, id est, annuntiantium Evangelium triturati estis. Quando catechumeni differebamini, in horreo servabamini. Nomina vestra dedistis; coepistis moli ieiuniis et exorcismis. Postea ad aquam venistis, et consparsi estis, et unum facti estis. Accedente fervore Spiritus Sancti cocti estis, et panis Dominicus facti estis"

(154) - Ivi, 229, 1-2: "Ecce quod accepistis. Quomodo ergo unum videtis esse quod factum est, sic unum estote et vos, diligendo vos, tenendo unam fidem, unam spem, individuam caritatem. Haeretici quando hoc accipiunt, testimonium contra se accipiunt; quia illi quaerunt divisionem, cum panis iste indicet unitatem. Sic et vinum in mullis acinis fuit, et modo in unum est; unum est in suavitate calicis, sed post pressuram torcularis. Et vos post illa ieiunia, post labores, post humilitatem et contritionem, iam nomine Christi tamquam ad calicem Domini venistis; et ibi vos estis in mensa, et ibi vos estis in calice. Nobiscum hoc estis: simul enim hoc sumimus simul bibimus, quia simul vivimus"

(155) - Agostino, De civitate Dei, 17, 20, 2

(156) - Ibidem. Correggo qui la traduzione di D. Gentili, per le Edizioni Città Nuova, che scrive: "Partecipare alla mensa è lo stesso che avere la vita". Il testo latino, però, riporta: "Participem autem fieri mensae illius, ipsum est incipere habere vitam", con l'enfasi posta in modo particolare sulla posizione mediatrice quell'incipere, legato per allitterazione con il precedente pronome ipsum e per paronomasia con il verbo seguente (incìpere / habère). Come sostiene Agostino nella successiva polemica contro gli origenisti, le come già sottolinea nel Discorso 228B, citato sopra, la sola partecipazione al sacramento non garantisce la salvezza e l'accesso alla vita eterna, se non è accompagnata da consapevolezza, pratica costante di preghiera e meditazione e condotta morale che segua i principi dell'insegnamento di Cristo. Cfr. Id., De civitate Dei, 21, 25, 2 e seguenti.

(157) - Agostino, Confessionum libri XIII, 9, 13, 36

(158) - LB, p. 652: "ut remaneret nobiscum totus et semper" (tr. it. cit. p. 271

(159) - Ivi, p. 670: "Bene scimus et per fidem videmus certissime sine aliqua dubitatione quod ille panis et illud vinum benedictum, per divinam et infinitam potentiam ad illa sanctissima verba ordinata quae dixit Christus ordinator Deus humanatus et quae debet dicere et dicit sacerdos, substantialiter fit Christus, ita quod illa substantia panis et vini transsubstantiatur et fit Christus Deus et homo in ipso mysterio consecrato, remanendo colore et sapore et forma et virtute et modo et tota qualitate ipsius panis et vini, non in Christo, sed per divinam potentiam, supra eorum propriam naturam, in se ipsis, hoc est colore in seipso, et sapore in seipso, et forma in seipsa, et qualitate in seipsa". (tr. it. cit. p. 278, con correzioni (il corsivo è nostro)).

(160) - Ivi, p. 672: "angeli et alii sancti habent, vident et sentiunt illud et gustant illud et stant iuxta illud" (tr. it. cit. p. 279 (il corsivo è nostro)).

(161) - Ivi, p. 674: "suffucit, implet, satiat [ ... ] redundat et iocundat" (tr. it. cit. p. 280)

(162) - Ivi, p. 676: "illud bonum aeternum et infinitum, creatum et increatum, quod est cibus sacramentalis, qui cibus est pastum, arca et fons ipsius animae et corporis" (tr. it. cit. p. 281).

(163) - Ivi, p. 654: "Unus respectus est videre illum ineffabilem amorem, queem habebat ad nos: quomodo erat amore devisceratus totus in nobis, ideo totum dimisit se nobis et semper. Alius respectus est videre illum ineffabilem mortalem dolorem, quem habebat pro nobis: videre quomodo in recessu quando se debebat partire et debebat se partire per illam mortem ita dolorosissimam, et quomodo debebat transire per illos dolores ita ineffabiliter acutissimos et in quibus debebat esse derelictus [ ... ] ista veritas sit scrutanda illis qui volunt hoc sacrificio celebrare et recipere" (tr. it. cit. p. 271-272).

(164) - Ivi, pp. 654-656: "Et notate et videte qui est iste qui volebat remanere in isto sanctissimo sacrificio! Ipse est ille qui est, et ille qui est remansit in isto sanctissimo sacrificio totus. Et ideo nullus miretur quomodo potest esse in tot altaribus simul, et ultra mare et citra mare, et ita ibi sicut hic et ita hic sicut ibi. Nam ipse dicit: Ego Deus sum incomprehensibilis vobis;et: Ego Deus feci sine vobis, et operor sine vobis, et non est mihi impossibile aliquid facere; et ideo ad illud quod non intelligitis, stringatis humeros".

(165) - Ibidem: "Habet istam ordinationem amor divinus, habet semper ad restringendum ad se rem quam diligit; et trahit extra se et extra omnes res creatas, et omnino est in Increato". (tr. it. cit. p. 273, con correzioni).

(166) - Ivi, p. 658: "Et sicut fuit transformata anima in amorem per resgardum amoris, ita transformatur in dolorem per resgardum dolorosissimum Amati derelicti. Respiciendo enim in respectu illo amaricato anima, hoc facit quod transformat eam totam in dolorem, et nullum remedium consolationis in eam ingreditur sed efficitur ipse dolor"

(167) - UC V, 44-45, passim

(168) - Cfr. Lc 1, 38, nel testo latino della Nova Vulgata: "Ecce ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum"

(169) - Cfr. Mt 26, 42: "Pater mi, si non potest hoc transire, nisi bibam illud, fiat voluntas tua".

(170) - UC V, 45

(171) - Umiltà da Faenza, Sermo sextus seu oratio in honorem Iesu Christi, cit.

(172) - H. Johannis, Legenda beatae ... cit., pp. 85-87, passim: "[ ... ] inhumatum iacuit in cappella beatae Katherine virginis diebus triginta et septem, ab omne poenitus labe corruptionis alienum, quoad tumulo ex integro profecto traderetur [ ... ] Que sane membra, tanta sanctitatis eius virtus, etiam hoc tempore intacta atque inviolata existunt".

(173) - C. Vegri, Le sette armi spirituali, 8, 9, in Bibliotheca sanctorum, III, 980-982

(174) - H. Johannis, Legenda beatae ... cit., pp. 84-85: "Mox autem cepit ex sacro corpore tante suavitatis odor emanare, ut non egrotantis aut defuncti corporis camera illa videretur, sed omnium aromarum apotheca. Quo suavissimo odore diebus multis camera illa redolevit, intrantibus cunctis mire iocunditatis solatia conferebat".

(175) - Santa Rita da Cascia. Sposa e madre in tempi difficili (Santi e sante di Dio), Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo: 2014, Kindle Edition, pos. 278 di 509

(176) - Fr. Iuncta Bevegnatis, Legenda de vita ... , cit., 10, 16: " [ ... ] adeo decorata virtutibus et decoribus, oblita poenitentiae pristinae, in qua corpus spiritui servire coegerat, oblita laborum, lacrimarum, jejuniorum, vigilarum, dolorum, timorum, aliarumque virtutum, ad quas ultra aestimationem conversationemque humanam ascenderat [ ... ]".

(177) - Agostino, Discorsi, 229, 1