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IL DIALOGO COME VIA ALLA FELICITà

Il relatore dott. Giuseppe Redaelli con Beretta Luigi

Il relatore dott. Giuseppe Redaelli con Beretta Luigi

 

 

 

IL DIALOGO COME VIA ALLA FELICITA': IL DE BEATA VITA

di Giuseppe Redaelli

Cassago Brianza 31 agosto 2016

 

 

 

Introduzione

Tra tutti i dialoghi cosiddetti "di Cassiciaco", il dialogo sulla felicità, o De beata vita, sembra ridursi a ben poca cosa – l'opera forse meno originale del pensiero agostiniano. In questo modo il discorso su questo dialogo si potrebbe ridurre a un breve paragrafo riassuntivo: il De beata vita, infatti, è un dialogo che si svolge a Cassiciaco dal 13 al 16 novembre 386; i primi due giorni del dialogo hanno luogo nei bagni termali della villa di Verecondo, mentre nella terza giornata l'azione si sposta all'aperto, su di un prato nei presso della villa. Oggetto del dialogo è la ricerca della felicità, che i dialoganti concordano coincidere con lo habere Deum.

Questo stato comporta la scelta, insieme etica e morale, di comportarsi in modo virtuoso e soprattutto di abbracciare una vita di moderazione. Su questa base, i dialoganti concludono che l'uomo saggio è felice. L'ultima porzione del dialogo, infine, riconduce la vicenda del dialogo all'interno del discorso cristologico e trinitario cristiano, legando alla discussione il tema della virtù cristiana. È Agostino stesso che, a conclusione delle tre giornate, riconduce una discussione fondata sulla filosofia morale greco-romana al pensiero cristiano, unendo, secondo un'espressione ormai comune, Atene a Gerusalemme. In apparenza, questo dialogo non è che una semplice ripetizione di concetti filosofici antichi, abbracciando una concezione eudamonica della felicità.

Una lettura più profonda del testo rivela, tuttavia, il senso della ricerca e del dialogo come educazione volta alla crescita della persona. In questo senso il dialogo Sulla felicità acquista un senso fondante all'interno della tradizione culturale e spirituale agostiniana. Per comprendere questo aspetto di questa breve opera agostiniana, è però necessario spostare l'attenzione da una semplice considerazione dell'oggetto-contenuto (le teorie filosofiche sulla felicità), per concentrarla invece sull'agire, sul fare-dialogo: così diventa possibile osservare come i dialoganti si presentino sulla scena dell'opera con la loro personalità, con la ricchezza e i limiti di un intelletto, di un'anima già inserita in un percorso spirituale; e il loro interrogare e rispondere tanto permette loro di crescere lungo il percorso, quanto diventa parte fondante del percorso stesso. Nel dialogo, più che la discussione sull'essenza della felicità, è l'azione del dialogare stesso che fa crescere, per condurre infine alla felicità sperata e desiderata.

 

 

Il senso dell'insegnare

Si immagini un vasto deserto inaridito, su cui cade una pioggia di fuoco, attraversato dal corso ampio di un lungo fiume; il corso del fiume è protetto da un argine alto e robusto, che impedisce all'acqua di bagnare e fecondare il deserto. Sull'argine camminano due figure: si tratta di Dante Alighieri e della sua guida Virgilio. La scena è tratta dal canto XV dell'Inferno dantesco, il canto detto dei "sodomiti" – se non che di sodomiti nel testo quasi non si parla, se non in un breve cenno, peraltro oscuro. Per comprendere il significato di questo canto, e insieme la sua relazione con l'opera agostiniana, si riprenda a seguire la narrazione dantesca. I due pellegrini, dall'alto e dalla sicurezza dell'argine, presto scorgono "d'anime una schiera" (v. 16), che corre sulla sabbia ardente e riarsa, e che di lontano li adocchia con sguardo sospettoso e inquietante:

 

[...] ciascuna

ci riguardava come suol da sera

guardare un altro sotto nuova luna;

e sì ver' noi aguzzavan le ciglia

come ‘l vecchio sartor fa ne la cruna (vv. 17-21).

 

La "famiglia" infernale (v. 22) è irriconoscibile nell'aspetto tormentato dei volti; e tuttavia uno di loro riconosce Dante, a tal punto da esclamare il proprio stupore:

 

Così adocchiato da cotal famiglia,

fui conosciuto da un, che mi prese

per lo lembo e gridò: "Qual maraviglia!" (vv. 22-24).

 

Il linguaggio che dà forma alla narrazione dell'incontro sottolinea la terribile solitudine di questa figura: nel troncamento del pronome "uno" si avverte la piccolezza di quest'unica anima, che scopriremo pur amata e onorata da Dante, e che il grido isola all'interno della schiera; e la spezzatura tra il v. 23 e il v. 24 evoca, con la tensione imposta al ritmo sintattico, il suo protendersi verso Dante, alla ricerca disperata di un contatto umano amico, consolante, negatole in quell'inferno arido. Così, nella descrizione della schiera infernale, dominata da espressioni afferenti all'area semantica della vista, il grido di quest'anima ne sottolinea con grande intensità l'isolamento; e la rende, prima ancora che se ne conosca l'identità, una figura sconsolata e struggente.

Chi grida è Brunetto Latini, notaio impegnato nella vita politica di Firenze, traduttore dal latino e autore di un lavoro enciclopedico, Li livres dou Tresor; intellettuale civile, Brunetto fece convergere l'arte del letterato, l'esistenza individuale e l'attività politica [1]. Proprio in questo egli è riconosciuto da Dante come suo amatissimo maestro:

 

ché ‘n la mente m'è fitta, e or m'accora,

la cara e buona imagine paterna

di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m'insegnavate come l'uom s'etterna (vv. 82-85).

 

Il ruolo di Brunetto nella vita di Dante è quello di insegnargli a raggiungere fama imperitura. Lo stesso Brunetto lo ricorda a Dante:

 

Se tu segui tua stella,

non puoi fallire a glorioso porto,

se ben m'accorsi ne la vita bella;

e s'io non fossi sì per tempo morto,

veggendo il cielo a te così benigno,

dato t'avrei a l'opera conforto (vv. 55-60).

 

Il maestro Brunetto Latini vuole condurre Dante alla gloria e al successo nel mondo ("t'avrei dato conforto", v. 56). Scopo del suo insegnamento è farsi un nome, acquisire una fama imperitura, invidiata da tutti ("avranno fame / di te", vv. 71-72). Questa fama, però, è dipendente dalla fortuna (nell'italiano medievale, termine neutro che indica tanto la buona quanto la cattiva sorte: "La tua fortuna tanto onor ti serba", v. 70); ma anche il male che Brunetto predice a Dante è legato alla fama e al successo (vv. 61-66). In tutto ciò, l'insegnamento di Brunetto è sterile: ecco allora il suo legame con la sodomia (che nega alla sessualità l'esito fecondo) e il senso dei simboli presenti nel canto. Le anime dei sodomiti, infatti, si muovono nel deserto – a richiamo dell'immagine del camminare come simbolo dell'esistenza umana (lo homo viator della tradizione medievale); il loro camminare è però qui un correre incessante, l'ansia di arrivare a un luogo che non si raggiungerà mai – l'illusoria fama imperitura di chi cerca l'immortalità nella gloria. Il luogo in cui i dannati corrono è un deserto – luogo sterile, in cui la vita non può nascere né crescere; e luogo riarso, che non calma la sete, e insieme il desiderio, la brama di fama che questa rappresenta: l'acqua tanto desiderata è infatti sempre oltre la portata, al di là dell'argine che, in un'immagine rovesciata, la trattiene. La solitudine di queste anime è quella

 

di chi, in vita, non ha saputo coltivare un legame fecondo con quelle persone che, a lui affidate, aveva la responsabilità di far crescere come esseri umani.

