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Percorso : HOME > Cassago > Età Celtica > Popolazioni gallo-celticheIvo Rigamonti: Popolazioni gallo-Celtiche lombarde
Fibula di età gallica proveniente dalla Pieguzza
LE POPOLAZIONI CELTO-GALLICHE LOMBARDE E I LORO RAPPORTI CON LA CIVILTA' ROMANA NEL II-I SECOLO a. C.
Ivo Rigamonti
Nel III secolo a. C. i Romani si trovano impegnati a risolvere il grave problema della sicurezza dei loro confini settentrionali. Inizia una graduale penetrazione verso il centro e il nord dell'Italia, dove le tribù più forti e importanti erano costituite dagli Insubri fra Ticino e Adda e dai Cenomani fra Adda e Mincio. I primi erano nemici dichiarati di Roma, i secondi «alleati». Dopo aver inflitto ai Boi, agli Insubri e ai Gesati, mercenari provenienti dalle Gallie, una memorabile sconfitta a Talamona, presso Orbetello, nel 224 a. C. i Romani con l'aiuto dei Cenomani (una popolazione che abitava nel bresciano) superarono per la prima volta il Po, affrontarono nuovamente gli Insubri e nel 223 li batterono sull'Adda occupando Milano e devastando il territorio sin sotto le Alpi. Dopo che i Romani si furono ritirati gli Insubri chiesero la pace.
Scrive Polibio che "così ebbe termine quella guerra contro i celti ... che fu più terribile di ogni altra ... perché in ogni loro impresa i Galli si lasciano guidare dall'impulso improvviso piuttosto che dal calcolo ragionato." La calata di Annibale nel 218 ridiede tuttavia nuova speranza al desiderio di rivincita dei celti traspadani. Per quanto le conseguenze non durassero a lungo, ciò bastò perché i rapporti fra le popolazioni transpadane e Roma subissero un drastico mutamento di rotta. In un primo tempo Roma, ancora spossata dal lungo braccio di ferro che l'aveva militarmente contrapposta a Cartagine, dovette subire l'offensiva dei Galli, che in questa prima fase appaiono concordi e uniti nei loro intenti. Di fronte a questo urto gallico nel 200 a. C. la città di Piacenza cade, mentre Cremona resiste. La risposta romana tuttavia non si fa attendere e già nel 197 a. C. Caio Cornelio Cetego riesce a sconfiggere la popolazione dei Cenomani sul fiume Mincio e li costringe ad un patto di alleanza, il foedus. La spinta romana non si arresta e l'anno seguente il console Marco Claudio Marcello, superato l'Adda, entra nell'ager comense e occupa Comum sconfiggendo gli Insubri e i Comenses.
Narra il fatto Tito Livio ricordando che "il console Marcello subito valica il Po e guida le legioni nel territorio comense, dove gli Insubri, spinti alle armi dai Comensi, tenevano campo. I Galli, infuriati per la sconfitta dei Boi avvenuta pochi giorni prima, si avventarono dapprima così duramente da respingere le avanguardie. Quando Marcello se ne accorse, spinse contro il nemico tutti i cavalieri latini, poiché temeva venissero respinti subito, avendovi contrapposto la coorte dei Marsi. Dato che nel primo e nel secondo scontro aveva retto il nemico che si batteva ferocemente, anche il resto dell'arma romana rinfrancata prima resistette, poi spinse in avanti aspramente le insegne. Allora i Galli non sostennero oltre la battaglia e voltatisi in rotta fuggirono. In quella guerra Valerio Anzia scrive che vennero uccisi più di quarantamila uomini, prese 87 insegne militari, 732 carri e molti torques d'oro, uno dei quali di gran peso, Claudio dice venne portato in dono al Campidoglio nel tempio di Giove. Quel giorno vennero espugnati e distrutti gli accampamenti dei Galli e qualche giorno dopo fu presa la città di Como; di seguito 28 castelli si consegnarono al console." I Romani sottomisero dunque le popolazioni montane, proprio là dove era stata condotta la guerra dagli indigeni, che probabilmente confidavano nelle insidie della zona, ma evidentemente i Galli non avevano un sistema strategicamente organizzato, dato che i castelli di quel territorio si arresero subito. Questi castelli non erano località fortificate, ma luoghi di raduno e probabilmente capoluoghi delle varie tribù federate che facevano capo a Como. In questa federazione non doveva essere compreso il territorio di Lecco e quello a oriente del Lario. Poco è noto tuttavia a riguardo della struttura politica delle popolazioni locali. Dopo questa resa i Romani stringono un foedus nel 196 a. C. con i Comenses. Nel 194 a. C. è la volta di Mediolanum, che cade nelle mani di Lucio Valerio Flacco ed è soggetta alla deditio.
