Sant'Agostino: di Juan de Borgoňa
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
L'ATTUALITA' DELLA PEDAGOGIA DI S. AGOSTINO
di Aldo Agazzi
Ordinario di Pedagogia all'Università Cattolica di Milano
Più che sulla scorta rigorosa delle opere, degli scritti di Sant'Agostino, condurremo il nostro reperimento di motivi educativi su quello che potremmo chiamare l'itinerario di vita, l'esperienza interiore e di relazione, della sua persona, della sua personalità. Aggiungeremo, così, che non ci atterremo neppure ad una impostazione e ad una metodologia filosofica in senso stretto - deducendo cioè dal pensiero filosofico di Sant'Agostino le sue concezioni pedagogiche - ma ci atterremo a quell'impressione prima che prende colui che legge i suoi scritti, quella impressione di trovarsi sempre come a faccia a faccia con lui, a pensare, spesso ad angosciarsi, con lui presente. Dalle sue opere, infatti, emerge o meglio si staglia vigorosamente un uomo: una personalità d'una ricchezza ineguagliabile, tale da giustificare il giudizio del Mommsen, essere stato Sant'Agostino la « più grande anima dell'antichità» (T. MOMMSEN, L'impero di Roma, periodo terminale dell'opera) (ed io direi anche di età meno antiche).
L'argomento formulato originariamente è dunque questo: « L'attualità della dottrina pedagogica di Sant'Agostino »: ma vorrei precisarlo piuttosto in questi termini: «L'educazione in Sant'Agostino, sua attualità », anche se devo confessare subito che il discorso sulle attualità degli autori del passato non è un discorso che mi sia congeniale, in quanto, in imprese del genere, si corre più o meno il rischio di forzare, di attribuire all'antico quello che i moderni hanno ripensato, almeno, in forme spesso sostanzialmente diverse e nuove, di mutare cioè le prospettive di fondo oltre che quelle empiriche e di storia. In realtà, dove dei grandi, di statura secolare, hanno affrontato e penetrato le insondabilità dello spirito umano, della mente e del cuore degli uomini - come si vede proprio in Sant'Agostino in maniera e misura sovrane - essi non hanno dato evidenza a dei caratteri « antichi », tali da poter esser detti anche moderni, ma a dei caratteri « perenni », ossia dotati di costante presenza: e sarà quindi sotto l'aspetto della perennità, più che della modernità, che ricercheremo i motivi rintracciabili in Sant'Agostino nella fondazione dei fondamentali problemi, anche di quelli pedagogici.
Nella ben nota Histoire de l'éducation dans l'antiquité, il Marrou, pur essendo essenzialmente uno storico, propone preliminarmente un'osservazione, una intuizione di fondo: noi moderni abbiamo in educazione una concezione ed un senso post-rousseauiano, che gli antichi non possedevano minimamente. C'è un vero abisso fra il modo di concepire l'educazione nei tempi antichi, e ancora medioevali e più recenti, e il modo con cui la concepiamo noi. Gli antichi, cioè, conoscevano la crescita, ma non lo sviluppo, dell'uomo e del fanciullo: non conoscevano la psicologia dell'infanzia e della fanciullezza, dell'adolescenza e della giovinezza.
Essi ritenevano il bambino e il fanciullo, e poi l'adolescente ed il giovane, diversi sì via via, per dimensioni, dall'adulto, ma li concepivano come degli « uomini in piccolo », non avendo attinto quella consapevolezza, propria della psicologia dell'età evolutiva, per la quale si è consapevoli che, passando di età in età, avvengono nel soggetto delle vere e proprie trasformazioni profonde, per cui bambino, fanciullo, adolescente e giovane sono tra loro via via diversi, sì che i modi di sentire, percepire, pensare, atteggiarsi, comportarsi di un bambino e di lui stesso adolescente sono via via differenti.
L'antichità aveva, al massimo, il concetto d'una dimensione ridotta quantitativamente delle possibilità e delle capacità dei bambini e dei fanciulli rispetto agli adulti, ed assistiamo, così, alle conseguenze di tale errore radicale della pedagogia antica e più ancora della scuola del tempo, quasi suo peccato originale, in tutte le sue conseguenze: l'errore che è stato denunciato col termine di adultismo. Orbene, possiamo verificare sulla scorta d'una documentazione presso che senza fine che il modo con cui nel passato si faceva scuola, si proponeva il sapere, si imponevano i modelli di vita era improntato in tutto a questo equivoco. Sappiamo che la scuola delle lettere - quella di cui parla ancora tanto e tante volte Sant'Agostino nelle Confessioni, nelle Lettere, nei trattati - consisteva nella presentazione di un testo (Omero nell'antica Grecia, una preghiera nel medioevo e ancora secoli dopo, o la Bibbia) e nell'individuarne parola dopo parola le «lettere» alfabetiche, col loro nome, e questo era il modo di approccio ai testi. Questo sapere adultisticamente proposto, nelle sue nozioni, nei suoi processi sistematici, da logica grammaticale, da sistematicità manualistica, da precettistica etica e religiosa, risultava, però, incompreso ed incomprensibile per le menti dei fanciulli; una scuola del genere si faceva, per ciò stesso, noioso ed insopportabile, ed anche, mentre ingenerava una specie di sterilizzazione dell'intelligenza, portava alla indisciplina.