Nell'incontro con Brunetto, nella tristezza struggente che lo domina, si sente il dolore di Dante al comprendere, infine, come l'insegnamento che ne avesse ricevuto fosse sterile, vuoto; e come, in questo, Brunetto non fosse stato vero maestro. Benché ne ricordi "la cara e buona imagine paterna" (v. 83), Dante non chiama mai Brunetto "maestro". Questo appellativo è invece riservato al solo Virgilio, che cammina dinanzi a Dante (vv. 97-98), quasi a mostrargli la via; e che, nel canto introduttivo a tutta la Commedia, egli aveva chiamato "maestro e autore", a dire, secondo l'etimologia, una figura che rende più grandi (magister) e fa crescere (auctor) [2]. Nel procedere di Dante a fianco di Brunetto, ma in posizione più elevata, se ne coglie l'ormai raggiunta superiorità morale; ma nel suo procedere a capo chino (v. 44), e che Dante attribuisce a reverenza, si avverte anche il peso di questa constatazione. Nel riconoscere il carattere labile ed effimero dei doni della fortuna, Dante mostra, con la sua risposta, di aver superato l'insegnamento di Brunetto:

 

[...] a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra;

però giri Fortuna la sua rota

come le piace, e ‘l villan la sua marra (vv. 93-96)

 

Il vero maestro non è allora Brunetto, che spinge l'allievo a raggiungere una gloria effimera, dominata dalla sorte, ma Virgilio, che gli ricorda la vanità della fortuna, e lo conduce, nel duro confronto con le proprie oscurità, a più alte vette intellettuali, morali e spirituali. Come Dante, e ancor prima di lui, Agostino affronta il problema del senso – cioè della direzione e del significato – dell'educazione. Riflettendo sulla propria infanzia nelle Confessioni, Agostino ricorda: quali inganni soffrii allora, quando, fanciullo, mi veniva indicata come norma di vita retta l'ubbidienza a chi voleva rendermi prospero nel mondo ed eminente nelle arti linguacciute, provveditrici di onori e ricchezze false tra gli uomini! Fui affidato alla scuola per impararvi le lettere, di cui, meschinello, ignoravo i vantaggi; eppure erano busse, se ero pigro a studiarle. Era un sistema raccomandato dai grandi, e molti fanciulli prima di noi, menando quella vita, avevano aperte le vie penose ove eravamo costretti a passare, moltiplicando la fatica e la sofferenza dei figli di Adamo [3]. Ancora bambino, Agostino si vede spinto – quasi gettato tra gli studi. Già adulto egli ricorda come preferisse il gioco agli studi, e come fosse invece costretto a questi da maestri e precettori:

 

proprio nella fanciullezza, che suscitava al mio riguardo apprensioni minori dell'adolescenza, non amavo lo studio e odiavo di esservi costretto. Vi ero però costretto, e per il mio bene, ma io non compivo del bene, perché non avrei studiato senza costrizione, e chi agisce suo malgrado non compie del bene, per quanto sia bene quello che compie [4].

 

La costrizione cui Agostino è soggetto è un bene – e in quanto bene viene da Dio – ma gli adulti che lo costringono, genitori, precettori e insegnanti, non agiscono in vista del vero bene:

 

Essi non vedevano altro scopo, cui potessi rivolgere quanto mi costringevano a imparare, se non l'appagamento delle brame inappagabili di una miseria che sembra ricchezza e di una infamia che sembra gloria [5].

 

Come già Dante di fronte a Brunetto Latini, riflettendo sugli studi della giovinezza Agostino coglie una contraddizione di fondo nell'intenzione di chi gli insegnava. La struttura ossimorica che forma l'architettura del passo sottolinea la vanitas dell'atteggiamento degli insegnanti e delle mete che si proponevano: i desideri che muovono gli insegnanti sono insaziabili (ad satiandas insatiabiles cupiditates), la ricchezza che bramano per i loro studenti rende più miseri (copiosae inopiae), la gloria cui aspirano è vergognosa (ignominiosae gloriae). Studiando le peregrinazioni errabonde di "un certo Enea", ma dimenticava i propri errori – e il gioco di parole sottolinea il carattere alienante di uno studio solo nozionistico, che non ha altra attinenza con la vita, l'interiorità e l'esperienza che essere asservito al desiderio di fama e carriera [6].

Agostino condanna in tal modo non gli studi in sé, ma il fine eticamente sbagliato verso cui sono volti, l'aspirazione alla carriera e l'acquisizione della fama: "Qui dentro s'imparano le parole, di qui si attinge l'eloquenza, assolutamente necessaria per convincere e spiegare il proprio pensiero". La metafora che associa l'acquisto della conoscenza e della comprensione al nutrimento diventa qui veicolo delle contraddizioni di un insegnamento stravolto nella sua identità e nel suo fine; se l'anima "assetata" cerca la sapienza eterna di Dio, quello che incontra è solo l'ubriacatura di un vino cattivo offerto da maestri loro stessi ubriachi: "Io non accuso le parole, che direi vasi eletti e preziosi, ma il vino del peccato, che in esse ci veniva propinato da maestri ebbri" [7].

Le parole apprese dai maestri, scrive Agostino, sono solo contenitore. Ma il contenuto è quel vino che dovrebbe nutrire, e che invece inebria; e i maestri incaricati di trasmetterlo sono essi stessi ebbri. Così il simbolo del vino, tanto caro ad Agostino e centrale nelle stesse Confessioni (si pensi che proprio il tempo della vendemmia, secondo un'immagine evocativa del linguaggio evangelico, vede il suo ritirarsi dall'insegnamento lungo la via del battesimo) qui diventa simbolo di un insegnamento che avvelena. La bevanda fermentata, che il vescovo d'Ippona indica quale simbolo e strumento di trasformazione dei battezzati, qui è invece veleno che stravolge la comprensione – l'intelletto; e fonte di gioia diventa non una cultura che davvero nutra, ma l'eccellere nel semplice ripetere, nel costruire discorsi vuoti e fini a coltivare una bravura tutta formale, priva di vero contenuto. Riflettendo sul senso dei suoi primi anni di scuola, l'Agostino maturo, ormai vescovo, vede quegli studi privi di sostanza ("fumo e vento"), senza alcun vantaggio rispetto alla "vita vera" [8].

Divenuto maestro, e proprio contro questo vino che ubriaca e conduce all'errore, contro questo insegnamento che non disseta ma avvelena, Agostino offre agli amici riuniti a Cassiciaco un banchetto, un pasto che nutra l'anima.

 

 

I tre naviganti

Il discorso di Agostino si inserisce da subito nell'esperienza concreta, in un continuo ritorno "alle cose stesse". Il dialogo si svolge in un luogo e in una data precisi – a Cassiciaco il 13, 14 e 15 novembre dell'anno 386 [9]. Il suo scopo esplicito è, fin dalle battute d'apertura, quello di nutrire spiritualmente tutti coloro che vi partecipano [10]. Ma in questo il dialogo non è limitato ai soli presenti: anche gli amici assenti e lontani sono chiamati a parteciparvi. Quanto detto nel corso della discussione, infatti, viene trascritto, per poi essere inviato all'amico Manlio Teodoro, scrittore, grammatico e uomo politico [11], membro del gruppo neoplatonico milanese [12], grande conoscitore di Plotino.

Una lettura attenta del testo agostiniano rivela una progressione da un'allegoria di carattere filosofico (la metafora estesa dei naviganti) ad una riflessione esistenziale, prima, e infine al dialogo. L'allegoria, tuttavia, si inserisce nel dialogo, che Agostino estende all'amico lontano rivolgendosi a lui, a più riprese, in prima persona [13]. Manlio Teodoro vi è detto vir humanissimus atque magnus, "uomo grande e di profonda umanità"; ma nella parola vir ancora vive la radice del termine virtus, "virtù" – concetto centrale che ritornerà proprio nella riflessione sul modo in cui si possa condurre una vita sommamente felice. È dunque all'amico coltissimo, in possesso di virtù e umanità, che Agostino si rivolge come ad interlocutore imprescindibile, pur se lontano, del dialogo.