Insubri e Boi subiscono in questa occasione una sconfitta che diventa un punto di non ritorno quando lo stesso anno Publio Cornelio Scipione Nasica vince definitivamente i Boi. Alla sconfitta seguì inevitabile la loro espulsione. Solo a Brescello e forse in qualche altra località vennero concentrati i pochi superstiti, ai quali si applicò quasi certamente l'onere del foedus. Altri gruppi celtici furono accettati in posizione subalterna nel territorio delle colonie e costituirono un serbatoio di manodopera indigena a uso delle proprietà fondiarie romane, la cui estensione superava spesso la disponibilità e la capacità di lavoro degli stessi proprietari romani, in un'epoca in cui non era ancora diffuso il lavoro servile degli schiavi. Gli Insubri non furono trattati come i Boi, tuttavia lo stato insubre, una realtà politica e territoriale che si estendeva a nord del Po e che aveva la sua capitale a Milano, fu smembrato. Gli Insubri dovettero accettare l'indipendenza dei numerosi popoli che fino ad allora avevano dominato: a nord i Romani resero autonomi i Comensi e gli Orumbovii, mentre a ovest l'autonomia toccò i Libici, i Salluvii, i Laevi, i Marici e i Vertamocori, tanto per citare le popolazioni più importanti. Ognuno di questi popoli stipulò separatamente un proprio foedus con Roma e l'effetto finale fu la nascita di tanti staterelli che probabilmente corrispondono alla Colonie fittizie note nell'89 a. C. Il territorio assegnato agli Insubri si ridusse drasticamente, limitato dai fiumi Ticino ed Adda da ovest ad est, esteso a nord un poco al di là dell'attuale Monza e a sud non giungeva più al Po dopo la confisca dei territori assegnati a Cremona.
Gli Insubri persero il diritto di portare le armi, tuttavia grazie alla sua intraprendenza questa popolazione non cessò di essere un elemento trainante della cultura e dell'economia di tutta la regione transpadana. Nonostante la vittoria i Romani in questo periodo manifestano una relativa insicurezza e una scarsa fiducia nella lealtà dei popoli gallo-celtici transpadani federati. Ne abbiamo conferma da un episodio verificatosi nell'anno 187 a. C. quando Furio Crassipede decise di sequestrare le armi agli "alleati" Cenomani nel timore di una loro defezione. La diffidenza verso le popolazioni celto-galliche è ancora ben evidente nel II secolo a. C. inoltrato e provoca uno strano percorso della via Postumia, una nuova via strategica che evita accuratamente di passare sul territorio insubre per restare il più possibile in territorio romano. In questo II secolo a. C. poche sono le popolazioni indigene che riescono a riemergere dal disastro bellico.
A occidente i Libici sembrano i più attivi assieme ai Salluvii, a oriente troviamo i Cenomani mentre al centro prevalgono gli Insubri. La disposizione territoriale di queste popolazioni e soprattutto il periodo di pace imposto da Roma favoriscono un fecondo sviluppo economico, che trova nuovi stimoli dalla stabilità politica e dalla facilitata mobilità interna sia degli uomini che dei prodotti. La pax romana alla lunga produce una sostanziale integrazione delle diverse popolazioni e in ultima analisi del territorio stesso, che acquista nel II-I secolo a. C. una propria unitarietà complessiva, che si estende fino alle pendici delle Alpi. I confini alpini diventano in questo periodo un confine reale, che necessita di un presidio militare stabile per poter regolare le contese e i difficili rapporti con le popolazioni alpine. La disputa fra Libici e i Salassi della Val d'Aosta nel 143 a. C. per lo sfruttamento dei filoni auriferi della Bessa, nonché la distruzione di Como da parte dei Reti, sono episodi che rivelano in tutta la sua gravità la questione della sicurezza dei confini settentrionali delle popolazioni galliche lombarde. Dopo una prima serie di iniziative militari romane ad opera di Marcius Rex nel 118 a. C. e di Licinio Crasso con la sua campagna del 95-94 a. C. il problema verrà infine definitivamente risolto da Augusto con le vittoriose guerre alpine. In questa fase le popolazioni transpadane si trovano coinvolte a fianco dei Romani, di cui condividono i medesimi interessi verso i valichi alpini. La situazione che scaturisce da questo ampliamento dei confini verso nord modifica il ruolo e la funzione delle popolazioni padane, che ora si trovano maggiormente collegate agli interessi delle popolazioni meridionali, un processo, questo, che comporterà una progressiva integrazione con le culture peninsulari.
