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Prisco Maria Domenico: Cuore di Madre

Il frontespizio del libro di Prisco Maria Domenico

Il frontespizio del libro di Prisco Maria Domenico

 

 

 

DOV'E' CASSICIACUM

 

CUORE DI MADRE - ROMANZO STORICO DELLA SECONDA METÀ DEL SEC. IV D. C.

I E II PARTE - TIPOGRAFIA LAURENZIANA - NAPOLI 1971

di Prisco Maria Domenico

 

 

 

PAG. 107 E SEGG.

 

II - DOV' È CASSICIACUM

 

Giunsero le vacanze autunnali e Agostino si liberò definitivamente della scuola, così con la sua comitiva poté dirigersi alla volta di Cassiciacum. La comitiva era composta da Mònnica, Agostino, Navigio, Alipio, Rustico, Lastidiano, Trigezio, Licenzio, Adeodato.

Mònnica era indispensabile sia per la retta amministrazione della casa, sia per i pasti e la pulizia. Agostino si prese l'incarico di attendere alle cure del podere e dirigere i coloni insieme a Navigio, Rustico e Lastidiano. Ad Alipio fu affidato l'economato e l'incombenza di recarsi sovente a Milano per provvedere ai bisogni della Comunità. Trigezio e il figlio di Romaniano, Licenzio, dovevano proseguire gli studi sotto la sorveglianza e la guida magistrale di Agostino, insieme ad Adeodato che mostrava un ingegno superiore alla sua età.

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Nel frattempo che Agostino e gli amici vanno sistemandosi nella agreste villa di Verecondo, crediamo opportuno soddisfare la curiosità di un nostro Lettore che vorrebbe conoscere qualche cosa del ridente paesello di Cassiciacum. Esiste ancora? Dove si trova? Come si chiama oggi? Che ci si fa di bello? Gli abitanti di ora si ricordano di ciò che vi avvenne ai tempi del nostro racconto?

È giusto che il nostro bravo Lettore sia messo al corrente di queste notiziole che lo interessano. Si deve sapere che il Cassiciacum dove Agostino andò a prepararsi per il suo battesimo si chiama oggi Cassago della Brianza, da non confondersi con il Casciago di Varese. Qualcheduno infatti ha creduto che l'antico Cassiciacum fosse il Casciago di Varese, pensando che l'etimologia di Casciago si avvicinasse di più alla parola latina di Cassiciacum. Sembra invece che il Casciago di Varese derivi dal latino Castiacum e non Cassiciacum. Inoltre è un paese molto lontano da Milano e non pare che ci siano tradizioni tali da poterlo allacciare ai fatti che stiamo narrando.

Invece il Cassago di Brianza, molto più vicino a Milano, trovasi menzionato in pergamene medievali coi nomi di Casssiacum, Cassiaco, e Cassiago, da cui è facile la trasformazione in Caxago e Cassago. In più vi sono alcune tradizioni che, lo legano a s. Agostino. A fianco della chiesa parrocchiale, in un poggio attiguo, tra folti alberi, una silenziosa fonte getta di continuo acqua in una vasca ove oggi le donne vicine vanno a lavare i panni. I nativi la chiamano la Fontana di S. Agostino e dicono che a questa fonte si abbeveravano i cavalli di cui si serviva Alipio nell'andare e venire da Milano. Non molto lontano vi fanno osservare il tracciato di una antica e stretta strada romana che portava a Milano, passando per Besana e poi per Seregno. Nella stessa chiesa parrocchiale si conserva come paliotto dell'altare, dedicato a S. Agostino, una antichissima pietra che era già nella vecchia chiesa distrutta nel 1610 per ordine del Cardinale Federigo Borromeo perché troppo cadente, come risulta da un registro parrocchiale del tempo. La tradizione riporta che su questa pietra vi abbia pregato il Santo; anzi c'è chi afferma, esagerando, che vi abbia celebrato la S. Messa. Da questa esagerazione si può arguire l'antichità della leggenda cui si accenna anche nel registro sopradetto.

È da notarsi che la pietra non presenta nulla d'interessante e non se ne spiega la conservazione senza una devota colleganza allo stesso Santo. Ancora, nel medesimo registro parrocchiale del 1622 si accenna alla devozione verso S. Agostino ed è scritto che la Comunità di Cassago si credette in dovere di annoverare tra i suoi Patroni, oltre S. Giacomo Apostolo e S. Brigida Vergine, anche S. Agostino per avere liberato il contado dalla «nequissima peste» del 1566. Vi sono pure lasciti per la celebrazione della festa di S. Agostino. E non solo di Agostino c'è memoria, ma anche di Alipio e di Verecondo e di Mònnica che viene denominata con l'appellativo di Matrona come può vedersi sotto la statua della Santa nella parrocchiale di Besana. Si tramanda infine che la famosa villa di Verecondo fosse nell'area o nei pressi ove sorse poi il Palazzo Visconti di Modrone, accanto al distrutto Castello di Cassago.

Il Palazzo è stato diroccato in questo ultimo periodo e non rimangono che ruderi delle sole fondazioni. Esso trovavasi dietro l'attuale chiesa parrocchiale. Non manca il prato verde e accogliente che nella calma estate novembrina invitava il Retore convertito a trascorrervi ore liete con gli amici. Antichi olmi e vecchi castagni gareggiavano nell'offrirgli all'occorrenza ombra discreta per godersi il filosofico dialogare dei preziosi ospiti. Un po' più in basso della villa erano costruite le terme alimentate o dalla fonte di S. Agostino o da altre sorgenti vicine attraverso canali di legno.

Quivi andavano a depositarsi lentamente le stanche foglie, cadenti dagli alberi per l'inoltrato autunno, che causavano il fenomeno del diverso rumore delle acque correnti, come descrive poi Agostino. Per tutte queste ragioni, delle quali lasciamo il vaglio agli esperti, siamo indotti a riconoscere Cassago della Brianza come il diretto discendente dell'antico Cassiciacum. Bisogna ancora aggiungere che i bravi Cassaghesi sono ancora oggi molto orgogliosi di aver data ospitalità alla nobile comitiva Agostiniana. L'odierna Cassago trovasi nella Brianza centrale, a nord di Milano, tra Vimercate e Olginate, presso Renate e Besana. Appartiene alla Provincia di Como e si estende sopra una ondulata collina a 334 metri sul livello del mare, a 22 kilometri dal capoluogo e a un 25 kilometri da Milano.

I suoi abitanti (circa 3.000) laboriosi e intraprendenti, hanno fatto del loro Comune non solo un centro ad economia agricola con ottimi foraggi e buona produzione zootecnica, ma anche un assortimento di industrie con fabbriche di tessuti, mobili, oggetti in gaalatite, cicli, moti, elettrodomestici, cementi ... Cosicché in paese non manca il lavoro per chi lo vuole e lo cerca e vi si gode una certa agiatezza. A un 300 metri dall'abitato di Cassago scorre fragoroso il fiumicello chiamato Ganbaione. Il fiume prende questo nome da un mulino lì vicino detto di Ganbaione, situato presso la strada che da Cassago porta a Cremella.

Sembra che proprio da questo luogo e da altre sorgenti accanto partiva un canale di legno che portava l'acqua ai bagni di Cassiciacum. Quel posto era perciò nominato Canalis Balneorum che attraverso modificazioni, è diventato Ganbaione. Dicono che la spia la faccia quell'insignificante "n" di Gan che precede il "B" di Baione. In Italiano il "b" è preceduto sempre da "m" e non da "n". Perché si trova quel "n" in Gan- baione? Perché, dicono, è il residuo della parola canalis, parola diventata poi Gan per lo storpiamento fatto dai barbari installatisi nella regione lombarda; così come il baione sarebbe corruzione di balneorum.

Come è vero che nel mondo tutto si evolve e si trasforma. Anche i nomi con le loro storpiature hanno le loro storie. Tocca ai dotti andarle a scoprire.

È che, a dirla in segreto, non possono andar d'accordo nemmeno loro, perché, dopo tanti anni, le storie s'imbrogliano, s'accavalcano, si allargano, si stringono, si impiguano, si stremenziscono e ognuno se le accomoda a suo gusto e ne vien fuori una confusione tale che bravo a chi riesce a raccapezzarvisi. Non molto lontano da Cassago vi fluisce l'Adda che esce placido e solenne dal lungo ramo del lago di Lecco e prosegue il suo corso, a volte incassato in gole profonde e a volte in larghi pianori. Nelle sue acque guizzano con molta grazia pesci in abbondanza, che però non riescono a sfuggire le insidiose reti o gli uncinati ami col verme ingannatore e finiscono, come cibi gustosi e ricercati, sulle tavole dei buongustai brianzoli. Per le circostanti valli cassaghesi si espandono, in mezzo ai dolci declivi dei colli, altri fiumi e torrenti, elargitori di benefiche acque. Al loro passaggio plaudono le grate sponde con le folte piantagioni, richiami di canori uccellini e nascondigli di lepri, volpi, tassi e altri roditori selvatici, ambito e divertente passatempo dei cacciatori.

A nord di Cassago, ai confini della Brianza, una schiera di laghi morenici stende le sue limpide e tremule acque di color verde oscuro ove si specchiano le case capovolte dei centri abitati che prestano loro il nome: laghi di Como, Alserio, Montorfano, Pusiano, Annone, Garlate, Lecco ....