Mancando, cioè, l'interesse, la disciplina non poteva essere imposta e mantenuta che con l'unico mezzo rimasto possibile, quello della sferza e della verga. Chi ha presente il passo delle Confessioni in cui Agostino richiama gli anni della sua esperienza scolastica - che rievocheremo tra non molto - sa che questo costituisce uno dei motivi più incisivi della sua denuncia e della sua sofferenza: ed è un motivo che il pensiero pedagogico comparativo fra antichità e contemporaneità deve prendere in primaria considerazione. Questo itinerario adultistico dell'educazione nell'antichità e le descrizioni agostiniane ci pongono un problema sin dall'inizio: Agostino accetta questa impostazione? vi aderisce, sia in linea di pensiero pedagogico, sia in quanto vi diventa o vi è stato protagonista come scolaro, oppure, invece, egli anelando ad uscirne, ce ne suggerisce i mezzi di superamento?
Egli, possiamo dirlo anche subito, denuncia la vacuità del verbalismo delle lettere e la mostruosità della verga e della scuola crudele; denuncia le durezze e le frustrazioni nel profondo in un anelito che noi chiameremmo oggi alla scuola serena; e vi aggiunge tutte le indagini e le conclusioni atte a porre l'esigenza d'un'educazione in cui l'alunno sia fatto soggetto in proprio ed autentico della propria educazione, sulla base del suo spirito come personale attività. A questo punto occorre dire che ci sono, per così dire, in Agostino, due pedagogie: una pedagogia esplicita ed una implicita: portate ambedue a suprema chiarezza e profondità: quella « concettuale », rivolta ai processi teoretici dell'uomo, del suo pensare ed apprendere; e quella dell'« affettività », delle profondità dell'anima, della carenza d'essere della creatura, testimoniata come ricupero della propria miseria nell'ambascia delle esperienze personalmente vissute e sofferte. (In Agostino manca l'educazione sociale).
Pedagogia esplicita è quella, ad esempio, che egli ci propone nelle Confessioni, nel De vera religione, nel De cathechizandis rudibus, nel De christiana doctrina e nel trattato di semantica De Magistro, opere nelle quali egli ci porta alla constatazione e fornisce la illustrazione dell'apprendimento come iniziativa e processualità in proprio del soggetto; di quel suo sapere-intuizione della verità dell'essere, poi pascaliano esprit de fin esse, che riconosce quel che si dice o si mostra, prima della parola concreta che lo significa, perchè la verità non è né latina, né ebraica, né greca, ma quasi sostanza mentale proveniente da un rapporto immediato con l'ontologico, espresso poi latinamente, o grecamente, ma, esso, né latino, né greco (De Magistro, De catechizandis, Confessioni). Ed è il principio dell'attivismo, di quel « maestro interiore » del De vera religione, che si traduce nella pedagogia dell'autoeducazione, ossia del primato dell'attività del soggetto e nel soggetto sull'insegnare del maestro che propone il sapere e la sapienza.
E vi appartengono del pari le analisi dell'io, ossia della personalità una ed indivisa e dei suoi distinguibili processi, e quella stessa - come indagini delle nostre più insondabili realtà, costitutive di « quelle meraviglie che siamo noi stessi » - rivolta alla natura del tempo nel suo significato psicologico, all'origine del male, allo spirito come « memoria »; all'amore come principio e motivo della vita e delle azioni. S'intenda: una pedagogia esplicita, ma «vissuta» più che dottrinale. Valgano alcuni esempi, tra i moltissimi possibili. «Non ero più un bambino senza parola, ma ormai un fanciullo che parlava. Questo lo ricordo bene: e più tardi ho riflettuto da dove avessi appreso a parlare: poichè non altre persone di età maggiore mi insegnarono suggerendomi le parole con qualche ordine di disciplina, come poco più tardi si fece per le lettere, ma da me stesso appresi, con quell'intelletto che mi hai dato, o mio Dio ». «Intuìto di quali oggetti le parole fossero 'segni', pervenni a scambiare con coloro con i quali vivevo i segni della volontà» (AUG. Confessioni, I, VIII).
E' il principio, intramontabile nella pedagogia, dell'interiorità fondamentale ed originaria del processo dell'apprendimento del sapere e dell'espressione comunicativa. Non è il maestro esteriore l'autore primario dell'educazione, il protagonista primario, 1'«agente primario», per usare l'efficace terminologia tomista, è l'alunno, l'educando, con le forze ingenite, «concreate », come direbbe Dante, della sua mente e del suo intelletto. Ma si può procedere ben più in profondo, ossia nella definizione - in termini come sempre in Agostino drammatici - della personalità dell'uomo nelle sue strutture dinamiche. Egli coglie e descrive l'inseparabile unità e molteplicità dell'io, la sua continuità ed identità pur nel flusso delle variazioni evolutive: e sono, insieme, le problematiche, o meglio le dialettiche, delle giornate della conversione, i dinamismi fra le diverse funzioni dell'indisgiungibile natura umana nella sua vita, l'impareggiata dignità dell'anima dell'uomo, vale a dire, come abbiamo già detto, le « meraviglie che siamo noi stessi ».
Chi non ricorda il tratto delle Confessioni che si conclude con questa straordinaria qualificazione? - E' l'espressione che segnò la «conversione» di Francesco Petrarca, quando lesse, sulle pendici del monte Ventoux, nel codice donatogli da Ambrogio Traversari a Parigi, il tratto famoso: «E vanno gli uomini ammirando l'estollersi al cielo dei monti, e gli sconfinati flussi del mare, e le ampie correnti dei fiumi, e le vastità dell'Oceano, e il corso degli astri, e smarriscono se stessi, e non ammirano la propria infinità »: «le meraviglie e le infinità che siamo noi stessi » (Id., X, VIII). E fra le meraviglie che siamo noi stessi, fra le prime, sta quella nostra natura paradossale, con le sue dialettiche dei distinti e con le intime contraddizioni. In me trovo il pensiero, trovo la volontà, trovo l'amore.
