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Percorso : HOME > Cassiciaco > Vexata quaestio > Carlo CremonaCarlo Cremona: La dolce campagna di Cassiciacum
Il libro di Carlo Cremona
LA DOLCE CAMPAGNA DI CASSICIACUM
In AGOSTINO D'IPPONA – LA RAGIONE E LA FEDE di CARLO CREMONA
Presentazione del cardinale CARLO MARIA MARTINI
RUSCONI LIBRI S.R.L. Milano XII Edizione OTTOBRE 1993
PRIMA EDIZIONE MARZO 1986
Rus Cassiciacum, delle cui alte montagne il giovane Licenzio serbava il ricordo con struggente nostalgia! Cassago di Brianza, guardata dal Resegone, dal gruppo delle Grigne e dal Cornizzolo? O Casciago del Varesotto, su cui domina da lontano il massiccio del Monte Rosa? Sono queste due le località della campagna lombarda, per nome e per popolare tradizione le più vicine al Cassiciacum agostiniano e che se ne contendono l'identificazione con appassionato orgoglio. Se almeno un reperto archeologico, un'iscrizione riportante il nome del proprietario della villa, Verecundus Grammaticus, venisse a sciogliere il dilemma, a dirci quale delle due ebbe l'onore di ospitare, dall'autunno del 386 alla primavera del 387, il grande Convertito! Per la bellezza della natura, che impressionò Agostino (egli pregava Dio di ricambiare a Verecondo il dono «con l'amenità sempre verdeggiante del paradiso»), sia Cassago che Casciago sono degne di Cassiciacum. Un punto a favore di Cassago potrebbe essere, oltre la ricchezza di reperti archeologici che testimoniano un insediamento romano, la distanza da Milano (trentacinque chilometri, contro i cinquantacinque di Casciago).
La questione, per sé marginale, è stata ed è tuttora molto dibattuta. Se ne occupò anche il Manzoni, che propendeva per Casciago e che, per trovare appoggi alla sua tesi, andò a frugare nei Dialoghi intessuti da Agostino con i suoi amici in quella celebre campagna. E forse ce ne resta una traccia nei Promessi Sposi: in quel «Carneade! Chi era costui?» ruminato da don Abbondio durante un'antica lettura, che riprende una frase del giovane Trigezio a Licenzio: «Carneade? Non so chi sia costui» (Acc. I, 3,7).
Quel soggiorno in campagna, in un ambiente di silenzio appena infranto, più che dalle voci umane, dal verso degli animali domestici e degli uccelli e dal mormorio del ruscello, in vista del verde e delle montagne innevate, accanto a boschi solitari, aiutò lo slancio spirituale di Agostino, che fu sempre sensibile allo spettacolo della natura, e aiutò la ricerca contemplativa del gruppo di giovani amici. C'era Alipio, che in certi giorni si assentava per i suoi impegni professionali a Milano e si affrettava a tornare; c'erano Monica, il quattordicenne Adeodato, il fratello Navigio, il volubile Licenzio insieme a Trigezio, i due cugini Lastidiano e Rustico.
C'erano poi, stabilmente residenti, i coloni del fondo, che dovevano avere un gran rispetto per quei signori di città amici del loro padrone, particolarmente per Agostino, un pozzo di cultura ...
Era usanza che gli ospiti dessero una mano nei lavori campestri e questo impegno piaceva assai ad Agostino che da sempre considerava il lavoro manuale parte integrante dell'attività di studio. Una specie di «agroturismo» insomma, se a turismo sostituiamo studio o preghiera o contemplazione. Non solo vendemmiavano, dunque, ma vangavano, seminavano, potavano, ripulivano il fondo dalle erbacce e lo difendevano dai danni delle piogge, pasturavano animali da cortile. Insomma, ogni genere di fatica che fa venire i calli alle mani.
Un ideale di vita per quel cultore di scienza che giudicheremmo ammiopito sulle pergamene! Invece: «Spettacolo grande e meraviglioso occuparsi della natura! Sparger semi, piantar virgulti, trapiantar arbusti, intagliar innesti, trattare ogni specie di radici e bulbi! Sapere dove finisce l'arte del coltivatore, dove esplode, intima e nascosta, la potenza creatrice dei germi! Quale sollecitazione su di essi esercitano le cure prodigate! Convincersi, infine, che né chi pianta è qualcuno, né chi irriga. Ma è solo Dio a dar sviluppo. Poiché le cure esterne, sì; ma l'intima vitalità è Dio a donarla! Con la stessa prodigalità con cui tutto crea e guida e governa invisibilmente!» (La Gen. alla Lett. VIII, 8).