Il clima di Cassago è quello della Brianza; quello che era ai tempi del presente racconto, fresco di estate e piuttosto rigido d'inverno. La neve vi fa sempre la sua comparsa e non se ne va con molta fretta, tanto che il contadino n'è avvezzo e dice pacatamente: - La neve non se la mangia il lupo, se ne andrà; oggi è dura, ghiacciata, perché soffia la borea, domani è molle perché accarezzata dallo scirocco. - È un clima che naturalmente risente la vicinanza delle massiccie montagne dalle quali è circondata la regione briantea. Infatti dalle alture di Cassago, nello sfondo nordico occidentale della regione, dietro le cime del Balanzone di Como e del caratteristico Resegone di Lecco (detto così perché con le sue punte forma una grossa sega) si scorgono, a forma d'immenso ferro di cavallo, le altissime Alpi col monte Rosa più vicino, il monte Bianco più lontano, il Monviso lontanissimo. La panoramica visione, nella sua affascinante maestà, come oggi, così allora ai tempi di Agostino, non opprime, ma allarga l'animo del contemplante e lo riempie di gioconda pace. Nonostante il radicale mutamento del sistema di vita con l'immigrazione di altra gente da varie parti d'Italia, pure nelle semplici popolazioni della tranquilla regione briantea si conservano favolose e simpatiche costumanze tradizionali, come, per esempio, quella della Giubianna o Gibianna. Un'antica e popolare leggenda narra che un tempo la merla era bianca bianca. Ma capitata nei paraggi della Brianza in tempo di neve, poverina, colpita dal freddo, andò a rifugiarsi in un cammino [camino]. Ora, rivoltandosi nella fuligine del cammino [camino] per riscaldarsi, divenne nera nera e non ha potuto cambiare più questo colore che ha trasmesso ai suoi merlotti di generazione in generazione, fino ai nostri tempi. In ricordo di questo leggendario cambiamento di colore delle piume della merla è nata la Giubianna. La Giubianna sarebbe una vecchia pallida e grinzosa, stecchita dagli anni, che negli ultimi giorni del mese di gennaio va in giro per il paese a far la «merla» perché cessi il freddo e inizi il tempo bello.

Essa è coperta da un lungo mantello nero con largo cappuccio per coprire la testa. Naturalmente soffre il freddo e ha bisogno di scaldarsi; perciò quando picchia alla porta di una casa, appena la si apre, vi entra frettolosamente, fregandosi le mani intirizzite, emettendo un tremolante brrr... dalla bocca, accompagnato da uno scotimento di tutto il corpo infreddolito. Senza complimenti si siede accanto al focolare e vuol trovare pronto il tradizionale e fumante piatto, consistente nel risotto alla milanese, giallo di zafferano e ben condito con bruscoli di carne porcina, di cui (tra parentesi) la vecchia è abbastanza ghiotta. Guai se non lo trova. Delusa, lei diventa iraconda e vendicativa. È capace con i suoi malauguri di inondare la casa di noiosi insetti per una intera stagione, per punirla del modo indegno come ha ricevuta la Giubianna, e, se non le basta, la colpisce con altri maligni dispetti. Se ci sono in quella casa ragazze da marito, poverette loro, su di esse si scaglia la vendetta della insoddisfatta vecchia.

Sparge infatti avanti alla porta di casa dei mucchietti di crusca, il che significa che passerà almeno un altro anno senza che trovino il «merlo» ... Il merlo sarebbe il marito ... Che sventura! Nonostante i malocchi della furibonda Giubianna, appena le prosperose fanciulle sentono il profumo della violetta, corrono a cercare il timido fiorellino, nascosto in mezzo alle verdi e tondeggianti foglie, ai margini delle siepi, tra le quali fuggono impaurite le prime lucertolette. Ne compongono un grazioso mazzolino e lo regalano all'amato, e, dimenticando la crusca della vecchia, cantano alla primavera la loro fresca e gioiosa canzone d'amore ...

 

III - LA VILLA DI VERECONDO

Tralasciamo queste leggiadre costumanze e cerchiamo di rintracciare l'ospitale villa di Verecondo. Già ai tempi di Plinio il giovane la feconda e amena regione della Brianza era graditissima ai romani. Molti patrizi, tra i quali Lucio Virginio Rufo e lo stesso Plinio, vi costruirono graziose e accoglienti ville e venivano a godersi il fresco nell'estate afosa con le loro matrone e favorite. Oggi non molto lungi da Cassago v'è un grazioso paesello chiamato Villa Romanò, evidente derivazione da Villa Romanorum. Probabilmente era un castrum della Legione Padana che serviva di rinforzo alle Legioni romane stanziate nelle Gallie. In vari luoghi della Brianza sono venute alla luce are di vecchi templi pagani con iscrizioni latine a Giove, a Ercole, alla dea Vittoria e ad altre divinità importate dai romani. Il che dimostra che la zona era molto frequentata e abitata dai romani.

Per quel che riguarda la nostra Cassiciacum, oggi detta Cassago, recenti scoperte fatte proprio in varie località, sia nel centro abitato, sia nel Comune di Cassago, hanno portato alla luce varie ceramiche nere, cocci, mattoni, frammenti epigrafici ed archeologici che vanno dal secolo VII avanti Cristo al IV secolo dopo Cristo, ai tempi del nostro racconto. Questo testimonia che il paese è antichissimo e vi sono state varie culture dagli Orobii, Liguri, ai Celti e Romani. Il nome Cassiciacum, da cui come si è detto è derivato Cassago, è senza dubbio un nome celtico romanizzato. Nel IV secolo Cassiciacum doveva essere un paese abbastanza noto con terme, fori, basiliche, scuole, agenzie d'affari... Non fa meraviglia che il grammatico Verecondo di Milano avesse qui la sua magnifica villa che generosamente mise a disposizione del collega Agostino e dei suoi amici. Il nome di Verecondo è conosciuto nella Brianza. Nel secolo scorso a Villa Guidino, frazione del comune di Besana, a pochi chilometri da Cassago, fu scoperto un sasso con la scritta I. M. O. VERECUNDUS.

Questo sasso si conserva ora nel Museo Sforzesco di Milano. Rendiamoci un po'conto di questa villa di Verecondo ove prese stanza la nostra Comunità Agostiniana. La villa era un vasto caseggiato a due piani. Il piano superiore era riservato ad abitazione; il piano inferiore era ornato di porticato molto adatto per scaricare e caricare i prodotti e gli arnesi. Sul porticato si aprivano due discreti magazzini o depositi, una grande cucina che serviva anche da triclinio o stanza di riunione serale e accanto alla cucina un'altra stanza che era il cosidetto tepidario o bagno ove ci si riuniva di giorno. Nei sotterranei della villa, oltre l'ampia cantina, v'era il deposito della legna da ardere e una fornace che serviva per il riscaldamento degli ambienti superiori. Sorgeva il caseggiato su un ampio spiazzo di una altura da dove, verso occidente, si godeva uno spettacolo incantevole, specie quando la sera, le bianche cime del Monviso e delle circostanti Alpi diventavano violacee, ammaliate dal gioco di fuoco che lentamente andava spegnendosi giù nell'orizzonte lontano in un varieggiante corteo di nubi, prima, splendide di chiarore, e poi scolorantisi pian piano in un crepuscolo di silenzio e di meditazione.

A oriente l'amabile verde di un prato rendeva gaia e lieta la villa che fronteggiava un boschetto misto di castagni, di pini, di olmi, di elci, ove fischiettavano i merli canzonatori e un solitario usignolo deliziava l'aria con melodiosi e vari gorgheggi, invano imitato da una invidiosa cinciallegra, mentre i passeri pretenziosi coi loro schietti cin cin e i rapidi voli dal piano al bosco riposante rompevano la monotonia delle giornate autunnali e invernali. A sud il piano scendeva dolcemente fino alla fonte, ora detta di S. Agostino. L'acqua fresca e casta riempiva la vasca di cui s'è parlato innanzi; prima dissetava gli animali domestici e poi alimentava i canaletti che la portavano a irrigare i sottostanti orti per renderli più copiosi di ortaggi e di frutta. A nord invece il terreno tra mediocri ondulature, costeggiando una stradella, arrivava presso le sponde del Ganbaione.

Nel punto più elevato del precipitoso fiumiciattolo era installato un rudimentale arnese di sollevamento di acqua, detto noja. Era una grossa, alta e larga ruota di legno con cerchioni di ferro ai lati e con dei secchi infissi attorno, a poca distanza uno dall'altro. I secchi inferiori s'immergevano nelle turgide acque del fiume; la violenza di queste, colpendo i secchi, metteva in moto piuttosto regolare la gigantesca ruota, ben salda a un robusto pernio. I secchi, a uno a uno, si riempivano e quando giungevano alla sommità, prima di ridiscendere a tuffarsi nel fiume, versavano l'acqua con fragore in apposito canale che la conduceva in una enorme botte, donde veniva distribuita con sommesso gorgoglìo per l'esteso fondo, ricco di alberi e di arbusti.