E sono tanto stagliate l'una dall'altra queste tre funzioni nel proprio strutturarsi da aver l'impressione che l'io pensante, l'io volente e l'io amante siano tre entità diverse albergate in me. E certo un atto teoretico è diverso da un atto di volontà e libertà, ed ambedue da un sentimento d'amore. Tuttavia « sono sempre il medesimo io che penso, che voglio e che amo: anzi penso di volere ed amare; voglio pensare ed amare; amo pensare e volere ». E nelle pagine della conversione, nella figurazione dell'uomo antico dalle passioni indomabili, che tira come per la veste l'uomo nuovo approdato alla riva del divino (« ci abbandonerai, dunque, con i piaceri che ti elargiamo? »), le distinte «volizioni» risultano volizioni discordi non di due io aggiogati insieme, ma di un medesimo io al bivio della sua scelta, nella sua interezza e unità. E noi ci troviamo, come per constatazione immediata, davanti a queste rivelazioni, davanti alla verità ed alle verità dell'uomo. Perchè Sant'Agostino possiede in misura straordinaria la capacità del pascaliano esprit de fin esse, di andare all'essenza e di coglierla e disvelarla, quasi per colpi di sonda anzichè per ragionamenti discorsivi; di farci apparire le cose e i problemi come davanti allo spettacolo del pensiero veggente. Ed è il caso appunto anche del travaglio della conversione, di quell'indivisibile Agostino che si trova di fronte al volere ed al disvolere di se stesso, attratto oramai dal sublime della verità che gli si era moltiplicata ed approfondita a seguito del commercio stupendo con Ambrogio, con il quale parlava soltanto dentro se stesso, perchè aveva timore di disturbarlo, ma in modo che lo colpiva la sua predicazione, specialmente in quel mostrare che andava facendo che è lo spirito che vivifica, che dà il messaggio, e non la pura lettera.
La pedagogia implicita di Agostino è quella che ci riconduce proprio alla sua indomita passionalità, al nodo affettivo ed emotivo della sua personalità, negli aneliti della quale il suo pensiero sovrano si trova via via imprigionato, condizionato e posto alla prova della sua forza. Egli sente come ribollire dentro la suggestione ed il richiamo dei legami con quella donna, da cui ha avuto Deodato, il figlio « il cui ingegno gli faceva spavento »: e si dibatte in se medesimo sentendosi carne e terra che, come da un abisso, invoca alle acque di purificazione. Quella donna egli l'amava, e quel figlio non era un figlio qualunque. Eppure la donna se ne tornerà in Africa: Agostino, per indicarla, non adopera che una particella di pronome: «illa»; essa lo lasciò solo, ma con i solchi della passione e con un'esperienza che condurrà Agostino ad un maggiore intendimento delle profondità dell'anima (Id., VI, XV).
In Sant'Agostino c'è questa agitata psicologia dell'essere umano unitario ed articolato nello stesso tempo, e tutto vi converge; tutto vi diventa psicologico, e quindi pedagogico. Pensiamo alla indagine ansiosa ed alla fine esultante sulla natura del tempo. Sembra una questione puramente filosofica e scientifica, teoretica. Ma questo soltanto a tutta prima. Passano infatti, ma rapidamente, i richiami alle teorie dei Pitagorici: il tempo coincide col moto. E sorge l'impressione come d'un fiume che va fluendo fuori di noi, in senso inverso e contrario a quello del nostro passare. Ma ben presto emergono due fatti, uno psicologico, metafisico l'altro. Il tempo si risolve, infatti, in una dimensione psicologica: apprestandosi a pronunciare un verso latino, la voce e il suono, che non sono ancora, che stanno nel futuro dell'evento, passeranno nel presente, in quel presente in cui sto parlando, per andare a finire nel passato. Il verso è stato avvenire, presente, ed è passato. Però, il tempo passato, se è passato, non è più, è un inesistente; il tempo avvenire non è ancora, ed è parimenti inesistente: l'unico tempo ad esserci è il presente, ma a patto di essere un puro attimo, inesteso, ossia a sua volta un niente temporale. Il tempo quindi non esiste, è una pura impressione psicologica. Anzi, in realtà, esistono soltanto delle rappresentazioni attuali nello spirito, del passato e dell'avvenire e del presente; non esiste che il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro.
