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Giovanni Papini: L'Accademia in Brianza

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Giovanni Papini

 

 

 

L'ACCADEMIA IN BRIANZA

di Giovanni Papini

tratto dal Capitolo 20 dell'opera "Sant'Agostino", Firenze edizione 1957

 

 

 

... Il più dispiacente, nella cerchia del cenacolo agostiniano, fu il collega Verecondo. Non che si dolesse di vederlo diventare, anche in pratica, cristiano; anzi, ne godeva e desiderava imitarlo. Sua  moglie era già cristiana ma era pur sempre una moglie e gli avrebbe impedito, perciò, di partecipare alla vita comune con Agostino e gli altri amici.

Verecondo, però, era talmente affettuoso e generoso che pur non potendo far parte del pensato cenobio offrì ai futuri cenobiti una sua casa di campagna, posta in una delle parti più ridenti della Brianza, a Cassiciacum, oggi Cassago.

Agostino gli serbò, per quest'offerta, una tenera e perenne riconoscenza e pregò Iddio sempre che gli concedesse l'eterna beatitudine perchè il povero Verecondo poco tempo dopo, nel 388, s'ammalò gravemente ed ebbe il tempo di farsi cristiano prima di morire.

Un altro amatissimo amico che non seguì Agostino nel suo ritiro fu Nebridio. Questi aveva preceduto Agostino sul cammino della verità perchè prima di Agostino s'era accorto dell'assurdità dell'astrologia e degli errori fondamentali del manicheismo ed ora, illuminato dai neoplatonici, era diventato, a modo suo, cristiano. Ma del manicheismo gli era rimasto l'errore che Mani aveva mutuato agli gnostici: non credeva, cioè, all'umanità di Cristo e riteneva, con Marcione e altri eretici, che Gesù avesse soltanto l'apparenza illusoria del corpo umano: negava, insomma, l'Incarnazione. Con Nebridio, Agostino disputò lungamente per lettera e con buon effetto ché più tardi si convertì anche lui alla dottrina ortodossa e fece cristiana tutta la famiglia.

Gli altri, però, eran tutti pronti a lasciare Milano con Agostino: Monnica, i parenti che vivevano insieme a lui, e i discepoli più fedeli. Finalmente giunsero le vacanze vendemmiali e un bel giorno della fin d'ottobre la brigata agostiniana s'avviò lietamente verso il rifugio di Cassiciaco.

 

Dove fosse precisamente Cassiciaco poco importa, infinitamente più delle identificazioni topografiche importano le cose che vi furono dette. Era certamente in Brianza, non lontano dalle Prealpi e in vista dell'Alpi. L'affricano non si spingerà mai più così presso settentrione. La natura è tutta diversa da quella della Numidia e Agostino scoprirà la bellezza dell'autunno e la poesia della bruma, nuove per lui, propizie alla clausura domestica e al raccoglimento dell'animo. L'uomo del mezzodì è l'uomo dell'agorà e del foro, cioè della folla, della parola, della rettorica, dell'esterno; Agostino sarà inclinato da quell'inverno passato nell'alta Lombardia a una maggiore intimità, a quell'interioramento lirico del pensiero astratto ch'è uno degli incantesimi del suo genio.

La villa di Verecondo non era propriamente una villa ma quella che si dice, nelle nostre campagne, una "casa padronale", e serve più da magazzino che per lunghi soggiorni; più vasta e ornata della topaia d'un contadino ma non sontuosa come immaginiamo le ville che i signorotti romani avevano nella Sabina o a Baja. Non aveva giardino ma soltanto, davanti alla casa, un prato con un vecchio castagno ben fronzuto che fece da tetto, nelle belle giornate, colla chioma delle sue foglie ricche e fresche, alle disputazioni dei cenobiti affricani. I quali erano in tutto nove cioè Agostino, Adeodato suo figliolo, Navigio suo fratello, Rustico e Lastidiano suoi cugini, Trigezio, suo concittadino. e discepolo, Licenzio figlio di Romaniano, l'inseparabile Alipio e la brava Monnica che si prese, naturalmente, la parte di suor dispensiera e cuciniera. C'era, forse, anche un ragazzo del posto che dava una mano a Monnica nelle faccende più materiali, ché una donna sola, per quanto brava, non avrebbe potuto far tutto. Erano, dunque, nove o dieci bocche da sfamare e senza che nessuno guadagnasse nulla. L'autore della più diffusa vita d'Agostino suppone che a tutto provvedesse Romaniano, tanto più che , c'era li un suo figliuolo, Licenzio, che doveva seguitar gli studi sotto la guida del vecchio amico paterno.