Cassiciacum che nostalgia, Licenzio! Cittadella del pensiero o primo abbozzo della Città di Dio? Da quelle parti, nella zona delle basse Alpi, un certo Dardano, che era un prefetto a riposo, trasformerà il suo borgo in una «cittadella» battezzata Teopoli (Città di Dio), chissà se ispirandosi all'ospite di Cassiciacum che era già vescovo in Africa. Persino studiosi pagani sentivano la necessità di fuggire la confusione dei grandi centri e di cercare la tranquillità adatta alla meditazione nell'isolamento delle loro vaste proprietà di campagna, costituendovi comunità di amici. Era un'utopia o un ideale molto accarezzato, a quei tempi, e certamente un sintomo della reazione a una dimensione, diremmo oggi, «non a misura d'uomo», nelle città congestionate. E, del resto, già Plotino aveva progettato una città di filosofi: Platonopoli!
È su questo ideale di amicizia e di contemplazione della verità che Agostino fonderà i suoi monasteri.
La campagna, per Agostino, ha un contenuto più spirituale e primitivo, meno artificioso che nelle città. Egli proveniva dalla campagna e Cassiciacum gli faceva rivivere l'atmosfera della sua infanzia, quando nel piccolo paese di Tagaste, contadini e pastori, e boschi, uliveti, vigne, e uccelli selvatici ed animali domestici e frutti della terra coltivati o spontanei erano l'elemento che faceva crescere la sua esperienza umana.
Ecco un esempio di osservazione collettiva di comportamento di due galli, descritto là, sul posto, mentre avviene: «Ci avviammo verso le terme. Quando non potevamo scendere nel prato per il maltempo, le terme erano un luogo adatto alle nostre sedute. Proprio davanti alla porta, due galli avevano cominciato ad azzuffarsi. Le penne arruffate, le teste crestate intente a colpire con il becco, rapida la mossa dell'assalto, o dell'accorto schivare il contrattacco. Osserviamo il comportamento del gallo vincente che intima la resa del perdente con un canto superbo e arrotonda le piume rigonfie, esaltato dal dominio raggiunto. Ed osserviamo il segno della sconfitta nel vinto, le penne della testa scompigliate, la voce deforme, le zampe incerte nel passo goffo ...» (L'Ord. I, 8,26).
Da queste osservazioni della natura si sviluppavano o si arricchivano i Dialoghi agostiniani di Cassiciacum. Ma ci vogliono, dice Agostino, occhi «innamorati della sapienza» per raccogliere i messaggi della natura, d'ogni parte; l'armonia di una ragione che impone l'ordine e dà la misura a tutti gli esseri animati e inanimati.
Cosicché, nel dialogo, nascevano i «perché?» Perché tutti i galli si comportano così? È forse allo scopo di dominare le galline? Perché lo spettacolo della loro zuffa ci fa provare piacere? (cfr. ibid.). Questo spirito di osservazione gli sarà proprio per tutta la vita. Sta guardando una chioccia e i suoi pulcini attorno. Ecco uno scorpioncino che sbuca da una fessura umida di un muro. La gallina sollecita i suoi piccoli a raccogliersi insieme, punta, arruffando le penne, l'animaletto, lo becca, lo trangugia ... Poi Agostino riflette: dovrà digerirlo come un qualsiasi cibo, lo assimila ... E poi? Lo ricicla nel suo uovo! E inventa la parabola della «gallina evangelica». La «gallina evangelica» è la Chiesa che difende la fede dei suoi figli contro gli avversari della fede. Ma combattendoli, quanti avversari converte! L'uovo, simbolo della rinascita cristiana anche dei cattivi! (cfr. Serm. CV).