I terreni venivano coltivati da una famiglia colonica che abitava in un casolare posto all'estrema ala orientale della villa. Era una famiglia patriarcale retta dal pater familias, un vecchio ottantenne di nome Pilade, ancor vegeto e robusto, dall'aspetto magro, asciutto, zigomi prospicienti, occhi vivaci con grosse sopracciglia, mento affilato, coperto quasi sempre da peli biancastri, perché, come egli stesso asseriva, conosceva il tonsore poche volte all'anno. Adeodato che presto strinse affettuosa amicizia col colono, non riuscì mai a sapere se il suo capo era ancora adorno di bianchi capelli perché lo vide sempre coperto da un tondo berrettino di lana a vari colori, terminante a pizzo con un fiocchetto blù. Conviveva Pilade con l'anziana moglie e un figlio sposato, con nuora, nipoti e nipotini; in tutto tra maschi e femmine, tra grandi e piccoli, la famiglia contava un 13 persone. Accanto alla casa colonica v'era la stalla, molto grande, arieggiata da sfogatoi a forma di strette feritoie, create appositamente curve nella parete, sulle mangiatoie, in maniera da cambiare aria, notte e giorno, senza danneggiare frontalmente gli animali. Nella stalla, legate ai cerchi delle mangiatoie, colme di fieno profumato, grasse mucche facevano bella mostra di loro possanza.

Esse offrivano volentieri ai coloni il loro latte butirroso non solo, ma prestavano anche un buon servizio nei campi, fendendo le dure zolle con l'acuto vomere, trascinato avanti con passo cadenzato e grave, tra prolungati muggiti e sbuffi nebulosi dalle umide gocciolanti narici. Ne ricevevano in cambio abbondante foraggio, fresca lettiera e continua pulizia. Sopra la stalla, il fienile, coperto da tettoia sensibilmente spiovente per equilibrare il peso della neve. Era aperto dalla parte di mezzogiorno. Vi si accedeva con scala a piuoli che fungevano anche da divertimento per i ragazzi.

Costoro ci si addestravano al gioco del salto, a grado a grado, o anche se ne servivano per salirvi dal di dietro con le sole braccia, piuolo per piuolo, mostrando nel divertirsi robustezza di muscoli e tenacia di volontà. Rallegrava infine la villa un pollaio popolato da gallinacei d'ogni sorta. Barbogi e gorgoglianti tacchini pretendevano emulare con la loro meschina coda arrotondata un superbo e ampolloso pavone che incedeva con la sua maestosa ruota, scintillante di colori e di disegni, disposti con mirabile vaghezza. Una chiocciola irritante, gelosa dei suoi pulcini, li chiamava continuamente intorno a sé con il suo gracido chioccio. Oche petulanti e curiosette si avvicinavano agli ospiti e poi si allontanavano frettolose, starnazzando le ali con grida e chiasso da rivoltare la villa, forse volevano dimostrare che erano animali da interessare i nuovi venuti. I galli poi davano spesso spettacolo da circo con le loro zuffe micidiali, a volte sanguinose e mortali, diventando oggetto di riflessione e di discussione per i nostri amici, tanto, che vi si accenna negli scritti di Agostino compilati in questo periodo. I terreni da lavorare erano molto estesi, parte a boschi, parte a semina, parte a ortaggi. Oltre la semina occupavano i coloni il taglio dei boschi, le fornaci per il carbone, l'irrigazione per l'orto, le piantagioni, la cura degli animali, sia da pascolo, affidati ai piccoli, sia' da lavoro e da latte, affidati ai più giovani, sia da cortile ai quali pensavano le donne.

 La vendemmia volgeva ormai al termine; era in corso ancora la pigiatura e la torchiatura, la revisione delle botti, la loro inzolfatura, la bollitura dei mosti, la sistemazione dei cestelli e dei tinozzi, la bruciatura delle vinacce per il lambicco. Si avvicinava intanto la raccolta delle castagne e delle noci e si doveva provvedere al mangime degli animali per l'invernata. Durante l'inverno, sì, la neve riusciva a far sospendere molti lavori campestri anche per qualche mese, ma allora, la riparazione dei guasti agli arnesi, la confezione di cesti con vimini, la cardatura della lana, la tessitura, il travaso dei vini in cantina ... tutta un'altra serie di lavori teneva occupati i coloni. Lavori su lavori si accavallavano senza sosta nella villa di Verecondo a Cassago, sicché s'imponeva attenta vigilanza perché tutto procedesse secondo i desideri del padrone. Un insieme dunque di novità varie e molteplici, di bellezze semplici e naturali, di mistica quiete e di ordinato dinamismo poteva ben rendere piacevole la vita campagnola ai nostri amici giunti da Milano. Nello stesso tempo era in grado di donare sanità e robustezza ai loro corpi e alle loro anime.

 

IV - DALLA MUTABILE NATURA ALLA QUIETE DELLO SPIRITO

Non è possibile tener dietro a quanto avvenne in questa villa per tutti quei mesi che vanno dalla seconda metà di ottobre del 386 alla prima metà di marzo del 387, data di ritorno a Milano. Furono mesi d'intenso lavoro fisico e psichico, culturale e spirituale, in cui si gettarono le basi del programma di Vita Agostiniana che si sarebbe sviluppato in futuro. Quello che interessa allo scopo del nostro libro è il nascosto e segreto lavorio del cuore materno di Mònnica, vigile, premurosa, tutta a tutti, la prima ad alzarsi, l'ultima a coricarsi, presente a ogni bisogno della non piccola famiglia e di ciascun membro in particolare.

Aveva appreso dall'Apostolo Paolo che la vedova deve attendere a ordinare e organizzare la sua famiglia per piacere a Dio. Mònnica, vedova sobria, pia, lavoratrice, di fede virile, materna nella carità, divenne l'anima della Comunità Agostiniana di Cassago. Sempre gioviale, allegra, faceta, mostrava l'interna gioia del cuore, gioia che si manifestava nella lindidezza della casa, nell'impeccabile ordine che si mirava in ogni angolo, in cucina, nel bagno, nel triclinio, in giardino, ovunque. Benedetta la casa retta e governata da una donna saggia, prudente e forte, da una madre che ha un cuore nel petto, caldo di perenne amore! Né deve credersi che Mònnica agisse per una passiva rassegnazione, senza convinzione e senza libera espansione della sua volontà, come fosse una serva, soggetta agli imperiosi bisogni dei componenti la Comunità.

Niente affatto. Mònnica era la madre, la regina che esigeva per sé il diritto di governare. Per lei governare significava servire. Insegnamento ricevuto da Faconda [sua madre], se ricordate, quando era ancora fanciulla. È strano questo modo di concepire il governo di una casa, di una comunità, di un regno, di una nazione, in un mondo in cui tutti vogliono governare per il gusto matto di comandare ed essere serviti. Colui che umilmente lavò i piedi ai suoi discepoli è il Maestro della nuova mirabile concezione di governo. Egli disse: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire.»

Mònnica, autentica discepola di Cristo, si considerava la serva di tutti. Ciò costituiva per lei un titolo di onore e ne esigeva di diritto l'esclusiva. Insomma i servizi toccavano a lei. Questo modo di agire attirò su di lei rispetto e venerazione e impose a ciascuno di ritenerla quale madre comune. Non poche volte, nelle varie discussioni filosofiche in cui Agostino impegnò i suoi allievi ed amici, Mònnica fu invitata a esprimere la sua opinione, come vedremo. Essa si schermiva con la scusa che non era all'altezza di emettere una qualsiasi proposizione, ma messa alle strette dalle insistenze del figlio e degli altri, con parole spontanee e magari sgrammaticate dava sentenze che destavano meraviglia e facevano sorgere con entusiasmo la lode evangelica al Signore che ottenebra le menti dei dotti superbi e presuntuosi e manifesta la verità ai semplici e umili di cuore. È sempre certo che la Sapienza alberga nelle anime piccole. Essa guarda con disprezzo i superbi e li abbandona nei loro deliranti pensieri. Si accompagna invece con affabile volto agli umili; lì nutre con l'abbondante pascolo della fede, li fortifica con lungimirante speranza, li salda col fuoco della carità. Gli studiosi di Cassago avevano ragione di chiedere alla saggezza di questa umile, ma elevata donna, i suoi pareri su argomenti abbastanza difficili per apprendere dalla sua voce e dal suo cuore i responsi di Dio. Vedremo come l'influsso psicologico di una donna di tale fatta abbia indotto il figlio e i suoi amici a impiegare il loro tempo nella villa di Verecondo in maniera da degnamente prepararsi al definitivo ingresso nel Regno cristiano. È bene però tener conto di un fatto basilare per comprendere la forza positiva di questo influsso.

In Mònnica il sentimento religioso non era una soprastruttura, una appiccicatura, oppure una espressione di superstizione o di euforica esaltazione spirituale, comune ai suoi tempi e in certa misura anche ai tempi nostri. No, in Mònnica la religione era parte integrante del suo modo di vivere, di pensare, di agire. Ciò apparve chiaro ai soci di Cassago, che vivendo in campagna, a contatto aperto con il creato, s'accorsero che esso rivela a chi ha intelletto e cuore il suo alto e profondo magistero religioso, morale e sociale, e, senza scosse, spinge l'uomo a una vita più ragionevole e quindi più umana. L'esempio di Mònnica trascinò inconsapevolmente i nostri uomini a considerare il bello ordinato e armonico che ammiravano nei campi; li invitò a superare la visione di una vita realistica sì, ma che ogni giorno variava sia nelle piante, sia negli animali, sia nei fenomeni atmosferici. Li costrinse poi a confrontare la propria mutabilità con la continua metamorfosi riscontrata intorno e li obbligò a trascendere questa natura instabile, per cercare, trovare, conquistare quello che è fermo e solido e che solo può dare riposo allo spirito, altrimenti sempre agitato e inquieto. Così li condusse al noto aforismo agostiniano: «Tu, o Dio, ci hai creati per Te e sarà sempre inquieto il nostro cuore finché non riposerà in Te, Dio mio.» Anelito sublime di nobile animo! Vi sono documenti giunti fino a noi che dimostrano efficacemente il segreto influsso di Mònnica sulla formazione ascetica dei figli del suo cuore. Il nostro intento non è quello di sciorinare tali documenti, il che potrebbe piacere a qualche appassionato Lettore, ma sarebbe troppo lungo e noioso per altri. D'altra parte un accenno, benché di sfuggita, credo che interessi chiunque si trattiene meco in questo misterioso andirivieni dello spirito umano.