Fin dall'apertura dedicatoria all'amico lontano, Agostino sviluppa la riflessione sulla ricerca della felicità in relazione al proprio percorso intellettuale e spirituale. La dedica a Teodoro, infatti, sviluppa dapprima un paragone esteso e approfondito tra la ricerca della felicità e la navigazione per un mare in tempesta, in cerca di un porto sicuro; e su di essa si innesta, in un secondo momento, l'esperienza di Agostino – ma questo innesto acquista un senso ben preciso proprio alla luce delle immagini e delle riflessioni sviluppate nei paragrafi che lo precedono. Allo stesso modo, tuttavia, il percorso intellettuale e spirituale di Agostino, illustrato in un breve paragrafo, rivela il suo senso profondo solo se letto attraverso la lente delle pagine precedenti, che lo radicano nell'universale esperienza del dolore, delle traversie e del desiderio di stabilità e felicità. L'esperienza di Agostino, esempio in cui si può ritrovare l'affannato procedere dell'umanità, diventa allora lo sfondo su cui tutto il dialogo proietta, acquista e rivela il proprio senso.

 

"Ci ha lanciato in questo mondo come in un mare tempestoso, irrazionalmente e a caso, almeno all'apparenza, o Dio, o la natura, o la necessità ovvero una nostra scelta o alcuni di questi principi congiunti o tutti insieme" [14].

 

L'immagine del mare in tempesta è metafora tradizionale per significare le asperità dell'esistenza. Così, per esempio, nel poema De rerum natura, del poeta latino Lucrezio Caro [15], il filosofo-naufrago osserva dalla riva sicura della filosofia il mare in tempesta. A differenza dei naviganti agostiniani, il filosofo lucreziano siede al sicuro, protetto dalla propria filosofia, e osserva da lontano il naufragio altrui. Nel testo agostiniano, invece, il filosofo è impegnato nel viaggio e stravolto dalla tempesta, compagno di ogni altro essere umano.

Se il viaggio per mare è metafora dell'esistenza umana, travagliata dagli affanni e preda della cieca fortuna [16], il testo latino del dialogo si apre con l'espressione Ad philosophiae portum, ad indicare il senso, ovvero la direzione e il significato del filosofare e, insieme, la vera meta del viaggio per mare: "O coltissimo ed egregio Teodoro, se il tragitto indicato dalla ragione e la sola scelta conducessero al porto della filosofia, dal quale si può sbarcare nella regione e terraferma della felicità, non saprei se può offendere l'affermazione che in molto minor numero sarebbero gli uomini che lo raggiungono" [17].

La meta della navigazione non è il porto, ma "la regione e terraferma della felicità" (beatae vitae regionem solumque). La parola regionem evoca il senso di un luogo ampio, esteso, in cui è implicita la capacità di accogliere chi vi giunge e la possibilità di risiedervi. Nella parola solum, la regione si rivela "suolo sicuro", "terraferma", luogo saldo e stabile in/su cui riposare dopo il movimento vorticoso, l'instabilità inquietante e la spaventosa incertezza del viaggio per mare.

Con l'identificazione di una duplice meta, il testo sembra contenere un'allusione alla nascente filosofia cristiana. Scopo del navigante è infatti giungere in un porto sicuro; ma il ruolo di tale porto è sì quello di offrire un primo rifugio, un momento di sollievo dalla tempesta; ma è soprattutto quello di permettere lo sbarco nella regione vasta e accogliente, sul suolo fermo e stabile della piena e perfetta felicità. Il dialogo diventa allora strumento per riconoscere il porto, identificare la terraferma e avvicinarsi cognitivamente a entrambi; ma è anche un mezzo per riconoscere gli strumenti etici che consentono di giungere effettivamente alla meta. La felicità, infatti, non ha nel dialogo soltanto un carattere eidetico, cognitivo; essa comprende invece anche la prassi, l'agire in modo virtuoso.

In apertura del testo, Agostino riassume l'intera esperienza umana in un'unica immagine: ogni essere umano è gettato nel mondo, senza sapere chi o che cosa ve l'abbia gettato, o del motivo per cui l'abbia fatto. Qui non è solo questione del dolore che percorre l'esistenza, ma anche della profonda insensatezza, della mancanza di intenzionalità, del cieco caso e dell'assenza di ordine che la dominano. Il mistero dell'essere-nel-mondo è toccato qui non nella sua essenza, nella sua verità, ma nel modo in cui si presenta all'esperienza di chi vi è immerso. E in questo apparire il mondo è non semplice mare, ma salum, termine latino che indica "l'alto mare", il trovarsi in "pieno mare", ma in cui si sente anche l'eco della parola greca σάλος, da cui deriva, e che indica "l'agitazione del mare". Salum, in cui ogni essere umano si trova gettato, è un mare agitato, in cui navigazione e nuoto sono difficili e faticosi, tormentati e pericolosi. Il suo movimento continuo e cangiante evoca il senso di incertezza, l'impossibilità di controllare gli eventi cui si trova di fronte chi è gettato nell'esistenza – un'esistenza in cui ci si sente smarriti, trasportati in balia delle onde.

In questo mare, la salvezza non ha il volto della bonaccia, ma di una tempesta inattesa e non riconosciuta per tempo: una tempesta tanto spaventosa e improvvisa, che incute tanto terrore da non permettere di riconoscere il suo aspetto salvifico:

 

Nessuno potrebbe dunque sapere dove dirigersi o per dove ritornare se talora, contro la nostra scelta e mentre ci affatichiamo in direzione opposta, una qualche tempesta, di cui gli ignoranti possono ritenere che ci allontani dalla meta, non ci gettasse, senza la nostra consapevolezza e malgrado il nostro errore, nella terra tanto desiderata [18].

 

La tempesta getta il naufrago inconsapevole – gli esseri umani vaganti senza meta – sulla terra desideratissima. In contrasto col mare agitato, essa è simbolo di stabilità, che dona sollievo dopo le onde vorticose; e, a differenza della superficie sempre cangiante del mare, la terraferma può essere mappata, a significare la possibilità di ritrovare una certezza, di comprendere quale sia il luogo in cui ci si trova. Così la "terra desideratissima" è luogo in cui si può vivere, che si può, finalmente, abitare. Per questo essa è oggetto di un desiderio intensissimo – che nasce tuttavia non da amore, ma da timore, ansia e paura.

Scrive Agostino che, tra gli esseri umani gettati tra le onde del mare dell'esistenza e "che la filosofia può accogliere" nel suo porto, si possono distinguere "tre tipi di naviganti" [19]. Del primo tipo fanno parte coloro che, "raggiunto l'uso della ragione, senza sforzo, con qualche leggero colpo di remi, salpano senza tentare il largo e si rifugiano nella tranquillità. Di là erigono per quanti è possibile, affinché si sforzino di raggiungerli, il faro splendente di qualche loro opera" [20]. Questo primo genere di naviganti sembra ritratto in una luce positiva: giunti al sicuro, infatti, subito costoro si mettono all'opera, per aiutare chi ancora è in alto mare. Una lettura più attenta, però, rivela che la loro figura è velata da un'impressione di timore e paura. Essi, infatti, fugiunt de proximo ("salpano senza tentare il largo", ma, più propriamente, "fuggono nella parte più vicina della costa"). Il loro navigare è un fuggire, in cui si avverte un terrore disperato delle difficoltà del mondo; e se, giunti al sicuro, sese condunt in tranquillitate ("si rifugiano nella tranquillità"), il verbo scelto da Agostino sottolinea che il loro rifugiarsi è anche un nascondersi.

Il secondo tipo di naviganti è quello di quei temerari che prendono il largo ma, peregrinando, dimenticano la patria cui appartengono. Nel loro peregrinare, il caso li può condurre a onori e gloria fallaci, perché dominati dalla fortuna. Costoro sono tanto ipnotizzati, ingannati dal gioco di un successo apparente, che solo una tempesta inattesa o una sventura improvvisa potrebbero ricondurli a porto più sicuro [21].