E sono le funzioni della memoria, della percezione e dell'immaginazione proiettata in avanti, prospetticamente. Abbiamo letto, non senza emozione, certe pagine di Bergson: l'essere è lo spirito che si costruisce come memoria, il passato che non si perde: ed il nostro essere, configuratosi, resta; il nostro spirito attuale è il presente di tutto il nostro passato ed insieme le programmazioni del nostro avvenire: noi siamo la storia di noi stessi, il presente ricapitolativo di quello che siamo stati e di come siamo stati, nella proiezione creativa del nostro domani. Ma succede anche la visione metafisica: non è il flusso del tempo a scorrere, a passare fuori di noi; a passare non è il tempo, a passare siamo noi, in senso contrario. Siamo il fiume concreto che va alla sua foce, alla morte. L'illusione del tempo è la rappresentazione psicologica ed inconscia della nostra incombente precarietà. E questo nostro essere caduco è dunque «memoria ». E siamo alle indagini del libro decimo: lo spirito è memoria; nella memoria sta, come, tutto il mio passato; ma ricordo anche di essermi ricordato: nella memoria esiste la memoria medesima, essa è contenuta in se stessa; ricordo di essermi dimenticato: nella memoria esiste il suo stesso contrario, l'oblio, la dimenticanza. E se io ti cerco, o Dio, dove ti troverò? - Nella memoria, nel mio spirito stesso, nel mio più profondo, tu che sei più intimo a me di quanto io sia intimo a me stesso: ti troverò dove sei, nel mio essere rappresentativo ed ontologico. In questa memoria c'è, così la coscienza, il subconscio e c'è l'inconscio. E che «inconscio» c'è? - Ritroviamo in Agostino anche la psicoanalisi? Certamente, in Agostino, c'è anche l'inconscio freudiano; ma l'inconscio agostiniano non è quell'inconscio agitato e confuso, oscuro ed emotivo, calando la mano nel quale e ritraendola ci si trova davanti ad una manata di fango. Nell'inconscio agostiniano ci sono quelle che, con Maritain, chiamavamo le « profondità dell'anima ». Rifacciamoci ad un passo delle Confessioni, che di solito, leggendo, si lascia passare quasi inosservato, e che fonda invece la radicale antropologia agostiniana. Defluxit angelus, defluxit anima hominis: e cadde l'angelo, cadde l'anima dell'uomo; là, ai primordi della nostra vita storica e spirituale nello stesso tempo; ma - continua Agostino - anche in quel cadere, in cui si mostrarono nudate le tenebre che sono proprie della nostra misera natura di fronte alla tua luce, o Signore, si rivelò quanto grande facesti la creatura razionale, alla quale nulla basta, nulla è pari, neppure se stessa, ma soltanto te, soltanto te infinito atto ad appagarla. Perchè, in quel cadere, che avvenne per desiderio di essere come Dio, di farsi Dio, l'anima razionale, pur cadendo e decadendo mostrando la sua miseria, mostrava anche l'anelito all'infinità di cui era fornita (Id., XIII, VIII).
E' qui che si configurano le « profondità » non freudiane di Sant'Agostino: le profondità dell'anima, ben altro che l'inconscio carico delle esperienze senza coscienza dei nostri primi anni, dei primordi della nostra vita, quando fu decisivo per sempre aver avuto una esistenza serena e gioiosa piuttosto che una esistenza oppressa da censure e radice di complessi. Cerchiamo di interpretare queste profondità, che coincidono in tanti motivi con le « meraviglie che siamo noi stessi ». Chi è, che non ha fatto un'esperienza sconvolgente del pensiero quando si sia raccolto, veramente, a inseguire il significato e il fatto dell'« io penso » kantiano? - Che cosa è questo «io penso »? - Sappiamo tutti che non è una formulazione logica, ma un universale modo di porsi. Quando ci troviamo di fronte ad una realtà, ad un oggetto, ad un albero, diciamo: Ecco un albero, ecco questa cosa. Dovrei dire, però: io vedo un albero, una cosa. Anzi: Penso di vedere un albero. Perchè, se io non l'includessi nel mio « io penso », quell'albero, e la visione che ne ho, non ne potrei affermare neppure la realtà. La funzione « io penso » è quindi la funzione assolutamente originaria. Ma anche, appunto, sconvolgente. Perchè, quando mi rendo conto che questa funzione è il mio principio primo di coscienza, ma inespresso e inconscio, come funzione del «pensiero che sta pensando» senza ancora pensarsi, vedo chiaramente che io dovrei dire «Penso di pensar di vedere quell'albero, quella cosa ». Ma subito dovrei soggiungere: Penso di pensar di pensar di vedere E così via. Il soggetto che siamo noi, è sempre cioè, un soggetto che si ritrae come indietro, attivamente; e quello che esso va pensando è un'oggettivazione di sè davanti a se stesso. Quando e come riuscire a cogliere in atto la sostanza, l'essenza e la funzione di questo pensiero pensante e non ancora pensato? - Come « pensante » mai; perchè, come pensante, sta pensando come soggetto, e, oggettivato, è oggetto del pensiero pensante in atto. Penso di pensar di pensare di pensare di ... E' un ritrarsi all'infinito. Ecco una prima infinità dell'anima, dell'anima teoretica. Ma c'è la volontà. Orbene, un grande seguace di Agostino, Antonio Rosmini, osservava: In realtà non si tratta soltanto di volere, immediatamente; bisogna «voler volere ».
