Sant'Agostino: di Juan de Borgoňa
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
FUNZIONE DEL MAESTRO UMANO E DEL MAESTRO INTERIORE NEL DE MAGISTRO DI S. AGOSTINO
di P. Antonio Lombardi provinciale degli Agostiniani di Roma
La copiosa bibliografia, che si raccoglie intorno al «De magistro » di S. Agostino, testimonia più di ogni commento, l'importanza che questa opera ha assunto nella storia della filosofia della educazione e, di conseguenza, l'interesse che ha incontrato presso gli studiosi di pedagogia e di semiologia, per l'acuto studio del valore e del significato dei segni in genere (Questa bibliografia consiste per lo più in articoli e scritti inseriti in raccolte di studi più ampi sul pensiero del Santo Dottore o in Riviste e periodici di cultura). Il nostro compito non consiste nell'elencare le diverse e spesso divergenti valutazioni e le interpretazioni sull'esatto valore pedagogico del dialogo; e neppure nel definire la matrice culturale e spirituale in cui si innesta la conversazione sulla figura del maestro e sul problema della comunicazione didattica. Si tratta, invece, di individuare il motivo dominante del discorso dialogico agostiniano sulla personalità del maestro, per poi utilizzarlo per formulare un giudizio circa la efficacia della comunicazione didattica nel rapporto educativo tra maestro e discepolo. Questo motivo di fondo ci è suggerito dallo stesso autore nelle Retractationes, dove dice: «Verso lo stesso tempo, scrissi un libro intitolato "De Magistro", nel quale si disputa, si cerca e si trova che il maestro che insegna all'uomo la scienza non è se non Dio, come è scritto nel Vangelo: Mt. 23, 11 » (Retrac. 1, 12).
Il dialogo, che è stato composto nel 389 a Tagaste, ha per interlocutori: Agostino stesso ed il figlio Adeodato. Per alcuni aspetti formali, riflette da vicino il tipo di dialogo socratico. Per maggiore aderenza al contenuto, sarebbe preferibile farne una triplice ripartizione; considerando rispettivamente (Cfr. L.R. PATANÉ, Il Pensiero pedagogico di S. Agostino, Patron 1967, p. 118):
1) il problema della comunicazione semantica per mezzo del linguaggio;
2) il problema del rapporto tra il segno ed il mondo reale;
3) il problema della interiorità del magistero.
Senonché per ottenere una esposizione più chiara e per rispettare i termini della relazione, abbiamo preferito una trattazione duplice, prendendo anzitutto in esame il problema della comunicazione semantica in genere, e quindi quello riguardante la rivelazione della verità.
La ricerca pedagogica agostiniana
Tuttavia, per meglio interpretare il senso profondo del dialogo, riteniamo utile premettere un breve cenno su ciò che, a nostro avviso, definisce l’ideale ispirativo del discorso pedagogico agostiniano. La «paideia» agostiniana, almeno come si configura negli scritti che seguono immediatamente la conversione di Agostino al cristianesimo, è caratterizzata soprattutto da una costante ed appassionata ricerca di verità. L'idea di verità gioca in tutto il pensiero agostiniano un ruolo di primo ordine, e si trova strettamente collegata con l’idea di sapienza e di beatitudine (S. Ag. Dialogues philosophiques, intr. p. 11, Paris 1948). Una beatitudine nell’errore non sarebbe neppure pensabile, poiché non rifletterebbe quella necessaria dimensione antropologica che è appunto il desiderio della verità. L'uomo aspira naturalmente alla beatitudine. E' questa una legge fondamentale dell'essere umano prima ancora di tradursi in legge dell'agire. Per questo motivo l'azione educativa considerata come partecipazione gnoseologica di verità e come acquisizione fruitiva di essa, deve essenzialmente finalizzarsi alla indagine della beatitudine nella verità. E la visione del fine, a cui l'educando deve tendere, viene a determinare diversamente il rapporto interpersonale tra il maestro ed il discepolo.