Ma non credo che Romaniano, per quanto fosse largo del suo, potesse mantenere da solo, per tanti mesi, tutta la brigata. Avrà dato la sua parte, e generosa, ma non di più. Agostino, in quasi due anni d'insegnamento milanese doveva certo aver messo dapparte qualcosa; Monnica riceveva qualche rendituccia del piccolo dominio di Tagaste e Verecondo avrà concesso all'amico, in cambio della sorveglianza sui contadini, il diritto di cogliere nell'orto e nel frutteto. Perché Agostino, come si rileva dai dialoghi Contro gli Accademici, era stato messo li nel posto del padrone per star dietro ai raccolti del podere e stiamo pur certi che il contadino, per ingraziarselo, avrà pensato anche a lui. E a questo - proposito non si capisce la meraviglia di certi malignatori che, per mettere in dubbio la conversione di Agostino, si stupiscono che a Cassiciaco leggesse e facesse leggere le Georgiche di Virgilio. Agostino si ritrovava a far la parte di fattore, aveva con sé - degli scolari e amava fin da ragazzo la dolcezza, quasi cristiana, del gran poeta di Andes. O che male c'era a legger quei libri che, senza contare l'armonia del verso, insegnano qualcosa anche oggi a chi sta in campagna e poteva servire, nello stesso tempo, all'istruzione di Licenzio? E quale contraddizione v'è mai tra la georgica virgiliana e i Vangeli tutti odorosi di georgica orientale? Faceva leggere anche l'Eneide, alla quale tutti riconoscono, oggi, il carattere di cc poema sacro» e forse le Bucoliche, dov'è quella ecloga famosa che ha fatto di Virgilio l'inconsapevole profeta di Cristo.

Eppoi non bisogna immaginarsi la villa di Cassiciaco come un convento. Erano dei giovani in mezzo a una bella campagna lieti d'esser soli, lieti d'essere insieme e a' quali non sembrava peccato, ogni tanto, sorridere e motteggiare, anche a metà delle più trascendenti discussioni filosofiche. Era un sodalizio di conterranei e di confilosofi che cercavano insieme la luce della bellezza e della verità; qualcosa di mezzo tra il cenacolo e l'accademia. Accademia, intendo, nel senso della scuola di Platone, perché i nostri amici erano, quasi tutti; grandi ammiratori del meraviglioso alunno di Socrate e spesero, invece, più giorni per diroccare il sistema della Nuova Accademia, quella scettica.

Ma un'accademia più alla buona di quella antica - una grossa famiglia che vive in armonia e senza mutrie pedantesche. Alipio è, forse, il più grave e se a volte vien amabilmente canzonato per la piccolezza della sua statura, Agostino ne ha una stima grandissima e l'ama come un fratello. Il giovane Licenzio è un po' sbandato e fantastico; ha la passione dei versi e scrive un poema su Piramo e Tisbe sicchè a volte e distratto e Agostino lo deve richiamare all'ordine e rammentargli quanto la filosofia è superiore alle favole poetiche. Trigezio è più vecchio, ha lasciato la vita degli accampamenti perchè ha una gran voglia d'istruirsi e non manca di penetrazione.