A pensarci, l'atto di volontà presuppone una decisione antecedente che ponga in atto l'atto volitivo. Ma anche qui, allora, bisogna voler volere; bisogna voler « voler volere »: anche qui il processo verso il soggetto primario è un processo infinito: è l'infinità pratica, ossia nella moralità. Per Agostino, vedemmo, la natura umana è pensiero, teoresi; volontà, amore. E amore è il principio dell'impulso, del desiderio, dell'interesse, dell'aspirazione, dell'elevazione, della vita: ciò che dà significato e ricerca di appagamento. Anche l'amore per le creature, anche per la donna amata. Ora, Agostino, proprio nelle pagine di vigilia della conversione, nelle quali andava riandando la sofferenza di dover abbandonare la donna con cui conviveva e che gli aveva dato il figlio, morto poi giovinetto, prematuramente, va indagando in che cosa consistesse, che cosa implicasse codesto irresistibile modo dell'essere che è appunto l'amore. « Illa » è tornata in Africa, ma io l'amavo fortemente, l'amore ci legava, anche se - aggiunge - più tardi compresi la differenza fra l'amore consacrato dal matrimonio e quello peccaminoso che ci univa. E del resto anche Monica, questa figura davvero amletica, vedremo, della vita di Agostino, assecondava - o doveva assecondare - quella relazione, in vista d'una sistemazione più secondo la programmazione che essa si era prefissata del figlio, del « figlio di tante lacrime », che non poteva finire in un matrimonio mediocre e modesto con quella donna rimasta senza nome, con quell'« illa » destinata a scomparire dalla scena e dalla vita, anche se non dalla memoria incarnata dell'agitato Agostino. Ebbene, proprio mentre va indagando sui suoi amori disordinati, egli, ad un certo punto, ha come una rivelazione: Mi accorsi che, in realtà, io non amavo tanto quella o codesta persona: io amavo l'amore. Ed invero, l'adolescenza, la giovinezza, amano prima di tutto l'amore, amano amare. Ma « amar l'amore » vuol dire amar « amar l'amore... ». Quell'infinità che cogliamo nel defluxit anima hominis, nella teoresi, nella volontà, si ritrova ancora nel nucleo più agostiniano dell'uomo: nell'amore. E risulta così delineata l'essenza di quell'anima razionale, che egli non riusciva a rappresentarsi se non estesa, per quanto sottile al pari di quell'atmosfera di atomi minimi che animava alla maniera di Democrito i corpi e gli esseri, o più sottile ancora, come mostra la luce che si fonde con l'atmosfera illuminata: non accorgendosi che, per tali modi, egli si rappresentava l'anima razionale come qualcosa effettivamente di materiale e di esteso, al punto che, allora, una formica avrebbe dovuto contenere ed avere meno anima di un elefante. Ma, come d'un tratto, ad un certo punto, vide, intuì come per un balenare interiore, intuì, che quella potenza mentale, con la quale non riusciva ad immaginare se non estesa quella potenza stessa, essa non era estesa.
Ed era l'approdo alla spiritualità autentica. Questa è l'antropologia, questa la psicologia agostiniana: l'intramontabile perennità di Sant'Agostino, che riemerge ogni qual volta noi andiamo leggendo le stesse opere maggiori dei maggiori psicologi scientifici dei nostri tempi. Agostino non ricercava in laboratori ed in cliniche, ma aveva il genio della constatazione, della descrizione e della interpretazione dei fatti intimi e dei processi dialettici dell'io. Ed a mostrare quanto sia perenne, basterebbe, proprio nel nostro campo psico-pedagogico, rileggere le frasi in cui egli ci dice di sè bambino: là dove, come citavamo, distingue fra ciò che ancora ricorda e quello che vedeva negli altri bambini circa l'apprendimento del linguaggio verbale, sì da poter immaginare i propri atteggiamenti infantili e parlarcene con attendibilità. Nonostante il tono sempre elevato, pieno di affiato e di immagini di stile orientale e biblico, egli non fa mai della retorica: è un trascrittore, un registratore dotato di oggettività e di scientificità impressionanti, in cui si fondono i fatti osservati e lo stato dell'osservatore nell'atto dell'osservare. Da giovani, Sant'Agostino colpisce per la grandiosità degli argomenti, l'infinità delle prospettive e la possanza delle sintesi; più avanti negli anni ci stupiscono maggiormente le penetrazioni analitiche, le pagine e pagine in cui ogni parola - come avviene nel Manzoni, ad esempio - si apre ad un disvelamento « solare », cioè come avviene alle cose quando le tocca il raggio del sole, che vengono da esso rivelate ed a noi sembra di percepirle per contatto. Così ci sembra di toccare col pensiero le problematiche e le ipotesi agostiniane. Dopo aver detto tanto potrebbe stupire una affermazione come quella che stiamo per avanzare; e cioè, che, più ancora che nel motivo caratterizzante dell'interiorità e dell'autocoscienza, nella vivezza della psicologia dello spirito articolato in se stesso nella propria unità-totalità, inteso come «universo» (molteplicità in versus-uni), dello spirito come storia e continuità, e come identità con se stesso pur nelle divagazioni e nelle avventure del suo divenire; dello spirito che partecipa del mistero del tempo pur nella sua essenza di sempre presente; più che nelle inarrivabili indagini sul nostro essere colto come « memoria », Sant'Agostino è attuale nella sua esperienza di fondo, nella sua ansiosità, nella vicenda di tutta la vita, che gli negò la « gioia di vivere ».
