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Giuseppe Redaelli

Dante Alighieri presenta la sua Commedia

Dante Alighieri presenta la sua Commedia

 

 

LA SPIRITUALITA' DELL'UNITA' E DELLA DIVISIONE FRA AGOSTINO E DANTE

lunedì 1 settembre 2021

di Giuseppe Redaelli

 

 

 

Una premessa necessaria: Dante contro Agostino?

Considerando lo spazio che gli dedica nella Divina Commedia, verrebbe da dire - ed è stato detto - che Dante non amasse molto Agostino: e infatti Agostino non è mai menzionato nella Commedia, se non in un riferimento a Paolo Orosio, storico e apologeta romano da cui Agostino avrebbe tratto la materia per i suoi scritti apologetici [1]; ed è poi nominato da Bernardo nell'Empireo, insieme a Francesco e Benedetto [2].

In realtà, il pensiero di Agostino è presente in ogni aspetto e in ogni momento del tempo in cui visse Dante, cui fornice lo sfondo di categorie e idee su cui molto medioevo si dispone. Le idee esposte nei suoi scritti, e derivate da essi nella lettura che ne fanno i letterati medievali, fanno da sfondo e danno sostanza al mondo culturale al cui interno si muove Dante, che quando questo sembri lontanissimo dalla lettera dell'opera di Agostino. Una lettura attenta della Divina Commedia rivela come molte idee agostiniane diventino strutture costituenti l'universo della sua narrazione. Delle parole stesse di Agostino è intrisa la Commedia. Per ricordare un solo caso tra i molti, si può guardare all'incontro tra il personaggio di Dante e la sua prima guida, Virgilio. Presentandosi a Dante nel primo canto dell'Inferno, Virgilio afferma che era vivo "al tempo degli dèi falsi e bugiardi". [3] Questa espressione è tradotta alla lettera dal De civitate Dei, in cui Agostino, dopo aver citato due versi dal primo libro dell'Eneide, chiede al suo lettore di "non andare in cerca di dei falsi e bugiardi". [4]

Una certa vicinanza tra i due autori si può trovare anche in una delle tematiche di fondo della loro opera. Agostino vescovo, infatti, compone parte della sua opera all'interno del suo impegno politico per preservare ed estendere l'unità politica e ideologica della Chiesa cattolica, di cui all'epoca è esponente di spicco.

Dante Alighieri, dal canto suo, compone parte della sua opera auspicando la fine delle lotte intestine che, all'epoca, travagliano la sua Firenze e tutta l'Italia, e sognando un'unità politica sotto un impero giusto e un'unità religiosa sotto un papa giusto, due forze unite nell'unico compito di estendere la pace. Sarebbe difficile non riconoscere, alla radice della riflessione dantesca, il cosiddetto "agostinismo politico", vale a dire l'applicazione delle idee del vescovo d'Ippona alla realtà medievale, che "rimase la dottrina di riferimento nel mondo cristiano medievale almeno sino agli ultimi anni del XIII secolo". [5]

Il tema dell'unità, scissa dalle forze che trascinano verso una divisione oppositiva, ha valenza insieme politica e spirituale, secondo una struttura narrativa che si ritrova in quelle, tra le loro opere, che più presentano una componente autobiografica: nelle Confessioni, il giovane Agostino, alla ricerca di una verità spirituale che sia anche scelta esistenziale, muove dalla dispersione delle passioni, dalla concupiscientia disordinata, all'unità di intenti nella conversione [6]; nella Commedia, il personaggio di Dante, homo viator, muove dalla dispersione e dallo smarrimento esistenziali e spirituali a un'unità di coscienza, impegno e scopo, attraverso un lento e tortuoso processo di crescita. In entrambi i testi, l'autore si proietta nell'opera per ritracciare il percorso della propria conversione; così vi si ha un progressivo approfondimento del pensiero e del sentire, una crescita progressiva ottenuta attraverso incontri con altri personaggi e con le vicende narrate di altri personaggi, tra dialogo e riflessione. Questo percorso è guidato dalla ragione ed è mosso dall'amore di Dio: l'amore che Dio nutre per il protagonista, che lo porta a chiamarlo e richiamarlo e guidarlo; e l'amore che il protagonista matura per Dio, e che fa a sua volta maturare il protagonista.

Dante e Agostino possono essere messi a confronto e dialogare [7], per comprendere cosa possano dirci circa il modo in cui la spiritualità cristiana possa essere vissuta dall'individuo, all'interno delle divisioni e contraddizioni imperanti nella società umana. Se infatti, da un lato, sembra che tali forze spingano l'individuo a percorrere il sentiero spirituale nella solitudine della preghiera e della contemplazione monastiche, dall'altro la vita sociale diventa, nelle parole del vescovo Agostino e in alcuni passi del Dante poeta, il terreno, il teatro e la palestra del vero progresso spirituale. Interrogare gli scritti di Agostino e Dante nella loro interazione con l'elemento biografico, può allora aiutare a comprendere come la vita dello spirito si distenda tra vita individuale e vita condivisa.

 

 

Spiritualità individuale ed essere-nel-mondo

Chuang-tzu stava pescando nel fiume P'u, quando il re di Ch'u incaricò due dignitari di portargli un messaggio che diceva: "Vorrei che ti assumessi il fastidio di ciò che sta all'interno del mio territorio". Chuang-tzu resse la canna senza volgere lo sguardo. "Ho inteso, disse, che a Ch'u c'è una tartaruga sovrannaturale morta tremila anni fa, che il re conserva nella sala del tempio degli antenati, avvolta in un drappo dentro un forziere. Quella avrebbe preferito morire e lasciare le sue ossa affinché fossero tenute in pregio, o avrebbe preferito vivere e trascinare la coda nel fango?

"Avrebbe preferito vivere e trascinare la coda nel fango", risposero i due dignitari. "Andatevene", replicò Chuang-tzu. "Voglio trascinare la coda nel fango". Commentando questo passo del classico cinese Zhuang-zi, il sinologo Fausto Tomassini scrive che il saggio rifiuta di assumere una posizione di prestigio nel regno di Ch'u, perché spesso i funzionari erano messi a morte al minimo dispiacere del re [8]. Certo, il preservare la propria vita doveva essere una ragione più che sufficiente per il filosofo cinese ... ma c'è dell'altro. La filosofia daoista, di cui Chuang-tzu è ritenuto uno dei massimi esponenti, insegna infatti che l'individuo deve preservare la propria integrità morale e la propria libertà: per questo, l'individuo è invitato a ritirarsi dalla sfera pubblica e dai contatti, sempre compromettenti, con gli altri uomini; e, ancora di più, ad evitare di esercitare potere sugli altri. Ecco allora che Chuang-tzu, filosofo, pensatore e saggio di grande fama, rifiuta l'invito del re a diventare primo ministro, e lo fa senza neppure smettere di pescare.

Il peso della carica politica era sentito anche nell'antica Roma: e infatti, molti romani illustri ambivano a ritirarsi dalle cariche pubbliche, dalla vita svolta nel foro, tra clientes e patrizi, per dedicarsi all'otium, a una vita di studi letterari, artistici e filosofici, spesso nella pace della campagna italica. Intorno ai trent'anni, anche Aurelio Agostino, insegnante imperiale di retorica con il prospetto di una luminosa carriera, sognava di potersi ritirare dalla vita pubblica, per trascorrere un'esistenza di riflessione e meditazione, lontana dalle luci e dalle ombre della politica e della vita attiva. Egli aveva anzi sperimentato questo sogno nell'inverno del 386-387, quando, in preparazione al battesimo, si era ritirato un po' in sordina dagli impegni dei suoi incarichi ufficiali, e aveva trascorso un semestre nella campagna di Cassiciacum con un piccolo gruppo di parenti e amici, immerso in discussioni filosofiche e religiose.

Dopo il battesimo, abbandonata la cattedra di retorica a Milano, Agostino era pronto a ritornare in Africa, per vivervi un'esistenza di studio e di meditazione, in povertà e comunione di intenti e di beni con quegli amici che già l'avevano seguito a Cassiciacum, ed altri che si erano uniti in seguito, come Evodio: "Uniti quali eravamo, si era anche deciso di vivere in comune, nel tuo santo volere, e, nella ricerca di un recesso che si prestasse meglio al tuo divino servizio, ce ne tornavamo insieme in Africa". [9]

In realtà, come ricorda Peter Brown, al suo ritorno in Africa Agostino non sarebbe tornato anche alla quiete dell'otium di Cassiciacum: in seguito alla conversione e al battesimo, la sua identità pubblica era trasformata, ed egli tornava in Africa quale servus Dei [10], persona impegnata a vivere in forma integrale il messaggio cristiano, incarnandolo nella solitudine dello studio, della preghiera e dell'ascesi, sotto lo sguardo di una società che ne riconosceva e sanciva il ruolo di santità:

Quando venni in questa città ero giovane [...] Cercavo un luogo dove stabilire un monastero e viverci con i miei fratelli. Avevo rinunziato a ogni prospettiva mondana; la carriera che avrei potuto fare nel mondo non la volli, e tuttavia non ho cercato il grado in cui mi trovo qui. Ho preferito stare in luogo umile nella casa del mio Dio che abitare nelle tende degli empi. Mi sono separato da quelli che amano il mondo e neppure mi sono messo alla pari con quelli che presiedono, che fanno da guida alle genti; nel convito del mio Signore non avevo scelto un posto distinto, ma uno degli ultimi posti, un posto inferiore, umile. [11]

Nel rievocare quei giorni di vita monastica, il primo nodo su cui insiste Agostino è quello della rinuncia: l'abbandono volontario della carriera, il restare isolato e lontano dalla vita collettiva, la voluta lontananza da ogni onore o carica, o anche solo dall'attenzione di chi è potente. Nel dare forma a questo ricordo, molto peso deve avere la consapevolezza dell'uditorio cui è rivolto, e dello scopo di edificazione morale per cui la narrazione viene intessuta; e tuttavia si intravede, in queste parole, il genuino desiderio di Agostino per una vita di quiete, di riflessione e di studio; in cui la scrittura abbia lo scopo di approfondire la conoscenza e la comprensione della verità, e la condivisione dei risultati raggiunti nel percorso insieme intellettuale e spirituale. La crescita dell'individuo vi avviene nel chiuso della piccola comunità, e nell'interazione intellettuale con amici e corrispondenti vicini e lontani. In questo senso, per esempio, si possono leggere le lettere tra Agostino e Nebridio, che risalgono a questo periodo; ma anche il trattato La Genesi contro i Manichei, che, come ricorda Agostino nelle Ritrattazioni, ebbe origine in discussioni sulle dottrine manichee, tanto popolari in Africa in quel periodo. [12]

Tutto questo testimonia di come, nella quiete della riflessione monastica, prendesse forma una nuova cultura cristiana che, da un lato, suggeriva un nuovo senso, una nuova forma alternativa alla società romana cristianizzata; dall'altro contribuiva ad accrescere la comprensione comunitaria dei testi, delle credenze e dei riti del cristianesimo. Così, se nella Genesi contro i Manichei venivano trascritte e coltivate le riflessioni sui sensi riposti del primo libro della Bibbia, nelle lettere all'amico Nebridio si svolgeva una riflessione sui temi dell'incarnazione e della relazione tra le persone divine, che presagivano la più tarda riflessione di Agostino presbitero. A differenza di quanto sostenga Peter Brown, lo scambio epistolare con Nebridio sembra anzi suggerire una continuità tra il ritiro di Cassiciacum e la vita monastica a Tagaste, come se, anche qui, pur a volte molto occupato [13], Agostino ambisse a proseguire la propria crescita spirituale, che già tanti frutti aveva dato nella campagna italica. [14]

