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Raffaele Balzano: Lavorazione del ferro alla Pieguzza

Frammenti di materiale ferroso lavorati alla Pieguzza

Frammenti di materiale ferroso lavorati alla Pieguzza

 

LA LAVORAZIONE DEL FERRO ALLA PIEGUZZA

Raffaele Balzano

 

 

Fra il materiale rinvenuto durante gli scavi del 1967 presso la vasca di età romana alla Pieguzza spiccano per interesse ed originalità una decina di frammenti di materiale ferroso provenienti quasi sicuramente da una fucina di fusione di questo metallo, che probabilmente esisteva in loco alla Pieguzza. La grandezza dei pezzi non è uniforme e il loro peso varia da 20 a 500 grammi. Per quanto non sia stata sviluppata alcuna stratigrafia all'epoca del rinvenimento, non c'è dubbio, grazie alle testimonianze tardive di chi partecipò agli scavi, che si tratti di materiale proveniente da strati profondi preromani. La presenza di questi pezzi di ferro fusi con una tecnica ancora primitiva è molto significativa, poiché conferma quanto l'analisi delle ceramiche già suggerisce e cioè che gli insediamenti romani della Pieguzza si sovrapposero a preesistenze preromane. Il contesto generale in cui sembra possibile inserire questi reperti ferrosi è quello dell'ambiente artigianale gallo-celtico.

Altri due pezzi di materiale ferroso furono rinvenuti nel 1996 in un appezzamento di terra sottostante l'area della Pieguzza in proprietà Proserpio Renzo, che procedette al loro recupero. I due pezzi probabilmente dalla primitiva localizzazione in zona Pieguzza erano lentamente scivolati lungo il declivio per l'azione combinata del loro peso e del trascinamento dell'acqua. Com'è noto uno degli aspetti più interessanti nell'economia delle popolazioni indigene celtiche preromane padane fu la rapida nascita di attività artigianali, fra cui va sicuramente annoverata proprio la siderurgia. In particolar modo é fra il IV e il I secolo a. C. che le tribù gallo-celtiche fecero proprio l'uso del ferro.

La scoperta dell'uso artigianale del ferro avvenne dunque in un'epoca relativamente tarda rispetto all'Europa meridionale e sud-orientale. Lo sviluppo di questa industria fu tuttavia veloce sia a motivo delle indubbie capacità delle popolazioni celto-galliche sia per l'influenza esercitata da popoli meridionali dotati di una tecnica più avanzata. Le testimonianze più interessanti di questo processo sono fornite dall'archeologia, benché non sia stato ancora chiarito del tutto quali siano state le effettive origini della produzione siderurgica. La grande diffusione di armi in ferro, spade, scudi, lance, oggetti di vario genere del IV-III secolo a. C. annuncia che era ormai iniziata una larga produzione su grande scala. Il comense Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) ci fornisce utili ragguagli sull'uso del ferro, che nella sua Naturalis Historia (34, 14) definisce “ottimo e pessimo strumento della vita umana” perché è sì adatto a tagliare le pietre per costruire case, per preparare i campi alle coltivazioni, a potare le viti, ma è usato pure per costruire armi atte a uccidere e a rendere ladri gli uomini. Scrive inoltre Plinio che il ferro si trovava quasi dappertutto e ricorda, erroneamente, che non conta solo la qualità del ferro, ma anche quella della sorgente d'acqua usata per temprarlo, precisando che “quest'acqua dove è migliore ha dato maggior fama per rendere nobile il ferro, siccome Bilbili e Turiassone in Spagna e Como in Italia, benché qui non esista vena di ferro.” Donde provenisse il ferro lavorato nella regione comasca non è noto: forse proveniva dalla Spagna, come attesta Strabone (Geographia, V) o forse dalle miniere della Valsassina. Non è da escludere una provenienza transalpina o anche dall'Etruria. Uno studio attento della composizione chimica dei residui di lavorazione potrebbe dare interessanti risultati dato che il minerale di ferro presenta una diversa composizione in funzione alla sua provenienza geologica. Ad esclusione della pirite, un bisolfato di ferro FeS2 , nel passato furono usate particolarmente l'ematite, un ossido di ferro, Fe2O3 , la magnetite, Fe3O4 , la limonite, la siderite, un carbonato ferroso, FeCO3 , di cui è ricco il bresciano e la bergamasca, nonché il minerale ematitico-limonitico dell'isola d'Elba.  Mentre per i periodi più antichi sono noti pochi siti per la fonditura del ferro, fra cui va significativamente ricordata Parre in Val Seriana (Poggiani Keller, Parre, località Castello, 1985), in età più recente nel II e I secolo a. C. relativamente numerosi sono le località che hanno restituito manufatti per la prima lavorazione del ferro (Svizzera, Germania occidentale, Baviera, Burgenland, Boemia, Francia ecc.). I primi distretti minerari europei per la lavorazione intensiva del ferro sembra che siano nati proprio in quest'epoca: in qualche caso erano in funzione miniere sia a cielo aperto che sotterranee. Ne parlano Strabone (Geografia 4, 2, 2), Tacito (Germania 43).

