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SOLDATI DI CASSAGO MORTI NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE: Riva Guglielmo

 

Combattimenti alla Bainsizza in territorio sloveno ad agosto 1917

Combattimenti alla Bainsizza in territorio sloveno ad agosto 1917

 

 

SOLDATI DI CASSAGO MORTI NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE 1915-1918

 

RIVA GUGLIELMO

(13.7.1895 - 30.08.1917)

 

 

 

 

L'anno millenovecentodiciotto addi tre febbraio nella Casa Comunale di Cassago. Avanti a me Dalla Benetta Giuseppe segretario per delegazione scritta due gennaio millenovecentodiciotto approvato ufficiale dello Stato Civile di Cassago è pervenuto il seguente atto di morte del Ministero della Guerra che trascrivo per intero come segue:

"Il sottoscritto Capitano Miglio sig. G. Battista incaricato della tenuta dei registri di Stato Civile presso la 45 Compagnia del 5° Reggimento Alpini dichiara che nel registro degli atti di morte a pagina trentasei ed al numero trentaquattro d'ordine, trovasi inscritto quanto segue:

L'anno millenovecentodiciassette ed alli trenta del mese di agosto del combattimento a Flose (altipiano di Bainsizza) mancava ai vivi alle ore quattordici in età di anni ventidue il soldato Riva Guglielmo della 45 Compagnia Alpina al N° 6076-76 di matricola nativo di Cassago Provincia di Como figlio di Giovanni e di fu Sesana Bambina morto in seguito a ferita d'arma da fuoco per fatto di guerra come risulta da attestazione delle persone a piè del presente sottoscritte:

Il caporal maggiore Cinesi Antonio

Il caporale Giussani Giacomo

Per copia autentica il Comandante la Compagnia

Firmato G. Battista Miglio Capitano

 

Eseguita la trascrizione ho munito del mio visto la copia medesima e l'ho inserita nel volume degli allegati a questo registro.

L'Ufficiale dello Stato Civile delegato Giuseppe Dalla Benetta

(Atti di Morte 1916-1925 parte II serie C anno 1918)

 

 

Atto di nascita a Cassago nell'anno 1895 al n. 30

La famiglia nel 1895 abita ai Campi Asciutti al n. 4

 

Giovanni Riva contadino (1861-...) sp. Bambina Sesana

 

1. GUGLIELMO (13.7.1895 - 30.08.1917)

 

 

 

LA BATTAGLIA DELLA BAINSIZZA

Tra il maggio e l' agosto 1917 furono combattute la X e l'XI Battaglia dell' Isonzo, le ultime due sanguinose offensive dirette da Cadorna. L'altipiano della Bainsizza fu conquistato, ma la Germania avvertì la minaccia e decise di intervenire. La vittoria della Bainsizza doveva costare all'Esercito Italiano di lì a poco la ritirata di Caporetto.

 

La decima battaglia dell'Isonzo tendeva ad aprire la strada Gorizia-Lubiana, col presupposto che preventivamente ci fossimo assicurati, sulla sinistra, il possesso dell'altipiano di Ternova, da raggiungere passando per la Bainsizza, e sulla destra il dominio dell'altipiano di Comen, sul Carso. Visuale ampia di manovra quindi, non persistenza di superare idee di attacco frontale, e di conquista di limitati obiettivi territoriali. Cadorna non ebbe mai il miraggio della liberazione di Trieste, alla quale anelavano Governo e opinione pubblica; la considerava una diversione, da effettuare, eventualmente, in concorso con la flotta, se le condizioni l'avessero consentito, senza però diminuire lo sforzo verso l'obiettivo principale, la sconfitta sul campo dell'esercito avversario.