Assieme agli stimoli culturali dal sud giungono anche i prodotti ed è così che si nota l'introduzione dei vasi a trottola, della coltura della vite e del consumo del vino, di mode di vestirsi, della moneta. La transpadana gallo-celtica perde nel II e I secolo a. C. quei tratti di isolamento in cui era sino ad allora rimasta ed inizia un fatale confronto con la cultura italico-romana, che alla lunga sarà destinata a prevalere. I Romani stessi, da tempo presenti militarmente, non nascondono il loro interesse per una regione, che sta rapidamente modificando i suoi caratteristici insediamenti, tipicamente celtici, fondati sul presidio militare per sostituirli con un nuovo concetto di occupazione del territorio che ne privilegia lo sfruttamento agricolo. Questa evoluzione dell'occupazione del territorio, accettata e forse favorita dai Romani, non sembra che abbia modificato la atavica organizzazione delle tribù celtiche che rifiutarono sempre la preminenza politica dei centri maggiori. Tale struttura amministrativa non scomparve e in età romana la distribuzione della popolazione celtica sul territorio sopravvisse nella istituzione dei vici. La relativa autonomia dei villaggi non era in contrasto con la struttura sociale prevalentemente aristocratica che prevedeva reguli a capo di gruppi dispersi e con specifici nomi etnici. Questi nobili sostanzialmente sono in sintonia con la grande proprietà romana e ne assimilano la cultura e le prospettive economiche. Ben presto risiederanno in città. Sembra certo che la piccola proprietà non sia pressoché mai esistita, né prima né dopo i Romani, dato che in Transpadana al contrario della Cispadana non avvennero distribuzioni coloniali durante l'età tardo-repubblicana. La descrizione della società transpadana, che nel II secolo a. C. ci viene offerta da Polibio (Storie, 2, 17) non è più attendibile verso la fine del secolo: alla primitività iniziale della sua struttura, che esprime un carattere agricolo preurbano con ricchezze che si valutano in oro e in bestiame, è subentrata una diversificazione sociale che avvia uno sviluppo sia demografico che urbanistico delle città.
I vecchi centri golasecchiani del IV e III secolo a. C. che avevano sempre mantenuto un carattere urbano molto sfumato, verso l'inizio del I secolo a. C. conoscono una nuova fioritura urbanistica, che li conduce a dotarsi di infrastrutture tipiche della civiltà ellenistica e romana. Questa evoluzione fu incoraggiata dai Romani dato che la tipica dispersione degli insediamenti gallo-celtici sul territorio aveva sovente creato loro difficoltà militari, per la capacità, propria dei celti, di disperdersi e di riaggregarsi dopo gli scontri o le battaglie. Per i Romani l'inurbamento era una garanzia di pace e di sicurezza, poiché l'aristocrazia urbana era naturalmente portata al conserva-torismo e a mantenere lo stato di fatto. La stessa aristocrazia non poteva che identificarsi con il potere romano, da cui si attendeva la difesa dei propri e dei comuni interessi. E' da questo gruppo elitario della popolazione autoctona che uscirà una classe dirigente che si romanizzerà alquanto in fretta e governerà quelle città che assumeranno lo status prima di coloniae e poi di municipia romani. La città era inoltre il naturale ambiente per tutti quanti dovevano assicurarsi un sicuro luogo per i loro traffici: sono soprattutto gli Italici, che, assieme ai Romani, negoziavano l'importazione, lo stoccaggio e la distribuzione dei prodotti di Roma. Materiale in ceramica, oggetti metallici, vino, vasellame bronzeo italico divengono ben presto tipici elementi nella composizione dei corredi funerari del II e I secolo a. C. ed evidenziano non solo la ricchezza dei commerci ma anche il crescente consumo di prodotti di importazione, il cui stile e il cui gusto influenzeranno i modi di vita della popolazione celtica, costituendo un potente fattore di romanizzazione. In tale contesto l'area insubre è senz'altro la più attiva e la più precoce fra tutte quelle adiacenti e mostra una grande concentrazione di prodotti di lusso. Questa ricchezza tuttavia non deve ingannare circa il reale status dei celti soggetti a Roma: almeno fino all'89 a. C. il territorio transpadano fu soggetto a un vero e proprio sfruttamento coloniale, tanto che l'Italia settentrionale costituiva un grande mercato dove vendere i prodotti dell'industria romana. Il rovescio positivo della medaglia fu il graduale potenziamento delle attività agricole e soprattutto dell'allevamento, i cui prodotti videro dischiudersi i mercati del centro Italia.