Anche Cesare (De Bello Gallico, 7, 22) testimonia queste loro attività: “con gallerie sotterranee i Galli facevano il vuoto sotto al nostro terrapieno facendolo crollare e in ciò riuscivano tanto più facilmente perché da loro sono molte le cave di ferro e conoscono e usano ogni specie di gallerie.” Le popolazioni gallo-celtiche usavano due tipi principali di forni fusori. Il primo modello era un grande forno a cupola del diametro di circa 100-120 cm, il cui funzionamento non è ancora del tutto noto, dato che non si comprende come potesse avvenire l'aerazione del voluminoso carico di materiale e di carbone di legna. Di tecnologia diversa era invece la cosiddetta fornace a fossa di scorie, con un diametro ridotto di circa 35 cm e che consisteva in una fossa a forma di calderone in cui venivano raccolte le scorie. Al di sopra era impiantata una sovrastruttura tubulare alta 70-100 cm la cui origine è forse preceltica. Entrambi i tipi producevano un ferro spugnoso, a carburazione irregolare, che doveva essere nuovamente riscaldato in speciali fucine e riforgiato in lingotti malleabili di circa 2,5 Kg. Questa lavorazione era dispendiosa e comportava consistenti perdite di metallo. I forni dovevano essere prodotti con opportuni materiali refrattari poiché a differenza del rame che fonde a 1083 °C, dello stagno che fonde a 232 °C e dei rottami della loro lega, il bronzo, che fonde tra i 900 e 960 °C, il ferro fonde a temperature superiori ai 1200 °C. Il materiale ferroso rinvenuto alla Pieguzza sembra ascrivibile a questa tipologia, presentando un aspetto spugnoso e un irregolare assorbimento del carbonio durante la fase di fusione. Purtroppo non è stato possibile mettere in evidenza resti di forni locali, poiché gli scavi condotti nel 1967 non prestarono attenzione a questo aspetto.

Probabilmente esisteva una piccola fucina locale che bastava a soddisfare le esigenze di un insediamento lateniano, che ha lasciato abbondanti tracce di sè nel materiale ceramico databile a quest'epoca e proveniente dalla medesima area. I prodotti locali di questa fucina potrebbero essere gli stessi oggetti in ferro scoperti a più riprese nelle tombe adiacenti all'area della Pieguzza. Non è possibile allo stato attuale delle ricerche stabilire se l'attività di questa fucina fu limitata nel tempo o proseguì durante l'età della romanizzazione. In quest'epoca (I secolo a. C.) si costruivano ormai numerosissimi manufatti in ferro, utensili da artigiano, attrezzi di uso domestico, armi. La qualità di questi prodotti era spesso eccellente e le complesse tecniche usate, tra cui la difficile saldatura tra ferro forgiato e l'acciaio al carbonio, rivelano la grande abilità degli artigiani di quel tempo. Le lunghe ma sottili spade galliche, a differenza dei corti gladi costruiti in Etruria, erano di ferro dolce e questo spiega quanto tramanda Polibio nelle sue Storie e cioè che tali spade durante gli scontri si piegavano, tanto da costringere i guerrieri a raddrizzarle con il piede. La loro lavorazione prevedeva comunque un arricchimento di carbonio tenendo il ferro a lungo sui carboni ardenti della fucina per poi raffreddarlo in acqua. Risale proprio a questo periodo l'uso dell'acciaio indurito con la tempra, che in poco tempo soppiantò le lame in ferro battuto di qualità inferiore. L'area del triangolo lariano e in particolare la Valsassina conobbero certamente una diffusa applicazione di queste nuove metodologie siderurgiche, che si inserivano in una lunga tradizione locale di lavorazione di questo metallo. Numerossime sono infatti le tombe specialmente della Valsassina, che hanno restituito corredi tombali di guerrieri celti ricchi di armi e di utensili in ferro. Questi prodotti in parte provenivano da culture d'oltralpe, forse dal Norico, ma in parte erano prodotti dall'artigianato locale, il cui sviluppo era favorito dalla presenza in loco di miniere ferrose, il cui sfruttamento proseguì sino al medioevo.

La straordinaria abilità e professionalità delle attuali industrie della lavorazione del ferro diffuse nel lecchese e in Valsassina in particolare, sono indubbiamente la moderna espressione di questa ininterrotta e tradizionale capacità di trattare il ferro, le cui origini rimontano all'età celtica.