Vediamo perciò come la Comitiva Agostiniana impiegò il tempo nei mesi trascorsi nella villa di Verecondo. Sceglieremo episodi che colpiscono per la loro vivacità e paiono adatti a scoprirci le interne aspirazioni verso il traguardo finale, verso l'ideale agognato.

Agostino e gli amici si alzavano all'alba per recitare le preghiere mattutine e meditare alquanto sui misteri che innalzano al Cielo. Poi Navigio s'indugiava in casa per aiutare il vecchio Pilade nei lavori di cantina. Mònnica presiedeva alle donne in cucina, presso il forno, al lavatoio, nelle stalle. Rustico e Lastidiano non disdegnavano con forti braccia aiutare i coloni nei campi. Aravano, zappavano, vangavano, concimavano, rivoltavano la terra, rastrellavano le zolle, i ciottoli li buttavano o ai margini delle siepi o su mucchi appositi... Alipio, quando il bisogno della Comunità non lo constringeva a cavalcare verso Milano, prendeva parte attiva alle preci, al lavoro, alle discussioni. Agostino e i suoi scolari Trigezio, Licenzio e Adeodato, nella prima mattinata s'industriavano, per quanto potevano, di dare anche essi una mano nei lavori campestri, mentre cercavano trarre insegnamento da ciò che osservavano. S'accorsero che i contadini, nonostante che i campi erano stati preparati alla semina, pure aspettarono la luna crescente per spargere il biondo grano, affinché il tiepido raggio dell'astro notturno lo fecondasse e lo aiutasse alla germinazione e allo sviluppo.

Giunto il tempo videro infatti il seminatore col sacchetto dei semi a tracollo; con la mano sinistra teneva aperto il sacchetto davanti, vi affondava la destra, ne prendeva una manata e con gesto largo e uguale, camminando su e giù per i solchi, spargeva il seme con tanta precisione da evitare il più possibile i punti petrosi, i sentieri, le siepi. Agostino osservava e con lui osservavano anche i suoi discepoli. Dopo la passeggiata nei campi e qualche oretta di lavoro, bisognava occuparsi dello studio. Agostino, se il tempo permetteva, si fermava con gli scolari sul prato, altrimenti si rifugiava nel bagno. Il bagno, di cui abbiamo fatto cenno nella descrizione sommaria della villa, era una decorosa stanza a pian terreno, piena di luce che riceveva da tre alte e ampie finestre; era chiamato anche tepidarium perché veniva riscaldato da cunicoli nascosti nelle pareti dove passava aria calda prodotta nell'apposita sottostante fornace. Si leggeva un capitolo dell'Ortensio, libro filosofico di Cicerone, che trattava della sapienza. Si addestrava così la mente al ragionamento e s'imparava come esprimere il pensiero in classica forma. Si gustava poi la descrizione di epiche gesta fatta con insuperabile arte poetica da Virgilio nell'Eneide. Infine il Maestro faceva notare con quanta pregevole naturalezza lo stesso poeta nelle Georgiche elogia in leggiadri versi le incomparabili bellezze della vita campestre, semplice e senza artificio, come era dato loro di costatare.

I quadretti virgiliani su i morbi degli animali apparivano avanti ai nostri studiosi di una palpitante realtà. Un mattino di sole piuttosto scialbo, essi si fermarono ad ammirare una coppia di mastodontici tori aggiogati a un pesante aratro. Il tagliente vomere, tirato avanti lentamente, squarciava l'aspra terra in grosse zolle che si rivoltavano di qua e di là ai lati dell'incitante guidatore. All'improvviso, come poeticamente dipinge Virgilio: «uno dei tori fumanti si accascia e dalle fauci vomita sangue misto a bava, emettendo estremi gemiti. Il compagno si ferma, guardando triste il morente; così l'aratro rimane fisso nella terra a metà dell'opera. Non le ombre degli alti boschi vicini, né i molli prati possono suscitargli il vigore, nemmeno il fiume più lucente del cristallo, che cerca trovar la via, serpeggiando tra i sassi. Invece si sciolgono i bassi fianchi, lo stupore invade gli occhi spenti e il capo pesantemente fluisce sulla terra.» - Povero toro! - esclamò Licenzio che seguitò a declamare i versi di Virgilio: «A che ti son giovati i benefici recati all'uomo? a che il rivoltar le dure terre col vomere? Eppure non ti hanno potuto nuocere i riposti vini del monte Massico, sacri a Bacco, perché tu eri contento di pascerti di semplici erbe e di fronde e le tue bevande furono le acque dei fiumi e il tuo sonno non fu interrotto da preoccupanti affari.» Gli scolari imparavano in questo modo a conoscere il vero attraverso il libro della natura e a descrivere con appropriate parole ciò che vi leggevano di schietto e di grandioso.

Metodo scolastico abbastanza proficuo. Adeodato un giorno se ne venne con un riccio di castagno, aperto nella sommità; vi facevano capolino tre vivaci faccette di un lucido color marrone, che imploravano d'essere liberate dalla troppo incomoda prigione. Mostrando il riccio, il fanciullo chiese al padre: - Vorrei sapere, perché queste castagne debbono trovarsi rinchiuse in un guscio così offensivo, con aculei tanto aguzzi e pungenti? Guarda i loro segni su le mie dita ancora sanguinanti ... , - Alipio, presente a tale domanda, disse al ragazzo: - Caro Adeodato, tu vuoi sapere troppi perché.

D'ora innanzi sarai più cauto nel trattare gusci gelosi di ciò che nascondono. - Agostino diede ragione al ragazzo: - Fa bene a chiedere il perché delle cose che osserva. È naturale all'uomo il voler sapere e curiosare su tutto. Infatti, così facendo, dal noto egli passa all'ignoto e scopre nuovi orizzonti e progredisce nella scienza e nella tecnica. Guai se si arrestasse l'istinto di conoscere il perché dei fenomeni che ci colpiscono; perciò hai fatto bene, figlio mio, a chiedermi un perché che può sembrare strano, ma che trovo utile per tutti noi. - Trigezio fece col capo segni di disapprovazione. Agostino gli domandò: - Tu non ritieni utile il perché di Adeodato? - - Ritengo - rispose Trigezio - che non serve a nessuno conoscere perché le castagne nascono e maturano in un guscio così fatto. - Agostino chiarì: - Non si tratta, o Trigezio, se sia utile o no sapere il perché di quel guscio protettore, si tratta dell'utilità che implica in sé la stessa domanda, indipendentemente dalla risposta. - Infatti la domanda pone l'interrogato di fronte a un problema da risolvere; se sa risolverlo, risponde e soddisfa la brama di sapere dell'interrogante; se non sa risolverlo, non è giusto che se ne esca fuori con risposte evasive o, addirittura, contrarie al vero. È meglio che confessi la sua ignoranza e magari cerchi di uscirne con lo studiare a fondo la questione. - Vedi, per me è utile il perché di Adeodato. Esso mi pone di fronte alla mia ignoranza su un semplice e naturale fenomeno. Perché le castagne si trovano in quel guscio armato di punte aguzze? Contro chi dovranno difendersi? Non hanno forse un'altra impenetrabile corazza e anche una sottoveste rosacea che ne protegge la bianca polpa? A che prò quell'armatura? - Ci sarà qualche competente studioso di botanica che sappia dare una risposta esauriente. Ma io non so darla. Confesso di non sapere tante e tante cose che mi colpiscono ogni giorno e non mi so rendere conto di infiniti perché. - Dobbiamo convenire, cari amici, che la domanda di un fanciullo è capace di sgonfiare la nostra boria di sapienti. Che cosa sappiamo noi? - Protagora racconta che un giorno un giovanotto si presentò a Socrate, ritenuto come uno dei più grandi saggi della terra. Il giovane così parlò al sapientissimo uomo: «Dicono che sei un uomo pieno di sapienza e forse nessuno ti eguaglia sulla terra.

Allora dimmi, di grazia, qual è la cosa che sai proprio bene, senza tema di sbagliare?». - Socrate rispose sorridendo: «Senti, figliuolo, una cosa sola la so proprio bene e sono certissimo di non sbagliare, dicendola.» «Oh! qual è?» domandò ansioso il giovanotto. «Ecco, so che non so niente. Stai certo che su questo non mi sbaglio.» - Dopo la dichiarazione di un tal sapiente che accerta di non saper niente, che possiamo saper noi? Quindi, caro Adeodato, sono contento che mi hai posto una domanda la quale scopre che non so niente. Sono certo che Colui che ha progettato e attuato di nascondere il frutto del castagno nel tuo riccio spinoso che ha punto le tue dita imprudenti, saprà il perché che tu mi domandi. - - Sì, padre, - insistette Adeodato - ma Egli ci ha dotati di intelletto appunto per scoprire il perché delle cose che Egli ha creato. L'altro giorno, passeggiando nel bosco, vidi un animaluccio che mi sembrava un topo, intento a rodere una screziata corteccia d'albero. Il cane che mi seguiva a pochi passi di distanza, appena avvertì l'animale, corse verso di esso, abbaiando furiosamente. Il piccolo roditore immediatamente si raggomitolò, emettendo fuori della pelle una infinità di aculei, proprio come questo riccio.