Il terzo tipo di naviganti è formato da quanti si ricordano della patria lontana e, dopo molti viaggi, trovano dei segni che li riportano verso la meta. Subito prima di arrivarvi, tuttavia, incontrano una montagna, vuota al proprio interno, che non offre vero rifugio, ma li invita anzi a proseguire oltre [22]. Punto chiave di questa terza categoria, come della seconda, è che i naviganti sono spinti verso la salvezza e fuori dalle false certezze da una tempesta inattesa, tanto spaventosa e terribile che il suo aspetto salvifico non è riconosciuto. Tutti i naviganti, inoltre, sono condotti alla meta da un desiderio intenso, nato non da amore, ma dalla paura e dal timore che il viaggio tra le incertezze e le terribili ondate del mare in tempesta incute.

Sulla metafora dei tre generi di naviganti si innesta la vicenda personale di Agostino [23]: la letteratura e la filosofia hanno sollevato la riflessione a un livello più alto, universale, ma essa è radicata nell'esperienza vissuta. La tempesta di Agostino è tantus pectoris dolor, che lo allontana dal canto pericoloso e seducente delle sirene e lo conduce a una prima quiete, non ancora stabile: il philosophiae portus. Su questa premessa, e con le parole la felicità è Dei donum [24], si apre il dialogo. I personaggi che animeranno la discussione sono, oltre allo stesso Agostino, suo fratello Navigio e sua madre Monica; Trigezio e Licenzio, concittadini di Agostino; Lastidiano (in alcuni testi: Lartidiano) e Rustico, cuugini di Agostino e privi di qualsiasi educazione scolastica; e infine Adeodato, il figlio ancora adolescente di Agostino. A questo gruppo di amici, riuniti nei balnea della villa di Verecondo a Cassiciaco, Agostino vuole offrire, in occasione del suo compleanno, un banchetto dell'anima.

 

 

Il dialogo come educazione alla felicità

Il discorso agostiniano inizia con un richiamo all'esperienza quotidiana, all'esperienza vissuta: "Ritenete come evidente che siamo composti di anima e corpo?" (2, 7): è l'esperienza della corporeità, e insieme del carattere composito dell'essere umano, che offre il primo blocco di partenza alla ricerca filosofica. Si tratta di una posizione problematica, con cui Agostino aveva dovuto già confrontarsi all'epoca della conversione, ma che in realtà aveva fatto da sfondo, con la tensione drammatica tra le molteplici debolezze del corpo e le aspirazioni dell'anima, al suo abbracciare il credo manicheo. Ora la scissione fondamentale ritorna come dato di partenza, dato per inteso e assunto perché fornisca la base alla discussione degli amici di Cassiciaco.

Non tutti, però, si dimostrano d'accordo - ed è nota del dialogo agostiniano che, benché si avverta, nel testo, l'irritazione del maestro, anche il dubbio venga accolto e, seppur brevemente, discusso. Di fronte alla perplessità di Navigio, infatti, l'interrogare di Agostino porta a creare un parallelismo implicito, e tutt'altro che scontato, tra l'anima e la vita del corpo:

"Ritenete come evidente che siamo composti di anima e di corpo?". Tutti acconsentirono, ma Navigio rispose che non lo sapeva. "Ma non sai proprio nulla, gli chiesi, ovvero questa è una fra le tante nozioni che non sai?". "Non penso, mi rispose, di non sapere proprio nulla". "Ci puoi dire, replicai, alcuna delle cose che sai?". "Lo posso", rispose. "Se non ti dispiace, dinne qualcuna". E poiché rimaneva perplesso, soggiunsi: "Di vivere per lo meno hai coscienza?". "Si", rispose. "Hai coscienza dunque anche di avere la vita, poiché non si può vivere se non mediante la vita". "Anche questo lo so", mi rispose. "Hai anche coscienza di avere un corpo?". Fece cenno d'assenso. "Dunque sai di risultare del corpo e della vita" [25].

Da questo primo interrogare muove il dialogo - un interrogare che è movimento e azione, espressione vitale della ricerca. Proprio l'interrogare, infatti, conduce a indagare la metafora del nutrimento, senza il quale ciò che è sostenuto deperisce; e si richiede allora se, essendo l'essere umano composto di corpo e anima, dandosi un nutrimento per l'uno, non vi sia anche un nutrimento per l'altra: su questa metafora, quindi, si costruisce un parallelismo tra il cibo per il corpo e il cibo per l'anima [26].

Riprendendo allora un concetto platonico, Monica afferma di credere che l'anima si debba nutrire dell' intelligenza (intellectus) e della conoscenza (scientia) delle cose [27]. In questa espressione, i due concetti chiave sono intellectus (qui reso con "intelligenza" e scientia (qui reso con "conoscenza"). Si tratta di due concetti di primaria importanza nel filosofare agostiniano, che vale la pena chiarire con attenzione.

Quando, ormai vescovo, Agostino scrive le Confessioni, l'intelletto vi è definito come un'attività della mente [28] che gli esseri umani ricevono in dono da Dio [29], per mezzo della quale è possibile comprendere a fondo la realtà nei suoi aspetti non derivati dai sensi [30]. Etienne Gilson nota che, in questo senso, l'intellectus, è una facoltà dell'anima umana, appartenente alla mens, che è illuminata direttamente dalla luce divina [31]. Egli cita al riguardo un passo del trattato XV del Commento al Vangelo di Giovanni, in cui Agostino scrive che"ciò che chiamiamo intelletto è una facoltà della nostra anima. Questa facoltà dell'anima che si chiama intelletto o mente, viene illuminata da una luce superiore. Questa luce superiore, da cui la mente umana viene illuminata, è Dio" [32].

In questo senso, l'intelletto è la capacità di leggere in profondità (etimologicamente, intus legere) la verità del reale grazie alla luce divina operante all'interno dell'anima:

 

ciò che contemplo con lo spirito, secondo cui approvo la sua bellezza, e secondo cui lo correggerei se non mi piacesse, è tutt'altra cosa. E così giudichiamo di queste cose corporee secondo la verità eterna che percepisce l'intuizione dell'anima razionale. Queste cose invece, se presenti, noi le tocchiamo con i sensi del corpo; se assenti ricordiamo le loro immagini conservate nella memoria, o secondo la loro rassomiglianza, le immaginiamo tali come le faremmo nella realtà, se ne avessimo la volontà e i mezzi. Una cosa è dunque rappresentarsi con l'anima (animus) le immagini dei corpi, o vedere per mezzo del corpo le cose materiali, altra cosa intuire con la pura intelligenza, al di sopra dello sguardo dello spirito, le ragioni e l'arte ineffabilmente bella di tali immagini [33].

La facoltà dell'intelletto, in forza dell'illuminazione divina, permette all'uomo di giudicare il reale:

 

è compito della ragione superiore il giudicare di queste cose corporee, secondo le leggi incorporee ed eterne. Se queste non fossero al di sopra dello spirito umano, certamente non sarebbero immutabili; ma se esse non avessero alcun legame con quella parte di noi stessi che è loro sottomessa, non potremmo, in base ad esse, giudicare delle realtà corporee. Ora noi giudichiamo delle realtà corporee secondo la legge delle dimensioni e delle figure, legge di cui il nostro spirito conosce la persistenza immutabile [34].

 

Scientia, invece, è conoscenza caratterizzata da certezza; in quanto tale, è conoscenza universale e vera, che non può essere negata: "scienza infatti non è costituita da una qualsiasi rappresentazione, ma da una rappresentazione tale che chi l'ha formulata non commetta errore e, anche se sottoposto a qualsiasi critica, non possa dubitare" [35]. Per questo motivo, essa non può avere per oggetto solo ciò che è opinabile [36], ma, come unità delle discipline discrete [37], apprese in modo ordinato e graduale e con moderazione [38], la scienza conduce al filosofare, che non è possibile senza di essa: "circa tali problemi [di natura filosofica], o s'indaga sulla base della suddetta formazione culturale, o non si deve indagare affatto" [39].