Di fronte quindi alla prospettiva di una felicità eterna e perfetta, che si annunzia come il valore assoluto e terminale della ricerca umana di verità, Agostino afferma che ogni altro valore è secondario e mediale, e che ad esso deve orientarsi qualunque altro tipo di attività. Infatti è solamente nel sommo bene che lo spirito umano incontra definitivamente la propria spirituale sazietà. Al conseguimento di questo ideale si indirizza pertanto la ricerca filosofica di Agostino, articolata intorno ai due problemi essenziali: Dio e l'uomo, che formano il quadro generale della vicenda gnoseologica agostiniana, tradotta nel classico « noverim te, noverim me », quale contenuto beatificante e sapienziale.
Proprio perché la sapienza è «scienza delle cose umane e divine» (S. Ag. Contra Academicos, VI, 16; Cic. De Officiis, Il, 5 e Tuscul. IV, 57), è ricerca che deve condurre alla cognizione fruitiva di quella suprema Sapienza di Dio che è il Verbo, è la Verità, è Dio medesimo in cui si trova la Beatitudine (S. Ag. De beata vita, V, 34). I primi dialoghi agostiniani, in modo significativo lo scritto Contra Academicos, ci presentano un Agostino impegnato in veste di maestro umano ad orientare i giovani Trigezio e Licenzio verso questo sublime ideale di Verità. Non desta perciò meraviglia che nel De Magistro, quando il dialogo pare essersi incamminato sulla strada di un tecnicismo verbale e di una disputa puramente linguistica, fin quasi ad annoiare l'interlocutore Adeodato, Agostino gli raccomanda di non considerare di poco conto il discorso fin allora tenuto, poiché esso serve da preludio per «allenare le forze della mente con cui è possibile sostenere, ma anche amare il calore e la luce di quella regione in cui la vita è beata» (S. Ag. De Magistro, VIII, 21). « Vorrei che tu credessi - scrive - che con questo discorso io non ho voluto metter su dei miseri giochetti; e che sebbene abbiamo forse scherzato, questi scherzi non vanno presi in senso puerile, e che io non penso a beni piccoli e mediocri. Pur tuttavia, se dicessi che è ad una certa vita beata ed eterna che io vorrò arrivare, con la guida di Dio, cioè della verità stessa, con passi in certo modo adeguato al nostro piede malfermo, temerei di sembrare ridicolo per aver incominciato a seguire una via così lunga, iniziando a prendere in considerazione i segni e non già le cose significate» (Ibidem). Tanto è sufficiente, crediamo, per convincerci della segreta intenzionalità che stimola il processo pedagogico agostiniano, e quindi il discorso del dialogo che stiamo prendendo in considerazione.
Il problema della comunicazione semantica
Per risolvere il problema che concerne il ruolo del maestro nella educazione, innanzitutto occorre accertare la validità didattica di quegli strumenti dei quali l'insegnante fa normalmente uso. Di questi, il linguaggio è quello che comunemente sembra possedere le maggiori possibilità comunicative nel rapporto maestro-scolaro. Il primo scambio dialogico tra Agostino ed Adeodato traduce con esattezza l'esigenza didattica della parola:
1 - Ag. - Che ti sembra che vogliamo fare quando parliamo?
2 - Ad. - A quel che mi viene in mente ora, insegnare o apprendere (Ibidem, 1).