Numerosi autori dell'antichità ricordano spesso che la regione Insubre era proprio famosa per i suoi allevamenti e in particolar modo di quello dei suini, della cui carne era una formidabile esportatrice. La commercializzazione dei prodotti della Transpadana era prerogativa delle colonie romane e soprattutto di mercanti italici ivi immigrati, ai quali con il tempo si associò la classe emergente locale. La situazione deve essere mutata radicalmente tra il 90 e l'88 a. C. Cessato il pericolo della guerra sociale, grazie alla lex Julia del 90 a. C. che prevedeva l'acquisizione della cittadinanza a quanti si fossero dati collettivamente e alla lex Plautia Papiria dell'89 a. C. che la concedeva a coloro che avessero individualmente fatto richiesta di naturalizzazione al Pretore dell'Urbe, la lex Pompeia, offrendo lo ius Latii, ossia i diritti e i privilegi di cui godevano gli antichi Latini, alle popolazioni transpadane, assicurò i confini settentrionali ai Romani e Comum divenne praticamente una colonia latina. L'integrazione giuridica nella società romana attirò freschi capitali in questa regione che non poteva più essere considerata a rischio, il che pose le basi per un rigoglioso sviluppo economico. E' di questi tempi la rinascita di una produzione locale di ceramica, che non teme più la precedente concorrenza italica e le massicce importazioni di ceramica a vernice nera. La società celto-gallica si trasforma in gallo-romana e vede la nascita di una nuova classe dirigente ed imprenditoriale che tesserà la storia locale del I secolo a. C. e il successivo. Questo rigoglioso sviluppo tuttavia interessa fondamentalmente la città e tocca marginalmente le campagne, dove sopravvivono a lungo culture ancora strettamente legate alla civiltà lateniana. Presso le comunità rurali si osserva talvolta una tendenza involutiva o comunque una elaborazione di forme nuove strettamente locali, come è il caso della ceramica, i cui tipi saranno tuttavia sostituiti dal II secolo a. C. in poi da quelli romani. Si osserva una notevole differenziazione locale anche nei manufatti con lavorazione in ferro e nei riti funerari, che oscillano tra incinerazione e inumazione, con rituali che sconfinano nella cremazione tipica del mondo italico-romano.