Nutrimento dell'anima sono dunque l'azione dello scrutare, comprendere e giudicare la realtà, illuminata dalla luce divina, e insieme l'acquisizione graduale e ordinata di conoscenza. Senza queste, non solo l'anima deperisce, ma tutto il composto, l'intero essere umano è meno vivo, rispetto a quella pienezza vitale cui aspira chi ricerca la felicità. Così tra gli alimenti dell'anima, scrive Agostino, bisogna cercare e procacciare quello che porta la vita, così da non isterilirsi come gli stolti: "anche data l'ipotesi d'una certa sazietà della mente degli stolti, si danno due tipi di alimenti tanto naturali che spirituali: l'uno di quelli che producono salute e vita; l'altro di quelli che producono infermità e morte" [40].

 

Il giorno del suo compleanno, Agostino offre dunque agli amici riuniti con lui a Cassiciaco un pranzo per corpo e spirito. Il pranzo, incentrato su un tema proposto da Agostino, è convivio, nel senso etimologico del nutrirsi insieme. La convivialità, già presente nella tradizione culturale greca e romana, assume un ruolo centrale anche nel cristianesimo [41]. Come nelle tradizioni precedenti, e forse con ancora maggior forza, la convivialità si lega in Agostino all'idea di condivisione e di amicizia: momento da trascorrere con coloro che sono amati nella gioia, e la cui compagnia procura gioia a chi li ama; in cui la felicità prende corpo già nell'amare l'amico in Dio [42], amore con cui gli amici diventano unanimi e concordi – condividono cioè un'unica anima e un unico cuore [43].

Il dialogo/convivio assume così la forma del ricercare, del nutrirsi, dell'apprendere, e quindi del crescere insieme. I partecipanti al banchetto dell'anima costruiscono insieme la conoscenza: ogni convitato contribuisce secondo il proprio intelletto, la propria esperienza, la propria comprensione. Benché assuma il ruolo del maestro, Agostino non esercita la maieutica, quasi novello Socrate, non fa "partorire" all'anima un significato, una conoscenza, di cui egli già intravedeva l'esistenza; ma, come moderno moderatore, somma e concilia in unità le idee espresse dai partecipanti; e, con il suo interrogare, facilita il dipanarsi del pensiero.

A conclusione della prima giornata di dialogo, per esempio, gli amici giungono a comprendere in modo unanime che "è felice chi possiede Dio". Quando, tuttavia, si tratta di trovare una definizione che chiarisca in che cosa consiste tale possesso, vengono formulate tre distinte opinioni. Licenzio, infatti, afferma che "ha Dio chi vive bene"; Trigezio ribatte che "Ha Dio chi obbedisce ai suoi comandamenti"; e Adeodato afferma che: "Ha Dio chi non ha l'animo immondo" [44].

Come moderatore, facilitatore e maestro del dialogo, Agostino non solo chiarisce dubbi e punti oscuri, ma opera anche per ricondurre le opinioni distinte al consenso e ad un'unità armoniosa: egli ne discute il significato oltre l'opposizione apparente, in profondità, dove si cela l'accordo. Di fronte alla triplice risposta degli amici, Agostino riconduce le prime due opinioni a unità in modo lineare, attraverso un'analisi di ciò che implicano: "Chiunque vive bene compie ciò che Dio vuole e chiunque compie ciò che Dio vuole vive bene; altro non è infatti vivere bene che fare ciò che piace a Dio, salvo un vostro disparere" [45]. L'opinione di Adeodato, invece, più complessa, richiede un impegno maggiore, che, attraverso l'analisi del significato delle parole, trova due possibili accezioni dell'espressione "spirito immondo":

 

Più attentamente bisogna esaminare la terza opinione perché, nella terminologia della Sacra Scrittura, immondo spirito, per quanto io ne comprendo, viene inteso in due significati. O s'intende quello che invade l'anima dal di fuori, sconvolge la normale funzione dei sensi e genera negli uomini una specie di mania; e si dice che, per allontanarlo, i sacerdoti impongono le mani ed esorcizzano, cioè lo scacciano con l'invocazione di Dio. Con altra accezione si denomina spirito immondo ogni anima immonda e non significa altro che anima inquinata da vizi e colpe [46].

 

Agostino chiama allora il figlio Adeodato a contribuire alla discussione: fedele allo spirito del dialogo, che sull'ascolto dell'altro si regge e dell'ascolto si nutre, Agostino non impone il suo pensiero, ma lascia che sia chi ha espresso l'opinione a chiarirne il senso: "Penso, rispose, che non ha lo spirito immondo chi vive castamente". La definizione di Adeodato è, ancora una volta, caratteristica dello spirito del dialogo: se, infatti, essa riprende la seconda accezione proposta da Agostino, lo fa, però, introducendovi il concetto di castità, che rimette in moto l'interrogare, senza fermarlo alle parole di un solo interlocutore. All'invito a spiegare cosa intenda con la parola casto, Agostino aggiunge due nuove opzioni; e, nuovamente, Adeodato nella sua risposta riprende il suggerimento paterno, superandolo in una definizione più profonda e più ampia:

 

Ma, soggiunsi, chi intendi come casto: colui che non commette peccato o colui soltanto che si astiene da un illecito contatto carnale?". "Come, rispose, può esser casto se, astenendosi soltanto dall'illecito contatto, non cessa di macchiarsi di altri peccati? Quegli è veramente casto che è fisso in Dio e soltanto a lui aderisce" [47].

 

Proprio il dialogo, dunque, permette ad Agostino di accordare in unità armoniosa le tre differenti opinioni: "Ne consegue pertanto necessariamente che questo tale viva bene e chi vive bene è necessariamente casto, salvo il tuo disparere". Manifestò la sua adesione assieme agli altri. "Quindi, conclusi, fino a questo punto c'è unanimità di opinioni" [48].

Nel dialogo, Agostino guida i propri interlocutori, quale loro compagno e maestro: ne accetta le opinioni distinte, senza escludere nessuno - anzi, accortosi del silenzio esitante di Rustico, lo invita a esprimere una propria idea. E quando un interlocutore gli comunica la propria incapacità di comprendere, subito Agostino accorre a soccorrerlo, chiarendo i pensieri complessi per mezzo di esempi. Così, per esempio, allorché Trigezio confessa di non comprendere la conclusione secondo cui "la stoltezza è privazione" [49], Agostino lo invita a tornare su ciò che gli è chiaro, per poi chiarirglielo tramite esempi:

 

Che cosa, gli chiesi, abbiamo accertato con la nostra analisi?". Che soggiace alla privazione chi non possiede la saggezza", mi rispose. "E che cosa è, soggiunsi, soggiacere a privazione?". "Non avere la saggezza". "E che cos'è, dissi, non avere la saggezza?". Poiché taceva gli chiesi: "Avere la stoltezza?". "Si", ammise. "Dunque, conclusi, avere la privazione e rispettivamente la stoltezza è la medesima cosa. Ne consegue che privazione è sinonimo di stoltezza. Tuttavia, non so perché, diciamo: Ha la privazione; ovvero: Ha la stoltezza. È lo stesso caso di quando diciamo che un luogo privo di luce ha le tenebre; non significa altro che non avere la luce. Le tenebre non vanno e vengono, ma mancare di luce significa essere nelle tenebre, come esser privo delle vesti significa esser nudo. Insomma, quando s'indossa una veste la nudità non fugge come un oggetto condizionato al moto locale. Così dunque diciamo che si ha la privazione come si dice che si ha la nudità. La privazione è categoria del non avere. Quindi per spiegare, come posso, il mio pensiero, si dice: Ha la privazione, come se si dicesse: Ha il non avere. E pertanto se risulta che la stoltezza è per sé vera e autentica privazione, cerca di comprendere che il problema è stato da noi risolto. Eravamo in dubbio se nel dire infelicità non intendessimo altro che privazione. Abbiamo spiegato che la stoltezza giustamente significa privazione. Dunque dobbiamo ammettere che, come lo stolto è infelice e l'infelice è stolto, così non solo chi soggiace a privazione è infelice ma anche chi è infelice soggiace a privazione. Dal principio che ogni stolto è infelice e ogni infelice è stolto si deduce che la stoltezza è infelicità. Così dal principio che chi soggiace alla privazione è infelice e chi è infelice soggiace alla privazione dobbiamo dedurre che l'infelicità è essenzialmente privazione" [50].

