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lettera 12      a Nebridio

 

Scritta nel 389-391

a Tagaste

 

Agostino in questa lettera ritorna sul quesito relativo all’Incarnazione, che aveva cominciato a discutere nell’Epistola precedente; ma la lettera ci è giunta mutila ed in minima parte rispetto all'originale.

 

 

1.   Plures epistolas te scribis misisse quam accepimus; sed neque tibi possum non credere, neque mihi tu. Etsi enim rescribendo par esse non valeo; tamen non minore a me diligentia servantur litterae tuae, quam frequentantur abs te. Prolixiores autem nostras, non te amplius quam binas accepisse convenit inter nos; non enim misimus tertias. Sane recognitis exemplaribus animadverti quinque fere tuis rogationibus esse responsum; nisi quod una ibi quaestio quasi transeunter perstricta, quanquam non temere ingenio tuo commissa sit, non tamen fortasse satisfecit avaritiae tuae; quam refrenes aliquantulum opus est, et nonnulla compendia libenter feras. Ita plane ut si quidquam fraudo intelligentiam, dum sum parcus in verbis, nihil parcas mihi; sed tu iure, quo mihi valentius esset forte aliquid, si quidquam posset esse iucundius, totum quod debetur, efflagites. Hanc igitur epistolam numerabis inter minores epistolas meas, quam tibi non sivi nihil mihi de acervo minuere. Non enim et tu mittis minores, quae non eumdem acervum augeant. Quare illud quod de Filio Dei quaeris, cur ipse potius dicatur hominem suscepisse, quam Pater, cum simul uterque sit, dignosces facillime si sermocinationum nostrarum quibus, ut potuimus (nam ineffabile quiddam est), quid sit Dei Filius quo coniuncti simus, recorderis. Quod ut hic breviter attingam, disciplina ipsa et forma Dei, per quam facta sunt omnia quae facta sunt, Filius nuncupatur. Quidquid autem per susceptum illum hominem gestum est, ad eruditionem informationemque nostram gestum est.

 

 

 

 

1.  Mi scrivi di avermi inviato più lettere di quante io ne abbia ricevute: eppure io non posso non prestar fede a te né tu a me. Anche se nel risponderti io non riesco ad essere alla pari con te, tuttavia io conservo le tue lettere con cura non minore della frequenza con cui tu me le invii. Che tu poi ne abbia ricevute da me non più di due piuttosto lunghe, siamo d’accordo, giacché non te ne ho inviata una terza. Ora, controllando le minute, mi sono accorto di aver risposto più o meno a cinque tuoi quesiti; sennonché una questione ivi trattata di passaggio, pur essendo stata affìdata non avventatamente alla tua intelligenza, tuttavia non ha forse soddisfatto appieno la tua avidità. Ma bisogna che tu la freni un poco e accetti di buon grado qualche trattazione sommaria; naturalmente col patto che se, risparmiando le parole, io riesco incomprensibile in qualche cosa, tu non mi risparmi affatto, ma mi chieda tutto ciò che ti è dovuto in forza di quel diritto dell’amicizia, di cui vi potrebbe essere per me forse qualcosa di più efficace, se potesse esserci qualcosa di più piacevole. Perciò tu potrai annoverare questa lettera tra le mie minori, ma non ho potuto permettere che non diminuisse per nulla il mucchio dei miei debiti. Poiché nemmeno tu me ne invii alcuna, anche se di proporzioni minori, che non contribuisca ad accrescere questo medesimo mucchio. Pertanto comprenderai molto facilmente quello che mi domandi riguardo al Figlio di Dio, cioè perché si dica che Lui ha assunto la natura umana anziché il Padre, pur essendo entrambi inseparabili, se ricordi le nostre conversazioni in cui, per quanto ho potuto (giacché è una cosa innegabile), ho cercato di spiegare che cosa sia il Figlio di Dio, al quale siamo uniti per la natura da Lui assunta. E per fare qui solo un breve cenno di ciò, si chiama Figlio la stessa norma e forma di Dio per cui sono state fatte tutte le cose che sono state fatte. E tutto ciò che è stato compiuto da Lui tramite la natura umana assunta, è stato fatto per la nostra istruzione e per la nostra formazione.