Come Agostino scrive all'amico Nebridio, aveva sempre nutrito il desiderio di avere "tanto tempo" da dedicare alla riflessione e allo studio [15]. Le cose, tuttavia, non erano andate come lui sperava: mentre un giorno si trovava a Tagaste, intento ad ascoltare un discorso del vescovo Valerio, Agostino era stato preso dalla folla e, a gran voce, proclamato presbitero. Così il primo biografo di Agostino, Possidio, narra l'avvenimento: In quel tempo esercitava l'ufficio di vescovo nella comunità cattolica di Ippona il santo Valerio. Mentre egli un giorno parlava al popolo di Dio circa la scelta e l'ordinazione di un prete e l'esortava in proposito, perché così richiedeva la necessità della chiesa, frammisto in mezzo al popolo assisteva Agostino, sicuro e ignaro di ciò che stava per succedere: infatti egli era solito - come ci diceva - non frequentare soltanto le chiese che sapeva prive di vescovo. Allora alcune persone, che conoscevano la dottrina di Agostino e i suoi propositi, gettategli le mani addosso, lo tennero fermo e, come suole accadere in casi del genere, lo presentarono al vescovo perché fosse ordinato, mentre tutti unanimi in quel proposito chiedevano che così si facesse. Mentre insistevano con grande entusiasmo e clamore, egli piangeva a calde lacrime: alcuni - come egli stesso ci riferì - interpretarono tali lacrime come manifestazione di superbia e cercavano di consolarlo dicendo che certo egli era degno di maggiore onore, ma che comunque l'esser prete lo avvicinava alla dignità episcopale. Invece l'uomo di Dio - come ci disse - osservava la cosa più a fondo e gemeva prevedendo i molti e grandi pericoli che sarebbero derivati alla sua vita dal governo e dall'amministrazione della chiesa: per tal motivo piangeva. Ma infine la cosa si compì secondo quanto voleva il desiderio del popolo. [16]

Nonostante tutti gli stratagemmi con cui si era sforzato di evitare quelle chiese la cui cattedra episcopale era vacante, la nomina alla carica di presbitero era alla fine giunta inattesa e non voluta. Mescolato tra il popolo, nascosto dall'anonimato che spera che la folla possa donargli, Agostino si trova scelto, quasi tradito da quella stessa folla; e a nulla servono le sue lacrime, le sue rimostranze.   [21]:

Quasi trent'anni più tardi, in un discorso divenuto famoso, così Agostino commentava questo episodio:

E invece a lui piacque dirmi: Sali in alto. Io paventavo la carica di vescovo; a tal punto che evitavo di recarmi nelle località dove la sede vescovile risultava vacante, perché era cominciata a circolare tra i servi di Dio una notorietà di qualche peso a mio carico. Io cercavo di evitare questo grado e pregavo Dio, gemendo, di concedere che mi salvassi in una posizione umile, non che dovessi correre pericolo occupando un'alta carica. Ma, come ho detto, il servo non deve contraddire il padrone. In questa città ero venuto per vedere un amico che speravo di guadagnare a Dio e portare con noi nel monastero. Stavo tranquillo, perché la sede era provvista di vescovo. Ma, preso con la forza, di sorpresa, fui ordinato sacerdote e attraverso quel gradino giunsi all'episcopato. [17]

Come nel testo del Zhuangzi, anche nella riflessione agostiniana la carica pubblica è legata al concetto di pericolo; e Agostino ne è tanto terrorizzato da chiedere una vita umile e nascosta, piuttosto che occupare un'alta carica, cui già, nella vita secolare, aveva rinunciato. Nel Zhuangzi, però, il filosofo cinese, proprio per evitare ogni carica pubblica, preferisce restare nascosto, nella solitudine idillica del saggio; Agostino, invece, si reca in pubblico per ascoltare, per apprendere; e mentre Zhuangzi, quando gli viene offerta una carica politica importante, rifiuta, e torna alla sua canna da pesca; Agostino sente di non potersi opporre, e accetta il ruolo per cui è stato scelto, vedendo questa decisione come la risposta a una chiamata divina. Scrive infatti nelle Confessioni che:

Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu me lo impedisti, rinsaldandomi con queste parole: Cristo morì per tutti affinché i viventi non vivano più per se stessi, ma per Chi morì per loro. Ecco, Signore, lancio in te la mia pena, per vivere; contemplerò le meraviglie della tua legge. [18]

Posto immediatamente dopo un paragrafo che si riferisce al sacerdozio universale di Cristo, questo passo può essere attribuito alla reazione di Agostino di fronte al sacerdozio. Così, citandolo, James O'Donnell pone l'accento sull'uso della parola "atterrito" (in latino: conterritus) per suggerire il terrore del futuro vescovo d'Ippona di fronte all'incarico pubblico e ai compiti del sacerdozio, che di certo l'avrebbero sottratto dall'unica occupazione cui, come scrive nei Soliloqui, avrebbe voluto dedicarsi: "avere scienza di Dio e dell'anima". [19] O'Donnell ipotizza una fuga di Agostino a Tagaste dopo l'ordinazione, di cui questi passi e le lettere inviate da Agostino a Valerio fornirebbero un'indicazione. Secondo questa interpretazione, Agostino dapprima fugge terrorizzato; deciso poi ad accettare l'incarico impostogli, usa il tempo a Tagaste per sistemare i suoi affari e disporre delle sue proprietà, e scrive a Valerio per rassicurarlo, in modo velato, sulle sue intenzioni. [20]

L'interpretazione di O'Donnell permette forse di comprendere la struttura della lettera 21, inviata al vescovo Valerio intorno alla Pasqua del 391. Dopo aver sottolineato le difficoltà e i pericoli insiti nell'ordinazione sacerdotale, Agostino ricorda "quelle lacrime che alcuni fratelli mi videro versare al tempo della mia ordinazione".  [21] Al ricordo delle lacrime si accompagna però il ricordo dell'incapacità, da parte dei suoi "fratelli", di comprendere davvero le sue motivazioni, e dunque di consolarlo. O'Donnell legge il contenuto di questa lettera in relazione a un passo della lettera 22, in cui Agostino narra del timore degli abitanti di Ippona che egli si allontani dalla città per vedere un campo donato dal vescovo ad alcuni "fratelli":

Infatti, gli Ipponesi temono molto, anzi troppo, che io mi assenti per andare in un luogo tanto lontano, e non vogliono in nessun modo fidarsi di me sicché anch'io possa vedere il campo che tramite Partenio, nostro santo fratello e conservo, abbiamo appreso essere stato donato dalla tua previdenza e liberalità ai nostri fratelli, prima ancora di ricevere la tua lettera […]

Nella lettura della vicenda data da O'Donnell, Agostino potrebbe aver cercato di fuggire per il timore della vita sacerdotale, dei suoi rischi e dei suoi impegni. Questo timore si allinea anche con quanto Possidio, nella Vita Augustini, riporta dei ricordi del vescovo d'Ippona, citati sopra: al momento della propria ordinazione, Agostino "osservava la cosa più a fondo e gemeva prevedendo i molti e grandi pericoli che sarebbero derivati alla sua vita dal governo e dall'amministrazione della chiesa". In fondo, Agostino scrive spesso del proprio desiderio di una vita ritirata, per la quale già aveva rinunciato a una promettente carriera nell'amministrazione imperiale e a un matrimonio vantaggioso. [22] Agostino aveva dunque meditato la fuga di fronte all'incarico, come suggerisce O'Donnell? È possibile, soprattutto viste le solite considerazioni avanzate dallo studioso. È però importante ricordare, come fa lo stesso O'Donnell [23], che è impossibile distinguere con certezza, all'interno dei testi agostiniani, l'autore Agostino, individuo reale con una sua personalità, dall'Agostino che narra se stesso attraverso il filtro e secondo i modi della retorica antica. Nelle lettere al vescovo Valerio, Agostino scrive di rendersi conto di non essere pronto a intraprendere il ruolo del sacerdote, e chiede dunque che gli sia concesso un periodo di studio delle Scritture e di riflessione. La scelta è comprensibile, soprattutto alla luce delle differenze tra una lettura personale delle Scritture, volta ad approfondire la conoscenza di Dio, e una lettura pastorale, che aiuti nella guida di altri cristiani.

Nelle sue lettere al vescovo Valerio, Agostino si riferisce a una virtù che ha grande importanza nel corso di tutta la sua opera, l'umiltà. Per comprendere il senso di tale umiltà, seguiamo ancora O'Donnell, che cita l'ultimo paragrafo del libro decimo delle Confessioni:

Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu me lo impedisti, rinsaldandomi con queste parole: Cristo morì per tutti affinché i viventi non vivano più per se stessi, ma per Chi morì per loro. Ecco, Signore, lancio in te la mia pena, per vivere; contemplerò le meraviglie della tua legge. Tu sai la mia inesperienza e la mia infermità: ammaestrami e guariscimi. Il tuo unigenito, in cui sono ascosi tutti i tesori della sapienza e della scienza, mi riscattò col suo sangue. Gli orgogliosi non mi calunnino, se penso al mio riscatto, lo mangio, lo bevo e lo distribuisco; se, povero, desidero saziarmi di lui insieme a quanti se ne nutrono e saziano. Lodano il Signore coloro che lo cercano. [24]

Benché O'Donnell riferisca questo passo all'ipotetico desiderio nutrito da Agostino di fuggire all'alba della sua ordinazione sacerdotale, è più difficile conservare questa interpretazione se lo si legge nel contesto diretto dell'opera da cui è tratto. Più facile è invece ritrovarvi alcuni dei temi cardine dell'antropologia agostiniana: la debolezza dell'essere umano, creatura effimera, malata e fragile; e l'azione salvifica del redentore che, facendosi uomo, colma la distanza tra umano e divino e, come medico, si prodiga alla guarigione degli esseri umani. [25]

Nel suo accorato appello a Dio, Agostino insiste sulla propria debolezza, e insieme sul nutrimento che proviene da Dio. Il riconoscimento della propria piccolezza è ripreso dal paragrafo precedente, in cui Agostino vi aveva insistito in riferimento alla salvezza portata da Cristo: "Le mie debolezze sono molte e grandi, sono molte e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina". [26] L'iterazione di "molte e grandi" della traduzione italiana ricalca l'originale ripresa dell'espressione di quantità ("Multi enim et magni sunt idem languores, multi sunt et magni") evoca lo stato di profonda debolezza in cui versa l'essere umano e insieme, con un gioco di significati, rimanda alla necessità del medico: languor, infatti, sta per languore, spossatezza e debolezza, ma, per metonimia, anche la malattia che li causa. La quantità della debolezza e della malattia sono però sopravanzate dal rimedio offerto da Cristo al malato: "Ma più abbondante è la tua medicina". [27] Nel paragrafo successivo, la medicina diventa cura e insieme nutrimento che rafforza, secondo la metafora, abituale in tante opere di Agostino, di Cristo-Sapienza di Dio come pane spirituale: "Tu sai la mia inesperienza e la mia infermità: ammaestrami e guariscimi […] se penso al riscatto, lo mangio, lo bevo, lo distribuisco; se, povero, desidero saziarmi di lui insieme a quanti se ne nutrono e se ne saziano". [28]

La malattia e la debolezza diventano così anche povertà di conoscenza e di concetti, per prima cosa, e di forze spirituali; e l'insegnante è lui stesso uno studente, che si nutre alla Scrittura mentre la insegna.

Nel primo discorso del suo commento al Vangelo di Giovanni, Agostino riprende questo tema, sostenendo che, a causa della complessità della materia, solo che ne parli per ispirazione divina può davvero parlarne; ma che comunque il discorso è reso inadeguato sia dal mezzo che dai limiti di chi lo tiene; e questo vale anche per l'evangelista stesso. [29] Per quanto riguarda le verità spirituali, infatti, il maestro unico e ultimo, scrive Agostino, è Dio, che insegna nell'interiorità: Sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l'individuo che parla all'esterno, ma con la verità che nell'interiorità regge la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole. E insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell'uomo interiore, cioè l'eternamente immutabile potere e sapienza di Dio. [30]

L'apprendimento ricevuto da tale maestro è formazione dell'uomo interiore e crescita dell'anima nella sua forza e profondità:

Facendo progressi, infatti, raggiunge la virtù e noi dobbiamo ammettere che essa è bella e perfetta, non per la maggiore estensione, ma a causa della sovrana energia della coerenza. Hai già concesso che sono diversi il più e il meglio. Dunque, non mi pare proprio che l'anima sviluppando con l'età e con l'acquisto della facoltà di pensare, diventi più grande ma migliore. [31]

Agostino apprende tutto ciò tramite l'azione di Dio, che, nel passo citato sopra dalle Confessioni, lo toglie dall'isolamento e lo spinge all'azione, a partecipare in pienezza alla vita condivisa. Per Agostino, questo significherà agire sul tessuto sociale in senso religioso e politico. Nel suo nuovo ruolo, infatti, dovrà operare una scelta di campo: da africano e romano cresciuto in Africa e convertitosi a Roma al cristianesimo.