 

Al cuore dell'esempio si ritrova un'importante teoria neoplatonica, per cui il male è privazione di bene, e quindi di essere; ma anch'essa non è se non un'eco della distinzione, di lontana ascendenza parmenidea, tra essere e non essere. Tale distinzione fondante di tutto il pensiero greco e latino successivo prende vita negli esempi con cui Agostino la illustra. Le immagini cui Agostino attinge appartengono alla quotidianità, e hanno il duplice effetto di risvegliare l'attenzione ed esemplificare i concetti insoliti col ricorso a un linguaggio familiare. Così la nudità è ricondotta al non avere vestiti, e le tenebre all'assenza di luce - secondo un discorso che, in linea con il pensiero neoplatonico, privilegia in un'opposizione il momento positivo, assolutizzandolo rispetto al suo opposto. Anche nell'ordine degli esempi si ritrova una progressione, un avvicinarsi per gradi all'oggetto da comprendere: si muove infatti dalla tenebra, che è percepita dall'essere umano come mancanza di luce; si muove alla nudità, ovvero all'assenza di vestiti, che riguarda l'essere umano più da vicino, nella sua corporeità; e si giunge infine alla privazione di saggezza, la stoltezza, che riguarda l'interiorità. Il pensiero, dunque, attraverso l'esemplificazione, muove per gradi dalla percezione spaziale all'interiorità del pensiero e dell'anima, e da qui alla comprensione di un concetto universale, oltre la contingenza del discorso presente; e rispecchia il procedere del dialogo, che, muovendo dall'esperienza del composto umano, giunge al suo desiderio e, da questo, alla felicità oggetto del desiderio - per salire fino a Dio quale unica fonte di felicità.

Il dialogo offre un'occasione di crescita anche a chi, come un banchetto, l'ha offerto ai propri amici: il dialogo cresce e si sviluppa, e sembra sorpassare l'intenzione di chi vi ha dato l'avvio. A partire dal secondo giorno, Agostino si rende conto, infatti, di non essere neppure colui che offre il banchetto: "Io stesso, come voi, non so che cosa v'è stato ammannito. V'è un Altro che non manca di preparare a ciascuno ogni vivanda e soprattutto quelle di questo tipo" [51]. Se dunque è l'Altro, cioè Dio, a preparare le vivande che i commensali condividono e consumano, Agostino stesso rivela quale debba essere l'atteggiamento di chi siede al banchetto per parteciparvi: l'apertura al nuovo, nella consapevolezza che il dialogo predispone a nuovi contenuti e regala nuovi frutti.

Esemplare, in questo senso, è la figura di Monica, e insieme la comprensione che Agostino ne acquista: voce della saggezza, quasi novella Diotima, la madre di Agostino rivela una profondità di pensiero che sorprende in lei, indotta: le sue parole, ricche di sapienza, devono dunque provenire da una fonte superiore; ma Agostino giunge a comprenderlo nel corso del dialogo, per gradi progressivi.

All'inizio del dialogo, infatti, allorché Monica, presa la parola, afferma che chi cerca il bene, "se desidera e consegue il bene, è felice; se poi desidera il male, ancorché lo raggiunga, è infelice", Agostino riconosce, nelle parole della madre, un'eco del libro da lui tanto amato, l'Hortensius di Cicerone. Tali parole suscitano stupore in tutti gli astanti, "tanto che, dimentichi del suo sesso, la considerammo un uomo illustre assiso in mezzo a noi". Agostino, tuttavia, medita il significato profondo del l'affermazione di Monica, alla ricerca della sua origine: "Io frattanto, per quanto potevo, mi sforzavo di comprendere da quale e quanta sovrumana sorgente derivassero le sue parole" [52]. Al primo gradino del percorso di comprensione, la saggezza di Monica suscita dunque meraviglia e stupore - ma proprio questo suo carattere insolito e inatteso sprona Agostino a indagare.

In un secondo momento, allorché gli amici discutono come sia possibile che un ricco, pur non avendo necessità materiali, si trovi in uno stato di privazione, Monica ancora interviene, offrendo uno spunto che porta a trovare una risposta alla questione: il ricco, a causa del suo attaccamento ai beni materiali, è privo di saggezza, e dunque bisognoso e in uno stato di privazione. Di nuovo le sue parole suscitano "un grido unanime di ammirazione" tra i presenti. All'intelligenza di Agostino, nella fase conclusiva del dialogo, si schiude allora la comprensione dell'origine della sapienza di Monica: il suo legame con Dio, il suo tendere sempre verso l'insegnamento divino. E al colmo della gioia egli commenta: "Osservate, esclamai, che altro è la molteplice e varia cultura e altro lo spirito sempre fisso in Dio? Da dove infatti procedono le parole udite che hanno destato la nostra ammirazione se non da lui?" [53]. Come Adeodato, Monica non si ferma ferma alla prima definizione, a quanto da altri affermato; non si limita, cioè, a ricevere e inghiottire pietanze che altri le hanno offerto, ma interroga con grande presenza di spirito e intelligenza, per raggiungere la profondità della scientia e dell'intellectus. Con le sue parole, Monica rivela la presenza dell'Altro, il Dio che muove il dialogo dall'interno, dal profondo, il dialogo teso a cercarlo, lo arricchisce e lo eleva.

A conclusione del dialogo, saranno proprio le parole di Monica ad apporre il sigillo alla conoscenza costruita dai dialoganti: dopo aver declamato un verso di un inno ambrosiano, Monica aggiunge: "La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un'ardente carità" [54]. Sono le parole che riassumono tutto il percorso conoscitivo sviluppato nel corso del dialogo, e, quando sono profferite, portano il dialogo a conclusione.

Percorso di progressiva comprensione, il dialogo nutre e vivifica chi vi partecipa. Per potersi nutrire al convivio è però necessario, per prima cosa, avere fame e sete - desiderare cioè il nutrimento. È infatti il desiderio a muovere la ricerca e a spingere i convitati a parteciparvi. Agostino anzi afferma: "Sprecherei la fatica se vi costringessi a mangiare di malavoglia e senza appetito" [55]. Questa espressione anticipa quanto il vescovo Agostino affermerà nelle Confessioni:

 

[...] per imparare queste nozioni vale più la libera curiosità che la pedante costrizione; ma il flusso della prima è contenuto dall'altra secondo le tue leggi, o Dio, le tue leggi. Dalle verghe dei maestri fino alle torture dei martiri le tue leggi sanno combinare amari salubri, che ci richiamano a te dopo le dolcezze pestifere che da te ci hanno allontanato [56].

 

Se questo sarà anche il ruolo moderatore di Agostino, che si assicura che il dialogo proceda con ordine, senza perdersi nei rivoli della curiosità disordinata, il motore di tutto resta un desiderio sano di cibo spirituale: "Si deve, al contrario, auspicare che desideriate queste vivande piuttosto che quelle materiali. L'auspicio si avvererà se il vostro animo è sano. Gli infermi, come possiamo osservare nelle infermità fisiche, ricusano e respingono i cibi convenienti". A questo i convitati rispondono entusiasti: "Con l'espressione del viso e con parole concordi, tutti dichiararono di voler prendere e trangugiare la vivanda che avevo preparato". Nel testo latino, il climax e l'allitterazione sottolineano l'intensità e l'urgenza del desiderio [57]. Ed è allora proprio dal desiderio, anzi dall'universalità del desiderio di felicità, che il banchetto vero e proprio ha inizio [58].

In questo passo, in una fase aurorale del pensiero agostiniano, si avverte, accanto alla centralità del desiderio nella vita spirituale, anche il bisogno che il desiderio sia "sano", vale a dire orientato a un oggetto opportuno.