Le differenziazioni locali sono il segno di una società rurale che si è chiusa in sé e non ricerca forme di comunicazione con la città: questo isolamento è destinato a scomparire sotto i colpi della influente penetrazione di culture esterne e già dall'età tardo repubblicana e del primo impero trovano una larga diffusione i prodotti tipici della società romana, vetri, ceramiche ed altro. Non v'è dubbio che la romanizzazione dei galli transpadani sia stata accelerata dall'abitudine di prestare servizio militare nell'esercito di Roma. Tale servizio militare sgretolò il modello della società rurale ove ogni uomo era guerriero ed uguale agli altri guerrieri, dotato di armi proprie, che portava nella tomba. Tra la fine del II e il I secolo a. C. questa figura di guerriero tende a scomparire per essere sostituita da un unico capo, il solo che porti le armi e al quale sono subalterni gli altri abitanti, che ormai si dedicano al lavoro agricolo rurale. In questo stesso II secolo a. C. nelle città affluiscono uomini e capitali romani, che assieme ai gruppi locali più intraprendenti costituiranno l'ossatura delle famiglie che nel secolo successivo esprimeranno figure ormai romanizzate come Livio, Cornelio Nepote, Tizio Caio, Plinio. L'adozione del modello dei tria nomina per definire l'apparato onomastico è un indizio evidente di questo processo di integrazione che coinvolge la popolazione locale. Milano è il centro propulsore di questa romanizzazione della Transapadana e assume un ruolo di preminenza indiscusso, che si manifesta in una straordinaria opulenza economica. La moneta insubre, che porta scritte in caratteri nord-etruschi, ha un proprio corso parallelo a quello delle monete romane.
E' verosimile che la diffusione della monetazione insubre abbia soppiantato già nello scorcio finale del II secolo a. C. la circolazione delle altre monete padane (Cenomani, Libici, Salluvii), determinandone la cessazione di conio. Nel I secolo a. C. la Traspadana si avvia dunque a rivestire un ruolo di primo piano nelle vicende della storia di Roma, a cui è ormai indissolubilmente legata. L'integrazione è completata nell'anno 81 a. C. quando la regione diviene provincia. Ciò consente alla Transpadana di poter ridisporre sul proprio territorio di forze armate, con la possibilità di intervenire su Roma, il che accadrà con Giulio Cesare. Cicerone, che, grazie alla lex Vatinia, riuscì a farsi assegnare questa provincia assieme al Narbonese e all'Illirico, potè ottenere una deduzione di coloni in Como. La lex Rubria Papiria de Gallia Cisalpina del 49 a. C. pur senza fornire una adeguata attestazione toponomastica, attesta l'ormai consolidata importanza della regione indicando l'esistenza di oppida, municipia, coloniae, praefecturae e unità più limitate quali forum, vicus, conciliabulum, territorium e castellum. Nel 42-41 a. C. la Transpadana cessa il suo status di provincia per integrarsi nel territorio di Roma e a questo punto gli episodi che vi accadono appartengono e coinvolgono il più vasto contesto italiano ed europeo. In età augustea essa costituirà la XI Regio. Già nel I secolo d. C. uomini di questa regione diventeranno protagonisti della storia di Roma: su tutti ricordiamo Plinio il Vecchio, amico intimo dell'imperatore Tito (Plinio, Naturalis Historia, I, 1) e Virginio Rufo, tutore di Plinio il Giovane e grande generale romano. Rufo, che possedeva un praedium a Valle Guidino, presso Cassago, dopo aver sconfitto Vindice in Gallia nel 69 d. C. fu acclamato imperatore dalle truppe, ma rifiutò il principato (Tacito, Historiae I, 8 e II, 51).
La Brianza in età gallo-romana
Per quanto la Brianza assuma un proprio significato geografico e storico solo nel medioevo, non è azzardato considerarla una realtà umana ben definita già a partire dall'età celtica o romana. Conquistata dai Romani assieme alle città di Comum e Mediolanum all'inizio del I secolo a. C. essa appartenne nella divisione augustea alla Regio XI denominata Transpadana. Essa conservò fino al recente passato una destinazione di tipo agricolo, tanto che per lungo tempo fu considerata il granaio della Lombardia.