Pertanto in queste prime battute del dialogo, il linguaggio viene ritenuto il veicolo idoneo a trasmettere, a chi ascolta, i nostri concetti: «esso è tanto necessario all'espressione del pensiero che l'uomo non può rivelare a se stesso le cose che pensa, senza affidarsi, in qualche modo, ad un segno interiore: noi pensiamo per mezzo delle parole e col parlare richiamiamo alla memoria» (Ibidem). Questa funzionalità del linguaggio si definisce più profondamente e chiaramente nel carattere segnico della parola. Ammesso infatti che l'insegnamento si compie sempre attraverso i segni e che « le parole servono ad ammonire noi stessi o ad ammonire ed istruire gli altri per mezzo nostro », non potremmo disconoscere alla parola la sua natura di segno (Ibidem, II). Una volta però pervenuti a questa conclusione i due interlocutori del dialogo affrontano una complessa problematica intorno alla validità della parola come segno, ai gesti, ed al rapporto tra i segni ed i significati. Il suo sviluppo indurrà Agostino a rifiutare al linguaggio come tale ogni possibilità veramente didattica con una soluzione apparentemente scettica ed amara, in cui la funzione del magistero umano risulta dichiaratamente minimizzata sul piano della comunicazione scientifica. L'accertamento della natura semantica della parola, ci obbliga a riconoscerle dei valori significanti, se non si vuol ritenerla un semplice e vuoto suono: «non può essere segno ciò che non significa qualche cosa» (Ibidem, VII, 19). Si osserva però, che spesso, per cercare di spiegare agli altri le cose significate dalle parole, noi ricorriamo ancora a parole, « spieghiamo parole con parole, segni con segni, e segni notissimi con segni notissimi» (Ibidem, II, 4).
Non sarebbe allora più utile ed efficace mostrare direttamente la realtà significata dal segno e dalla parola? Poiché diversamente non usciremo dall'ambito del linguaggio e ci sfuggirà il contatto con le cose: il conoscere verrebbe privato della sua verifica sperimentale che gli conferirebbe, al contrario, la garanzia di oggettività. L'efficacia gnoseologica e didattica di questa verifica riceve la sua convalida nel nostro abituale comportarsi con cui mostriamo le realtà al discepolo senza il concorso delle parole. Innumerevoli cose (Agostino dice: mille altre cose) sono esperibili ed indicabili in tal modo: così «il mangiare, il bere, il sedersi, lo stare in piedi, il gridare, e innumerevoli altre» quali il « sole, la luce che pervade e riveste tutte le cose, la luna e le stelle, le terre e i mari e gli esseri innumerevoli che vi sono generati » (Ibidem, III, 5 e X, 32). In una parola, « tutte le cose corporee e sensibili, colle loro qualità », e le stesse azioni possono essere mostrate e additate (digito ostendere) (Ibidem, III, 5). L'esemplificazione di tante cose, la cui conoscenza diretta vale molto di più della conoscenza delle semplici parole che le significano (Ibidem, IX, 27), induce Agostino a svalutare perfino l'efficacia didattica di quei segni, dei quali aveva sostenuto in precedenza la necessità e la validità. Il segno in se stesso è inadeguato a dirci come realmente stanno le cose e quindi a comunicarci un vero insegnamento: «che se consideriamo più attentamente le cose, - scrive egli - forse non troviamo nulla che si apprenda con i segni. Quando infatti mi viene dato un segno, se ignoro completamente le cosa di cui quel segno è segno, esso non mi può insegnare nulla. Se poi non la ignoro, che cosa imparo dal segno? » (Ibidem, X, 33). Anche le parole quindi, in quanto rientrano nell'ordine dei segni, perdono tutto il valore didattico che l'inizio del dialogo sembrava attribuire loro con l'enunciazione della tesi che quando parliamo, lo facciamo per insegnare e per apprendere (I. c.).