Appena varcata la porta dell'Inferno, Dante pellegrino incontra un gruppo molto particolare di dannati, non voluti né da Cielo, né da Inferno: in un universo contraddistinto dall'ordine voluto dalla giustizia divina [32], costoro non hanno un luogo proprio, non appartengono all'ordine, e infatti vagano nell'oscurità, senza meta, in uno spazio dove il caos regna eterno:

Diverse lingue, orribili favelle,

parole di dolore, accenti d'ira,

voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s'aggira

sempre in quell'aura sanza tempo tinta,

come la rena quando turbo spira. [33]

 

I dannati scorti da Dante in questo luogo sono gli ignavi, coloro "che visser sanza "infamia e sanza lodo" [34], perché non vollero prendere una parte, abbracciare alcuna causa; per non aver mai osato, per non essersi mai impegnati per nessuna cause, costoro "mai non fur vivi" [35], e ora sono condannati a un perpetuo vagare senza meta, dietro a un'insegna insensata nel suo folle volo; loro, che in vita preferirono, per viltà, rifuggire dai problemi che il prendere posizione per una grande causa porta con sé, in morte sono continuamente tormentati da insetti ignobili; e il loro sangue, che non hanno voluto versare per nutrire e difendere un'idea o un principio, ora cade ai loro piedi, per nutrire invece degli orribili vermi. [36] Ma l'insegna che gli ignavi inseguono è incapace a fermarsi, di trovare riposo: per la legge del contrappasso, che all'Inferno attribuisce ai dannati una condanna che ripete, rovesciandolo, quel che agirono da vivi, gli ignavi, che cercarono un vita una tranquillità effimera nel non volersi impegnare, ora sono condannati a non trovare mai pace per tutta l'eternità.

Tra loro, Dante scorge e riconosce "l'ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto" [37]. Fin dalla primissima pubblicazione della Commedia, la critica si è sbizzarrita nel tentativo di dare un nome a questo personaggio: i più papa Celestino V, altri Esaù o Pilato. A prescindere dall'identità di questa figura, è più significativo che Dante la lasci senza nome: questo individuo, infatti, non è degno di essere ricordato ("Fama di loro il mondo esser non lassa", spiega Virgilio a Dante) [38], né di avere nome o parola: a differenza di quanto accadrà negli altri canti dell'Inferno, infatti, Dante pellegrino non dialoga con nessuno degli ignavi: non donando loro parola, non li umanizza, non ne tramanda la storia e il ricordo, ma li abbandona in un silenzio rotto solo dai loro versi e dalle loro urla disumane. In questo, il loro processo di disumanizzazione è completo. Riprendendo l'interpretazione di O'Donnell sul desiderio di fuga di Agostino, di fronte alla necessità di prendere posizione all'interno della sua comunità cristiana, viene naturale chiedersi che cosa sarebbe successo alla chiesa africana e, in un certo senso, a tutto il cristianesimo, se egli avesse ceduto alla paura e avesse scelto una vita ritirata di studi con una ristretta cerchia di amici. Il cattolicesimo sarebbe forse stato molto diverso da come oggi lo conosciamo. Ma l'incontro con gli ignavi risponde anche alla viltà dimostrata da Dante nel canto II, quando, dopo aver accettato, alla fine del canto I, di seguire Virgilio, ha un ripensamento; e Dante adduce a sua giustificazione la sua pochezza rispetto a quei suoi predecessori che, destinati a grandi imprese, avevano viaggiato nell'aldilà [39]. È difficile non cogliere, qui, la suggestione di un sottile fil rouge che lega Dante pellegrino al ritratto di sé che Agostino presenta al vescovo Valerio. 

 

 

Unità e divisione

Mentre Dante e Virgilio procedono per lo stretto sentiero tra le mura di Dite e le tombe infuocate degli eresiarchi [40], una voce tonante li sorprende: Dante viene apostrofato da uno dei dannati:

"O Tosco che per la città del foco

vivo ten vai così parlando onesto,

piacciati di restare in questo loco". [41]

Voltatosi, il pellegrino vede ergersi dalla sua tomba infuocata un uomo d'aspetto fierissimo, che Virgilio spiegherà subito essere Farinata degli Uberti:

Io avea già il mio viso nel suo fitto;

ed el s'ergea col petto e con la fronte

com'avesse l'inferno a gran dispitto. [42]

La descrizione psicologica di Farinata sta tutta in quel suo sollevarsi dal sepolcro: egli "s'erge[v]a col petto e con la fronte" (v. 35): dove il verbo indica l'orgoglio, la forza e la fierezza di una statua [43], di un monumento - o d'una montagna; e le due parti del corpo che ne completano la descrizione sono il petto, che per sineddoche indica l'ardimento, il coraggio di cui è sede, e la fronte, che rimanda alla grandezza di pensiero. Ma il petto e la fronte sono anche legati dal gioco fonico disegnato dal verso: entrambi introdotti dalla preposizione "con", le loro vocali poste quasi a formare un chiasmo (petto/fronte). E proprio in questa unione di pensiero e sentimento, di ardimento e di idee, prende vita il carattere di Farinata degli Uberti.

Dante pellegrino viene invitato da Virgilio a dialogare con il dannato che l'ha apostrofato con tale forza; e la sua guida gli suggerisce di utilizzare un linguaggio appropriato: "Le parole tue sien conte". [44]

Nel suo commento alla Commedia, Giovanni Boccaccio nota che, con questa espressione, Virgilio si raccomanda che il pellegrino usi parole "composte e ordinate a rispondere" [45], a causa della grandezza del suo interlocutore. Fin da subito, tuttavia, il dialogo si preannuncia difficile. Dante pellegrino, infatti, fissa Farinata negli occhi ("il mio viso nel suo fitto", v. 34), con un gesto che appare fin da subito di sfida e di ostilità. E Farinata, a sua volta, guarda Dante con sdegno:

Com'io al piè della sua tomba fui,

guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso:

mi dimandò: "Chi fuor li maggior tui?" [46]

 

Nel verbo guardommi, l'enclisi che sottolinea la forza dello sguardo, rispetto al quale l'oggetto osservato ("mi") si fa piccolo piccolo; e insieme rende la parola molto più lunga di quelle che la circondano, dilatando nella percezione del pellegrino la durata di quello scrutinio terribile. E l'aggettivo quasi sdegnoso dà il senso del disprezzo tenuto a stento a freno, del senso di superiorità che Farinata esprime. A chi legga questi versi con senso critico, allontanandosi dalla prospettiva di Dante, questo sguardo, così terribile, appare anche un segno indicatore della condizione dei dannati: Farinata degli Uberti è infatti morto, è condannato alla sofferenza eterna all'inferno, e si rivolge a Dante dall'interno di un sepolcro infuocato; eppure si rivolge a Dante con l'alterigia del nobile signore medievale, certo del suo status sociale e della sua fede politica. Altrettanto significativa è qui la reazione di soggezione che Dante mostra, di fronte a questa figura terribile: segno che il percorso conoscitivo e spirituale di Dante è qui solo ai suoi inizi.

Quando Dante rivela l'identità dei suoi antenati, Farinata solleva le sopracciglia, ancora più sdegnoso, e risponde:

"Fieramente furo avversi

a me e a miei primi e a mia parte,

sì che per due fïate li dispersi". [47]

Richiamando l'attenzione di Dante perché si fermasse a parlare con lui, Farinata aveva richiamato l'attenzione su ciò che li accomunava ("O Tosco", v. 22, e dunque membro della stessa patria - la Toscana). Nel corso del dialogo, tuttavia, Farinata ricerca la divisione, nutre la lotta e la rivalità, invitando lo scontro. L'ostilità che divide gli antenati di Dante da Farinata e dalla sua famiglia è rafforzata dall'anastrofe del v. 46, che pone in posizione forte, ad inizio di frase, l'avverbio "fieramente". La spezzatura sintattica tra il v. 46 e il v. 47 crea tensione e rafforza il senso di separazione ostile tra i "maggiori" di Dante e i loro avversari, presentati con un climax ascendente che espande l'ostilità dal singolo individuo ("a me") alla sua famiglia ("a miei primi") e infine a tutto un gruppo politico ("alla mia parte"). Questo climax delinea così il campo entro cui si muove Farinata: l'opposizione tra i partiti politici che travaglia la vita fiorentina, la vita toscana e di tutta Italia. Dante riprenderà questo tema in due altri canti, importantissimi, e su cui si avrà modo di ritornare: il canto VI del Purgatorio e il canto VI del Paradiso.

Nel dialogo con Farinata, Dante dimentica però presto il luogo e la compagnia in cui si trova. Il pellegrino, infatti, risponde a tono:

"S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte",

rispuos'io lui, "l'una e l'altra fïata;"

ma i vostri non appreser ben quell'arte". [48]

Nell'allitterazione dei suoni aspri si avverte lo stato d'animo del pellegrino, l'inasprirsi del suo e l'accendersi del suo animo alla passione per la sua fazione politica. E con le sue parole, Dante sottolinea e inasprisce la divisione creata da Farinata, con l'iterazione "ei ... ei" in chiara opposizione ai "vostri" del v. 51.

Nel decimo canto dell'Inferno, l'impegno di Dante pellegrino è ancora tutto rivolto alla vittoria della propria parte, del proprio partito. A differenza degli ignavi, Dante ha scelto di schierarsi, di abbracciare la causa dei guelfi bianchi. In questo canto, sembra che l'unica via, la via naturale di far politica, di curarsi della cosa pubblica e del benessere della popolazione sia quella di abbracciare una parte e difenderla a spada tratta, osteggiando l'altra. Su questa via, che tanto doveva essere familiare al Dante poeta e politico fiorentino, il personaggio di Dante si lascia irretire e trascinare dalle provocazioni di Farinata.

In questa discussione, tuttavia, la grandezza dell'interlocutore, per la quale Virgilio aveva redarguito Dante di badare alle sue parole, va perduta nella cecità di una lotta senza senso. I due interlocutori non guadagnano nulla dallo scontro verbale: essi non fanno che segnare punti in una contesa che per loro, l'uno morto da tempo, l'altro in viaggio nell'aldilà per salvare la propria anima, non ha senso o ragion d'essere. Anzi, nello scontro, Dante perde l'opportunità di confrontarsi davvero con una grande figura politica della sua storia recente, Farinata perde l'opportunità di un contatto umano verso cui era proteso, e che sciogliesse, anche solo per un istante, la terribile solitudine dei dannati.

