Percorso : HOME > Cassago > Il Novecento > Ambrogio Giussani

Ambrogio Giussani: IL MIO DON GIOVANNI

don Giovanni Motta davanti alla grotta di Lourdes

don Giovanni Motta davanti alla grotta di Lourdes

 

IL MIO DON GIOVANNI

di don Ambrogio Giussani

 

 

Don Peppino ha parlato con molta concretezza dei rapporti con don Giovanni. Ha parlato della sua giovinezza, dei suoi incontri con il parroco in oratorio, delle difficoltà con i fedeli, della superficialità con cui veniva alle volte giudicata la sua condotta di vita. Mentre parlava dentro di me dicevo che don Giovanni forse non ha bisogno di tante parole, perché sono le sue opere che parlano. Il fatto stesso che ne parliamo significa che ha lasciato qualcosa nel cammino della sua comunità. Ma come tutte le cose belle, anche questa l'abbiamo scoperta dopo, perché i veri valori spesso non vengono subito percepiti come tali.

Debbono avere il loro corso, la loro decantazione, ma poi affiorano e diventano un punto di forza per cominciare un cammino di vita spirituale. Il Signore agisce anche in queste situazioni così contrastanti: è successo a me, è successo don Peppino. Don Motta è stato per noi e per chissà quanti altri uno strumento di Dio. Ogni volta che ritorno a Cassago c'è un fatto che mi impressiona: di solito passo dal cimitero per rendere omaggio alle tombe dei sacerdoti che hanno operato a Cassago facendo del bene e lasciando un buon ricordo dentro di noi.

Ebbene io vedo che la tomba di don Motta ha sempre dei fiori e dei lumi, il che mi convince che la sua persona è ancora vitale e ha ancora qualcosa da dire alla gente di questo paese. Io conobbi don Motta nel 1948. Quell'anno io frequentavo il ginnasio presso il seminario di San Pietro a Seveso. Conobbi dunque don Motta da studente, prima ancora che diventasse parroco di Cassago. Era il mio professore, ma la sua fama andava oltre la cerchia dei suoi studenti.

Tutti lo conoscevano: a differenza dei suoi colleghi che arrivavano a far lezione con libri vistosi sotto il braccio e con portamento compassato, quel tanto da generare un po' di timore, don Giovanni giungeva saltellando e cantando senza neanche un libro. Tutti lo osservavano. La scena era veramente straordinaria in quell'ambiente così severo dai corridoi lunghi e bui. Le sue lezioni poi si svolgevano senza formalità e procedevano in un discorso tranquillo parlando di greco e di latino. Io credo che questo suo modo di agire riveli che interiormente lui era veramente libero. Quando un uomo è libero non ha più paura di nessuno e di niente.

Proprio a Seveso appresi la notizia della sua nomina a parroco di Cassago e forse sono stato il primo a venirne a conoscenza. Subito mi feci conoscere come suo parrocchiano e da quel giorno è nata una specie di fiducia reciproca e di confidenza. Questo rapporto divenne profondo sia perché, essendo chierico, dovevo far riferimento al mio parroco, cioè lui, sia perché lo frequentai anche durante le vacanze estive. Don Giovanni mi accolse paternamente e mi diede molta fiducia. Mi ricordo che io facevo fatica negli studi in seminario, ma lui mi incoraggiava e mi sosteneva sempre. Di questo lo devo ringraziare con grande riconoscenza.

Lo devo ringraziare anche per i consigli, per i suggerimenti, per quelle sue frasi brevi ma significative, capaci di entrare in profondità dentro di noi. Quando arrivò a Cassago l'impatto non fu dei migliori. Non era un parroco vecchia maniera: il suo carattere aperto, gioioso e scanzonato lasciò la gente un po' perplessa. Il suo comportamento destava meraviglia fra i suoi parrocchiani, che non avevano mai visto il parroco girare in paese in bicicletta con un cappello bianco canticchiando. Posso citare anche altri episodi che lasciarono interdetto anche me. Mi ricordo di una volta che morì una persona. Lo avevo accompagnato per dare l'estrema unzione: uscito sul ballatoio si era poi messo a cantare allegramente. La gente, ma anch'io, si meravigliò. Poi si calmò. Io volevo chiedergli perché cantava, ma non osavo. Ho capito dopo il perché. Un altro aspetto del suo carattere che mi ha impressionato è stato il suo modo di trattare la gente. A volte era molto espansivo, a volte era bloccato.