Monnica si rivela, oltre che cuoca eccellente, anche ottima filosofessa e vien sinceramente lodata dal figliolo. Gli altri sono, in genere, personaggi che non parlano». Agostino, era insieme, "il padre guardiano e il padre maestro" di quel conventino laico ma un guardiano che all'occasione scherzava e un maestro che non si vergognava d'imparar dai discepoli e dall'inerudita madre. Per lui quei primi giorni di Cassiciaco furono sopratutto una villeggiatura di convalescenza, perchè soltanto in novembre cominciarono i dialoghi da' quali sono uscite l'opere composte in Brianza. Sul primo dovè conoscere meglio la Bibbia, che aveva letta solo a pezzi e conoceva, più che altro, attraverso le critiche manichee e le omelie esegetiche di Ambrogio. Soltanto il Vangelo di San Giovanni e l'Epistole di San Paolo gli erano, allora, familiari ed avevano avuto una decisiva efficacia sulla sua conversione al Cristianesimo. Ora cominciò a leggere i Salmi e s'innamorò specialmente del quarto - quello che comincia « Quando lo invocai m'esaudi il Dio giusto mio e nella tribolazione mi trasse al largo» - dove tante parole dovevan sembrare profetiche e corroboranti ad Agostino: queste fra l'altre: «Sta su di noi il lume del tuo viso, Signore, e desti letizia al mio cuore». Difatti, a Cassiciaco, Agostino è tutto un altro: non più l'affannoso e angosciato schiavo che sbatte piangendo gli ultimi pezzi delle catene ma un sereno maestro, consolato dall'amicizia, rafforzato dalla sapienza, illuminato dall'appressamento a Dio. Scherza con Alipio, riprende lepidamente i poetino Licenzio, racconta apologhi, legge poesie, fa giochi di parole - insomma sorride. Da tutto questo i soliti diabolisti (cioè, secondo l'etimologia, calunniatori) voglion trarre argomento per negare la veridicità delle Confessioni, trovando un contrasto cosi reciso tra il catecumeno smaniante nell'orto milanese e l'arguto filosofo del romitorio brianzuolo.

Gente dotta, forse, ma di tutt'altro che di psicologia. Questo rasserenamento, questa riposata letizia son proprio la prova che Agostino ha raccontato la verità e che alla tempesta ansante è seguita la vittoria, cioè il placarsi dell'animo nel Dio finalmente conquistato. Non sanno, costoro, che anche nel cielo spirituale ai turbini succede il sereno? Agostino ha sempre desiderato la felicità e ha scoperto, da tempo, che la felicità non si trova che nella sapienza, nel vero; è finalmente giunto a riconoscere che questa sapienza, cioè la verità, è Dio stesso e che il possesso d'Iddio è, dunque, la felicità. Ora, dopo un decisivo stravoltamento dell'essere, ha lasciato tutto quel che gl'impediva la fruizione d'Iddio ed è arrivato, cioè, alla felicità che cercava: perchè mai non manifesterebbe, con misurata decenza, la sua gioia? Agostino non è più lo scorribandatore baldanzoso della prima giovinezza e neppure l'inquieto rovente degli ultimi tempi: possiede ormai la certezza, gli ondeggiamenti sono finiti, finito il martirio del combattere in sè con sè. Che meraviglia se l'anima si distende dopo una così lunga tensione, e si rallegra dopo un così aspro travaglio?

Fosse accaduto il contrario ci sarebbe, sì, da sospettare; e se fossero continuati a Cassiciaco gli stessi conturbamenti che a Milano comincerei a dubitare dell'esattezza delle Confessioni. A che avrebbe valso la sconfitta suprema del vecchio io se ancora si tornasse da capo colle tetraggini e gli spasimi? Si aggiunga che Agostino invece d'esser nella città affollata e rumorosa è nella pace d'una bella campagna; che invece d'esser obbligato alle quotidiane fatiche professionali è libero di pensare e di conversare a modo suo; che invece d'esser circondato da gente malevola o da personaggi di soggezione vive colla madre, felice di vederlo tornato al suo Dio, col figliolo amatissimo che dà prove continue del suo ingegno precoce e della candidezza della sua anima, con Alipio ch'è il più vecchio e il più fidato dei suoi amici, con dei giovani dallo spirito vivo e curioso che gli tengon testa nelle discussioni e lo riscaldano colla gioiosità naturale della gioventù - vive, insomma, in mezzo a persone che gli voglion bene e alle quali vuol bene. Tutte queste condizioni riunite di letizia - senza scordar la principale, ch'è il ritrovamento d'Iddio - bastano, e n'avanza, per giustificare nel modo più verosimile l'atmosfera che si respira nei dialoghi di Cassiciaco e che fa inalberare, non so quanto per ingenuità psicologica o per malignità filologica, i moderni inquisitori d'Agostino.