Il cane girava intorno alla preda con latrati minacciosi, tentava con la zampa toccare l'immobile spinoso gomitolo, ma non ardiva, digrignava i denti, irto era il pelo, alta la coda, gli occhi ardenti. Con tanta ira temeva il piccolo. - Comprendo che l'animaluccio s'era trasformato in riccio aculeato per difendersi dall'ingiusto aggressore, ma la castagna contro chi deve difendersi con queste punte micidiali? - Ebbene - disse Agostino - se una ragione vuoi averla, penso dartela, pregandoti di considerare il frutto, non quando apparisce nella sua maturità ben difeso dalla sua scorza ermetica, ma quando incomincia a nascere in quello involucro. Difatti, prima esso è un viscido, bianchiccio protoplasma, poi floscia e tenera polpa. In queste condizioni l'indifeso frutto sarebbe preda di avidi insetti e di ghiotti uccelli e tu non avresti mai potuto gustare, come in questi giorni, le caldarroste fumanti, né ti saresti divertito la sera a gettare i grossi marroni nella brace del focolare per assistere ai loro scoppi improvvisi che fan scappare di paura le ingenue nipotine del nostro Pilade. - A ragione il guscio protegge l'impotente frutto. A mano a mano, la polpa s'indurisce, si forma la veste e indi la lucida corazza bruna. Quanto tutto è pronto, il guscio si apre da sé, soddisfatto d'aver completata la sua opera, si stacca dal ramo e cade alla radice della pianta e tu puoi con facilità estrarre una o due o più castagne, gettando via l'ormai inutile riccio protettore. - - Grazie, padre - disse con serietà il fanciullo - Parmi che questo frutto m'insegni: «Sappi anche tu, giovincello inesperto, farti proteggere da un capace difensore per non permettere a spiriti iniqui di penetrare in te e divorare l'innocenza, seminando la malizia distruttrice di ogni tranquillità.» - L'osservazione del ragazzo e l'applicazione indirizzata umilmente a sé stesso commosse l'uditorio. Un riccio castagnolo divenne inconsapevole strumento d'insegnamento morale.

Mònnica strinse al petto l'innocente giovane, sussurrandogli all'orecchio: - Che Dio ti conservi sempre nella Sua grazia! - Un'altra volta fu Licenzio, il più scapato della compagnia, che espresse una sua riflessione: - Quanto lavoro perché la terra riceva i semi! Io immaginavo che bastava gettarli così alla buona, il resto lo avrebbe fatto la terra da sé. Invece, vomeri, zappe, vanghe, concimi, rastrelli... e poi, attenti alle erbacce, alle pietre, alle siepi, ai viottoli... Quante precauzioni! perfino la luna entra nella faccenda. - Mi pare che pure io, per prepararmi al battesimo, debbo lavorare abbastanza nella vigna della mia anima. Oh! quanti pensieracci, desideri, voglie rendono la terra del mio cuore zeppa di sterpi e di sassi! tutta roba che impedisce lo sviluppo del seme divino. - Ora comprendo che è necessario un costante lavorio per dissodare l'interna mia vigna onde renderla altamente produttiva. - - Viva Licenzio! - esclamarono in coro gli amici. Anche mamma Mònnica approvò: - Lodo, o Licenzio, il tuo acume e la tua praticità. Mi congratulo.

 

V - SI DISCUTE SU REALTA' FELICITA' ORDINE

Queste ed altre utili riflessioni indussero Agostino a porre in discussione l'esistenza della verità che la realtà della natura poneva in pieno risalto. Egli, come si sa, era stato un Accademico un po' estremista, nel senso che aveva negata la realtà delle cose o l'aveva posta in serio dubbio. Ora, convinto del contrario, pensò discuterne con i suoi scolari e amici. Una volta Mònnica, venuta ad avvertire i disputanti che era pronto il pranzo, fu invitata a dire la sua sugli Accademici. Lei non sapeva nemmeno chi erano costoro. Agostino dovette spiegare alla madre che gli Accademici erano dei dotti che negavano o mettevano in dubbio la realtà delle cose e quindi disperavano di poter conoscere la verità. La saggia donna nel sentire ciò esclamò: - Poveretti! sono degli epilettici. - Epilettici sarebbero quei malati di nervi che, quando sono colpiti dal malore, cadono di peso per terra. Pallidi in volto, emettono bava dalla bocca e danno botte sul pavimento col capo e con gli altri arti, senza poter avvertire il loro male e la pericolosità dei loro movimenti. Così sono alcuni pseudo-filosofi, illusi di essere saggi, non conoscono il loro male intellettuale, perché fuori della realtà. Miseri epilettici, bavosi e pretenziosi, danno colpi alla ventura sulla grancassa della scienza.

Essi credono con boria di essere con le loro dottrine i fari luminosi che guidano i popoli verso il progresso e la civiltà, senza capire la pericolosità sociale delle loro asserzioni. Mentre si discuteva contro gli Accademici, si giunse al 13 novembre del 386. Data memoranda! Il compleanno di Agostino! Fine dei 32 anni ed entrata nel 33° anno di età. Mònnica quel giorno imbandì un pranzo diverso da quello abbastanza frugale d'ogni giorno. Un tacchino ne fece le spese insieme a una grassa oca che smise di pettegolare con le amiche per finire, contornata di salvia ed altre erbe amare, avanti ai commensali. Il frizzo piacevole del vino nuovo allietò onorevolmente il convito. Il sorridente Pilade, versando il vermiglio liquore nei limpidi calici, manifestò apertamente l'orgoglio di porgerlo per il primo assaggio in giorno così fausto.

Mònnica, nell'entusiasmo di vedere il suo figliuolo correre verso la rinascita a vita novella, dimenticando gli affanni passati, invitò i commensali a cantare l'inno di riconoscenza all'unico e possente Elargitore di vita. Dopo il pranzo si andò nel tepidario del bagno per conversare insieme. Agostino propose d'interrompere per qualche giorno il dialogo contro gli Accademici e di iniziarne un altro su la Vita Beata. Argomento più adatto non poteva scegliersi. La venuta in questo mondo è il punto di partenza per un lungo viaggio; bisogna pur sapere qual è il punto d'arrivo. Certo si nasce per vivere e si vive per essere felici.

Agostino pose la domanda: - Basta per vivere felici avere quello che si vuole? - Trigezio e Licenzio si guardarono in faccia per interrogarsi a vicenda: - Tu che ne dici? - Fu invitata Mònnica a rispondere. Ormai la cosa era comune. Lei rispose: - Se uno vuole cose buone e le possiede, è felice. Ma se vuole cose cattive, anche se le ha, è infelice. - Bene! - esclamò sorridendo il figlio - Hai detto, mamma, ciò che in sostanza scrive Cicerone nel suo «Ortensio». Cicerone scrive: «Se la volontà è buona, desiderando il bene e possedendolo, è felice. Se la volontà è perversa e desidera il male, possedendolo, diventa più misera.» - Ma dimmi, madre, se qualcuno possiede quello che vuole, teme però di perdere ciò che possiede, è egli felice? - - Ecco - riprese Mònnica - se quello che vuole è male e lo possiede, pur se non teme di perderlo, è sempre infelice, in quanto ciò che è terreno e mondano, anche se non si perdesse mai, mai darebbe la sazietà all'anima e non la renderebbe mai felice. - Se poi mettesse un limite ai suoi beni materiali e li godesse saggiamente, non sarebbe felice per il godimento dei beni, ma per la moderazione che regola la sua volontà.- Giusto anche questo - osservò Agostino - perché cos'è la sapienza se non la moderazione dell'animo? - Dopo aver raggiunta la conclusione che è felice soltanto chi possiede Dio che è il sommo Bene, Agostino chiese: - Chi è che possiede Dio? - Licenzio rispose: - Chi vive bene. - Trigezio affermò: - Chi fa ciò che Dio vuole. Adeodato asserì: - Chi non ha lo spirito immondo. A Mònnica piacquero tutte e tre le risposte. Agostino spiegò che le tre risposte in fondo dicevano la stessa cosa. Poiché vive bene chi fa la volontà di Dio e fa la volontà di Dio chi ha lo spirito puro. Però la risposta di Adeodato gli apparve la più comprensiva: possiede Dio chi non ha lo spirito immondo.

A questo punto s'interruppe il dialogo per riprenderlo il giorno seguente dopo pranzo nella stessa sala da bagno. Agostino pose in imbarazzo tutti, compresa la stessa sua madre. Egli così ragionò: - Noi ammettiamo che volontà di Dio è che l'uomo Lo cerchi. È vero?  - Sì - risposero tutti - Ebbene - proseguì Agostino - chi cerca veramente Dio non può vivere male, senza dubbio; e non può avere uno spirito immondo. Perciò chi vive bene cerca Dio; chi fa la volontà di Dio cerca Dio; chi non ha lo spirito immondo cerca Dio. Ma chi cerca Dio, perché Lo cerca? Lo cerca perché non Lo possiede ancora. Per conseguenza, non è vero che chi vive bene, chi fa la volontà di Dio, chi non ha lo spirito immondo possiedono Dio, come si è detto nella giornata di ieri. Tutti si misero a ridere, perché si trovarono come presi in un laccio. Mònnica, dopo essere rimasta un po'sorpresa, pregò il figlio di spiegarsi di nuovo in maniera meno serrata e meno imbarazzante. Agostino ripeté il ragionamento in modo più ampio e allora Mònnica distinse: - Altro è possedere Dio, altro è essere senza Dio. - Agostino afferrò la sottile distinzione e tentò farla intendere dagli altri, spiegando: - Possedere Dio significa averLo propizio con la dovizia delle Sue ricchezze infinite. - Si può non essere senza Dio, quando, pur non avendoLo propizio, non Lo si ha come nemico.