Nel loro errore, Farinata e Dante rappresentano la situazione politica dell'Italia del tempo, secondo modalità a cui Dante tornerà spesso. Già il personaggio di Ciacco aveva definito Firenze tanto "piena / d'invidia che trabocca il sacco" [49] e aveva individuato i mali della sua città nella "superbia, invidia e avarizia", "le tre faville c'hanno i cuori accesi" (vv. 74-75). Così, anche Giustiniano, nel canto VI del Paradiso, sottolineerà come l'abbandono di un ideale di pace e di governo universale aveva portato alle sofferenze che travagliavano l'Italia del tempo. Persino l'aquila, simbolo dell'autorità imperiale e dunque dell'unità di governo, è stato pervertito in un segno di divisione nelle lotte tra Guelfi e Ghibellini:

L'uno al pubblico segno i gigli gialli

oppone, e l'altro appropria quello a parte,

sì ch'è forte a veder chi più si falli. [50]

 

All'epoca in cui Agostino diventa vescovo, la Chiesa africana è scissa in due fazioni, che vedono contrapporsi i donatisti e i cattolici. Al di là degli avvenimenti che diedero origine alla scissione, e che qui sarebbe troppo lungo riassumere, questa scissione, in apparenza di natura solo teologica, rivela anche il conflitto tra un'identità africana e l'universalismo romano: la Chiesa donatista, infatti, è espressione dell'identità religiosa e culturale della comunità cristiana africana. Agostino, nato e cresciuto in Africa, ma convertito a Milano, all'epoca capitale dell'Impero universale, prende subito posizione contro i donatisti e in difesa dei cattolici. [51]

Intento di Agostino, però, non è far vincere la sua fazione, ma restaurare l'unità della Chiesa, e con essa la pace, all'interno della comunità africana. Per questo motivo, quando i donatisti lo attaccano per screditarlo, facendo riferimento al suo passato manicheo e calunniandolo, nella sua risposta il vescovo d'Ippona riafferma la semplicità dell'amore, in modo semplice e diretto. In un discorso tenuto nell'autunno del 403, all'interno del commento al salmo 37 (36), Agostino invita i suoi fedeli a confrontarsi sulle idee, non sulle persone

Dicano dunque contro di noi tutto ciò che vogliono; noi li amiamo anche se essi non vogliono. Perché, fratelli, noi conosciamo le loro parole e per esse non ci adiriamo con loro; con pazienza sopportate insieme con noi. Essi si accorgono di non aver fondamento nella loro causa, e volgono contro di noi le loro lingue e cominciano a dir male di noi; molte cose che conoscono e molte che non conoscono. Quelle che conoscono si riferiscono al nostro passato; siamo stati infatti un tempo, come dice l'Apostolo, stolti e increduli, e alieni da ogni opera buona. [52]

 

Agostino riconosce con franchezza i propri errori passati ("Fummo stolti e folli in un errore perverso") e, dopo aver ribadito di amare i suoi avversari, li invita a non lasciare la causa per attaccare l'uomo - in una parola, a non portare la disputa da un piano intellettuale al piano umano, dove creerebbe divisioni tra gli uomini:

Perché, dunque, o eretico, abbandoni la causa ed attacchi l'uomo? Che cosa sono io, insomma? che cosa sono? Sono forse la [Chiesa] Cattolica? sono forse l'eredità di Cristo diffusa tra le genti? A me basta essere in essa […] Essi, infatti, non sanno che noi siamo stati battezzati in Cristo al di là del mare, poiché al di là del mare essi non hanno Cristo. Infatti, possiede Cristo anche al di là del mare, chi anche al di là del mare è in comunione con la Chiesa universale. [53]

 

L'attacco contro il singolo cristiano è attacco che mira a scindere la Chiesa, di cui il cristiano è parte e membro, portando a divisioni e fazioni. In questo senso, Agostino insieme riconosce nei donatisti il carattere di un movimento locale: essendo separati dalla Chiesa romana, che ha il suo centro politico al di là del Mediterraneo, i donatisti si sono costruiti come parte senza un tutto, fazione opposta ad un'altra fazione: la Chiesa di Roma, che non riconoscono come Chiesa universale ("Cattolica").

Contro quest'opera di divisione, contro ogni particolarismo, Agostino richiama i fedeli all'unità, invitandoli a non lottare, a non coltivare il dissidio e la divisione; anzi, contro la chiacchiera degli esseri umani, i fedeli cattolici sono invitati lasciar passare gli attacchi ad personam, per aderire alla Verità: "Ritorna alla pace, ritorna alla concordia", scrive Agostino [54]. E continua:

Quando ci rimproverano, non fatene caso. Sappiamo infatti quale posto abbiamo nel vostro cuore, perché sappiamo quale posto voi avete nel nostro. Non combattete dunque contro costoro per difendere noi. Qualunque cosa dicano di noi, subito passate oltre, per evitare che, preoccupati di difenderci, lasciate perdere la vostra causa. A questo essi astutamente mirano; non volendo - e temendo - che parliamo della causa stessa, ci mettono davanti qualcosa per distoglierci da essa; in modo che noi, impegnati nel difenderci, cessiamo di convincerli. [55]

 

Agostino rivolge lo stesso invito ai Donatisti:

Dunque, fratelli, brilli gioiosamente su di voi il nome del Signore, che è stato invocato su di noi e di cui portiamo gli uni e gli altri i sacramenti: per questo, a buon diritto, ci chiamiamo fratelli! Ormai amate la pace, abbandonate l'abitudine inveterata dell'errore, litigiosa e calunniatrice […] Non c'è che un solo Dio che ci ha creati, un solo Cristo che ci ha redenti, un solo Spirito che deve riunirci. Ormai, che il nome del Signore sia onorato e brilli su di voi nella letizia, affinché riconosciate i vostri fratelli nella sua stessa unità. [56]

 

Il richiamo all'unità è fondato dunque sull'unità di Dio nell'articolazione della Trinità; ed è a questa unità che i Donatisti devono ora aspirare. Implicita, nelle parole di Agostino, è la metafora della Chiesa universale come corpo di Cristo. I Donatisti, essendosi posti come Chiesa separata, hanno scisso questo corpo. Tale scissione, tuttavia, non serve a chi voglia davvero trovare la verità circa la validità dei sacramenti - uno dei punti di divisione tra Donatisti e Cattolici. La verità, infatti, può essere raggiunta non attraverso la divisione tra gruppi umani, ma attraverso la ricerca sulle Scritture, fondata sul dialogo:

O insensati Donatisti, che noi desideriamo e ci auguriamo di veder ritornare alla pace e all'unità della santa Chiesa e di vederli in essa guariti, che rispondete a questo discorso? Voi che siete soliti opporci la lettera di Cipriano, il parere di Cipriano, il concilio di Cipriano, perché usurpate l'autorità di Cipriano a favore del vostro scisma, e respingete il suo esempio a favore della pace della Chiesa? Chi non sa che la santa Scrittura canonica del Vecchio e del Nuovo Testamento è contenuta entro limiti ben definiti, e che è talmente superiore a tutte le successive lettere dei vescovi, che non è assolutamente possibile dubitare e discutere se ciò che dice è vero e se ciò che vi si trova è giusto? E che invece le lettere che hanno scritto o scriveranno i vescovi, dopo la conferma del canone, possono essere corrette o da un discorso, forse più saggio, di un vescovo più competente, o da altri vescovi dotati di maggiore autorità e di più profonda sapienza, o dai concili, nel caso vi sia qualche deviazione dalla verità? E che gli stessi concili regionali e provinciali si inchinano senza esitazione all'autorità dei concili plenari, che si tengono in tutto il mondo cristiano? E che spesso i concili plenari precedenti vengono emendati dai successivi quando l'esperienza apre ciò che era chiuso e rivela ciò che era nascosto?

E che tutto questo si fa senza l'orgoglio della superbia sacrilega, senza la nuca gonfia di arroganza, e senza le contese causate dalla livida invidia, ma con santa umiltà, con pace cattolica, con cristiana carità? [57]

 

La Verità ultima, scrive Agostino, è contenuta nelle Scritture; il movimento verso il suo pieno possesso non è lineare, ma fatto di continue verifiche, chiarimenti, correzioni, dovuti ai limiti della comprensione umana. Quest'ultima rende necessario il dialogo, che tuttavia, per essere davvero efficace, deve essere fondato sulla pace e sull'amore [58]. Consapevole dei limiti dell'essere umano, Agostino richiama tutte le parti all'umiltà: è possibile, anzi, è scelta migliore abbandonare la propria posizione, se si è nell'errore, se ciò ristabilisce l'unità della Chiesa universale. L'unità dei fedeli nella Chiesa è più importante delle divisioni

Allorché il precetto dell'amore avrà dilatato i cuori, il possesso della pace non diverrà angusto [...] Se poi, per caso, le comunità cristiane preferiscono avere ciascuna il proprio vescovo e, per l'aspetto insolito della cosa, non potranno tollerare la partecipazione di due (vescovi) al governo di una stessa chiesa, ci ritireremo entrambi dalla sede. Una volta condannato lo scisma, in ogni chiesa ristabilita nell'unità della pace si ordini dai vescovi, che sono nelle singole chiese, un solo vescovo per i luoghi dove ce ne sarà bisogno, dopo che si sia raggiunta l'unità […] Per quanto ci riguarda, a noi basta solo essere cristiani fedeli e ubbidienti: cerchiamo dunque di esserlo sempre. Siamo poi ordinati vescovi a servigio delle comunità cristiane; facciamo dunque, per ciò che concerne il nostro episcopato, un'opera che sia utile ai fedeli di Cristo per la pace cristiana. [59]

 

L'umiltà del vescovo, pronto a lasciare la propria carica pur di ottenere e conservare la pace, è fondata sull'amore cristiano. Agostino consiglia a tutti i fedeli cattolici di seguire lo stesso principio, e di amare i propri nemici, così da abbattere ogni divisione e ritrovare la pace:  chi non ama la pace e vuol litigare rispondi così con tutta pace: " Di' quello che vuoi, odia quanto vuoi, detesta quanto ti piace, sempre mio fratello sei. Perché ti adoperi per non essere mio fratello? Buono, cattivo, volente, nolente, sempre mio fratello sei ". Egli potrebbe replicare: " Come posso esserti fratello? Io ti sono avversario, nemico ". Ma tu: " Anche se parli in questo modo, anche così sei mio fratello [60]".

 

Nell'atteggiamento di Agostino, si avverte il profondo senso del male che accompagna la divisione, la scissione che divide le comunità umane. Questo è il senso dell'eresia, e insieme la motivazione per cui va combattuta. Se la Chiesa è il corpo di Cristo, l'eresia è infatti "troncata dall'unità del corpo". [61] Ad un primo livello, essa spezza l'unità della fede, portando a opinioni diverse e traendo in inganno i fedeli. Ad un secondo livello, tuttavia, questa azione si riflette sull'unità sociale della Chiesa, creando una divisone inveterata e persistente, che è difficile sanare. La comunione dei fedeli ne risulta spezzata [62]. L'eresiarca ha violato la carità [63], che è alla base dell'unità della Chiesa; e così divide la Chiesa stessa, minandone l'unità e la pace. Nelle parole di Agostino, possiamo dunque trovare il senso della presenza di Farinata tra gli eretici, nel canto X dell'Inferno; ma vi ritroviamo anche il senso delle parole che Giustiniano scaglia senza distinzione contro Guelfi e Ghibellini nel canto VI del Paradiso.

Nel suo pellegrinaggio attraverso i regni dell'aldilà, Dante troverà un'alternativa alla divisione dominante la scena politica italiana nella figura di Sordello, trovatore e uomo politico mantovano, incontrato nel canto VI del Purgatorio. Sordello ha molti tratti in comune con Farinata, tanto che, come sottolinea Giovanni Gentile, Virgilio li introduce con parole simili: "Vedi che". [64] Come Farinata, Sordello è anima "altera e sdegnosa / e nel mover de li occhi onesta e tarda" (vv. 62-63); grazie al contrasto con il tumulto in cui Dante si era ritrovato all'inizio del canto, Sordello appare qui ancora più grande nella sua altera solitudine. Quando però sente che Virgilio è mantovano come lui, subito Sordello si slancia per abbracciarlo. E dalla vista dello slancio, dell'abbraccio e della gioia di ritrovare un conterraneo, cui Sordello non è unito da altro che dalla stessa terra natia, sorge l'invettiva di Dante contro la divisione e la faziosità che dominano l'Italia e la sua Firenze.