La battaglia doveva constare in due fasi successive, strettamente coordinate fra di loro: dopo un violento fuoco di preparazione di artiglieria, che avrebbe tenuto incerto il nemico sul tratto prescelto per l'azione principale, la "zona di Gorizia", sarebbe passata all' attacco sul medio Isonzo e, conseguito il suo compito, sarebbe stata seguita, senza intervallo di tempo, dall' offensiva della terza armata nel settore dell'Hermada. Allo scopo di ottenere il massimo effetto dal fuoco delle artiglierie, la cui quantità complessiva non era giudicata adeguata ad assicurare la distruzione dei trinceramenti avversari, era previsto il rapido spostamento di circa un centinaio di pezzi tra un settore e l'altro. Una manovra di mezzi, forse un pò complicata, ma l'unica possibile per rendere difficile al nemico il tempestivo concentramento delle sue batterie, per la difesa e la contro offesa. Vi era da tener presente che mentre i tedeschi, sul fronte occidentale, allo scopo di evitare le tremende perdite del tiro di preparazione dell' avversario, avevano cominciato ad attuare i criteri della "difesa elastica" (sostituendo alla linea continua grossi capisaldi, intervallati spesso largamente e talvolta sguarnendo quasi completamente le prime posizioni) gli austriaci erano rimasti fedeli al procedimento della "difesa rigida", che aveva dato buona prova nelle battaglie precedenti e il terreno montuoso, a costoni ripidi nel medio Isonzo, e quello tormentato del Carso, gli dava ragione; sul Carso, però, la difensiva era stata organizzata, piuttosto che su una linea, in una fascia più o meno profonda. Nell'uno e l'altro scacchiere, erano stati costituiti reparti d'urto destinati a sferrare immediati contrattacchi e contrassalti. Per valutare il contributo dato dall'Italia alla causa comune basterà considerare che, ai primi del 1917, su 852.000 combattenti, l'esercito austro-ungarico ne impiegava 452.000 sul vastissimo fronte orientale, 74.000 nei Balcani e 328.000 sul fronte Giulio; e fin dal 14 maggio, ben cinque divisioni affluirono dalla Galizia.

Nel maggio, la V armata del Boroevic aveva una consistenza fin allora mai raggiunta: sui 64 km. di fronte dall' alto Isonzo al mare disponeva di 126 battaglioni e 301 batterie oltre a una brigata e una divisione in seconda schiera, a Ternova e Idria, e a quattro divisioni nel triangolo Comen-Sesana-Trieste, con le batterie proiettate in avanti. Il 12 maggio, l'artiglieria italiana aprì il fuoco su tutto il fronte d' attacco dando inizio alla decima Battaglia dell'Isonzo. Il 14, il fuoco divenne tambureggiante e i corpi d' armata della "zona di Gorizia" mossero contro l'allineamento M. Kuk-Vodice-M. Santo, che costituiva l'avan muraglia dell'altipiano della Bainsizza.

Il Kuk fu conquistato, il Vodice passò più volte di mano in mano, la vetta del Monte Santo fu raggiunta, ma fu dovuta abbandonare; il generale Capello insistette ed ottenne che le artiglierie pesanti rimanessero per proseguire nell' azione ma non riuscì a conquistare il Vodice. Ne risultò un ritardo ed un indebolimento nell' offensiva della III Armata, che iniziata il 23, con cinque giorni di ritardo sulla data prevista, si svolse fuori fase rispetto a quella precedente. Fu tentato un aggiramento da nord dell'Hermada e conseguito qualche successo, annullato da improvviso contrattacco austriaco, condotto in forze, di sorpresa il 4 giugno. Cadorna interruppe la battaglia il 6 giugno, le perdite erano state gravi: 36.000 morti, 96.000 feriti, 27.000 prigionieri e l’alto numero di questi ultimi viene in gran parte spiegato con l'essere le truppe rimaste spesso ferme ai loro posti di combattimento. Gli austriaci denunciarono 7.300 morti, 45.000 feriti, 23.400 prigionieri. I risultati territoriali furono modestissimi e di massima nel solo settore della "zona di Gorizia".

In giugno, in un memorandum Lloyd George insistette nell' idea di un'offensiva in Italia, mettendo in risalto la necessità di impadronirsi di Trieste (che mai l'Austria avrebbe spontaneamente ceduta), distante 14 - 15 km ma l'opposizione dello Stato Maggiore Imperiale britannico fu irremovibile e Robertson, su pressioni dell'ammiragliato, confermò la necessità di attaccare verso le coste del Mare del Nord, per impadronirsi delle basi dei sommergibili. E naturalmente si disse sicuro del successo. Il 24 giugno, Cadorna si incontrò con Foch a S. Giovanni di Moriana, ma di offensiva sul fronte Giulio, col concorso alleato non si parlò nemmeno. Intanto si affacciava grave e impellente il bisogno di sostenere materialmente e moralmente la Russia e, dal 22 a l25 luglio, si tenne una conferenza a Parigi per affrontare il problema e, come al solito, non si trovò altra soluzione che quella di tenere impegnati gli eserciti degli Imperi Centrali, in modo da impedire che facessero massa sul fronte orientale. All' Italia fu chiesto di effettuare due offensive, una in agosto ed una in settembre; ma Cadorna non potè aderire che per la prime: doveva provvedere a ripianare le gravi perdite subite durante la decima Battaglia dell'Isonzo e sull' Ortigara, reintegrare le dotazioni di munizioni, di armi, soprattutto di artiglieria.