I Romani al loro arrivo non modificarono la tipica struttura politica celtica organizzata a vicanali e non tentarono neppure di modificarla dandole un aspetto più conforme alla loro più evoluta mentalità organizzativa. Il celtismo perdurò a lungo in Brianza. Prova ne è l'onomastica dei dedicanti di molte lapidi, anche del III e IV secolo d. C. in cui i tria nomina rivelano la latinizzazione di nomi celtici. Lambrani era forse il nome degli abitanti di questa regione che si sviluppa lungo il corso del fiume Lambro: così riporta infatti una lapide (se corretta ne è stata la lettura). Il territorio brianzolo era ricoperto da un fitto reticolato di strade che collegavano i vari centri della campagna tra loro e con le vie di maggior traffico. La configurazione geografica del territorio fece probabilmente desistere i Romani dal rettificare la direzione di vie di comunicazione che collegavano centri sorti in età protostorica presso luoghi fertili o prossimi a corsi d'acqua. La loro irregolare distribuzione non poteva adeguarsi alla logica delle grandi vie commerciali rettilinee adatte al trasporto delle merci sia di importazione che di esportazione. Più che altrove in Brianza la romanizzazione deve essersi compiuta senza traumi e solo dopo un secolare processo di integrazione. Ciò non toglie che i ritrovamenti archeologici testimonino una intensa presenza della civiltà romana: lapidi, are, tombe sono state scoperte quasi in ogni paese. Lapidi dedicatorie, are, resti di antichi templi ricordano inoltre la tradizionale religiosità delle popolazioni di questo territorio. A Mercurio, il dio più venerato dai Galli e nel quale venne riconosciuto il celtico dio Theutates (in realtà Theutates era "il dio della tribù", dal celtico teutã, "tribù"), sono dedicate lapidi rinvenute ad Arcisate (CIL V, 5451 e 5452), Galliano, Casatenovo, Desio, Casnate con Bernate (CIL V, 5257), Oggiono (A. MAGNI, Due iscrizioni romane inedite nel Circondario di Lecco, in RAC, 1904, 83-88), Carate ed Agliate. A Minerva furono dedicate due lapidi scoperte ad Alzate ed una a Galliano. Due dediche a Silvano si rinvennero a Cornate ed Agliate. Diffuso era il culto a Ercole, specialmente fra i giovani, a Monza, Incino, Vertemate, Desio, Lomagna, Castelmarte (CIL V, 5642), Longone al Segrino (CIL V, 5645) e Fino Mornasco, dove si suppone esistesse un santuario adibito al suo culto.
Non vanno dimenticate infine le dedicazioni alle Matronae e alle Adganae, divinità vicane delle acque (CIL V, 5226, 5227, 5450, 5252). Le Màtrone sono divinità tipicamente celtiche e galliche: il loro culto fu diffuso soprattutto nella Gallia Cisalpina, nella Gallia Transalpina e nelle due Germanie. Solitamente queste dee sono rappresentate in una triade, sedute l'una di fianco all'altra, con in mano i canestri o i corni sinonimo di abbondanza. Era quindi considerate dee della fertilità dei campi. Talora assunsero soprannomi locali o tribali, la qual cosa suggerisce l'ipotesi che fossero divinità protettrici della famiglia o della tribù. Una piccola ara a Galliano di Cantù riporta a tal proposito la scritta Matronis Braecorium Gallianatium. Galliano, che fu area sacra celtica, prima ancora che romana e cristiana, conserva anche una piccola ara dedicata sia alle Matrone che alle Adgane. Anche queste ultime sono da ritenersi delle divinità tribali galliche da collegare alle acque. A questo riguardo si può ricordare la sopravvivenza di questi riti e di queste credenze in talune leggende friulane che raccontano delle Agane o in altre ladine che narrano le vicende della Anguane o Angane (La bella Aguana, racconto popolare di Roncegno in Valsugana, in G. BORZAGA, Le più belle leggende del Trentino, 116-119). In queste leggende esse sono diventate dispensatrici di piogge e di tempeste: evidentemente sono le medesime divinità galliche passate col tempo dall'ambito religioso a quello popolare. Delle produzioni agricole brianzole in età romana abbiamo notizie da Polibio, Strabone, Plinio il Vecchio e Varrone. Essi ricordano la ricchezza dei cereali, delle granaglie e in particolare di miglio e panico, oltre alla abbondante produzione di rape, vino, frutti e ghiande per nutrire i maiali, dai quali si ottenevano celeberrimi insaccati, di cui parla Varrone del suo trattato sull'agricoltura (De re rustica, II, IV, 10) definendoli pernae Comacinae, cioè "prosciutti comacini."