 

 

Di fronte al fallimento

Che cosa fare quanto l'azione all'interno e che opera sulla realtà sociale e politica non sortisce l'effetto sperato? Agostino ha già risposto a questa domanda con il suo richiamo all'umiltà e alla carità cristiane, dichiarandosi pronto a rinunciare al soglio vescovile per amore dell'unità di tutti i cristiani. Motore e determinante dell'azione deve infatti essere l'amore della pace e dell'unità, rispetto alle quali la vittoria personale non ha valore. Nel riconoscere i limiti della capacità di comprensione umana e della sua fallibilità, si riconosce anche la necessità di dare all'azione politica un senso che vada oltre il singolo individuo e la sua fama. Il fallimento può però risultare dall'invidia e dalla calunnia. In questo senso, Agostino ha già discusso l'importanza di ignorare la calunnia e di non controbattere o difendere il calunniato: è più importante preservare la pace e l'unità, contro le tensioni che, minacciandole, portano divisione. Le risposte degli amici alle calunnie su di lui, infatti, inasprirebbero tali divisioni, che invece si intendono sanare. Dante si pone a più riprese la stessa domanda, confrontandosi, nella Commedia, con l'impotenza dello sconfitto cui è stato tolto tutto per menzogna, o per sconfitta politica. Come spesso accade, la riflessione dantesca di avvale di exempla, che prendono la forma di personaggi incontrati nel corso del viaggio di Dante pellegrino attraverso i regni dell'aldilà. All'inizio del Canto XIII, Dante ha appena attraversato il fiume di sangue bollente del Flegetonte, per ritrovarsi in un bosco che, nella sua tetraggine, richiama l'oscurità della selva incontrata nel primo canto - e forse non a caso. La scena, giustamente famosa, è tutta costruita per antitesi, che val la pena ricordare:

[…] noi ci mettemmo per un bosco

che da nessun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;

non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;

non pomi v'eran, ma stecchi con tosco. [65]

 

L'uso della lingua lega subito questo bosco alla selva oscura "per" cui Dante di era trovato: in questo caso, però, Dante entra nell'intrico buio di propria volontà, accompagnato e guidato da Virgilio ("ci mettemmo", v. 2). La prima caratteristica del luogo è di non essere "segnato" da alcun sentiero: non vi è strada, non vi si compie alcun cammino che conduca a una meta. Il bosco resta così solo un intrico di rami, soffocante, immobile. Si tratta della selva dei suicidi, il luogo, cioè, in cui coloro che furono violenti contro se stessi scontano la loro pena; e, insieme, come si vedrà più oltre, la pena stessa scontata dai suicidi. In questo appare ancora più stretto il legame con la selva descritta nel primo canto dell'Inferno: là, il personaggio di Dante, caduto nel peccato, aveva trovato interrotto il proprio cammino, e aveva smarrito la propria via - quella via che, nel gioco delle assonanze del testo, è anche vita. I suicidi, invece, hanno interrotto con violenza la propria vita: hanno cancellato tanto il proprio cammino, quanto la possibilità di percorrere alcun cammino. Per questo il bosco della loro esistenza è privo di sentieri: il suicidio toglie la possibilità di percorrere alcun sentiero, e quindi di essere fino in fondo un homo viator, un uomo pellegrino: e se, nell'essere homo viator, si ritrova l'identità più profonda, essenziale dell'essere umano, allora il suicidio nega l'umanità stessa di chi lo compie. Nell'essere la scelta estrema di chi vive una situazione di profondo smarrimento, il suicidio rivela in questo tutta la propria tragicità.

Il gioco delle antitesi nei versi successivi riprende ed amplia queste immagini: i rami e le foglie ("fronda", v. 4) degli alberi del bosco non sono verdi, del colore cioè della virido, della vita nel suo germogliare; ma "di color fosco" - il colore di ciò che, marcio e corrotto, non porta più vita alcuna. I rami degli alberi non si innalzano dritti e robusti verso il cielo, non crescono forti, ma sono contorti su se stessi, di un contorcersi che è insieme un ripiegarsi doloroso su se stessi e un essere imprigionati; e questa idea di prigionia e insieme di sofferenza viene anche dal loro essere "nodosi" (v. 5). In questo loro essere dolorosamente contorti, piegati e rivoltati, marci e corrotti, questi alberi non possono portare frutto; ma da essi possono crescere solo spine velenose e mortifere. Queste immagini donano il senso di cosa succeda a chi sceglie il suicidio: la sua vita, rappresentata dalle fronde, si ripiega su se stessa; diventata preda della corruzione, del dolore profondo e della morte, non può più portare frutto - il suo unico frutto è morte, e l'unico esempio che lascia al mondo è quello della morte.

Nel bosco fanno i loro nidi le arpie, che straziano i rami degli alberi e dei cespugli della selva. Da ogni angolo del bosco si levano "guai" (v. 22), vale a dire guaiti, gemiti animali, inumani.

perplessità affranta di Dante pellegrino, Virgilio gli consiglia di strappare un ramoscello da un arbusto, così che possa scoprire il senso di quel che lo circonda.

Allor porsi la mano un poco avante,

e colsi un ramicel da un gran pruno;

e 'l tronco suo gridò: "perché mi schiante?" [66]

Il ramo spezzato emette insieme parole e sangue, e nel vedere questo l'orrore provato da Dante si mescola al dolore. Eppure in questi versi, nei gesti di Dante come nel grido lanciato dalla pianta, leggiamo anche un nuovo gioco di contrasti, in cui riecheggiano i contrasti presenti nella descrizione della selva dei suicidi: Dante, con atteggiamento esitante, coglie un piccolo ramo ("ramicel") da un "gran pruno" (v. 32); e, di fronte a questo atto timido, quasi delicato, il grido esplode sdegnato, doloro dall'albero: "perché mi schianti?". Se, nella descrizione della selva, il contrasto era tra la natura come dovrebbe essere e quella corrotta dalla scelta di togliersi la vita; in questa nuova descrizione, il contrasto si rileva tra l'azione minima e il carattere spropositato della reazione che suscita. Ci ritorneremo.

Esortato da Virgilio, il "gran pruno" prende a narrare la propria storia a Dante pellegrino, che lo ascolta commosso e affranto. Il pellegrino scopre così che ogni albero della foresta era un tempo un essere umano, che fu violento contro la propria vita e si uccise: "Uomini fummo, e or siam fatti sterpi" (v. 37). Con il suicidio, si sono per propria volontà privati della possibilità di costruire una propria storia, dare forma a una propria narrazione. Per questo ora, nell'inferno, sono immobili e passivi, radicati nel terreno, incapaci di movimento e di voce propri; e, come la violenza agita su se stessi li ha privati della voce e della libertà, ora solo la violenza subita da altri può restituir loro, se non la libertà perduta, almeno la voce.

Lo spirito che narra a Dante la propria storia è Pier delle Vigne, (o della Vigna), funzionario alla corte di Federico II di Svevia, un tempo uomo di successo e di grande potere a corte,

Io son colui che tenni ambo le chiavi

del cor di Federigo, e che le volsi,

serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi;

fede portai al glorïoso offizio,

tanto ch'i' ne perde' li sonni e' polsi. [67]

 

Le parole con cui Piero tesse il proprio ritratto rivelano la grande considerazione che in vita egli aveva del proprio ruolo: come Pietro tiene le chiavi del paradiso; e come il papa, vicario di Cristo in terra, tiene le chiavi che permettono di sciogliere e legare, così Pier delle Vigne teneva le chiavi del cuore dell'imperatore terreno - aveva dunque il più alto potere nell'impero, e, in un certo senso, controllava l'imperatore stesso; ma in questo compito, in questo potere si esauriva la sua esistenza.

Il suo potere non era però sicuro; ed infatti egli era caduto vittima, a suo dire, delle trame di cortigiani invidiosi:

La meretrice che mai da l'ospizio

di Cesare non torse li occhi putti,

morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;

e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,

che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. [68]

 

Leggiamo bene queste parole. Pier delle Vigne perde la fiducia dell'imperatore, e quindi il suo ruolo e il suo potere a corte, ma non lo fa per un suo errore, per sua colpa; anzi, egli è vittima degli eventi, è vittima di forze più grandi di lui: non forze umane (i cortigiani invidiosi), ma l'invidia stessa, personificata, infiamma gli "animi tutti" contro di lui; e come fuoco incontrollabile l'invidia divaga attraverso la corte, fino ad infiammare il cuore dello stesso Federico. Così, l'uomo che aveva definito il suo ruolo attraverso un'immagine che esprimeva controllo (le "chiavi" in suo possesso, con cui serrare e disserrare il cuore dell'imperatore), era diventato vittima di una forza incontrollabile. In queste immagini si avverte il senso di una profonda impotenza, e insieme di una perdita incolmabile: quando il fuoco divampa incontrollabile, nulla potrà essere più come prima. Per questo appare come unica possibile la scelta ultima, terribile:

L'animo mio, per disdegnoso gusto,

credendo col morir fuggir disdegno,

ingiusto fece me contra me giusto. [69]

 

Nel commentare questo passo, Francesco De Sanctis scriveva già nel 1869:

E qui lo spirito racconta la sua storia. E dov'è più l'inferno? Dov'è il tronco? Noi siamo in Napoli, nella corte di Re Federico, innanzi ad un Cancelliere. Se guardiamo al fatto, abbiamo in pochi versi tutto un dramma nelle sue parti essenziali. Pier delle Vigne al sommo della potenza e della grandezza, la guerra che gli muove contro l'invidia, collisione che genera catastrofe. Pier delle Vigne non fa che narrare; ma, se guardiamo allo stile, vi troviamo un carattere ricchissimo, una compiuta persona poetica. Voi lo vedete tutto vano del suo uffizio, del suo glorioso uffizio compiaciuto di volgere a suo senno le chiavi del cuore di Federico, geloso della confidenza che in lui pone il suo Signore ed intento a rimuoverne ogni altro; un uomo debole, che vede nella sua sventura gli onori tornati in lutto, la gioia volta in mestizia, che si uccide per disdegnoso gusto, per non saper sostenere il suo nuovo stato [...] [70]

Di fronte alla Il passo dantesco trae il proprio carattere terribile anche dall'atmosfera surreale in cui la narrazione è immersa: Pier delle Vigne si uccide non per un nobile motivo, ma per disdegnoso gusto, per il piacere che deriva dall'esprimere il proprio sdegno. Il suo gesto estremo pone fine a un'esistenza vissuta nella contemplazione estetica del proprio potere, del proprio status, del controllo che Pier si illudeva di esercitare sul mondo; ma la scelta estrema, terribile ha anch'essa una motivazione di natura estetica.

Nel terzo Canto dell'Inferno, Dante aveva definito con parole perentorie il carattere etico dello scendere in campo, del prendere parte; ma Pier delle Vigne, che aveva un ruolo politico di estrema importanza, vive questo ruolo come piacere del controllo, del poter avere potere. E, se a questa esistenza estetica aveva donato ogni ora, ogni sua forza, la sua perdita l'aveva portato alla ricerca di un ultimo piacere: quello del protestare la propria innocenza scegliendo la morte.

È difficile non cercare un paragone tra il la figura di Pier delle Vigne e quella di Dante: come Pier, anche Dante aveva vissuto la propria attività politica con intenso coinvolgimento, fino a perdere - non la vita, ma certo la patria e le radici che questa gli offriva; e ancora fiorentino, seppur sradicato, si trovava a viaggiare esule per l'Italia. In questo senso, il senso della somiglianza tra il paesaggio della selva oscura, in cui Dante pellegrino si riscopre smarrito, e quello della selva dei suicidi diventa più chiaro. Per comprendere questo punto bisogna ricordare che Dante-io narrato viaggia attraverso i tre regni dell'Aldilà cristiano qualche anno prima del suo esilio: il poema è ambientato nella Pasqua del 1300, mentre Dante fu condannato nell'inverno e poi nella primavera del 1302. Nella finzione del poema, dunque, l'io narrato-Dante riceve un'importante lezione relativa al tipo di scelta che potrà affrontare, e insieme sul valore da dare all'impegno politico e all'esercizio del potere che ne deriva; ma anche circa la reale possibilità di esercitare un pieno controllo sulle vicende umane.

Tale riflessione viene approfondita nell'incontro con un altro suicida. È l'alba del 10 aprile 1300, l'alba di Pasqua, e Dante e Virgilio sono appena emersi dall'inferno sotto un cielo di zaffiro, quando all'improvviso, ricorda il narratore:

vidi presso di me un veglio solo,

degno di tanta reverenza in vista,

che più non dee a padre alcun figliuolo.

Lunga la barba e di pel bianco mista

portava, a' suoi capelli simigliante,

de' quai cadeva al petto doppia lista. [71]

 

Dell'aspetto di questo nuovo personaggio, il narratore sottolinea solo la barba e i capelli brizzolati, e la venerazione che la sua figura impone subito che sia percepita: e l'allitterazione della consonante /v/ lega il percepire con gli occhi ("vidi"), l'uomo in età avanzata ("veglio"), il sentimento di profondo rispetto ("reverenza") e l'aspetto ("vista"). I due versi che introducono il personaggio sono come incorniciati da due termini, vidi e vista, che sono più strettamente legati tra loro, perché derivati dalla stessa radice e legati da allitterazione della sillaba /vi/. Così l'atto del vedere e ciò che si offre alla vista (l'aspetto) racchiudono e contengono il sentimento di profondo rispetto per il nuovo venuto. Questo sentimento è rafforzato dalla luce delle quattro stelle purissime, mai viste da alcun uomo, che illumina il suo volto.