Ci sono nei Dialoghi annotazioni che ci permettono di immaginare con un certo realismo l'ambiente di quel casolare di campagna, gli orari e i movimenti della piccola comunità e, naturalmente, il procedere della conversazione. Per circostanze uguali, noi ci muniremmo di un registratore. Gli antichi non avrebbero avuto nulla da invidiarci in questo. Più di noi avevano lo spirito del «conservare» per i posteri e si sapevano difendere dall' «effimero». L'impiego di uno stenografo che stesse lì a raccogliere ogni battuta dell'interlocutore in un dibattito, era una esigenza elementare. Cosicché noi abbiamo come una registrazione di quel che venivano dicendo di giorno in giorno e un resoconto movimentato del cambiamento di scena.
La cucina, la sala da pranzo e i bagni a piano terra. Secondo l'uso, tre pasti al giorno; la prima colazione con pane e miele o formaggio; la seconda, il prandium, che nel Dialogo contro gli Accademici risulta sbrigativo, consumato in piedi, e consistente di pane, carne, legumi, frutta secca, vino caldo mielato e dolci di mandorle. La coena costituiva il pasto forte.
Agostino condivideva la stanza per il riposo notturno con Licenzio e Trigezio e la finestra, che si apriva ad oriente, riceveva i primi raggi del sole. Deduciamo persino che le pareti, secondo l'uso romano, dovevano essere, se non dipinte, almeno tinteggiate (Solil. II, 12,22).
Una villa campestre doveva avere disponibili magazzini e dispense, ripostigli e granai, forse nelle vicinanze, luoghi perciò adatti e ricercati dai topi. Ne L'Ordine si parla di questi ratti che infastidiscono la comitiva. La villa di Verecondo, modesta più che sontuosa, per le vacanze estive della famiglia, doveva rappresentare l'aspirazione soddisfatta di un piccolo borghese, professore a Milano, per rivendicare una posizione raggiunta.
Nella stagione in cui vi si recò Agostino, più spesso incontrò giornate piovose e vi rifletté sopra, come uno straniero attento abituato ad altri climi: «Chi potrebbe dare una risposta a coloro che chiedono perché gli italiani invochino inverni sereni, mentre la nostra povera Getulia è in continua siccità?» (Ord. II, 5, 15). Agostino conobbe la nebbia padana, ma poté anche dire come il Manzoni: «Il cielo di Lombardia, tanto bello quando è bello!». Lo disse certamente quel terzo giorno della disputa sulla felicità: «Nella mattinata si dissipò la nebbia che ci costringeva ad adunarci nella sala delle terme e si ebbe un pomeriggio stupendo» (La Fel. IV, 23).
E nei mesi più inoltrati d'inverno, la neve sui monti! In quel soggiorno, Agostino appare tranquillo e perseverante nel suo itinerario di fede. Partecipa senza saccenteria e con disinvoltura all'esperienza dei più giovani, è allegro, scherza, ride, non sembra affatto precipitato in uno stato di astrazione mistica, se non quando scrive i Soliloqui, meraviglioso libro che anticipa le Confessioni. Si inizia con un Inno a Dio, come una grandiosa sinfonia d'ouverture. Oltre i Soliloqui dirige il dibattito nei dialoghi su La Controversia Accademica, su La Felicità, su L'Ordine, su L'Immortalità dell'Anima.
Se gli altri apprendono, anche apportando il loro contributo alla ricerca della verità, per Agostino sono strade già percorse errabondo, argomenti che approfondisce alla nuova luce della fede. Non tutti sono sempre presenti all'uno o all'altro Dialogo: Alipio si assenta per brevi impegni di lavoro a Milano; Monica, con il suo senno, interviene, ma è anche occupata nelle faccende di casa; anzi, all'ora dei pasti, dà il segnale di interrompere la conversazione perché le vivande non si raffreddino nel vassoio. Si sente, talvolta, la voce di Adeodato.
Di notte, un gran concerto di rane e di grilli. Gorgoglia un ruscello sottostante per l'acqua che cerca il suo difficile varco tra il fogliame raccolto da un vento improvviso. Scroscia la pioggia, un topo rosicchia un armadio o fruscia via rapidamente fuggendo ... Notti invernali con luna piena ...