Il che può avvenire, quando Lo si cerca, ma non ancora Dio si fa possedere. Quindi chi cerca Dio, benché non Lo possegga, non è senza Dio; Dio gli è vicino e lo assiste benevolmente nella ricerca. - La discussione su un argomento tanto interessante terminò dopo pranzo del 15 novembre, non più nel bagno, ma sul molle verde del prato, essendo un pomeriggio serenissimo. Cielo limpido, orizzonte esteso, le cime nevose delle Alpi lontane sembravano vicine tanto erano chiare e nitide, aria piuttosto tiepida per il caldo del sole, che indusse i disputanti a ripararsi all'ombra del solito benevolo castagno, ancora adorno di foglie stanche e ingiallite che si ostinavano a non abbandonare i paterni rami all'incalzante rigido inverno. Agostino riprese la disputa e si arrivò a queste affermazioni della nostra Mònnica: - È misero e infelice chi è indigente. L'anima è indigente quando è stolta. La stoltezza priva l'anima del suo cibo naturale che è la verità e l'anima perciò diventa sterile e infelice. Essa non solo non possiede Dio che è la verità, ma non Lo cerca nemmeno, perché se Lo cercasse finirebbe d'essere stolta.

Il Moderatore del dialogo, Agostino, rifacendosi alle materne affermazioni, concluse: - Se la stoltezza è causa di indigenza e quindi di infelicità e di miseria spirituale per l'anima, vuol dire che la sapienza, opposta alla stoltezza, riempie l'anima e la rende felice. - Ora la pienezza è misura giusta, senza eccesso e senza difetto. La sapienza che riempie l'anima è la misura dell'anima, cioè la moderazione che equilibra l'anima, in modo che non sia trascinata verso piaceri degradanti, non stimolata da superbi e pretenziosi disegni, né coartata da passivi egoismi o da ingiustificati timori. - Raggiunge la Beata Vita chi possiede la sapienza che riempie con misura dovuta tutta l'anima. - Mònnica accolse con entusiasmo questa conclusione che ella sentiva viva nel suo cuore e perciò cantò l'inno di Ambrogio: - Proteggi, o Trinità Santa, coloro che T'invocano ! - Dopo di che la savia donna soggiunse: - La sapienza che dà la felicità consiste nel raggiungere la Santissima Trinità con fede robusta, speranza fiduciosa e carità ardente. - Così Mònnica influiva sui figli spirituali e li incitava al vivere bene per la conquista del Regno di Dio che è il Regno dei Beati. Ora avvenne, proprio quella sera stessa della conclusione della disputa, un episodio curiosetto che manifesta la delicata religiosità di mamma Mònnica. Licenzio quella sera s'era tutto infiammato e anelava al vivere bene per convergere tutte le sue forze verso il sommo Apice della Vita Beata. Cominciò a cantare con voce alta il salmo: - O Dio, convertici, mostraci la Tua faccia e saremo salvi... - Cantando, cantando, allegramente, si allontanava per un bisogno.

Mònnica, accortasi di questo, sgridò il giovane, ritenendo sconveniente il suo modo di agire. Ma Licenzio con molto garbo domandò: - Madre buona, se mi rinchiudessero in un luogo simile per punizione, non dovrei più né pregare, né cantare inni al mio Dio? - Mònnica sorrise bonariamente alla trovata di Licenzio e rispose: - Hai ragione, figliuolo, ma in questo caso si fa di necessità virtù, come suol dirsi. La preghiera dell'anima fatta con pio desiderio di unirsi a Dio, dovunque e comunque è sempre valida. Ricordati però che anche in questo vale la saggezza che è l'equilibrio dell'anima. In certi momenti la preghiera è silenziosa, in altri momenti erompe in cantici di esultanza; così in alcuni luoghi si prega di nascosto, nell'intimo dell'animo, in altri si prega a voce alta, si canta, si gioisce. - Licenzio e gli amici compresero la materna pietà di Mònnica e l'alto equilibrio della sua religiosità. Alcuni giorni dopo, un banale rumore di acqua e un topo fastidioso diedero origine a un'altra importante discussione che si protrasse per vari giorni. Essa è contenuta in due libri, intitolati: De Ordine (Intorno all'Ordine). Era notte. Pioveva debolmente. Agostino non riusciva a prendere sonno nella stanza ove dormiva con Licenzio e Trigezio.

Egli allora fu attratto da un caratteristico rumore che l'acqua produceva, passando per un canale di legno, sottostante alla casa. Il rumore era vario, ora sommesso, ora fragoroso. - Perché? - si domandava l'insonne pensatore - da che proviene questa diversità di rumore? - Mentre rimuginava nella sua mente una risposta alla sua domanda, un topo, frusciando e stridendo, passò presso il letto di Licenzio. Impertinente e sfacciato il notturno passeggero si permise far la corsa su le coltri che coprivano i piedi del giovane. Costui si svegliò di soprassalto, afferrò un bastone che aveva solitamente a portata di mano presso il letto e con esso batté ripetuti colpi su l'estrema sponda del giaciglio per fugare il maleducato corridore. L'inatteso fracasso svegliò anche Trigezio che gridò: - Che c'è? -. Seguirono risate, frizzi e commenti sul comico evento. Ristabilita la calma, Agostino chiese ai giovani se avvertivano il diverso rumore dell'acqua nel canale. I giovani si posero in ascolto e riscontrarono la realtà del fenomeno. - Perché? - domandò Agostino - la diversità del rumore? - Si convenne che la ragione andava ricercata probabilmente in alcune foglie che, cadendo dagli alberi, finivano nel canale e ne ostruivano il passaggio dell'acqua.

L'ostacolo creato dalle foglie faceva sì che l'acqua si fermasse dove più, dove meno e poi si riversasse con maggiore o minore volume, causando la diversità del rumore. Da questo incidente si giunse alla conclusione che ogni evento deve avere le sue ragioni. C'è dunque un ordine nel creato. Si prese da qui lo spunto per discorrere nei giorni seguenti su la Divina Provvidenza che dispone ogni cosa con peso, numero e misura e manifesta ovunque un ordine perfetto. Da qui il titolo «De Ordine» dato ai due libri che riportano le discussioni. Naturalmente non poteva sfuggire ai disputanti la questione del male. Cos'è questo male? come si può concepire in tanto ordine l'esistenza del male, causa di tanti disordini? Chi ha creato il male? A un dato momento Licenzio, partendo dal principio che non esiste che un unico Creatore, concluse che il male è stato creato da Dio. Mònnica nell'udire ciò ebbe un sussulto: - Cosa dici, figlio? Il male non può venire da Dio, perché Egli non può volere che si esca fuori dell'ordine da Lui stesso stabilito.

Certamente il male è qualche cosa che va fuori dell'ordine. Ciò però non può impedire al sommo Ordinatore che Egli collochi questo male nel posto che gli è dovuto, affinché entri in certo qual modo nell'ordine e non possa prevalere. - Al dialogo presero parte anche Alipio, Rustico e Lastidiano, essendo l'argomento molto interessante. In fondo si decise, contro le asserzioni dei manichei, che il male non può esistere come entità naturalmente cattiva a sé stante, in opposizione alla vera e assoluta Entità che è Dio. Un male assoluto insomma non c'è, sarebbe un assurdo. Il male è sempre relativo a un bene e potrebbe definirsi: una privazione del bene. Un male morale è privazione della bontà o della giustizia. Un male fisico corporale è privazione della salute e di un bene corporeo. E via di seguito.

Dio però ordina tutte queste deficienze reali o apparenti nel complesso degli esseri in maniera che dal contrasto che ne risulta, risaltino le parti più nobili e più buone. Alla stessa maniera agisce un valente pittore che nel suo dipinto dispone colori vivaci e ombre in modo che spicchi con evidenza il soggetto voluto. Il dibattito su l'ordine, sulla Provvidenza divina, sul bene e sul male diede maggiore lena ai nostri amici e fu molto efficace per spronarli a correggere le vecchie abitudini, incanalarle nella via buona e giusta e ordinarle alla conquista della Beata Vita, convertendo tutto in ansia verso il traguardo finale.

 

VI - A TU PER TU CON SE' STESSO

Pertanto s'inoltrarono nella stagione invernale. E venne la neve. Sì, varie volte la candida regina delle Alpi stese il suo gelido manto su le colline briantee e costrinse gli amici di Cassago a intanarsi nella villa. Dietro le finestre, dai vetri appannati che schiarivano con la manica della tunica, essi potevano mirare i fiocchi bianchi, che calavano giù dal fosco cielo in discesa irregolare e si susseguivano ancor più irregolarmente per adagiarsi mollemente uno su l'altro o su l'erba intirizzita del prato o sulla bruna terra dei campi appena seminati, ovvero sulle pendule chiome degli alberi o sulle spioventi tettoie delle case. Spettacolo senza dubbio affascinante appariva ai loro occhi quando il cielo, diventato sereno, mostrava diffuso ovunque un eguale candore abbagliante giù giù fino ai monti lontani immacolati, interrotto da ruvidi tronchi di alberi, da casolari sparsi, da spiragli aperti tra i rami dei boschi. Ma i poveri uccellini andavano cercando invano un cibo in quello immenso mare bianco, in voli incerti e con mesti gorgheggi.