Questo aspetto non l'ho mai capito bene, tuttavia credo che dipendesse dalle sue sofferenze interiori. Don Giovanni aveva un animo semplice, trasparente e quando incappava in situazioni complicate o furbesche non riusciva a reagire e non continuava più nei discorsi.

La sua estrosità non era frutto di leggerezza o di superficialità, ma si coniugava piuttosto con la sua profonda fede e la sua semplicità di spirito, la sua capacità intellettuale e la sua umiltà. Io credo che vivesse in trasparenza la sua vocazione libero e senza condizionamenti. Quel suo modo di essere era la faccia esteriore del mondo in cui viveva e in cui si trovava a gioire della bellezza della vita come un bambino. Da un lato aveva una ricchezza culturale molto forte e dall'altro una sensibilità fine e aperta ai problemi degli altri. Tante volte sono salito sulla sua topolino quando andava a Villasanta o in altri posti. Mi ricordo anch'io gustosi episodi, specialmente quando si trattava di far benzina. Una volta una signora gli diede i soldi per una messa mentre si trovava poco distante dal benzinaio. La signora non si era ancora allontanata che lui decide di fermarsi a far benzina usando proprio i soldi appena ricevuti. La signora se ne accorse e ne ebbe quasi a male, ma disse che erano ben usati. Don Giovanni era così ingenuo d'animo che non si poneva questi problemi di etichetta, non aveva preconcetti, non si preoccupava di quello che avrebbe detto la gente quando sentiva la bontà del suo agire.

Quando era in macchina innanzittutto cantava, cantava qualsiasi canzone, e poi d'un tratto si interrompeva e incominciava discorsi seri. Mi coinvolgeva, mi faceva delle domande ed io alle volte rispondevo, altre volte non riuscivo a rispondere. Quando non rispondevo lasciare cadere il discorso e riprendeva a cantare fino a quando ritornava sull'argomento per spiegarmelo con calma. A me piaceva quel suo modo di procedere e mi piacevano anche gli argomenti che trattava. Discorreva della pastorale, dei problemi dell'oratorio, delle difficoltà con le persone e concludeva dicendo: "cercheremo di far qualcosa ... "

Reclinava il capo dolcemente, quasi si stesse confidando e non mi accorgevo che quella era una preghiera. Era un affidarsi al Signore più che a se stessi. Mi preme anche ricordare un altro aspetto del suo carattere: è noto che qualche volta usava le mani con i ragazzi. Oggi non si usa più, ma a quei tempi era una consuetudine generale in famiglia come nella società. Mi ricordo che questo particolare mi ha sempre un po' infastidito e una volta gliel'ho detto. Mi rispose: " Se sapessi quanto soffro quando questa mano dà uno schiaffo." Credo che fosse proprio sincero in questa sua affermazione. Ma quello che più mi ha impressionato frequentandolo è stato il suo modo di stare in chiesa. Don Giovanni passava ore e ore standosene in ginocchio a pregare.

Come chierichetto ho potuto notarlo tante volte tra una messa e l'altra mentre stava sul suo inginocchiatoio in silenzio.

Non prendeva un mano un libro, non aveva il messale da leggere, ma pregava così a cuore aperto davanti al suo Signore. L'unico motivo per cui si alzava era la richiesta di una persona di confessarsi. Per questo era sempre pronto prima della messa. Credo che qui si veda chiaramente il suo rapporto profondo con Dio, che determinerà poi la sua azione pastorale e il suo modo di agire. Don Giovanni era un uomo di preghiera e debbo dire che questo ricordo mi ha aiutato molto nei miei primi anni di sacerdozio. Chi non ricorda poi la sua predicazione ?