«I ragazzi avevano ricevuto da me l'ordine di esercitarsi a riflettere e abituarsi alla concentrazione con sé stessi, in silenzio dopo la lettura...» (L'Ord. I, 3,6). Una volta, poiché dal loro schiamazzo si accorge che né dormono né rispettano il silenzio, entra nella loro stanza. Si riaccende la discussione e si protrae tanto che, guardando attraverso i vetri opachi della finestra, non sa distinguere se il chiarore che vede sia quello della luna o quello dell'alba. L'osservazione incidentale permette di precisare che quella disputa avvenne nella notte tra il 20 e il 21 novembre del 386, perché nella regione lombarda fu plenilunio e il pallido pianeta tramontò verso le sei del mattino (cfr. ibid.). Ciò può servire anche per quei critici che mettono in dubbio l'autenticità dei Dialoghi.
C'è anche una scena filosofico-scientifica sull'ubicazione dell'anima che provoca un esperimento di vivisezione. È un pomeriggio autunnale di sole e Licenzio e Trigezio se lo stanno godendo sdraiati sul prato. Tra l'erba fa la sua passeggiata un millepiedi. Trigezio, con uno sterpo, divide l'animale in due parti che continuano a correre, ciascuna per conto proprio, in direzioni opposte. Meravigliati i due giovani le catturano e portano la vittima da Agostino che sta conversando con Alipio. Avevano discusso di anima. Dove è presente l'anima in un corpo? I due maestri, prendono una tavola ben liscia, vi pongono i due tronconi e continuano a vivisezionare per trovare, esperimentando, il tallone d'Achille del millepiedi. Ma più tagliano, più la bestiola moltiplica le sue vite.
L'episodio è raccontato da Agostino nel suo libro La grandezza dell'Anima, composto a Roma nell'inverno appresso, tra il 387 e il 388, per indagare sull'unione dell'anima con il corpo. Allora, quando aveva vivisezionato il millepiedi che non si dava per vinto, aveva ammonito i giovani ad occuparsi degli argomenti già in programma e a rimandare a tempi più maturi quel problema, «perché» disse «la grande costruzione fortificata da un discorso tanto lungo, non crollasse per l'infiltrazione di un vermiciattolo... » (Grandezza dell'Anima XXX, 62).
Il dialogo tra uomini era alternato col dialogo con Dio: la preghiera salmodiata. Ambrogio aveva legato i versetti dei salmi ad un canto dolcissimo e semplice: il canto ambrosiano. Una di quelle cadenze piaceva particolarmente a Licenzio e gli si era come incisa nell'udito. Dovunque andasse, canticchiava quel motivo.
Lo fece anche una sera, dopo essersi ritirato in bagno per la pipì. Modulò il versetto nono del salmo LXXIX: «Deus virtutum, converte nos et ostende faciem tuam ...». «Volgici a te, Dio delle fortezze! Mostraci la tua faccia!»
Monica, che parlava latino, ne rimase scandalizzata. «Licenzio!» lo sgridò dalla stanza «ma ti pare quello il luogo adatto per cantare i salmi?»
Dal suo rifugio igienico, Licenzio rispose da monello: «Che male c'è? Se un brigante mi avesse rinchiuso qua dentro, credi che Dio non avrebbe udito la mia voce per venirmi a liberare?».
L'episodio ebbe uno strascico la mattina dopo, quando Licenzio si era levato per compiere la stessa operazione, e Agostino, invece, era ancora tra le coperte. Tornando in camera, il ragazzo si avvicinò al suo maestro: «Dimmi la verità, che stima hai tu di me? Perché ieri sera tua madre mi ha rimproverato. Mi sono comportato forse da monello?».
Agostino sorrise e gli prese affettuosamente la mano: «Tu ci tieni alla mia stima?» gli chiese. «Ebbene, io non ci vedo niente di male ... Da che cosa Dio deve volgerci a sé? Licenzio, tra una sozzura fisica e il peccato, la differenza che passa non è a favore della prima... ?»
«Dici una grande verità, Agostino! Io, ora, mi vergogno delle immondezze morali, perché mi sento attratto da valori più grandi e meravigliosi. Questo è volgersi a Dio! Altro che aver canticchiato quel versetto del salmo in quel luogo e non averne provato scrupolo ...»
«A me il fatto non è dispiaciuto per niente» continuò Agostino. «Rientra nella norma, esprime i concetti .... Da quali cose noi dobbiamo pregare Dio che a sé ci volga e ci manifesti il suo volto, se non dal fango della sensibilità e dal buio di cui il peccato ci avviluppa? Cos'è, Licenzio, convertirsi, se non volger le spalle alle brutture e rimaner saldi nella fortezza e nella temperanza? E il volto di Dio, cos'è se non la verità a cui sospiriamo, la bellezza che ci rende belli, dal momento che l'amiamo?»