Mònnica, con gentile pietà, spargeva sui davanzali delle finestre chicchi di grano, molliche di pane, cortecce di frutta e pregava i giovani di allontanarsi per dare modo alle bestiole di avvicinarsi e cibarsi. Infatti gli avidi cercatori coi loro occhi acuti dovevano avvistare l'inaspettato pascolo e vi si precipitavano su con grato cinguettio. Adeodato osservava da una certa distanza la gustosa scena. Quando i passerotti eran volati via, egli si divertiva a porre altro cibo per la gioia di vederlo divorato dai graziosi piumati che ritornavano lieti al pasto. E la sera? Come si trascorreva la sera nella villa di Verecondo? Oh! idillica intimità familiare che ricorda il verso davidico: «Quanto è dolce e giocondo abitare insieme come fratelli!». Eccoli seduti, uno accanto all'altro, su scanni rustici, attorno al crepitante ceppo del focolare, sotto l'ampia e nera cappa.

Sulle pareti si proiettano fosche ombre che accompagnano i movimenti di coloro che si scaldano, illuminati in volto dal rossastro guizzo della fiamma. Non stanno in ozio. Agostino s'industria a raffazzonare un grosso secchio di vimini. Alipio si diverte a fare un cesto. C'è chi aggomitola la lana per mamma Mònnica, chi si cimenta coi stili a intrecciare caldi scialli. Adeodato si ostina a costruire un qualcosa che secondo lui dovrebbe imitare il berrettino di nonno Pilade. Nel frattempo, arguzie di buon gusto, lepidi motti, facezie convenienti, schiette risate, racconti, riflessioni, alternato tutto con recita di salmi. Mònnica o da sola o con altre donne che vengono a farle compagnia, fila, tesse, con svelte dita, rattoppa o confeziona nuovi indumenti, mai si vede in ozio, sempre in attività, in mezzo a fusi e conocchie.

Tra una gugliata e l'altra, tra un rammendo e una stirata, una fine e inizio di altro lavoro, alza la testa e lancia una occhiata al tondo tegame messo sul treppiede accanto al fuoco. In esso vi si cuoce un coniglio o un abbacchio o altro in una salsa saporita e piccante a base di peperoncini, di majorana, di origano e di altri ingredienti atti a dare calorie all'organismo e difenderlo dalla rigida temperatura invernale. A un dato momento i presenti sono invitati a sospendere lavori e chiacchiere per volgere il pensiero a Colui che elargisce il cibo ai suoi figli e lo benedice. Indi viene divisa una ben soffice focaccia e ognuno si serve a volontà di quel che trovasi nel comune tegame; intinge un boccone nella salsa e mangia con appetito e gusto. Con l'aiuto di una molla o di una paletta si cercano nella cenere del focolare le castagne che vi sono state nascoste innanzi, dopo avervi praticato uno spacco su la corteccia perché non sbottassero. Intanto un fiasco di generoso vino passa di mano in mano, di bocca in bocca, rallegrando la fraterna e modesta agape. Un cantico di lode e di grazie al celeste Padre, benedetto sempre nei Suoi doni, conclude ogni sera le attive giornate trascorse nella villa di Verecondo. Sentimento umano di gratitudine verso il provvido Padre, gradito riconoscimento che attira maggiori tenerezze divine sui grati figli. In una di queste sere invernali infatti avvenne un episodio che ha del prodigioso.

Viene narrato dallo stesso Protagonista nelle sue Confessioni. Forse per il freddo, giunto quasi all'improvviso, forse per qualche colpo d'aria o chi sa per quale altra ignota causa, una sera il nostro Agostino fu colpito da un intollerabile dolore di denti. Il misero spasimava sul giaciglio, premendo le mani su le arrossate guance. Impacchi di lattuga, impasti di semi di papaveri, sciacqui di aloe misto a tartaro, tutto fu sperimentato per lenire l'aspro malore, ma inutilmente. Il dolore divenne così insopportabile che Agostino non ebbe più la forza di parlare. Con cenni fece capire che voleva scrivere.

Gli si portò una tavoletta e uno stilo. E scrisse: - Pregate il buon Dio che o mi guarisca o mi dia la forza per tollerare il male. - Immediatamente i presenti insieme con l'afflitta madre si gettarono in ginocchio attorno al letto dell'infermo e volsero a Dio una prece così fervorosa che Agostino disse tra sé: - O Dio onnipotente, se non ascolti costoro, chi potrai ascoltare? - Ed ecco il prodigio. All'improvviso, mentre i soci pregavano, Agostino non avvertì più che i denti gli dolevano. Pieno di meraviglia per l'insolito fenomeno, mai accadutogli, egli si alzò dal letto e gridò: - Deo gratias ! - I mesti volti degli amici e della madre si mutarono in raggianti soli di allegrezza per la pronta guarigione dell'amato maestro e per la costatazione della verace parola di Cristo: «Abbiate fede! Chiedete e vi sarà dato.»

Questo prodigio servì agli asceti di Cassago come incentivo a raddoppiare il loro zelo nella preparazione della loro anima alla semina dei tre germi che il più grande Agricoltore avrebbe infuso in essa col santo battesimo: Fede, Speranza, Carità. Alipio propose di scegliere come penitenza personale di camminare, ogni mattino, per varie ore, a piedi scalzi su la ghiacciata neve. La scelta spaventò gli astanti. Mònnica però approvò la decisione del forte podista, a patto che agisse a favore della Comunità e disse: - Non tutti, figliuoli, possiamo compiere certi eroici sacrifizi. Ci aiuti il desiderio amoroso di imitare Alipio il quale compirà il sacrifizio per tutti noi che preghiamo per lui. Non è vero, Alipio? - Alipio si mostrò lietissimo di offrire la sua penitenza per tutta la Famiglia Agostiniana. Efficacissimo atto di comunismo spirituale che è uno dei cardini della religiosità cristiana. Agostino invece, non potendo sottoporsi per la sua gracile salute ad austere penitenze corporali, si propose una revisione più severa della sua anima per ripulirla da ogni macchia che potesse deturparne la mondezza. L'induceva a tanto la naturalezza con cui la madre serviva Dio e tutti coloro che avvicinava, per amore di Dio. Ritirato in sé stesso, il profondo Indagatore cominciò un dialogo a tu per tu con la sua ragione, onde conoscere la sua anima, piena di malanni e di brutture e conoscere Dio, pieno di bellezza e di maestà.

Questo dialogo è riportato in due libri che egli intitola: «Soliloquia» cioè: Discorsi a solo a solo. L'umile Parlatore con sé stesso fu indotto dalla sua ragione a prorompere fin dall'inizio dell'indagine in questa significativa preghiera: - O Dio, fa che io conosca Te e conosca me; conosca Te per lodarTi e conosca me per disprezzarmi. - Sublime desiderio di umiltà e di amore! Ragionando e dialogando con sé stesso, Agostino riuscì a completare un bellissimo ritratto di Dio, osservando che di Dio possiamo facilmente sapere quello che non è, ma non quello che è. Nello stesso tempo provò la gioia di scoprire che la sua anima era immortale e che perciò poteva godere per sempre la deliziosa visione della Verità che è Dio. Arrivò allo scoprimento dell'immortalità dell'anima, perché si avvide di una idea innegabile e cioè che la verità è indistruttibile, immortale. Ciò che è vero sarà sempre vero. Anche la falsità, intanto è falsità, in quanto nega la verità; ma sarà sempre vero che chi ha detto il falso ha detto il falso. La verità dunque è eterna. Ora ogni anima intelligente, spirituale, per sua natura è portata alla verità. Anche colui che dice il falso agli altri e quindi nega la verità, non tollera che altri siano falsi con lui. Egli, pur dicendo il falso, cerca di coprire il suo falso col manto della verità; tanto è naturale in noi la tendenza alla verità. Ma se la nostra anima fosse per natura mortale, come potrebbe avere per oggetto proprio la verità che, come si è detto, è di natura immortale?

È un assurdo concepire una natura mortale che ha per oggetto una natura immortale. Per conseguenza o si deve negare all'anima la spiritualità e quindi la capacità di attingere la verità, il che significa distruggere la natura della nostra anima, o altrimenti si deve convenire che l'anima è immortale. Il ragionamento è stringato, dialettico. Il dilemma non ammette una terza via. La grave difficoltà trovasi nel fatto che moltissimi non giungono alla verità. Perché? È per deficienza di natura o per deficienza di volontà? Agostino si accorse che la deficienza non sta nella natura dell'anima la quale è nata per la verità. Essa sta nell'esercizio delle facoltà dell'anima. Se l'anima nell'esercizio delle sue facoltà non segue le regole atte per raggiungere la verità, necessariamente declina verso l'errore.

Come l'occhio offuscato non può vedere la luce, così l'anima impura non può vedere la verità. Occorre quindi che l'anima sia pura o si sforzi di diventare quanto è più possibile pura, per poter attingere in pieno la luce del vero. Un'anima è impura quando ha in sé qualcosa che rompe l'equilibrio delle sue facoltà o per eccesso o per difetto. Un'anima, per esempio, che esagera nell'amore di sé stessa, logicamente non accetta la verità che contradice questo suo amor proprio. Essa cerca ciò che favorisce il suo orgoglio, il suo modo di vedere, di volere e di agire; disprezza quindi ciò che vi si oppone. Ecco perché il superbo arriva fino al disprezzo di Dio. Giustamente il Maestro nel Vangelo afferma che solo i Mondi di cuore vedono Dio e solo i Poveri di spirito entrano nel Regno dei Cieli che è il Regno della Verità. I Mondi di cuore e i Poveri di spirito sono gli umili. Costoro veggono avanti a loro la lucida strada della Verità. Purtroppo la storia insegna che chi vuole seguire i dettami della propria testa, non può conoscere la strada che conduce alla verità.