Il quale, poi, se durante il giorno celiava o ragionava di filosofia accademica e platonica, passava una parte della notte, sveglio, a confabular con sè stesso e a conversare con Dio e da queste veglie solitarie, e talvolta intrise di lacrime, sono usciti i Soliloqui dove si trova, quasi al principio, quella lunga e appassionata elevazione al Signore, litania fremente d'amore, dove la sostanza profonda della fede ha preso la veste tutt'ali di un volante peana. Ma, dicono, le linci guerce del ma, nei tre dialoghi scritti in Brianza Agostino parla più da raziocinatore che da mistico, più da uomo filosofico che da uomo religioso, e anche il secondo libro dei Soliloqui non è che una dissertazione, a fondo platonico, sull'immortalità dell'anima. C'è il pensatore acuto ma non ancora il cristiano fervido. Calculemus! come diceva Leibniz.

Agostino andò a Cassiciaco coi suoi agli ultimi d'ottobre e dovè tornare a Milano, al più tardi, ai primi di marzo perchè i battesimandi di Pasqua dovevano iscriversi al principio di quaresima e risulta dal racconto delle Confessioni che al ritorno la terra lombarda era ancora ghiacciata. È stato nella casa di Verecondo dunque quattro mesi interi e di questi quattro mesi neppure uno intero è occupato dai ragionari che vennero a formare il Contra Academicos, il De vita beata e il De ordine. Quando si fu vicini alla fine delle vacanze scolastiche, cioè a metà ottobre, Agostino scrisse alle autorità milanesi che trovassero un altro venditore di parole perchè la salute del corpo e più quella dell'anima non gli permettevano di spacciare frasi e trabocchetti a un tanto l'ora. Nello stesso tempo scrisse anche una lunga lettera ad Ambrogio, nella quale gli rifaceva la storia-confessione dei suoi errori e gli annunziava la sua ferma intenzione di ricevere il battesimo, chiedendogli, nello stesso tempo, quali letture dovesse fare per meglio prepararsi a quel desideratissimo sacramento. Non sappiamo quel che risposero i soprintendenti della scuola ma sappiamo che Ambrogio rispose e consigliò al catecumeno la lettura d'Isaia. Agostino obbedì ma bisogna confessare che la potenza lirica e maschia dell'annunziatore messianico non lo conquistò: il libro gli parve oscuro e tornò ai Salmi e al suo San Paolo.

Soltanto il 10 novembre, pochi giorni dopo esser giunto a Cassiciaco, Agostino propone ai suoi scolari Licenzio e Trigezio uno di quei problemi che avevano affaticato la filosofia greca: È necessario sapere la verità? Si può esser felici senza sapere la verità? E la discussione, alla quale prende parte da ultimo anche Alipio ma, soprattutto Agostino e perfin Monnica, dura sei giorni. Le tesi della Nuova Accademia son rimesse in questione e rivoltate per tutti i versi e la conclusione è questa: « Ognun sa che ci sono due modi che ci conducono a conoscere: l'autorità e la ragione. Per me son risoluto a non scostarmi mai dall'autorità del Cristo perchè altra non v'è che pesi di più». Quanto alla ragione ha fiducia che nei platonici troverà, provvisoriamente, una dottrina che non sia in contrasto con quella cristiana.

Ma è bene avvertir subito ch'egli ha già identificato il Verbo di San Giovanni col Dio di Plotinio e che il platonismo in tanto gli piace in quanto vi trova un annuncio e una conferma della teologia cattolica. Agostino era stato, un certo tempo, accademico, cioè scettico e ora che s'è liberato vuol rifare l'itinerario e l'inventario della sua liberazione, sia per metter fuori una volta per sempre lo scetticismo, sia per aiutare gli amici, i discepoli e i lettori a superarlo. Il Contra Academicos è, sotto il suo aspetto filosofico, un'opera - apologetica, cioè l'eliminazione d'una pregiudiziale anticristiana, tanto più quando si tenga presente che là dove si parla di «sapienza» s'intende sempre quell'unica sapienza ch'è il Dio cristiano. Pochi giorni dopo, il 13 novembre, ricorreva il genetliaco d'Agostino, che finiva trentadue anni, e Monnìca fece, come si direbbe noi, un po' di rialto, cioè un desinare meno frugale del solito.