Per la undicesima Battaglia riprende il progetto della precedente con la variante che l'offensiva sarà combattuta contemporaneamente su tutto il fronte di attacco; ma sempre con l'intendimento di agire a cavallo della valle del Vipacco. Era raccomandata la conquista dell'Hermada, il caposaldo che sbarrava la strada di Trieste. Il 1° luglio, il generale Capello divenne comandante della II° armata, che sparita la "zona di Gorizia", si estendeva dal Vipaco al Rombon sull' alto Isonzo. Il suo dinamismo o forse ancora di più il desiderio di agire con un proprio disegno strategico lo portarono a falsare gli intendimenti del generalissimo (Cadorna). Egli spostò gradatamente da sud verso nord il centro di gravità dell'operazione. Per tenere incerto l'avversario allargò il fronte d'attacco fino al Mrzli e, con azioni dimostrative, ai monti Rosso e Nero: non solo ne veniva ulteriormente diluita la preparazione d'artiglieria, ma compromesso il coordinamento con l'offensiva che era stata affidata alla III^ Armata, sicchè la battaglia risultò distinta in tre diverse operazioni; Tolmino, Bainsizza, Carso. Cadorna, di ritorno da Parigi si recò ad ispezionare il fronte cadorino e solo il 16 agosto prese visione dell'ordine d'operazione già diramato e illustrato da Capello ai suoi dipendenti; mancavano solo due giorni all'inizio della battaglia e dovette accettare il fatto compiuto.

Il profano si meraviglierà come si sia potuto verificare un tale sfasamento, ma si tenga presente che era ed è nell'ordine delle cose che il comandante di una grandissima unità, qual era un'armata, abbia un'ampia latitudine nell'espletamento della sua azione, egli opera più in base a direttive che non a ordini. Però, bisogna convenire che in questo caso (e altrettanto, e con ben più gravi risultati, avverrà in ottobre), Capello, mosso da enorme fiducia in se stesso, dalla propria ambizione, dal desiderio di offrire qualcosa di suo, di personale, al Paese, giocò alquanto nell'interpretazione di quanto gli era stato commesso e prese la mano al superiore, al punto di considerare obiettivo principale la testa di ponte di Tolmino e di far passare in secondo piano la marcia su Ternova, che era invece il compito fissato per la sua armata. All'alba del 19 agosto, i quattro corpi della III^ Armata attaccarono dal Vipacco al mare, sul Carso, in concomitanza con l'VIII corpo che agiva nella conca di Gorizia e combattendo strenuamente conseguirono notevoli progressi. Specialmente il XXIII Corpo (gen. Diaz) penetrò in profondità verso Selo, nell'intendimento di raggiungere le posizioni di Brestovica e Lokva e poi volgersi a sud e concorrere all' attacco frontale del bastione dell'Hermada, attacco sostenuto dal XIII corpo.

Ma alla sinistra, l'XI e il XXV corpo non raggiungono risultati apprezzabili, tanto che, il 20 Cadorna esprime al Duca d'Aosta il proprio pensiero: persistere nell'azione solo se "il combattimento risulti impegnato con deciso vantaggio per le nostre truppe e le vicende si delineino promettitrici di concreti successi nel quadro generale delle operazioni". Egli, cioè, vuole evitare che si passi ad una fase di logoramento. E, infatti, l'Hermada da lungo tempo era divenuta una fortezza gigantesca. Come in una colorita narrazione ha scritto un tenente austriaco, essa era la chiave di volta del fronte dell'Isonzo, l'"indomabile bestia" che doveva resistere. Su mille metri di linea si avevano trenta km di trincee, camminamenti, ripari, osservatori blindati, dozzine di caverne, nidi di mitragliatrici ed artiglierie su artiglierie. Battuta da tre lati, specialmente da punta Sdobba una lingua di terra intersecata da canali, dove su pontoni e su piazzole di cemento erano postate settanta batterie di grosso e medio calibro, difficili da colpire, l'Hermada resistette e vani risultarono gli assalti delle fanterie italiane, che muovevano dalle loro linee in certi punti distanti non più di 40 metri da quelle austriache, così da considerare comune difesa il groviglio di reticolati e di cavalli di frisia. L'intervento dei rincalzi austriaci stabilizzò la lotta, furiosi contrattacchi portarono alla riconquista di gran parte del poco terreno perduto. Il 29, Cadorna ordinò l'arresto dell'offensiva, ma la III^ Armata, con la sua pressione continua evitò che l'avversario potesse trasferire le sue riserve sul settore della II^ Armata. L'azione di questa si scinde in due parti: la Bainsizza è un altipiano che scende con fianchi ripidi sull'Isonzo, sul solco Idria-Chiapovano, sulla piana di Gorizia. La conquista del Kuk-Vodice non rappresentava che la salita di un solo gradino, ma consentiva che da qui si desse l'assalto al grande bastione, lo si raggiungesse, si superasse l'orlo, si scendesse nella conca di Vrh per salire sulla parte settentrionale della Bainsizza. L'avanzata è profonda, raggiunge e passa la dozzina di km, il nemico è in rotta e nella notte sul 24 si sottrae alla stretta; i nostri soldati si trovano indecisi, impreparati davanti ad un vuoto al quale non erano più avvezzi, sono presi come da una forma di agorafobia. Il nemico riesce ad imbastire una linea, sulla quale la spinta dei nostri si spegne, anche perchè mancano i rincalzi ed il tiro di artiglieria bisogna riorganizzarlo. Si arriva quasi al vallone di Chiapovano, ma non vi si scende, pur avendo effettuato un'avanzata in ampiezza e profondità, mai conseguita da altri eserciti sul fronte occidentale.