«Grazie, Agostino! Non potevi dirmi una cosa più bella!» risponde commosso Licenzio. Poi gli si avvicinò all'orecchio e sottovoce: «Vedi, cerca di scusarmi... Ma quante circostanze concorrono a farmi convinto delle cose meravigliose che ci vanno coinvolgendo ...» (L ‘Ord. I, 8,23).
Qualche anno dopo, da Roma dove ancora attendeva ai suoi studi, Licenzio avrebbe scritto ad Agostino in Africa con nostalgia: «Oh, se un'alba recante letizia mi riportasse ai passati giorni trascorsi in quel bel mezzo dell'Italia ove con te anelavo verso gli ideali dello spirito; mi riportasse alle immacolate leggi dei buoni, simili allo spettacolo di quelle alte montagne!» (Lett. XXVI, 4).
Sembra che a Roma Licenzio vivesse alquanto ... licenziosamente; e che Agostino, che lo amava, ne fosse preoccupato.
Cassiciacum deve aver rappresentato per tutta la comitiva, ma più intensamente per Agostino, Adeodato, Alipio e Monica, come la vigilia di un giorno di nozze. Tante cose si fanno per prepararvisi, ma con mente tesa all'idea dell'amplesso. Così Agostino immagina la Chiesa: «Che profondo mistero! Siamo stati invitati alle nozze ed ecco, noi stessi siamo le nozze... Siamo noi stessi la sposa e aspettiamo sicuri lo Sposo. La sposa è la Chiesa!» (Serm. Lambot 16; Serm. CCLVI, 5).
In quell'ambiente di contemplazione e di avvicinamento a Dio, niente preoccupa; senza alcun assillo si passa da un'occupazione spirituale ad un'altra di ordine temporale, con libertà di spirito: «Avevamo cominciato a disputare nel pomeriggio inoltrato, perché quasi tutta la giornata ci eravamo attardati nel sorvegliare i lavori della campagna...» (Acc. I, 5,15). Oppure: «L'indomani sorge un sole non meno sereno e tranquillo. Con difficoltà potemmo sbrigare le faccende di casa, perché ci invitava la pura serenità del cielo. Raggiungemmo il solito albero e là sedemmo...» (Acc. II, 11,25). E ancora: «Ieri siamo andati a letto con l'intenzione che al nuovo mattino non ci si levasse per altro che per continuare la disputa rimasta interrotta. Ma vi furono tante faccende riguardanti la casa che abbiamo dovuto improrogabilmente sbrigare ...» (Acc. III, 2).
L'aria salubre ritemprava i corpi. Qualche noia alla salute fisica non mancò. A parte l'indigestione di Navigio per ghiottoneria di dolci mandorlati (Saronno con i suoi amaretti è lì a due passi e vi si continua la tradizione), fu colpito Agostino da un feroce mal di denti, così da non poter parlare. Dovette graffiare su una tavoletta cerata un messaggio diretto agli altri perché si mettessero a pregare e si alleviasse il dolore acutissimo. Tutti s'inginocchiarono e chiesero al buon Dio d'esser gentile. E il dolore scomparve all'istante: «Ma che dolore! E come mi lasciò, a quella preghiera! Ne ebbi persino paura, non mi era mai successo un fatto simile!» (Conf. IX, 4).
«Scrivemmo qualche lettera e ci portammo sul prato...» (Acc. II, 11,25). A chi scriveva? Mancavano nella comitiva alcuni cari amici. Era stagione scolastica. Verecondo e Nebridio, suo assistente, erano costretti a Milano a far grammatica ai ragazzi.
Scrive, dunque, a Nebridio: «La tua ultima l'ho letta al lume di candela, quando avevo già cenato. Era l'ora di andare a riposare che non significa esattamente dormire... Per leggerti, mi sono sdraiato sul letto e mentre ti leggevo e mi costringevi a certe riflessioni, tra me e me, mi son fatto questo discorsetto: "Ma è proprio vero quello che di te afferma Nebridio, che tu, Agostino, saresti un uomo felice?"» (Lett. III, 1).