In questo non aver conosciuto mai la «gioia di vivere », a causa di quella che era l'idea della scuola e del rapporto fra indirizzi scolastici ed educazione familiare medesima, sta la caratterizzazione più intima e moderna del messaggio pedagogico ed educativo di Agostino, nel senso di un'esigenza di riforma affidata alla lenta opera dei secoli e maturatasi in consapevolezza soltanto oggi. La scuola frequentata da Agostino fanciullo è una scuola nella quale si soffre e si è tormentati; una scuola che noi, oggi, dichiariamo essere una scuola non degna dell'uomo, che si oppone al vero costituirsi della personalità, in quanto è una scuola che, anzichè porsi come « vivificante », si pone come «mortificante ». Era del resto la scuola di tempi ben più antichi. Eronda - metà del III secolo a.C. - nel mimo dal titolo «Il maestro di scuola », ricordato dal Marrou, sceneggia il piccolo Còttalo che, «alzato a spalla» dai compagni per ricevere le nerbate, così supplica il maestro Lamprisco: «No, ti scongiuro per le Muse e per la vita della tua piccola Cutis, non prendere lo staffile dal cuoio duro, prendi quell'altro per battermi ... Quante, quante me ne vuoi dare. Per pietà, Lamprisco ... Mi volete morto? Smetti, Lamprisco, bastano ... Per carità, non mi finire!» (Cfr. H. J. MARROU, Storia dell'educazione nell'antichità, Studium, Roma, 1950, p. 216 e Eronda e i mimici minori, trad. di E. Romagnoli, Zanichelli, Bologna, 1938, pp. 41 sgg., mimo terzo). Noi, oggi, leggiamo di questa episodica senza neppure più partecipazione di pura immaginazione rievocativa: come leggiamo la pagina di Montaigne in cui sollecita a rimuovere dalle aule le « sferze sanguinanti » per dipingervi Flora e le Grazie; come non avvertiamo quale rivoluzione e quale stupore ingenerasse l'epigrafe di Vittorino apposta alla sua Gioiosa: «Qui si istruisce non si tormenta ». La scenetta di Eronda muove perfino, in sulle prime, ad un sorriso i lettori di oggi. Ed Agostino conosceva proprio la scuola della sferza e la stretta al cuore che gli veniva dal riso e dallo scherno dei familiari. « Fui mandato a scuola di lettere, le quali, povero me, non sapevo che utile potessero dare: e tuttavia, se mi ci mettevo di mala voglia, venivo battuto. Gli anziani lodavano questo procedere, e molti, avendolo sperimentato a loro tempo, avevano preparato a noi fanciulli questo greto sul quale bisognava camminare, e pigliarmi questa giunta ai travagli ed ai dolori dei figli di Adamo ». E portiamo attenzione su quanto segue: «Incontrammo allora, o Signore, uomini che ti pregavano, e da essi, secondo l'infantile possibilità di quei giorni, appresi che tu sei qualcosa di grande, che puoi, anche senza apparire ai nostri sensi, esaudirci ed aiutarci. Per cui, così fanciullino, cominciai allora ad invocarti, o aiuto e rifugio mio; e scioglievo, per invocarti, i nodi della mia lingua; e, piccolo, ti pregavo, ma non con piccola angoscia, di non essere percosso nella scuola.
E poichè tu, per il mio meglio, non mi esaudivi, i grandi, ed i miei genitori medesimi, i quali pur non avrebbero voluto che mi accadesse un male al mondo, si prendevano beffe di me quand'io ero picchiato: ciò che era per me, allora, grande e grave tribolazione. Ma si può forse dare, o Signore, un cuore tanto magnanimo e forte, ed a te legato di cotanto amore, si può dare, dico, poichè potrebbe provenire anche da certa stoltezza, qualcuno, il quale, per essere teco unito amorosamente, pigli tanta sicurezza da stimare un nulla gli aculei e gli unghioni di ferro della tortura e strazi del genere, che tutti tremando ti pregano di tener lontani da loro, infino a farsi beffe di chi ne ha terrore, come si beffavano i miei genitori per la battiture che a me, poverino, infliggeva il maestro? E così il mio spavento non era minore, né con meno ardore ti pregavo che me ne scampassi ...» (AUG. Confessioni, I, IX).
Questa scuola era così, snaturata dall'equivoco dell'adultismo. Scuola secondo la massima « pedagogica » medievale: «Disce verbis et verberibus »: insegna con le parole e con le vergate. Quando Agostino rievocava, nel primo libro delle Confessioni quegli anni lontani e di pena, aveva quaranta quattro anni. Orbene, a settantatrè, annotava ancora, nel De civitate: «L'applicazione alla quale si sottopongono i fanciulli con la minaccia delle punizioni è qualche cosa di tanto angoscioso che all'insofferenza dello studio essi preferiscono qualche volta la sofferenza delle punizioni. Pertanto chi non avrebbe paura di ritornare fanciullo, e non preferirebbe morire, se glielo si proponesse?» (AUG., De civitate Dei, XXI, 14). Immaginiamola, questa scuola, questi bambini angosciati, disperati, che, nelle loro preghiere di speranza presso che vana, mettono soltanto la richiesta di una scuola serena. Noi, oggi, sappiamo, dagli studi della psicologia del profondo e dei primi anni, che il rapporto affettivo nei primi anni, con i genitori e i maestri, è quello che dà il tono e l'atteggiamento fondamentale alla personalità per tutta la vita: che la rende serena e confidente, o buia ed infelice, ottimista o pessimista, estroversa o introversa, socializzabile o asociale: e intendiamo, allora, anche come l'anima profonda e inconscia di Sant'Agostino ci si faccia incontro come un'anima assetata di serenità, in cerca di senso di sicurezza, di quella sicurezza d'intorno che egli non avverte e non sente, onde si radica in lui quell'ansia di riscatto dall'angoscia esistenziale, che solo può essere dato da Colui che ha il potere di offrire il radicale senso di fiducia e di sicurezza. lnquietum est cor meum, allora, perchè sono e mi sento precarietà, dolore, male, morte. Nulla è in me in cui possa fondare me stesso. Solo attingendo la radice del mio essere, e poggiando in essa posso avvertire una speranza, solo radicandomi in Colui che è, io che non « sono » l'essere, ma « ho » soltanto un essere, ricevuto e mantenuto, posso trovare la quies, la quiete serena e rasserenata, la pace: donec requiescat in te. Da una realtà psicologica ad una ontologico-esistenziale alla teologia della grazia, alla teologia mistica, che si apre là, dove, bambino, sentiva il lontano Dio delle inutili invocazioni già come « aiuto e rifugio mio ». A che cosa, ed a chi, far risalire questa situazione? Forse a Patrizio, il pallido padre che, probabilmente, assai poco si curava del figlio, tanto da non scorgere nessuna sua traccia di rapporto affettivo, nelle Confessioni, fra padre e figlio. Patrizio, infatti, non esiste nella biografia di Agostino, se non in quella che ci propongono i dotti. Più visibilmente alla madre, Monica. Solo che Monica è un problema psicologico essa stessa per prima, come madre e come madre educatrice. Doveva essere una madre divisa fra spirito inibitivo, permissivo e iperprotettivo.