E finito ch'ebbero di mangiare Agostino, prendendo occasione dalle analogie tra il cibo del corpo e quello dell'anima, propose la questione s'è beato colui che possiede ciò che desidera. Ne segue una lunga e gaia disputa alla quale prende parte, con rozze ma sensate parole, anche Monnica. Data l'identificazione tra la sapienza e la beatitudine e tra il Figlio d'Iddio e la sapienza si vede subito la connessione coll'altro dialogo: anche il De Beata Vita è in parte un supplemento di polemica contro gli scettici e per il resto una dimostrazione ch'è beato veramente solo chi possiede Dio. Siamo sempre, com'è facile accorgersi, sul piano della ortodossia cristiana, anzi dell'apologetica. Tanto che il dialogo finisce colla citazione che fa Monnica, molto a proposito, d'un inno di Ambrogio, di quello che comincia Deus creator omnium, e col richiamo alla trinità delle virtù cristiane, fede, speranza e carità. Il terzo trattato, il De Ordine ha un'origine ancor più curiosa che val la pena di raccontare. È notte e Agostino veglia, come il solito, meditando. Porge a un tratto l'orecchio allo scorrer dell'acqua nel canale del vicino bagno e nota che ora ha un suono e ora un altro, ora più rapida ora più posata. Cerca tra sè la ragione di quell'alternanze di suono e non la trova. Ed ecco che in quel momento Licenzio - che dormiva nella stessa stanza - tediato dal correr dei topi fa dei tonfi con un pezzo di legno per spaventarli e Agostino, sentendo ch'è sveglio anche lui, gli domanda se ha notato il rumor vario che fa l'acqua nel canale. Licenzio rispose di sì, e che talvolta ha creduto che dipendesse dalla pioggia ma s'è accorto che anche se piove l'alternarsi dei suoni è il medesimo.

Trigezio, che pure è sveglio, conferma e Licenzio spiega come, secondo lui, vadano le cose. Siamo d'autunno e le foglie cadon dagli alberi e anche nel canale; quando ce n'è poche e l'acqua le supera senza difficoltà il suono è calmo e chiaro; quando si ammassano nell'incile l'acqua preme di più e scorre più precipitosa e rumorosa. Agostino fa il meravigliato e Licenzio afferma che non c'è da stupirsi chè tutto, nell'universo, accade secondo un ordine che comprende in sè tutte le cose. E allora addio sonno; i tre amici si alzano e cominciano animatamente a disputare su quest'ordine universale, e in quale rapporto sia con Dio e come si accordi coll'esistenza del male. Molti dei problemi più difficili che Agostino risolverà in opere più tarde, quando sarà in piena possessione della sua dottrina teologica, qui son posti per la prima volta con una lucidità sicura e insieme temeraria. Qui Agostino s'addimostra ancor più cristiano che negli altri due dialoghi e vi troviamo gli accenti appassionati che, a sentire gli arcicritici, mancano negli scritti di Cassiciaco. A un certo punto Trigezio - che da poco ha lasciato la vita militare e non ha troppa domestichezza colla teologia - dice una frase dalla quale resulterebbe che soltanto il Padre, e non anche il Figlio, può esser detto Dio. S'accorge però del lapsus e vorrebbe che lo stenografo non raccogliesse quella frase infelice ma il malizioso Licenzio strepita perchè quelle parole sian raccolte e si busca un rimprovero dal maestro.

Trigezio ride nel vedere sgridato il compagno invece di lui che ha commesso l'errore e allora Agostino esplode: « Cosa fate? Non vi turba il pensiero da quali masse di vizi e tenebre d'imperizia siam premuti e coperti? Questa è quella vostra attenzione ed elevazione a Dio e alla verità di cui pocanzi, inetto, m'allegravo? Oh se vedeste, pur con occhi guerci come i miei, in che pericoli giacciamo, di che morbo codesto riso indica la demenza! Oh se vedeste, come presto, come subito, quanto più abbondantemente lo volgereste in pianto. Miseri, non sapete ove siamo?.. Non raddoppiate, vi scongiuro, le mie infelicità. Mi bastano le mie ferite, prego con pianti quotidiani Dio che le sani; ma spesso mi convinco di essere indegno d'esser sanato così presto come vorrei. Non me le raddoppiate, prego ... e se mi chiamate volentieri maestro, datemi la mercede: siate buoni». E le lacrime gl'impediscono di seguitare.