Verecondo e Nebridio! Due grandi amici che assai gli mancarono nel soggiorno di Cassiciacum, tutti e due non ancora cristiani, ma così cari a lui ... Verecondo si ammalerà poco dopo la partenza di Agostino da Milano per l'Africa; ma riceverà anche lui il battesimo e morirà nell' autunno del 387.
Nebridio tornerà in Africa, riceverà il battesimo insieme alla madre e al fratello Vittore, si darà alla vita ascetica con il proposito di entrare nel primo monastero di Agostino a Tagaste. La morte lo preverrà nel 389.
Ma una lettera molto importante Agostino la scrisse ad Ambrogio. Peccato sia andata perduta. Ne conosciamo però il contenuto, perché Agostino ne parla nelle Confessioni. Egli faceva al grande vescovo il racconto di tutti i suoi errori intellettuali e morali, manifestando il proposito di volervi riparare con una vita tutta consacrata a Dio: una confessione generale! Chiedeva consiglio: come perfezionare la sua preparazione al battesimo e quali letture bibliche affrontare per irrobustire la sua vocazione cristiana?
Ambrogio gli rispose indicando il libro di Isaia. Agostino ci provò, ma lo trovò un pane allora troppo duro per i suoi denti... da latte. Restò con san Paolo. Il Convertito sulla via di Damasco era geloso del Convertito sotto il fico di Milano!
«Lasciammo la campagna e tornammo a Milano ...» Con queste parole, Agostino ci fa capire la malinconia di abbandonare per sempre quell'angolo di terra lombarda. Il paesaggio maestoso e stupendo si ripresenterà ai suoi occhi di vescovo quando, in Africa, i salmi gli imporranno di commentare al popolo il simbolismo del Monte.
Si attarderà, un giorno, a spiegare l'espressione «mons incaseatus», il biblico monte dell'abbondanza prefigurante Cristo, come se, nel descrivere quell'abbondanza e nell'assonanza della parola, riassaporasse l'esperienza di Cassiciacum (1).
Ma certo avrà dinanzi agli occhi le alte montagne della Lombardia quando si sforzerà di spiegare agli africani ignari cosa è un ghiacciaio, cosa sono le nevi eterne: «Il ghiacciaio? Una sorta di cristallo, un blocco di vetro bianco, bianchissimo ... Neve che mai si scioglie per anni, ghiacciata a tal grado che è impossibile scioglierla ... Masse di neve su neve, anni dopo anni, che resistono a temperature elevate di una stagione calda, anzi, di molte stagioni, specialmente da quelle parti dove il sole nemmeno d'estate è caldissimo ...» (Sul Salmo CXLVII, 2).
Ambrogio aveva stabilito che all'inizio della Quaresima avesse luogo l'esame dei candidati al battesimo. Della comitiva di Cassiciacum ce n'erano tre: Agostino, Adeodato, Alipio.
Le iscrizioni si ricevevano già dalla festa dell'Epifania e Ambrogio era sollecito a ricordarlo: «Come mai ancora nessuno è venuto ad iscriversi? Io ho già gettato l'amo nel giorno dell'Epifania e non ho preso nemmeno un pesce ...» (Comm. Vang. Lc. IV, 76).
Siccome la Pasqua del 387 cadeva il 25 aprile, la prima domenica di Quaresima era il 14 marzo. Agostino non poteva figurare tra i ritardatari! Si misero dunque in viaggio verso Milano, tutti imbacuccati per il freddo. Un asinello per trasportare le poche robe e per alleviare la fatica di Monica.
Ma nei propositi di Agostino e di Alipio, quell'itinerario che conduceva al fonte della grazia fu percorso come un pellegrinaggio di penitenza. Era l'ultimo manipolo di israeliti fuggenti dall'Egitto, verso il Mar Rosso e verso il deserto della Terra Promessa ...
Tanto è evidente questa intenzione di penitenza, che Alipio volle calcare il suolo gelato a piedi nudi. Lo ricorda Agostino con ammirazione: «Egli era così rivestito dell'umiltà conveniente a quel sacramento e così esigente era con il proprio corpo, da voler camminare audacemente su quel suolo così ghiacciato d'Italia, a piedi nudi...» (Conf. IX, 6).
Pellegrini del battesimo, «cantavano e camminavano ...»!
(1) Cfr. O. PERLER, Les Voyages de saint Augustin, p. 181.