Oggetto opportuno del desiderio di felicità è, secondo Agostino, un bene "stabile, non dipendente dalla fortuna, non condizionato dai vari accadimenti" [59]. Come già osservato nella metafora dei tre naviganti, i beni caduchi, se portano felicità, portano con sé anche il timore; e, proprio perché caduchi, non saziano, ma offrono nutrimento illusorio [60]. Chi trova la propria felicità nei beni caduchi, sosterrà Monica, è soggetto al timore di perdere - e, in quanto tale, si dimostra privo di saggezza; pur non vivendo nel bisogno di beni, è infelice perché vive nella mancanza è nel bisogno di sicurezza e saggezza [61].

Dio è dunque l'unico bene il cui possesso dona la vera e completa felicità. Egli infatti è eterno, o, secondo l'espressione latina scelta da Agostino, semper manens - la stessa espressione usata da Agostino per definire il bene oggetto del desiderio, su cui il dialogo dibatte [62].

Il dialogo si muove contemporaneamente su due livelli - quello del contenuto (ciò di cui si discute) e quello del mezzo (il dialogo al cui interno si discute). E ciò che è discusso in un momento si applica anche all'altro, tanto che contenitore e contenuto giungono a rispecchiarsi l'uno nell'altro. Se ne coglie un esempio nel concetto di moderazione, che rappresenta tanto uno degli elementi chiave del percorso concettuale verso la piena comprensione dell'idea di felicità, quanto una delle forze che regolano il fluire del discorso.

Una volta giunti alla comprensione che l'uomo saggio, e dunque felice, non soggiace a privazione, i partecipanti al dialogo ne derivano che la caratteristica per cui un individuo è saggio, e dunque raggiunge la felicità, è la plenitudo, che è positiva, presente mancanza di privazione: "la pienezza sarà saggezza" [63]. Poiché però, nel corso del dialogo, si è stabilito un legame diretto tra immoderatezza (nequitia) e privazione (nequidquam), questo parallelismo consente di passare dalla pienezza (plenitudo) alla moderazione (frugalitas). Agostino propone allora un'affermazione di Cicerone: "Io ritengo la moderazione, cioè la regola della misura e del limite, come la virtù più alta" [64]. Cicerone espande il termine frugalitas (moderazione), spiegandolo tramite i due termini modestia (lett. moderazione come controllo del comportamento) e temperantia (lett. il controllo delle passioni). Agostino, prendendo spunto da questa illustrazione del significato del termine, riconduce le parole scelte da Cicerone, tramite un lavoro etimologico, a modus (misura) e temperies (limite), e conclude:

 

E dove si hanno misura e limite non c'è né il più né il meno. Dunque è di per sé la pienezza che abbiamo contrapposto a privazione molto più ragionevolmente che se le avessimo contrapposto abbondanza. Nell'abbondanza infatti sono implicite l'affluenza e quasi la produzione eccessiva di qualche cosa. E quando ciò si verifica al di là della sufficienza, manca la misura, poiché anche una cosa eccessiva è priva della misura. Quindi anche l'abbondanza non è altro dalla privazione poiché l'una e l'altra sono prive della giusta misura. Se poi si analizza il concetto di opulenza, si trova che rientra nella categoria della misura. Infatti opulenza deriva da ops (facoltà, potere). E il troppo non può conferire facoltà se spesso implica maggiore svantaggio del poco. Il poco e il troppo quindi, in quanto sono privi della misura, significano privazione. Ora la misura dell'anima è la saggezza. Infatti non si può negare che la saggezza è contraria alla stoltezza, che la stoltezza è privazione e che alla privazione è contraria la pienezza. Dunque la saggezza è pienezza e la pienezza consiste nella misura. Pertanto la misura per lo spirito consiste nella saggezza. Da qui il proverbio non immeritatamente celebre: È prima norma pratica del vivere: Non di troppo [65].

 

Fedele all'affermazione con cui aveva mosso dalla pienezza alla moderazione ("la moderazione è madre di tutte le virtù"), con percorso circolare Agostino riconduce tutte le virtù alla frugalitas. In tale processo di riduzione, tuttavia, gioca un ruolo fondamentale il concetto di misura, che già si era visto alla radice dell'idea di moderazione. E dunque, riconosce Agostino: "la saggezza […] non è altro che la misura dello spirito, con cui esso raggiunge l'equilibrio in maniera da non effondersi troppo, né restringersi al di sotto del limite della pienezza" [66]. La moderazione, come perfetta misura, costituisce dunque il cuore della felicità.

La stessa moderazione, tuttavia, percorre il dialogo, animandolo e rendendolo possibile. Questo lo si è già visto discutendo come Agostino, in qualità di moderatore, eviti che i suoi convitati si disperdano dietro a pensieri disordinati. Ma lo si nota, in negativo, anche in un errore, in apparenza banale, commesso da Agostino alla fine della prima giornata di dialogo.

Giunto alla conclusione che "chi ha Dio è felice", e raccolte le tre opinioni già menzionate in merito al significato dell'avere Dio, Agostino decide di interrompere il dialogo:

 

Per oggi tuttavia non si deve prolungare la trattazione poiché anche lo spirito ha nei suoi conviti una certa intemperanza se si getta sulle vivande senza moderazione e con avidità e rischia, per così dire, l'indigestione. E poiché da essa si deve temere per la sanità mentale come dalla stessa fame, è meglio che domani, se preferite, col ritorno dell'appetito riprendiamo la trattazione [67].

 

Riprendendo la metafora del convivio, Agostino suggerisce agli amici che, come nel nutrirsi è necessaria moderazione, per evitare che ciò che dovrebbe nutrire il corpo lo danneggi; così è importante interrompere la riflessione, una volta raggiunta una meta importante, per consentire alla mente di assimilarla. Lo stesso Agostino, però, infrange subito la regola che ha appena stabilito:

 

Voglio tuttavia che subito assaporiate ciò che io adesso, come vostro anfitrione, devo apporvi offrendolo direttamente alla vostra mente. Ed è, salvo errore, l'ultima rituale vivanda ammannita e condita dal miele della lezione […] Non vi pare, dissi, che è conchiusa la discussione iniziata qualche giorno addietro contro gli accademici?  [68]

 

Menzionando il discorso sugli accademici, Agostino risveglia l'interesse di chi vi aveva partecipato – ma subito comprende il suo errore perché non tutti gli interlocutori presenti al dialogo sulla felicità avevano preso parte anche al precedente; e, anzi, uno degli interlocutori chiave nella discussione sugli accademici è assente. Questo fa sì che chi ne è ignaro si estranei dal dialogo:

 

Ma mentre, motteggiandolo con tali parole, lo invitavo ad ingerire, per così dire, la sua porzione, mi accorsi che gli altri ignari dell'argomento e desiderosi di conoscere il tema della nostra scherzosa conversazione, ci guardavano seri. E riferendomi a un caso piuttosto frequente, mi parve di poterli paragonare a quelle persone che, sedendo a mensa con individui sempre affamati ed eccellenti divoratori, o si trattengono dal tirar giù per contegno o si lasciano prendere dalla vergogna. Ma io ero l'anfitrione e tu mi hai insegnato a sostenere la parte di un uomo illustre e, per svelare tutto, dell'uomo vero, ma anche dell'anfitrione in quel convito. Mi turbò quindi il diverso e incoerente trattamento usato alla nostra mensa [69].

 

In questo caso Agostino è salvato da una battuta sagace di Monica; ma l'intero episodio, mostrando un superamento dei limiti imposti dalla moderazione per desiderio mal riposto di soddisfare la "gola" di alcuni amici, serve a rammentare come la moderazione, e dunque la felicità, non sia stata ancora raggiunta dai dialoganti che pure la cercano. Così il tema della moderazione si dipana in tutto il dialogo, nel pranzo offerto prima del dialogo, che deve essere tanto "leggero" (tenue) da non impedire "il lavoro della mente" [70], nella libertà accordata ai partecipanti, che Agostino modera perché non si allontanino dalla linea di pensiero condivisa [71], nel desiderio rivolto al suo oggetto, e nella ricerca. Questo tema, che dice di un'azione moderata, vale a dire bene ordinata rispetto al suo contesto e al suo fine, prelude in certo qual modo all'ordine, che sarà argomento del dialogo successivo. E così getta le basi di un'unità che corre all'interno dei vari dialoghi, e che trasforma diverse riflessioni, distinte le une dalle altre, in un'unica esperienza educativa.