Altre specialità tipiche di questa regione erano la produzione delle lane e dell'olio d'oliva cui attendevano i caplatores. Possiamo aggiungere che anche lo sfruttamento del legname, ricavato dai boschi, offriva la possibilità di un buon commercio, come è attestato dall'esistenza di iscrizioni dedicate ai dendrophori, i commercianti del legno (CIL, V, 5275 e 5296). Altre risorse erano offerte dalla pesca: ne parla Plinio il Giovane, ma l'attesta pure l'epigrafia che documenta l'esistenza di un collegio nautarum et piscatorum, di battellieri cioè e di pescatori. Numerose lapidi testimoniano che in Brianza vissero personaggi di alto rango quali i sexviri. Accanto ad essi scopriamo la presenza di mercatores e commercianti, che esprimono sia pure indirettamente il grado di ricchezza raggiunto dalla regione, dove non mancavano occasioni di commercio e di traffico. Varie sono le associazioni artigiane attestate già nel I secolo d. C. o collegi, che riunivano operatori dello stesso settore: ai già citati caplatores, dendrophori, nautae, piscatores vanno aggiunti i fabri (che lavoravano il legno o i metalli), i centonarii (che fabbricavano le coperte, materassi e si occupavano di spegnere gli incendi come i moderni pompieri), i dolabrarii (che fabbricavano accette e strumenti analoghi), gli scalarii (che erano abili costruttori e utilizzatori di scale). Cospicue sono ancora oggi le testimonianze dell'età romana che sopravvivono in Brianza e che noi possiamo visitare seguendo i tracciati delle strade già esistenti a quell'epoca. Lasciata Monza (la romana Modicia), città sorta in una zona di fitti insediamenti celtici, si giunge presto a Biassono, dove in località Cascina S. Andrea fu scoperta una cisterna del I-II secolo d. C. Nelle sue adiacenze si rinvenne una ampia documentazione ceramica che spazia dal I al V secolo d. C. materiali laterizi, ornamenti e un cospicuo tesoretto di monete imperiali. Proseguendo si incontrano Verano, Carate ed Agliate, paesi ricchi di memorie romane e che si trovavano di sicuro lungo il tracciato di una strada romana, in un punto dove sorgeva un ponte per guadare il Lambro. Abbondante è il materiale romano, ceramico, colonne, capitelli, are, che fu individuato nei lavori di ristrutturazione della chiesa romanica di S. Pietro di Agliate. Risalendo oltre, lungo la vallata del Lambro, si incontra Valle Guidino, che fu praedium di Virginio Rufo nel I secolo d. C. e Brugora dove nei secoli I-II d. C. fu attiva una fornace, di cui rimangono materiali ceramici di scarto. Besana e Casatenovo con il loro circondario furono località celtiche e quindi romane, il che è accertato da rinvenimenti archeologici ed epigrafici. Lo stesso vale per Barzanò, Cremella, Bulciago, che hanno restituito epigrafi latine che vanno dal I al IV secolo d. C. mentre Costamasnaga, Molteno, Oggiono, Sirone, Ello, Galbiate con i loro ritrovamenti tombali testimoniano l'indiscutibile presenza romana in questi territori dopo la loro occupazione in età protostorica e celtica. Cassago, l'antico rus Cassiciacum, che si trova nel cuore della Brianza storica e al quale fanno corona i paesi indicati, fu a sua volta un centro romano nel verde delle colline. Dopo una prima occupazione celto-gallica, il suo territorio conobbe una intensa presenza romana, di cui sono rimaste tracce in reperti tombali, ceramici ed epigrafici.
La romanità della Brianza fu fenomeno esteso anche ai paesi più a nord, che si affacciavano sul Lario, dove l'influenza di Comum era di antica data. Centro di primaria importanza era in questa regione Forum Licini, centro degli Orobi, la cui antichità è attestata dall'abbondante materiale romano recuperato. Vi scorreva la strada pedemontana che passando da Comum raggiungeva Bergomum. Il guado dell'Adda di questa importante via di comunicazione, che fu percorsa anche da Giulio Cesare, avveniva sicuramente ad Olginate, dove tuttora esistono resti di un ponte romano in prossimità di un'area fortificata, di cui sono presumibili insediamenti nel II-III secolo d. C. All'estremità opposta dell'area briantina importantissimo fu sicuramente l'insediamento di Mariano Comense, che ha restituito una eccezionale necropoli. Lungo lo stesso asse viario, che da Mediolanum conduceva a Comum, si possono trovare poco oltre Cucciago e Galliano, ricchi di testimonianze romane e celtiche.