Questo non è davvero, mi sembra, linguaggio di puro e placido filosofo ma sì di trepido e scrupoloso cristiano. E d'altra parte se pur questi dialoghi hanno, nell'insieme, l'apparenza di amicali ragionamenti attorno a questioni filosofiche sul genere di quelli di Cicerone - e sono più speculativi che propriamente religiosi - bisogna sempre ricordare che la sostanza, sotto il linguaggio platonico, è perfettamente cristiana e che spesso vi s'incontrano citazioni e reminiscenze dei testi sacri, non soltanto nei Soliloqui ma anche negli altri scritti, specialmente dei Salmi, di San Matteo, di San Giovanni e di San Paolo.

E ci son rammentati i «sacra nostra» e i «veneranda mysteria» per alludere ai sacramenti e agli insegnamenti della Chiesa e più volte v'è nominato Cristo e si parla di Ambrogio come « sacerdos noster ». Non solo il fondo ma anche il colorito dei tre dialoghi è, a dispetto dei loici corbacchini, cristiano. Agostino è convertito e convertito davvero e se ancora si serve, finchè non avrà acquistato una maggior familiarità colla Bibbia e colla letteratura ecclesiastica, del linguaggio neoplatonico ciò non vuol dire che si sia fermato al neoplatonismo. Egli ha bisogno di sbrattar la mente dai residui del passato; è stato manicheo, scettico e neoplatonico. Nell'opere scritte a Cassiciaco egli si libera dai postumi filosofici con mezzi filosofici e se conserva la terminologia di Platone e di Plotinio è solo perchè s'è persuaso ch'essa traduce le stesse verità - benchè non tutte - ch'egli trova in San Giovanni e in San Paolo. Come il seme, per diventar pianta, rompe la buccia, così il seme della fede cristiana, ormai germinante in Agostino, sta rompendo la buccia filosofica per dar principio al maestoso albero della sua futura teologia. Fra poco il solitario novizio non avrà più bisogno di gerghi d'accatto per comunicare i suoi pensamenti cristiani e già nel De ordine e nei Soliloqui parla, accanto al filosofo, l'innamorato d'Iddio.

Il Cristianesimo, fra gli altri benefici, ha risvegliato la fecondità di Agostino. A trentadue anni aveva composto un solo libro, il De pulchro et apto, e dal 380 al 386 non aveva scritto, che si sappia, neppure una pagina. Ora, in brevissimo tempo, compone l'una dietro l'altra quattro operette, che formano, in tutto, otto libri. Il ritiro in Brianza non è stato inutile. Egli torna a Milano più sicuro di sè, e della sua fede, più agguerrito contro le tentazioni e gli errori, e può sottoporsi a quel lavacro che ha desiderato fin dall'infanzia ma che ora soltanto, dopo che se n'è fatto degno, pienamente comprende.

 

Gli eremiti di Cassiciaco dovettero tornare a Milano nei primi di marzo perchè gli electi o compitentes - cioè coloro che desideravano il battesimo - dovevano iscriversi al principio di quaresima e le Ceneri, nel 387, furono il 10 di marzo.

Alipio, in segno di devozione, volle fare il lungo tragitto a piedi nudi, benchè la terra fosse ancora tutta ghiacciata. Giunti a Milano pare che Licenzio e Trigenzio andassero per conto loro ma gli altri rientrarono nella vecchia casa dove il fico, nell'orto, non aveva ancor cominciato a rimetter le foglie. Il battesimo veniva amministrato, in quei tempi, solo nella notte tra il Sabato Santo e la mattina di Pasqua: durante la quaresima i candidati venivano istruiti per farli degni di ricevere il triplice sacramento, chè allora battesimo, cresima e prima comunione si eseguivano nel corso della medesima cerimonia. In quei mesi di marzo e d'aprile Agostino si recò tutti i giorni a una delle basiliche mediolanensi - forse l'ambrosiana - e potè corroborarsi l'anima, un po' disseccata e distratta dai frastagli filosofici, al banchetto quotidiano della liturgia.