 

 

Conclusione: saggezza, Trinità e felicità

A conclusione del dialogo, Agostino sembra compiere un balzo da una discussione puramente razionale ad una dominata da concetti scritturali. Se la felicità è possesso della saggezza, tale saggezza, che è pienezza (plenitudo) temperata da moderazione, "ha la sua ragione ideale […] nella sapienza di Dio" [72]. E tale sapienza "è la stessa verità" [73]. La verità stessa, però, non può essere tale in sé, ma solo in rapporto a una misura che la ponga come tale. Così, se, per il dettato giovanneo, Gesù è la verità [74], la misura suprema della verità che è Dio è lo stesso Dio. Felice, dunque, è chi possiede Dio. Questo possesso non è immediato, ma il discorso e la riflessione hanno condotto il gruppo di Cassiciacum sulla via verso la pienezza della felicità. Procedendo a spirale, ritornando su se stesso, il discorso nutre le anime, conducendole a scientia e intelligentia.

La conclusione del dialogo spetta però a Monica: dopo aver citato un verso di Ambrogio ("O Trinità, proteggi coloro che ti invocano"), la madre di Agostino aggiunge: "La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un'ardente carità", sussumendo così tutto il dialogo all'interno della pratica delle virtù cristiane. Su queste note il dialogo è finito, e Trigezio, rivolgendosi all'anfitrione Agostino, può esclamare: "Come vorrei che tu ci nutrissi tutti i giorni in tal misura". In queste parole, in cui ancora torna l'eco di quella misura che ha guidato e regolato il dialogo, e che si è rivelata come la meta ultima del dialogo, si ha il senso di un'educazione che, attraverso la ricerca ordinata e l'ordinato dialogare, nutre e fa crescere l'anima, conducendola alla felicità.

 

 

Bibliografia

Augustinus, Aurelius, Domenico Gentili, and Agostino Trapè. Dialoghi. Roma: Città Nuova, 1970.

Carena, Carlo, and Aurelius Augustinus. Sant'Agostino: Le Confessioni. Milano: Mondadori, 1995.

Alighieri, Dante, Antonio Quaglio, Sandro Lombardi, David Riondino, and Emilio Pasquini. Commedia: Inferno. : Milano: Garzanti(IS), Garzanti, 2002.

Ètienne Gilson, Introduction à l'étude de Saint Augustin, Paris, J. Vrin, 1943.

Ferroni, Giulio. Storia E Testi Della Letteratura Italiana. Milano: Mondadori Università, 2002.

 

 

 

 

Note

 

(1) - Ferroni V. 1 p. 121

(2) - Inferno, I ...

(3) - Confessionum libri XIII (d'ora in avanti, Conf.), 1, 9, 14

(4) - Ivi, 1, 12, 19

(5) - Ibidem

(6) - Ivi, 1, 13, 20: "tenere cogebar Aeneae nescio cuius errores oblitus errorum meorum"

(7) - Ivi, 1, 16, 26

(8) - Ivi, 1, 17, 27

(9) - Agostino d'Ippona, De beata vita, 2, 6

(10) - Ivi, 2, 9

(11) - "Biografia Di Mallio (Manlio) Teodoro by Divus Angelus Pagina Philologica." Biografia Di Mallio (Manlio) Teodoro by Divus Angelus Pagina Philologica. N.p., n.d. Web. 23 Aug. 2016

(12) - Cfr. H. Courcelle, Les lettres grecques en Occident de Macrobe à Cassiodore, 1948, pp. 119-129

(13) - Cfr. per esempio Agostino d'Ippona, De beata vita, 1, 1; 1, 4; 1, 5; 2, 16 eccetera

(14) - Ivi, 1, 1

(15) - Lucrezio, De rerum natura, 2, 1-2: "Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem"

(16) - Agostino d'Ippona, De beata vita, 1, 1

(17) - Ibidem: "Si ad philosophiae portum, de quo iam in beatae vitae regionem solumque proceditur, vir humanissime atque magne, Theodore, ratione institutus cursus, et voluntas ipsa perduceret; nescio utrum temere dixerim, multo minoris numeri homines ad eum perventuros fuisse, quamvis nunc quoque, ut videmus, rari admodum paucique perveniant"

(18) - Ibidem

(19) - Ivi, 1, 2

(20) - Ibidem

(21) - Ibidem

(22) - Ivi, 1, 3

(23) - Ivi, 1, 4

(24) - Ivi, 1, 5

(25) - De beata vita, 2, 7

(26) - Ivi, 2, 8

(27) - Ibidem: "nulla re alia credo ali animam quam intellectu rerum atque scientia"

(28) - Conf. 7, 17, 23

(29) - Ivi, 4, 16, 30

(30) - Ivi, 10, 10, 17

(31) - E. Gilson, Introduction à l'étude de Saint Augustin, p. 57

(32) - Agostino, Commento al Vangelo secondo Giovanni, 15, 19

(33) - Agostino, La trinità, 9, 6, 11

(34) - Ivi, 12, 2, 2

(35) - Agostino, Contra Academicos, 1, 7, 19

(36) - Ivi, 3, 3, 5

(37) - Agostino, De ordine, 2, 16, 44

(38) - Ivi, 2, 17, 45

(39) - Ivi, 2, 17, 46

(40) - Agostino, De beata vita, 2, 8

(41) - Si vedano, per esempio, tutti gli episodi che vedono Gesù seduto a banchettare con i suoi discepoli, o con i suoi avversari, o ancora con pagani e pubblicani; o ancora episodi in cui il banchetto e il convivio sono al centro delle parabole narrate agli apostoli - tutti episodi che, invariabilmente, diventano occasione di profondi insegnamenti religiosi. Cfr. Mt 22, 1-14; 26, 17-29; Lc 5, 29-32; 14, 1-14 eccetera

(42) - Conf., 4, 9.14

(43) - Agostino d'Ippona, Regula ad servos Dei, 1-3

(44) - Ivi, 2, 12

(45) - Ivi, 3, 18

(46) - Ibidem

(47) - Ivi, xxx

(48) - Ibidem

(49) - Ivi, 4, 28

(50) - Ivi, 4, 29

(51) - Ivi, 3, 17

(52) - Ivi, 2, 10

(53) - Ivi, 4, 27

(54) - Ivi, 4, 35

(55) - Ivi, 2, 9

(56) - Agostino, Conf., 1, 14, 23

(57) - Ibidem

(58) - Ivi, 2, 10

(59) - Ivi, 2, 11: "semper manens, nec ex fortuna pendulum, nec ullis subiectum casibus esse debet"

(60) - Ibidem

(61) - Ivi, 4, 27

(62) - Cfr. Ivi, 2, 11, passim: "Id ergo, inquam, semper manens, nec ex fortuna pendulum, nec ullis subiectum casibus esse/ debet [...] Deus, inquam, vobis aeternus te semper manens videtur?"

(63) - Ivi, 4, 31: "Plenitudo erit sapientia"

(64) - Ibidem: "ego tamen frugalitatem, id est modestiam et temperantiam, virtutem maximam uidico"

(65) - Ivi, 4, 32

(66) - Ivi, 4, 33: "sapientia [...] nihil est aliud quam modus animi, hoc est, quo sese animus librat, ut neque excurrat in nimuim neque infra quam plenum est coarctetur"

(67) - Ivi, 2, 13

(68) - Ibidem

(69) - Ivi, 2, 16

(70) - Ivi, 1, 6

(71) - Cfr. 2, 7; 2, 8

(72) - Ivi, 4, 34

(73) - Ibidem

(74) - Gv 14, 6