Spesso, la sua presenza doveva essere sentita dal figlio come oppressiva in senso psicanalitico. Il suo amore doveva trasparire e mostrarsi in tutta la sua forza ed espressione, se Agostino potrà riconoscersi il «figlio di tante lacrime »; ma era una madre alla quale egli osava infliggere l'umiliazione dell'abbandono sulla spiaggia di Cartagine, anche se, rifiutata sul lido africano, essa «impavida» doveva porsi subito sulle sue tracce e raggiungere il figlio fuggiasco a Roma per stargli vicino a Milano e poi sino al lido di Ostia, il luogo del colloquio sulla gloria eternale, testimonianza delle capacità di ascesi di quell'anima femminile e materna. L'amore di Monica doveva essere, cioè, un amore non molto rasserenante; essa doveva destinare al figlio quei trattamenti severi che si sogliono imporre e giustificare come inflitti per « il bene » dei figli o degli scolari: e questa attitudine materna doveva stagliarsi tanto vigorosamente nell'animo di Agostino che egli, non una volta sola, quando si rivolge a Dio, lo chiama « piamente crudele », Colui che lo tormentava a salute. E' da notazioni di questa natura, che sembrano soffermarsi a cogliere delle contraddizioni, che emerge invece la più reale e realistica psicologia agostiniana - psicologia narrata perchè vissuta e sofferta - e che è la psicologia cristiana dell'agostinismo a radici paoline, capace di non casuali incontri con la psicologia psicoanalitica del nostro tempo. Non si proponeva, quindi, niente di artificiosamente originale nell'interpretazione dei motivi pedagogici agostiniani, quando si diceva che in lui la pedagogia implicita è di gran lunga più incidente e più perenne della stessa sua pedagogia esplicita e da trattato: essa, lo si vede bene, oramai, permette di penetrare i significati più umani e umanamente travagliati delle esposizioni, di comprendere le inesauste analisi delle proprie esperienze di vita, di esistenza e di situazione, nelle quali Agostino, narrando sè, mostra i più profondi ed intimi motivi del nostro umano essere e del nostro agire, e proprio frugando sia nell'inconscio sia nelle profondità dell'anima. E sono i motivi della sfera affettivo-emotiva, dei sentimenti, delle passioni, delle ansie inappagate. Ripensiamo un solo istante: il furto delle pere; l'indomabile passione per gli spettacoli ed i giochi, la drammaticità della conversione nelle lotte fra l'io spartito in due volizioni, la ricerca dell'origine e quindi della natura del male, l'indagine su tutte le passioni che agitano la nostra miseria, sul peccato, la superbia, la concupiscenza, l'amore umano e, ad ogni pagina, ad ogni passaggio, l'irrompere delle preghiere in invocazioni alla salvezza, in un anelito d'insicurezza, di non essere amato, di non trovare un rifugio. Sant'Agostino vive in un'età di crisi storica. Sparisce dalla scena del mondo Roma imperiale, perfino distrutta dai barbari; la nuova religione si misura, per la prova estrema, con l'antica e con l'eresia, agitata dalle interpretazioni contrastanti sulla natura della Divinità e su quella di Cristo (ed Agostino passerà di esperienza speculativa e religiosa in esperienza, dallo scetticismo e dal manicheismo alla filosofia cristiana ed alla teologia cattolica): tutta una civiltà, coi suoi valori classici di pensiero, di arte, di norma di vita e di espressione è chiamata al paragone con i valori della umanità cristiana, ed Agostino si espande in questa crisi fino a fondare la filosofia della storia e a diventare un protagonista del grande moto. E in esso vive contemporaneamente una propria natura personale assetata di esperienze e di problemi, sempre ardente nell'inappagamento per le soluzioni e le spiegazioni non esaustive ed inautentiche. Lettura dell'Ortensio, Fausto manicheo atteso e vanamente ascoltato, libri degli Accademici e dei Platonici, predicazione ambrosiana, e poi quello che la stessa Scrittura, dal Genesi al Vangelo di Giovanni ed a san Paolo, è stata nel vaglio del suo pensiero. Ma fin dove sono pensieri e riflessioni, piuttosto che ansie immediate?