Con il suo dire un po' ovattato e dalle cadenze un po' sonnolente, quasi fossero cantilene, si addentrava nella spiegazione dei testi biblici con emozioni intuitive che non seguivano una logica lineare ma erano espressioni di un soliloquio che si svolgeva nella sua anima. Questo suo modo di procedere generava difficoltà nei fedeli che non riuscivano a seguirlo sempre. Però al di là di questa originalità stava una grande profondità di pensiero. Su una semplice frase della sacra scrittura era capace di riversare tutta la sua attenzione sia con la mente che soprattutto con il cuore e quindi approfondiva fino a toccare la sostanza del pensiero biblico. Noi che ascoltavamo, tante volte restavamo in superficie e non riuscivamo a seguirlo perché non volevamo farci coinvolgere. Ci accontentavamo di un racconto, di un episodio, di un fatterello, ma difficilmente avevamo il coraggio di volare alto toccando le fibre del cuore e dell'anima. Don Giovanni invece andava avanti nel suo mondo di fede con grande convinzione. A distanza di tempo io vedo emergere dalla sua predicazione questa sua attitudine meditativa, quella sua capacità di cogliere l'essenziale e di esprimerlo con la dolcezza del suo ricco modo di esprimersi.

Mi piace ricordare anche un altro aspetto della sua vita: la povertà. Finita la messa io andavo a casa sua tutte le mattine e mi fermavo a parlare per programmare il resto della giornata. Don Giovanni se ne stava in piedi e mangiava un pezzo di pane con del cioccolato. Se la domestica gli preparava un po' di caffè lo beveva, altrimenti ne faceva a meno. Anche il resto della sua giornata era parco: non faceva pranzi e non aveva le abitudini dei sacerdoti di allora di servire pranzo o cene di gran classe. Vorrei qui accostare don Giovanni a don Enrico Colnaghi, che pure ho conosciuto.

Diversi per età e per carattere, sono però uniti da un unico spirito che è quello di testimoniare una fede che non è propria ma che è radicata nel loro cuore, una fede che li fa soffrire e che li fa anche gioire. Questa fede per loro ha la capacità di far superare tutte le difficoltà. Io ho trovato in loro e soprattutto in don Giovanni un esempio di sacerdote umile e pietoso, ricco di saggezza e soprattutto limpido nel cuore e semplice di spirito. Io credo che questa sia la grandezza di quest'uomo e mi spiego così perché ha lasciato nella gente un ricordo così vivo e attuale. A lui devo molto, perché mi ha aiutato sempre. Mi è stato vicino anche quando sono diventato sacerdote. Il giorno che dovetti andare a Milano per conoscere la mia destinazione gli dissi che non sarei andato in macchina perché mi sarei sentito male. Don Giovanni per nulla scomposto mi rispose che sarebbe andato lui e poi mi avrebbe telefonato.

Cosa che poi fece. Questa sua capacità di mettersi al servizio degli altri dipendeva dal suo modo di vivere la fede. La fede per lui non era un giochetto umano ricco di sotterfugi ma un bene prezioso, il più prezioso. Lo vidi ancora dopo, quando ritornavo in paese, fino ai giorni della sua malattia.

Soffriva molto ma non si lamentava. Aveva un grande desiderio, che più volte mi ha espresso in macchina durante i nostri viaggi: voleva costruire una cella vicino al matroneo per vivere momenti di preghiera. A quel tempo aveva già intrapreso a meditare in modo abbastanza approfondito le opere di sant'Agostino e desiderava un luogo adatto per quelle riflessioni. Non credo però che sia riuscito a realizzare questo suo sogno.

Ciò tuttavia mi ha fatto capire quale era la sua logica profonda, quella cioè di una intimità con Dio da cui traeva tutta la sua ricchezza.