Come chiarirà Virgilio, il veglio è Catone Uticense, che, oppostosi all'ambizione dei triumviri, sconfitto nella guerra civile scelse di morire per non sopravvivere alla fine della repubblica e della libertà. Come ricorda Anna Maria Chiavacci Leonardi, Dante dà al suo gesto "un valore simbolico […] e venera in Catone la grande virtù morale, a lui riconosciuta in grado eminente da tutti gli antichi". Ricorda Erich Auerbach in un passo famoso, che vale la pena riportare per intero:

Dio ha dunque designato Catone Uticense alla funzione di custode ai piedi del Purgatorio: un pagano, un nemico di Cesare, un suicida. Ciò è molto sorprendente, e già i primi commentatori, come Benvenuto da Imola, se ne meravigliavano. Dante cita pochissimi pagani che Cristo ha liberato dall'inferno; e tra essi si trova un nemico di Cesare, i cui alleati, gli uccisori di Cesare, si trovano insieme con Giuda nelle fauci di Lucifero; uno che essendo un suicida non dovrebbe essere meno colpevole di quelli che furono violenti con se stessi e che per la stessa colpa soffrono terribilmente nel settimo cerchio dell'inferno. Il dubbio è sciolto dalle parole di Virgilio, il quale dice che Dante cerca la libertà, che è così cara come tu sai bene, tu che per essa disprezzasti la vita. La storia di Catone […] diventata "figura futurorum." Catone è una "figura," o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel Purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità di quell'avvenimento figurale. Infatti la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto "umbra futurorum": una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire e in vista della quale anche qui egli resiste ad ogni tentazione terrena; di quella libertà cristiana da ogni cattivo impulso che porta all'autentico dominio su se stesso, appunto quella libertà per raggiungere la quale Dante è cinto del giunco dell'umiltà, finché la conquisterà realmente sulla sommità della montagna e sarà coronato signore di se stesso da Virgilio. [72]

 

In Catone, il personaggio di Dante, appena emerso dall'oscurità infernale, incontra il rigore della virtù, intesa sì come sistema di valori che rendono buoi, virtuosi; ma incontra ancor più la virtù intesa nel suo senso etimologico come forza, valore: la forza di chi non si piega al compromesso, di chi non abbandona il proprio ideale, fino alla scelta estrema. Catone non si rifugia nella morte per far dispetto a chi l'accusa, con un senso estetico della bella azione, come Pier delle Vigne; ma sceglie, abbraccia la morte come ultima espressione del suo aderire con forza alla virtù, del suo vivere forte e virtuoso. Così il personaggio di Dante, che, nell'attraversare i gironi infernali, si era spesso sentito smarrito, esitante, pauroso - e per paura quasi aveva rinunciato all'unico viaggio in grado di redimerlo - ora può scorgere in Catone la pienezza della virtù - ciò che, in un certo senso, lui stesso dovrebbe aspirare a essere di fronte alle difficoltà, di fronte alla catastrofe. L'inginocchiarsi riverente di fronte a Catone, e il cingersi, poco dopo, con un umile giunco (v. 94) dicono dell'umiltà con cui il pellegrino deve riconoscere la pochezza della sua virtù e la grandezza di chi ha di fronte, e alla cui virtù deve aspirare.

Catone è un suicida. Il modo in cui si presente in scena, tuttavia, lo distingue da Pier delle Vigne: non immerso nell'oscurità della selva dei suicidi, ma nella luce di zaffiro dell'alba di Pasqua (v. 13); e le sue parole non possiedono l'apparenza seducente e ingannatrice di quelle di Piero, ma sono schiette e chiare, quasi disadorne e dirette. Catone non vuole ammaliare con la propria storia, come fa Piero, per suscitare pietà nel viaggiatore; ma lo redarguisce e lo istruisce, e insieme gli mostra la via verso quella libertà che lui amò a tal punto da scegliere la morte. Virgilio spiega che Dante

libertà va cercando, ch'è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta. [73]

 

Questa spiegazione rivolta a Catone è anche rivelazione per Dante: la libertà - nel senso più alto del termine - è lo scopo ultimo del suo viaggio. Ma la libertà è definita come cara - termine che, in modo non dissimile dal senso odierno, acquista in Dante un duplice valore: da un lato, infatti, cara significa amata; e in questo primo senso la si può intendere in questi versi. Altrove nel Purgatorio, tuttavia, lo stesso termine è usato nel senso di a caro prezzo [74]; dunque, se da un lato la libertà deve essere amata fino al sacrificio, dall'altro essa esige un sacrificio che costa caro. E Dante riceve l'ordine di sottomettersi a questa legge cingendosi, appunto, con un giunco "schietto" (v. 95), vale a dire "liscio e dritto". [75] Più oltre, il giunco è definito "umile pianta" (v. 135), e in questo aggettivo si ha il senso dell'azione prescritta da Catone a Dante: cingendosi - verrebbe quasi da dire, rivestendosi del giunco, Dante ne assume in forma esteriore, e insieme ne accetta le qualità: la schiettezza, che Catone incarna con tanta chiarezza nelle sue parole e nelle sue azioni; e l'umiltà, necessaria per riconoscere la propria piccolezza, la possibilità di avere un centro che sia altro da sé. Per il personaggio di Dante, che, nel momento storico in cui è ambientato il poema, è ancora all'apice della carriera politica, l'umiltà è un passo molto difficile, e non gli risulta naturale: tant'è che vi deve essere invitato da Virgilio, prima (vv. 49-51) e poi da Catone (v. 95).

Indossando la schiettezza e l'umiltà del giunco, tuttavia, Dante già si contrappone alla figura del suicida incontrato all'inferno, Pier delle Vigne: tra il parlare forbito, l'argomentare astuto di quello, e il parlare diretto, breve e schietto di Catone, Dante è spinto a scegliere il secondo - perché solo questo lo potrà rivolgere (convertire) alla libertà più vera. Il personaggio di Dante dimostra qui di stare compiendo un percorso di conversione, un rivolgersi con tutto se stesso verso una meta più grande di quella del successo e della carriera mondani: la libertà. Un processo molto simile di conversione, caratterizzato anch'esso dal rivestirsi, dal cingersi, si ritrova nelle ultime pagine dell'ottavo libro delle Confessioni di Agostino d'Ippona. Il passo è famosissimo, ma val la pena ricordarne qui alcuni dettagli. Agostino si trova nel giardino della sua casa di Milano, impegnato in una dolorosa lotta interiore tra la volontà di continuare a vivere la propria esistenza di cittadino romano in carriera, e la volontà di abbracciare una forma integrale di cristianesimo. Il linguaggio con cui descrive il suo stato è quello della prigionia: egli racconta infatti di essere tenuto da una catena, che "ancora non si spezzava del tutto". [76] Nel parossismo della crisi, Agostino sente una voce incorporea che gli consiglia di aprire il libro che ha accanto e di leggerne qualche riga; così fa: e le parole dell'apostolo Paolo gli consigliano di rivestirsi del Signore Gesù Cristo. [77]

Da questo momento, con l'abbandono volontario della vita precedente e di tutti i disegni di carriera all'interno dell'amministrazione imperiale, il giovane Agostino intraprenderà la strada che lo porta alla cattedra vescovile di Ippona. In questo caso, il punto di svolta non è un fallimento, ma la scelta volontaria di abbandonare un percorso, per intraprenderne un altro. Da vescovo, tuttavia, Agostino dovrà confrontarsi con un fallimento doloroso, da cui uscirà ferito e in cui ritroverà un nuovo segno della manchevolezza e della debolezza umane.

Nel 410, l'imperatore Onorio aveva nominato il tribunus e notarius Flavio Marcellino a dirigere il confronto tra la Chiesa Donatista e la Chiesa Cattolica [78]. Con la sua azione, Marcellino aveva portato alla vittoria la parte cattolica [79]. Agostino provava un profondo affetto per il politico romano, cui aveva scritto diverse lettere e dedicato alcuni suoi scritti, tra cui i primi libri della Città di Dio. In una lettera scritta dopo la sua morte, Agostino ne tesse il ritratto affettuoso di ufficiale romano il cui operato è profondamente intriso delle virtù cristiane. [80]

Nel 412, tuttavia, Eracliano, console designato per l'Africa, si ribella contro l'imperatore Onorio e si proclama Augusto. Scoppia una rivolta che vede impegnate le legioni dell'Africa contro quelle italiche, e alla fine della quale Eracliano viene sconfitto e ucciso. Dopo la sua morte, Onorio mette in atto un'epurazione, di cui è vittima anche Marcellino, arrestato e giustiziato il 13 settembre del 413. Quando viene a conoscenza dell'arresto, Agostino si attiva, recandosi a Cartagine e mettendo subito in moto le risorse della Chiesa per salvare l'amico, ma fallisce. Questo è un duro colpo per lui e, dopo l'esecuzione di Marcellino, il vescovo se ne ritorna a Ippona, invece di opporsi al potere politico ingiusto. James O'Donnell racconta che, in seguito a questi avvenimenti, Agostino non tornerà a Cartagine per tre anni. [81]

Nell'epistola 151, rivolta a Ceciliano, Agostino riflette sull'accaduto, ammettendo la propria impotenza di fronte al dolore e allo svolgersi degli eventi. Egli aveva insistito "con tutte le forze" [82] per salvare l'amico, "ma tutto fu inutile". Il testo latino rende il senso del fallimento in modo ancora più efficace di quanto faccia l'ottima traduzione in italiano: una sola parola, "frustra", isolata nella sua brevità tra parole molto più lunghe, evoca il fallimento terribile e durissimo, e, insieme l'accettazione sconsolata: non vi è altro da dire. Affranto dalla morte dell'amico, Agostino confessa di non essere riuscito a restare a Cartagine, ma continuo profectus sum, "me ne sono partito subito". [83] Egli se ne va quasi di nascosto: non vuole che lo trattengano, ed è consapevole di non avere alcun potere contro il comes Marino. Agostino è combattuto, vorrebbe restare, ma subito se ne va in sordina. Nell'epistola 151, le sue parole giustificano pienamente la scelta di andarsene:

Dopo quel misfatto partii subito da Cartagine senza far trapelare la mia' partenza, per evitare che i fedeli radunati in gran folla e paurosi di cadere sotto la sua spada, mi trattenessero con, loro pianti e gemiti violenti, persuasi che la mia presenza potesse recare loro qualche giovamento, di modo che potessi indurmi a intercedere per l'incolumità fisica di essi presso colui che non potevo redarguire come meritava, per la sua anima. Ma la loro incolumità fisica era protetta a sufficienza dalle pareti della chiesa.[84]

 

Impotente nei confronti del comes Marino, Agostino vuole evitare che i fedeli lo trattengano, affidando la propria salvezza a una capacità che non possiede; ed è invece consapevole che essi sono "protetti dalle mura della Chiesa". Eppure, si avverte nelle sue parole un amaro senso di sconfitta.

Un simile senso di ingiusta sconfitta si avverte in un'altra vicenda, questa narrata dall'imperatore Giustiniano nel canto VI del Paradiso. L'antico imperatore romano ricorda infatti la figura di Romeo di Villanova, personaggio alla corte di Provenza che, dopo aver servito in modo egregio il suo signore, accrescendone potere e ricchezza, resta vittima di calunnie contro di lui e, perso ogni onore, decide di partire esule.