Ecco perché egli crede solo a sé stesso o crede ai suoi adulatori e a coloro che approvano il suo modo di volere e di agire. Chi si oppone alle sue vedute è considerato un nemico da odiare e da disprezzare. Di qui la ribellione a chiunque tenti dimostrargli che ha torto o che almeno è fuori della verità. Inoltre il superbo non ammette di sbagliare e pretende avere sempre ragione. Per quanto vi sforzate di convincerlo del contrario, se non riuscite a farlo desistere dalla sua superbia, non riuscirete nemmeno a incanalarlo nella verità; per lui la verità è che egli ha semplicemente ragione. Non accetta altra verità. Invece l'anima pura è sitibonda di verità, affamata di verità. Non crede a sé stessa, ma cerca con ansia chi possa dire la parola della verità e si convince facilmente di fronte ad essa e l'abbraccia anche se deve schiacciare la propria volontà, perché trionfi soltanto la verità. La verità! Cos'è la verità? Pilato rivolse questa domanda a Colui che venne al mondo per testimoniare con la Sua morte la verità. Il Cristo, trascinato avanti al giudice romano, fu accusato come rivale di Cesare, essendosi dichiarato Re dei Giudei, Lo denunziarono come usurpatore della corona regale che spettava al solo Imperatore Romano. Il Cristo non negò di essere Re dei Giudei, ma spiegò che era Re di anime, Re del Cielo, non già re della terra, e per testimoniare questa verità era venuto nel mondo. Pilato Gli domandò: - Cos'è la verità? - Ma non attese la risposta.

E il Cristo non gliela diede. L'ipocrita amico di Cesare, dopo la vigliaccata del lavaggio delle mani, condannò il Giusto, l'Innocente, da lui stesso dichiarato tale. Provò con l'iniqua condotta che la verità non è appannaggio dei finti e degli ipocriti amatori di sé stessi, troppo severi contro quelli che contradicono il loro modo di volere e di agire e troppo clementi poi nello scusare le loro malefatte. Pilato nella sua gretta meschinità credette salvare la propria ingiustizia con lavarsi le mani, pensando così di gettare la sua responsabilità sul popolo. La verità non è quella che creiamo noi stessi per difendere la nostra volontà. No, la verità è quella che è, anche se si erge con minaccioso e terribile volto contro di noi per rivelarci schiettamente ciò che realmente siamo. La verità è l'orma di Dio, impressa dovunque e nessuno può distruggerla. Perciò essa è e rimane immortale ed eterna. L'anima pura tende alla verità, la desidera, la vuole, la brama e gioisce quando giunge a possederla. Nemmeno la morte può annientare questa gioia e l'anima seguiterà a godere l'abbraccio della verità nel Giorno che non ha tramonto, eternamente beata! Sostanziosa e dolce conclusione a cui giunse Agostino nei suoi Soliloqui di Cassago!

 

VII - DA CASSAGO A MILANO

Mentre il freddo cominciava a rallentare la sua morsa e le prime rondini trillavano nel cielo di Cassago della Brianza e cercavano di riattare con paglia e fango i ritrovati nidi sotto le note tettoie, giunse il tempo di lasciare l'ospitale villa di Verecondo per tornare a Milano. Bisognava dare il nome per iscriversi nella lista dei Catecumeni detti Competentes, cioè prossimi a ricevere il Battesimo. I Competentes erano tenuti a partecipare a l'ultima preparazione dottrinale e rendersi conto ben preciso dei doveri che si assumevano col ricevere i Sacramenti cristiani; Sacramenti che venivano conferiti nella Veglia Pasquale tra il Sabato Santo e la Pasqua di Resurrezione. Quell'anno 387 la Pasqua cadeva il 25 aprile. Mònnica ardeva del desiderio di vedere il figlio tutto rivestito di Cristo.

Adeodato, benché la permanenza a Cassago gli era molto gradita, pure non faceva altro che ripetere: - E quando si torna a Milano? - La nonna comprendeva l'ansia dell'angelico giovane. Agostino invece tremava all'approssimarsi del grande Giorno. Temeva di non essere pronto abbastanza. Ma l'ora della partenza scoccò. Era il 15 marzo del 387. La nostra Comitiva dov'è porsi in viaggio per Milano con sommo disappunto degli affezzionati villici di Cassago ai quali rimaneva solo il soave ricordo del materno volto di Mònnica e del mite, affabile Agostino, del casto Alipio e di Navigio prudente, dei forti Rustico e Lastidiano e del vivace Licenzio, del robusto e pur timido Trigezio e del purissimo Adeodato.

Erano già tutti sulla diligenza affidata a due ben basati cavalli, guidati abilmente dall'auriga Casicius, quand'ecco, prima che Casicius schioccasse la frusta per l'avvio, Licenzio, il poeta della compagnia, pronunziò un nostalgico saluto: - Salve, o Brianza amica! - L'eco gioconda di valle in valle rechi il mio saluto alle acque strepitanti tra le tue balze erbose e ai boschetti di elci, di olmi, di frassini, di castani e di abeti, ondeggianti su le tue colline. Giunga esso', fresco di grazia, alle alte giogaie alpine che ti ammirano dal loro ampio e candido anfiteatro. - I venerandi buoi, sparsi per le tue campagne apriche, ripetano il mio saluto con il loro muggito e le bianche pecore, brulicanti tra le profumate erbette, con mite belato preghino i pastorelli ingenui di accompagnarlo coi melodiosi liuti. - O leggiadri uccelletti, coi picchiettanti e allegri cinguettii porgete il mio saluto al munifico sposo della luce, quando il mattino va a specchiarsi con maestà scintillante su la corona alpestre e s'alza nel limpido azzurro del cielo per effondere ovunque generoso splendore, e quando, la sera, attorniato dalle auree nubi, va a deporre la porpora regale dietro le attonite cime dei monti. - Dite al benefico padre d'ogni vigore che nel suo giro d'ispezione pel cielo guardi i rudi villici proni sui campi, li conforti nelle sudate fatiche con la speranza di raccolti abbondanti, li rallegri nei frugali pasti consumati all'ombra di frondosa pianta, li accompagni alle caste case, ove è dolce riposare le stanche membra e dove il fuoco dei cuori arde in fiamma perenne. - Salve, o Brianza amica! - II mio animo ha raggiunto altezze sublimi, ignote ai monti lontani che ti circondano e ha gustato la paterna carezza del soave Artefice d'ogni beltà, attraverso la visione riposante dei tuoi incantevoli panorami.

Nella tua silente pace, con delicato sussurro, la voce del Maestro m'ha parlato al cuore e l'ha preparato a ricevere l'onda purificatrice dello Spirito di Dio. - Salve, o Brianza amica! - E a te grazie, o quieta villa di Cassago! Il tuo ricordo rimane indelebile nel mio grato animo. E auguro al tuo padrone Verecondo che sia largamente ricompensato della sua generosità coi gaudi deliziosi e perenni della celeste Villa. Amen! - Agostino approvò le poetiche espressioni di Licenzio e si associarono tutti al ricordo del grammatico Verecondo che col mettere a disposizione la sua villa aveva loro permesso un soggiorno opportuno nella gentile terra briantea, doppiamente salutare e al corpo e all'anima. Casicius guardò Licenzio con compiacenza e chinò il capo due o tre volte in segno d'incondizionata approvazione. Dopo di che, soddisfatto, diede un colpo di frusta e tirò le briglie, accompagnando colpo e tiro con un gergo noto alle bestie, che voleva significare: Avanti, marcia!

I cavalli, mordendo i freni schiumosi, prima con passi incerti e lenti, poi con trotto veloce si lanciarono per la via selciata romana, in direzione di Besana, verso la capitale cisalpina, Milano. A Milano, nella basilica di S. Lorenzo, adatti Catechisti erano pronti a istruire i Catecumeni Competentes e a prepararli convenientemente a ricevere i Sacramenti del Battesimo, della Cresima e della SS. ma Eucarestia. Il numero degli adulti che chiesero il Battesimo per la Pasqua del 387 fu straordinario. L'esempio del Retore convertito fece breccia su molti, checché ne pensassero le male lingue. Se lo scandalo è deleterio e trascina anime pusillanimi verso l'errore e il vizio, l'esempio buono riporta sul retto sentiero tante anime volenterose.

Lo scandaloso si metta una macina al collo e si vada a gettare in fondo al mare, come dice il Vangelo. Ma chi fa il bene si ponga in alto quale candeliere acceso perché sparga attorno i suoi raggi luminosi. Ed oh! quanti beneficati dalla sua amabile luce escono dal buio del mondo e camminano diritti per la via della rettitudine e della onestà! L'esempio del figlio di Mònnica fecondò germi di grazia in molti cuori. Ecco perché tanti, ancora semplici Catecumeni, chiesero di essere suoi compagni tra i Competentes di Milano, per istruirsi nella dottrina e nella pratica della vita cristiana insieme a un così alto ed umile maestro e avere la gioia di entrare con lui nella Società di Cristo.