O Dio, devo prima invocarti o prima conoscerti? - Ch'io ti cerchi invocandoti; ch'io t'invochi credendo in te. Nel costituirsi dello stesso pensiero, della teoresi, c'è in Agostino, costantemente e consostanzialmente, sempre, una componente ansiosa: le soluzioni acquistano perciò non soltanto un significato di verità, ma un valore di liberazione, di rasserenamento, di apporto di sicurezza. E questo perchè, come proponevamo subito, Agostino è una personalità alla quale è mancata quella che noi oggi chiamiamo la «gioia di vivere », in un'esperienza negativa che può essere fatta risalire alla sua condizione familiare, ma sovratutto proprio alla scuola, a quella scuola che abbiamo visto per lui tanto terrificante. Sicchè, apparentemente, sembra essere il pensiero e l'argomentare a spiegare le ansie del cuore; ma, in realtà, è l'ansietà profonda che ha avviato il pensiero per le vie che esso andrà percorrendo. I problemi di personalità, nella pedagogia agostiniana, sono perciò assai più importanti e essenziali di quelli di apprendimento e se, nel De Magistro - opera peraltro più di semeiotica e di linguistica che di pedagogia - propone il principio dell'attivismo, nel De cathechizandis si diffonde primariamente sul sentimento d'amore e di serenità che occorre far vivere e sentire nel rapporto educativo. Questo è l'ammonimento centrale che non solo dalle parole, ma dal tono dominante, proviene dall'opera e dallo stile di Agostino, da quel ricorrere di espressioni come queste: Oh, le angosce del mio cuore - Tu mi vedesti balenar sullo sdrucciolo - Riguarda a questa pianticella sitibonda - E vedesti il luccicar di qualche favilla nel fumigar dei miei errori e delle mie passioni - Salvami dalla disperazione e dalla falsa speranza - e nel dispiegarsi delle invocazioni, una delle quali, fra le tante, possiamo rileggere: «Abbimi compassione, sì che io possa parlare. Che cosa sono io mai per te, che vuoi essere da me amato, e che, dove io non lo faccia, ne pigli sdegno, e minacci grandi mali? (...) Signore Dio mio, dì all'anima mia: «la tua salute son io ». Dimmelo ch'io senta. Ecco che le orecchie del mio cuore sono dinanzi a te, o Signore: aprile, e dì all'anima mia: «la tua salute son io ». E andrò correndo dietro a questa voce, e mi afferrerò a te» (AUG., Conf., I, V).
In questa continua contrapposizione fra noi creature destinate al «male metafisico» dell'imperfezione, e Dio perfezione ed Essere, Agostino porta a motivo metafisico e teologico l'insicurezza psicologica propria alle persone prive e private dall'affetto; ed eleva questo sentimento in lui fondamentale alla dialettica temporalità-eterno, finitudine-infinità, instabilità-pace: pace come « quiete » nella stabilità del sempre-presente. Di fronte ai motivi di quello che fu il grande illuminismo - quello di Lessing specialmente, del compito infinito - di quello che fu il romanticismo del lavoro infinito e delle tesi dell'eterna apertura che caratterizzano il nostro tempo, questo motivo agostiniano parrebbe sorpassato. In realtà, però, Sant'Agostino è un quiescit numquam: la moralità in lui non è una precettistica ma una problematica ed una dialettica vissute e sofferte; e il suo Dio non è il Dio « immobile» dell'atto puro aristotelico, ma il Dio del Vangelo e dell'Apocalisse: il Vivente. Ma, anche pedagogicamente, va ripreso che il motivo centrale dell'agostinismo - e certo non a caso - è l'amore. Dal nucleo dell'io e dello stesso inconscio, da cui si leva il bisogno di essere amato e di amare, fino a tutte le dottrine del suo pensiero: la teoria dell'amore sta all'origine della teoria del male come la Città di Dio propone le prospettive dei «due amori ». Il significato continuo, esistenziale e quello teologico di questa realtà, intima a noi stessi più di quanto noi si sia intimi a noi medesimi, sta nell'invocazione tradotta in mille variazioni: «Io ti amo, o Dio, perchè tu mi ami ». E ne esce appunto quella « inquietudine » perpetua che va sempre « al di là »: sete insaziata al progredire ed allo scavare nell'essere, nell'esistere e nell'infinito, per tutta la vita, in un processo auto-educativo « permanente », fino ai tardi giorni della Civitas Dei e delle Retractationes. Siamo stati forse presi troppo da una tesi, che vorremmo liberare - se ce ne fosse - dall'apparenza di forzatura, e che vorremmo intesa sovratutto nel suo spirito più che nel testo letterale dell'enunciato: ricerchiamo la pedagogia di Agostino più che nelle opere trattatisticamente pedagogiche, nella sua vita e nelle opere in cui egli più si misura con i grandi problemi che lo tormentavano e proiettavano nell'infinito. Dice Morris che l'uomo è immerso in un mondo che è tutto un mondo di segni, e solo l'uomo. Se pensiamo che il De magistro è appunto un'opera non veramente di pedagogia ma di linguistica e di semantica, una teoria dei segni, nella quale è ricondotto a rapporto mediante segni anche l'insegnamento, potremmo, e non sarebbe forzatura, ricondurre Sant'Agostino agli autori più attuali, stupiti che nel De doctrina christiana la teoria dei segni sia stata portata poi già a tanto livello di impostazione. Ma abbiamo creduto che anche più attuale sia l'Agostino del « profondo », che si allinea descrittore e interprete insuperato con gli scandagliatori delle nostre ragioni di serenità o di infelicità: ciò che ci fa sentire Agostino, oltre che come un genio, come un grande fratello maggiore, che anela a confortare gli uomini con la luce delle sue esperienze, che non sono argomentazioni ma « fatti », in modo che, acquistando coscienza della ragione della propria miseria, essi possano trascenderla, riparando alla miseria stessa in una quiete attiva, senza più senso del nulla e del proprio non-essere radicale, che ci libra all'angoscia quando non si requiescat in Colui che è.