Nelle parole di Giustiniano, Romeo è luce che riluce nella gemma del cielo di Mercurio. Le parole con cui questo personaggio viene evocato sono tanto cariche di significato che vale la pena studiarle nel dettaglio:

E dentro a la presente margarita

luce la luce di Romeo, di cui

fu l'ovra grande e bella mal gradita. [85]

Al v. 127, il gioco delle allitterazioni (dentro alla presente margarita) crea ritmo e dona musicalità ai versi, legando tra loro le parole. Così il gruppo /ent/ crea un legame e un'eco tra dentro e presente, mentre nei versi si dipana il gioco della vibrante /r/. Se però nella poesia italiana contemporanea (si veda, per esempio, il Montale di tanti Ossi di seppia), /r/ è suono aspro e due, che evoca una sensazione di asprezza e difficoltà; qui la sua durezza, a replicare quella della gemma (margarita) si fa dolce; e i suoni ricorrenti nel testo evocano il turbinio, la danza e il canto, e insieme il distinguersi individuale in questa danza, in questo coro, senza però stonare. La spiegazione viene da Giustiniano stesso:

Diverse voci fanno dolci note;

così diversi scanni in nostra vita

rendon dolce armonia tra queste rote. [86]

 

In questi versi, la ripetizione del suono /r/ evoca il movimento vorticoso delle ruote, cui rimanda il gioco di allitterazioni del v. 127. Romeo è dunque parte di questa danza che è anche armonia di voci diverse in unità, secondo un'immagine dalle forti eco agostiniane. Ma la luce di Romeo, la luce che Romeo ha e che Romeo è, "riluce". [87] L'allitterazione della consonante /l/ addolcisce la durezza delle vibranti dei versi precedenti, a rivelare la dolcezza del canto e della danza armoniosi; e l'annominazione evoca lo splendore in cui le anime beate vivono, e che le anime beate sono. Così la rima semantica "margarita/gradita" figura Romeo, quasi contenuto tra le due rime, gemma gradita a Dio, lui che fu calunniato in vita.

Romeo fu calunniato in vita come Pier delle Vigne. Mentre, però, Pier pone fine alla propria vita, Romeo se ne parte dalla corte povero e vecchissimo, ma ancora vivo. Egli preferisce una vita umile alla vendetta della morte scelta da Pier. La rima in "giusto" riprende la figura etimologica del canto XIII dell'Inferno, "ingiusto fece contra me giusto" [88]; ma mentre Pier, un suicida che aveva violato la legge divina, definiva se stesso "giusto", così Romeo è definito "giusto" da un imperatore che porta in sé il nome della giustizia, Giustiniano - anzi, mentre Pier narrava la propria storia al pellegrino atterrito, Romeo non dice nulla di sé: è l'imperatore a narrare la sua vicenda come esempio di umiltà giustizia e onore. Nella luce della sfera di Mercurio, di Romeo echeggia quel partire esule ma innocente, quel silenzioso e umile elemosinare per tutta la sua lunghissima vita, che lo rendono ancor più amato a Dio.

Non sappiamo come si concludesse la lettera a Ceciliano (il documento ci è pervenuto tronco), ma sappiamo che, dopo questi avvenimenti, Agostino continuò a studiare, insegnare e scrivere. E continuò ad impegnarsi nell'attività di discussione e difesa di quella che, per lui, era l'ortodossia della Chiesa universale. Già tra la fine del 413 e l'anno successivo, Agostino ricordava a Macedonio che, nel giudicare i vescovi colpevoli di malversazioni, doveva tener saldo il principio dell'amore per i peccatori [89]; e che la misericordia cristiana doveva moderare l'applicazione della giustizia umana[90]. Nonostante l'umiliazione subita, egli restava saldo sul percorso spirituale che, quasi trent'anni prima, aveva scelto.

 

 

La spiritualità dell'unità, tra Agostino e Dante

Nel percorso di apprendimento tracciato dalla Commedia, il personaggio di Dante pellegrino comprende come andare oltre la divisione e le fazioni che tanto avvelenano Firenze e l'Italia. Dal canto suo, Agostino pone l'unità come fine della vita comune, ma è lo sforzo spirituale e ascetico dell'individuo che la realizza.

Il tema dell'unità della Chiesa è ripreso nel De unitate eccleasiae. La Chiesa è il corpo di Cristo, unito nell'amore al suo capo. La definizione di "cattolica" viene, secondo l'autore, da kath'olon, cioè distesa sull'intero globo [91].

Nelle Confessioni, il personaggio di Agostino muove dal disordine della concupiscientia all'ordine dell'amore. Dio è raggiunto non tramite pratiche ascetiche o una contemplazione intellettuale, ma dall'amore umano:

La Chiesa, infatti, è il suo corpo - come suggerisce l'ammaestramento dell'Apostolo - anzi la si chiama anche sua sposa. Questo suo corpo, dunque, dotato di molte membra che esplicano diverse funzioni, egli lo stringe con il vincolo dell'unità e della carità, che costituiscono come un segno della buona salute. In questo tempo lo allena o lo purifica con certe sofferenze di carattere medicinale, affinché, sottraendo la Chiesa dagli influssi di questo mondo, se la unisca in eterno come sposa senza macchia né ruga o cose del genere. [92]

 

In questo passo, dopo essere ritornato sull'immagine della Chiesa corpo di Cristo, Agostino insiste per prima cosa sull'articolazione di tale corpo, a significare la diversità interna all'unità e l'unità nella diversità; e individua, quale azione unificatrice, l'amore cristiano che i membri della Chiesa nutrono gli uni per gli altri. L'armonia dell'amore perfetto è intesa come la salute perfetta; mentre le difficoltà e le discordie, che tendono a dividere e a contrapporre i membri della comunità, sono viste come una medicina che permette ai singoli individui di allenarsi a un amore più vero e forte. In questo modo, il luogo, il teatro e la palestra della vita spirituale è la società: non tanto la contemplazione del singolo asceta, quanto le relazioni umane di tutti i giorni diventano il mezzo tramite cui l'individuo si eleva - non isolandosi, ma immergendosi nella vita della società.

Alla luce di queste parole, il passo già citato di Confessioni 10, 43, 70 assume un nuovo significato: se Agostino voleva isolarsi dal mondo per cercare Dio, medicina celeste è stato strapparlo dal suo isolamento, per permettergli di esercitare l'amore cristiano in modo consapevole e volontario nel mondo, così da crescere al suo interno, facendo crescere altri. La via spirituale diventa quindi una via condivisa: se da un lato, infatti, si pone lo sforzo spirituale del singolo, che abbraccia l'amore anche di fronte alla calunnia e all'ingiuria; dall'altro tale amore ha bisogno dell'altro, degli altri, per prendere forma e significato.

Quando esorta i fedeli (e se stesso) ad amare i propri nemici, Agostino identifica la via spirituale come un lavoro di trasformazione interiore, che muove dal desiderio ed è guidata dalla ragione. Al centro di questo lavoro interiore si situa il riconoscersi immagine di Dio, punto di partenza fondamentale per comprendere il ruolo dell'amore cristiano, della carità, nella vita individuale e sociale, come base del concetto di unità. Il percorso verso questa consapevolezza inizia dalla Rivelazione, ma muove poi per gradi a partire dall'esperienza dell'individuo a contatto con la propria interiorità. Agostino invita i propri lettori a porsi davanti a se stessi, a guardare in se stessi per vedere - cioè per cogliere la verità nell'introspezione:

Vorrei invitare gli uomini a riflettere su tre cose presenti in se stessi, ben diverse dalla Trinità, ma che indico loro come esercizio, come prova e constatazione che possono fare, di quanto ne siano lontani. Alludo all'esistenza, alla conoscenza e alla volontà umana. Io esisto, so e voglio; esisto sapendo e volendo, so di esistere e volere, voglio esistere e sapere. Come sia inscindibile la vita in queste tre facoltà e siano un'unica vita, un'unica intelligenza e un'unica essenza, come infine non si possa stabilire questa distinzione, che pure esiste, lo veda chi può. [93]

 

La comprensione, scrive Agostino, deve avvenire per gradi: essere, volere e sapere non sono la Trinità, ma un'eco della Trinità nell'essere umano. Le prime due persone della Trinità, il Padre e il Figlio [94] sono distinte, eppure operano in modo interdipendente nella Creazione; e lo Spirito Santo è amore, amore che unisce il Padre e il Figlio e che è dono del Padre e del Figlio: "L'amore che è da Dio e che è Dio è dunque propriamente lo Spirito Santo, mediante il quale viene diffusa nei nostri cuori la carità di Dio, facendo sì che la Trinità intera abiti in noi", scrive Agostino. [95]

Come unisce le persone della Trinità, così la carità, che è dono di Dio, unisce gli esseri umani nella società. Perché ciò accada, è però necessario l'esercizio spirituale e ascetico: il primo passo è quello della fede, che si abbandona a Dio, così da aprirsi alla possibilità di coglierne l'azione nel quotidiano. Questo abbandonarsi si coglie, però, nel sottomettersi ai "precetti del vivere" [96], che permettono di esercitarsi alla speranza: sottomettersi ai precetti, infatti, da un lato è possibile solo grazie alla fede, dall'altro, nel momento in cui si nota l'apparente arbitrarietà degli stessi, conduce a coltivare l'idea che vi sia una motivazione razionale dietro la loro imposizione, che non è colta in modo diretto. A sua volta, l'applicazione dei precetti, e soprattutto del comandamento dell'amore, permette di far crescere la carità [97]. A sua volta, l'esercizio della carità può davvero avvenire solo nella vita sociale, intesa come vita di attiva partecipazione, fondata su di uno sforzo attivo che sostenga e nutra la fede e la carità. Così si può intendere il primo precetto della Regola di Agostino: "abbiate unità di mente e di cuore protesi verso Dio". [98] Lungi dall'essere solo un insieme di prescrizioni, la Regula diventa allora manuale di comportamento, di disciplina attiva, che prescrive quale principio della vita spirituale la tensione a diventare nell'amore, secondo l'ordine della carità:

La bellezza fisica, che è certamente un bene prodotto da Dio ma temporale carnale infimo, è amata male perché si trascura Dio, bene eterno spirituale perenne, come con la violazione della giustizia l'oro è amato dagli avari non per un peccato dell'oro ma dell'uomo. Così è ogni creatura. Essendo un bene si può amare bene e male, cioè bene nel rispetto dell'ordine, male nella violazione dell'ordine […] Se il Creatore si ama secondo verità, cioè se non si ama invece di Lui altro che Egli non è, non è possibile che sia amato di amore cattivo. Anche l'amore si deve amare ordinatamente perché con esso si ama l'oggetto che si deve amare affinché sia in noi la virtù con cui si vive bene. Mi sembra quindi che definizione breve e vera della virtù è l'ordine dell'amore. [99]

 

L'ordine, scrive Agostino, è "L'ordine è la dispositio di cose eguali e diseguali che assegna a ciascuno il proprio posto". [100] Tale dispositio richiede che cose e persone siano amate nel loro essere, in ciò che sono, e non nel loro non essere, in ciò per cui non sono. L'ordine della carità, che è la virtù, consiste allora nell'amare l'altro uomo in quello e per quello che è: "Rivolgiti alla natura. È uno sconosciuto? è un uomo. È un avversario? è un uomo. È un nemico? è un uomo. È un amico? resti amico. È un avversario? diventi amico". [101] Nel ragionamento agostiniano, se il male sta nel non essere, il nemico è un essere umano percepito come non amico; e l'avversario è un essere umano percepito come non alleato; ma, se si guarda al suo essere, alla sua essenza e a ciò che gli è proprio, lo si può amare in quanto uomo. Questa concezione dell'amore cristiano come ordine rivela un senso più profondo nei versi del canto X dell'Inferno, in cui, come si è visto, Farinata distingue me, i miei primi, la mia parte, dai Guelfi suoi avversari, creando e nutrendo la divisione. [102] Al condottiero ghibellino si contrappone però, nel canto XI del Paradiso, la figura di Tommaso d'Aquino, frate domenicano, che narra la vicenda di Francesco d'Assisi, fondatore dell'ordine religioso rivale; ma, mentre Farinata è pieno di sdegno per chi riconosce solo come nemico e avversario, Tommaso narra la vicenda di Francesco con parole ammirate, ricordando il suo amore per Madonna Povertà, che nessuno, dopo Cristo, aveva più amata [103]; e sottolineando come lo splendore del suo amore abbia spinto altri uomini a seguire il suo esempio, con un cuore solo e un'anima sola, secondo, appunto, l‘ordine della carità. [104]

La carità ordinata è alla base dello stesso vivere civile: infatti, scrive Agostino, perché vi sia davvero un popolo sono necessari unità e concordia [105]. In questo modo, l'ordine dell'amore ordinato è possibilità e condizione della pace, in cui l'individuo, il mondo sociale e politico sono tutti inseriti nell'armonia dell'ordine:

La pace del corpo dunque è l'ordinata proporzione delle parti, la pace dell'anima irragionevole è l'ordinata pacatezza delle inclinazioni, la pace dell'anima ragionevole è l'ordinato accordo del pensare e agire, la pace del corpo e dell'anima è la vita ordinata e la salute del vivente, la pace dell'uomo posto nel divenire e di Dio è l'obbedienza ordinata nella fede in dipendenza alla legge eterna, la pace degli uomini è l'ordinata concordia, la pace della casa è l'ordinata concordia del comandare e obbedire d'individui che in essa vivono insieme, la pace dello Stato è l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini, la pace della città celeste è l'unione sommamente ordinata e concorde di essere felici di Dio e scambievolmente in Dio, la pace dell'universo è la tranquillità dell'ordine. [106]

 

Come ha modo di osservare Dante, la pace è invece distrutta quando chi è al potere non lo esercita a dovere, vale a dire in modo ordinato: ne sono un esempio i papi simoniaci, che Dante incontra nel canto XIX dell'Inferno, la cui "avarizia il mondo attrista, / calcando i buoni e sollevando i pravi". [107] Vendendo le cariche ecclesiastiche in cambio d'oro e d'argento, favorendo la propria famiglia nell'assegnazione del potere religioso, questi papi sovvertono l'ordine del mondo e della Chiesa, istituito da Cristo:

Deh, or mi dì: quanto tesoro volle

Nostro Segnore in prima da san Pietro

ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?