In questa fase, mirabile fu l'opera dei genieri che gettarono ponti e passerelle sull'Isonzo, battuti dal tiro delle batterie e delle mitragliatrici, splendido l'ardimento dei fanti e degli alpini che forzarono il passaggio del fiume, di fronte al nemico, ad un certo punto ridotti a servirsi di un solo ponte, quello di Dopplar e di una stretta passerella. Dei ponti di Ronzine e di S. Peter se ne riuscì a varare uno sul quale passò la brigata "Ferrara" e, alla sera del 19 agosto, sulla sinistra dell'Isonzo, a nord del costone dell'Aviscek, non si trovavano che questa brigata e due battaglioni alpini, il Pelmo e l'Albergian. Ma la situazione apparve grave agli austriaci, più di quanto non lo fosse in realtà, mentre riserve affluivano dal fronte russo; Capello, esaltato oltre il dovuto dal successo, ordinò addirittura alla cavalleria di lanciarsi all'inseguimento.

Ma alla sinistra, i Lom, che dominano la conca di Tolmino, non erano stati conquistati e ogni attacco, la sera del 25 viene arrestato e respinto. In sintesi, sul fronte della II^ Armata si era ripetuto, a fronte rovesciato, quanto era avvenuto durante la Straffexpedition: le ali avevano resistito, il centro aveva ceduto, ma non era stato sfondato. Il Comando Supremo, il 26 agosto, diede l'ordine di sospendere l'azione e lo ripetè perentoriamente e definitivamente il 29, vista anche l'impossibilità di trasferire nuovamente l'asse di attacco sul fronte della III^ Armata, soprattutto per difetto di munizioni. Il consumo era stato superiore ad ogni previsione: dal 18 agosto ai primi di settembre (quando si cessò di combattere anche sul Monte Santo) gli austriaci avevano sparato 1.500.000 di colpi di piccolo calibro, 250.000 di medio calibro, 22.000 di mortai e non minore era stato il consumo da parte italiana.

Le perdite furono gravissime: gli austriaci denunciarono 10.000 morti, 45.000 feriti, 30.000 dispersi, 28.000 ammalati, oltre 150 pezzi d' artiglieria; gli italiani lamentarono 40.000 morti, 108.000 feriti, 18.000 dispersi. Ma si poterono vantare notevoli vantaggi territoriali. L'impalcatura difensiva austriaca, che aveva appena vacillato sotto le "spallate" dell'autunno 1916, ora scricchiolava paurosamente, tanto che il Comando in capo dovette confessare all'alleato tedesco di non ritenersi in grado di sostenere una nuova battaglia difensiva.

La Germania avvertì la minaccia e decise di intervenire massicciamente. La vittoria della Bainsizza doveva costarci di lì a poco, la sconfitta inattesa di Caporetto.

 

 

Il Battaglione alpini Morbegno (composto dalle compagnie 44-45-47) fu il primo a sperimentare la divisa grigio-verde. La divisa alpina era infatti inizialmente degli stessi colori dell'esercito piemontese: giubba turchina e pantaloni bianchi. La questione della mimetizzazione fu dibattuta tra 1904 e 1906 su sollecitazione del presidente della sezione di Milano del CAI, Luigi Brioschi. Nell'aprile 1906, per un esperimento pratico, furono scelti gli alpini del Battaglione alpini Morbegno di stanza a Bergamo. L'esperimento fu un successo, e nacque così il "plotone grigio", composto di 40 uomini della 45.a Compagnia del Morbegno, che fece la sua prima comparsa ufficiale a Tirano.

Il reggimento dal 18 dicembre 1911 arriva a Derna (Libia) per la Campagna di Libia dove rimane fino al 7 novembre 1912.