Certo non chiese se non "Viemmi retro", [108]

commenta Dante sdegnano. Lo stesso motivo ritornerà più volte nella Commedia fino al Paradiso, in cui la critica del papato è posta in bocca allo stesso san Pietro. Nel proprio percorso spirituale nei tre regni dell'aldilà cristiano, Date viator apprende il male della divisione e il bene dell'unità. Da uomo politico, impegnato nelle lotte di fazione della sua parte, attraverso il dialogo e la riflessione, Dante giunge infine a un concetto più alto di giustizia, che si pone oltre le aspettative e le pretese umane di comprendere la Sapienza divina. Eppure, alla fine del suo viaggio, si avverte ancora l'eco lontana del desiderio che Francesca da Rimini aveva espresso, nei primi cerchi dell'Inferno, di trovare quella pace che evoca come un posarsi, allorché ricorda il suo luogo natio:

Siede la terra dove nata fui

su la marina dove 'l Po discende

per aver pace co' seguaci sui. [109]

 

Agostino sosterrà che questa pace, che a Francesca è negata per l'eternità, deve essere coltivata dall'individuo, sia nei rapporti con gli altri, che nella propria interiorità. Anzi, quell'umiltà che anche Dante apprende dall'esempio di Romeo e di Francesco d'Assisi, di cui Agostino sostiene di continuo l'importanza, è l'unica possibile origine della capacità di portare la pace:

Chi sono i pacificatori? Coloro che procurano la pace. Vedi delle persone in disaccordo tra loro? Sii tra loro operatore di pace. Parla bene del primo al secondo e viceversa. Ascolti del male riguardo a uno di essi da parte dell'altro come da uno ch'è adirato? Non lo manifestare; dissimula l'insulto ascoltato dall'adirato, da' un leale consiglio per la concordia. Ma se vuoi essere pacificatore tra due tuoi amici che sono in discordia, comincia da te stesso ad essere pacifico: devi mettere in pace te stesso interiormente, dove forse sei in lotta quotidiana con te stesso. [110]

 

La vera pace è possibile solo come meta del percorso spirituale: un percorso che è individuale, perché impegna l'individuo in una lotta costante con se stesso; ma che è anche, per sua natura, sociale, perché solo all'interno della società umana è possibile esercitare le virtù cristiane. Il cammino nell'interiorità si proietta allora nel mondo; e quell'unità della Trinità che l'individuo contempla in se stesso diventa unità sociale, mezzo e risultato del perfezionarsi dello spirito.

 

 

 

 

Bibliografia

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P. Brown, Agostino d'Ippona, tr. it. G. Fragnito, Einaudi, Torino, 1971.

F. De Sanctis, Opere, Torino: 1955.

F. De Sanctis, Saggi critici, Napoli: 1869.

P. S. Hawkins, "Divide and Conquer: Augustine in the Divine Comedy", in Modern Language Association, PMLA, May 1991, Vol. 106, No. 3 (May, 1991), pp. 471-482.

D. V. Meconi, "Traveling without Moving: Love as Ecstatic Union in Plotinus, Augustine, and Dante", Mediterranean Studies, Penn State University Press, 2009, Vol. 18 (2009), pp. 1-23.

James J. O'Donnell, Augustine, tr. it. C. Lazzari, Milano, 2007.

L. Schwebel, "The pagan suicides", in Medium Aevum, 2018, vol. 87, No. 1 (2018), pp. 106-132.

M. Tasso, Agostino, lo Stato e l'agostinismo politico, 9 aprile 2021, disponibile online su Agostino, lo Stato e l'agostinismo politico | Articoli - Agenda | Treccani, il portale del sapere. Ultimo accesso 29 agosto 2021.

A. E. Wingell, "The Forested Mountaintop in Augustine and Dante", in Dante Studies, with the Annual Report of the Dante Society, The Johns Hopkins University Press, 1981, No. 99 (1981), pp. 9-48.

 

 

 

 

Note

 

(1) - Paradiso, vv. 119-120

(2) - Ivi, v. 35

(3) - Inferno 1, 72

(4) - De civ. Dei 2, 29, 2: "Noli deos falsos fallacesque requirere"

(5) - M. Tasso, Agostino, lo Stato e l'agostinismo politico, 9 aprile 2021, disponibile online su Agostino, lo Stato e l'agostinismo politico | Articoli - Agenda | Treccani, il portale del sapere. Ultimo accesso 29 agosto 2021

(6) - Cfr. Conf. 8, 12, 29

(7) - Cfr. Albert E. Wingell, "The Forested Mountaintop in Augustine and Dante", in Dante Studies, with the Annual Report of the Dante Society, 1981, No. 99 (1981), p. 9, disponibile online su https://www.jstor.org/stable/40166300. Ultimo accesso 29/08/2021.

(8) - F. Tomassini (cur.), Chuang-Tzu, TEA, Editori Associati, Milano: 1989, p. 136n

(9) - Conf. 8, 9 ,17: "Simul eramus simul habitaturi placito sancto. Quaerebamus, quisnam locus nos utilius haberet servientes tibi ; pariter remeabamus in Africam"

(10) - P. Brown, Agostino d'Ippona, Einaudi, Torino, 1972, p. 122

(11) - Sermones, 355, 2

(12) - Retractationes, 7, 1. Cfr. anche P. Brown, op. cit., pp. 123-124

(13) - Cfr. Ep. 14, 1

(14) - Cfr. Ep. 4, 1

(15) - Ep. 14, 1

(16) - Possidio, Sancti Augustini vita, 4, 1-3

(17) - Sermones, 355, 2

(18) - Conf. 10, 48, 70, citato in James J. O'Donnell, Augustine, tr. it. C. Lazzari, Milano, 2007, p. 29

(19) - Sol 2, 7

(20) - J. O'Donnell, cit., pp. 29-30

(21) - Ep. 21, 12

(22) - Cfr. Conf. 6, 15, 25

(23) - J. O'Donnell, op. cit., p. 30ss.

(24) - Conf. 10, 43, 70

(25) - Ivi, 10, 43, 69

(26) - Ibidem.

(27) - Ibidem

(28) - Ivi, 10, 43, 70

(29) - In ev. Io. 1, 1. Cfr. De magistro 11, 38

(30) - Ibidem. Cfr. Anche Conf. 11, 8, 10

(31) - De quantitate animae 16, 28

(32) - Inferno 3, v. 4

(33) - Ivi, 3, 52-54

(34) - Ivi, 3, 36

(35) - Ivi, 3, 64

(36) - Ivi, 3, 64-69

(37) - Ivi, 59-60

(38) - Ivi, 3, 49

(39) - Ivi, 2, 10-36

(40) - Cfr. Inferno 9, 127

(41) - Ivi, 10, 22-24

(42) - Ivi, 10, 34-36

(43) - Cfr. F. De Sanctis, "Il Farinata di Dante", in Opere, V, Torino: 1955, p. 651ss.

(44) - Inferno 10, 39

(45) - G. Boccaccio, Il comento di Giovanni Boccaccio sopra la Commedia, Firenze: 1863, p. 223

(46) - Inferno 10, 40-42

(47) - Ivi, 10, 46-48.

(48) - Ivi 10, 49-51

(49) - Ivi 6, 49-50

(50) - Paradiso 6, 100-102.

(51) - Nel corso delle Journées augustiniennes de Carthage del 13-15 novembre 2020, la Prof.ssa Catherine Conybeare ha discusso il primo capitolo di una sua opera di prossima pubblicazione, Augustine the African (2025), che discute proprio della tensione tra la provenienza africana e l'educazione e l' "anima" romana di Sant'Agostino. Sono state proprio le sue parole a permettermi di comprendere più a fondo, e proprio all'interno di questa tensione, la scelta di campo del vescovo d'Ippona all'interno della polemica donatista. Vorrei qui esprimere alla Prof.ssa Conybeare la mia gratitudine per le sue illuminanti parole e idee.

(52) - Enarrationes in Psalmos 36/3, 19

(53) - Ibidem

(54) - Ivi, 20

(55) - Ibidem

(56) - Ai donatisti dopo la conferenza, 35, 38

(57) - Sul battesimo contro i Donatisti, 2, 3, 4

(58) - Discorsi, 358, 1

(59) - Epistole, 128, 3

(60) - Discorso 357, 4

(61) - De civ. Dei, 21, 21

(62) - Contra ep. Parmen., 3, 4, 24; 3, 6, 29

(63) - In ep. Io., 7, 11

(64) - Ivi 10, 32; Purgatorio 6, 58

(65) - Inferno, 13, 2-6

(66) - Ivi, 13. 31-33

(67) - Ivi, 13, 58-63

(68) - Ivi, 13, 64-69

(69) - Ivi, 13, 70-72

(70) - F. De Sanctis, Saggi critici, Napoli 1869, p. 424

(71) - Purgatorio, 1, 31-36

(72) - E. Auerbach, Studi su Dante, Milano: 1999, pp. 218-220, passim

(73) - Purgatorio, 1, 71-72

(74) - L. Onder, "Caro", in AA.VV., Enciclopedia dantesca, Istituto Treccani, Roma: 1970, disponibile online presso https://www.treccani.it/enciclopedia/caro_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ Ultima consultazione 18.08.2021.

(75) - Id., "Schietto", in AA. VV., Enciclopedia dantesca, cit., disponibile online presso https://www.treccani.it/enciclopedia/schietto_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ Ultima consultazione 18.08.2021

(76) - Conf. 8, 11, 25

(77) - Ivi, 8, 12, 29

(78) - P. Brown, Agostino d'Ippona, Torino, 1977, p. 335

(79) - Ivi, p. 340

(80) - Ep. 151, 8-9

(81) - James J. O'Donnell, cit., p. 232

(82) - Ep. 151, 3

(83) - Ibidem

(84) - Ibidem

(85) - Paradiso 6, 127-129

(86) - Paradiso 6, 124-126

(87) - Paradiso, 6, 128

(88) - Inferno, 13, 72

(89) - Ep. 153, 2, 4

(90) - Ivi, 3, 8

(91) - Ad fratres catholicos, 2, 2

(92) - De doc. Chr. 1, 16, 15

(93) - Conf. 13, 11, 12

(94) - Ivi, 13, 5, 6

(95) - De Trin. 15, 18, 32

(96) - De agone christiano, 13, 14

(97) - Ibidem

(98) - Regula 1, 2

(99) - De civ. Dei, 15, 22

(100) - Ivi 19, 13, 1: "Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio"

(101) - Sermo 299/D, 1

(102) - Inferno 10, 46-48

(103) - Paradiso, 11, 65

(104) - Ivi, 11, 79-84

(105) - De civ. Dei, 19, 13, 1

(106) - Ibidem

(107) - Inferno, 19, 104-105

(108) - Ivi, 19, 90-93

(109) - Inferno 5, 97-99

(110) - Sermo 53/A, 12