E tra le due enunciazioni tetiche: niente si può insegnare senza i segni e le parole; e, niente si può insegnare con i segni e con le parole, che costituiscono i poli della dialettica del De Magistro, sembra che Agostino preferisca la seconda (M. CASOTTI, Il De Magistro di S. Agostino e il metodo intuitivo, in S. Agostino, Pubblicazione commemorativa del XV centenario della sua morte, Vita e Pensiero, Milano, 1951). A che serve allora il linguaggio? Qual è la sua utilità didattica? Più esattamente: qual è la funzione del maestro umano nel suo rapporto didattico col discepolo? Al termine del dialogo, dopo che ha dichiarato privo di una vera efficacia didattica il linguaggio, Agostino scrive: «Ma di tutta quanta l'utilità delle parole che, a ben considerare, non è piccola, parleremo un'altra volta, a Dio piacendo» (De Mag. XIV). Ma non conosciamo per qual motivo non abbia potuto mantenere la promessa: nessuno scritto infatti abbiamo su questo argomento. Diversamente, crediamo che la funzione del maestro umano sarebbe stata delineata più nettamente ed integralmente. Ci dobbiamo contentare, per saperne qualche cosa, di quanto ci è detto nel dialogo che stiamo esaminando. Da questo risulta che, fallita la possibilità di comunicare per mezzo del linguaggio, l'opera del maestro deve essere innanzitutto indicativa: egli mostra - praebet - al discepolo le cose, affinché questi, vedendole, possa compiere l'atto conoscitivo. In questa attività « ostensiva », il maestro esercita, in un certo senso, una funzione didattica. Si dice infatti che egli « insegna qualche cosa » docet: «E mi insegna qualche cosa colui che presenta agli occhi, o a qualunque senso del corpo, o anche alla stessa mente, le cose che io voglio conoscere» (Ibidem, XI, 36). Si tratta, forse, della semplice conoscenza sensibile, ma in ogni caso questa opera si manterrebbe sempre in limiti assai ristretti del conoscere. Non sarebbe un insegnare in quanto comunicazione concettuale e tanto meno un educare come fatto di umana completezza. Parimenti non è definibile come didattica in senso proprio neppure la funzione, diciamo così, «commemorativa» del linguaggio magisteriale in quanto ci aiuta a « ricordare » una cosa che sapevamo (Ibidem, XI, 37). Una certa attenzione merita, comunque, la funzione «ammonitrice », stimolatrice, dell'insegnamento umano. In molti passaggi del dialogo, l'autore usa il verbo « admonere» e i sostantivi derivanti, per mettere in luce la funzione del maestro umano. Non riteniamo certamente che in questa funzione ammonitrice possa contenersi un compito veramente didattico, tanto più se si tiene conto che l'insegnare e l'apprendere è soprattutto comunicazione e ricezione di idee, di concetti e di scienza, e che proprio in questo campo, che è il terreno di acquisizione di quelle verità che ci guidano alla felicità, fine del conoscere e dell'insegnare, l'umano insegnamento svela la sua debolezza. Però, se questa funzione ammonitrice cela un valore e un significato educativo, esso potrà palesarsi solamente alla luce del rifiuto di attribuire il compito magisteriale all'uomo e di riservarlo unicamente a quel maestro interiore di cui diremo nelle pagine che seguono. Ci piace comunque riferire, a conclusione di questa prima parte della relazione, una testimonianza del Gregory nel suo scritto: «Il Maestro interiore nel pensiero di S. Agostino ». Che Agostino neghi al maestro umano la funzione autenticamente didattica, «ciò non vuol dire che sia negata l'utilità dell'insegnamento, né tanto meno la concreta situazione storica di chi apprende: una negazione totale del maestro come negazione del rapporto educativo, verrebbe a creare un tipo astratto di discente capace non solo di fare a meno dell'insegnante come persona fisica, ma in genere dell'insegnamento come insieme dell’altrui esperienza, cioè come storia; e la presupposizione di una autoeducazione al di fuori della storia è assurda; Agostino stesso, accedendo alle varie scienze empiriche, mette in guardia contro l'assurdità di siffatta presupposizione» (T. GREGORY, Il Maestro interiore nel pensiero di S. Agostino, in Il Medioevo, a cura di B. Nardi, Firenze 1956, n. 6). Pertanto la ricerca di una soluzione più idonea deve essere orientata altrove e nei limiti che ad essa assegna il dialogo agostiniano.
La rivelazione della verità
Al tema specifico del maestro interiore, Agostino dedica la parte terminale del dialogo. Sotto questo aspetto si tratta della parte più importante, quella che ha incontrato il maggiore interesse degli studiosi del De Magistro. In effetti vi si trovano sviluppati i motivi di un discorso iniziato già in altri dialoghi ed accennati all'inizio di questo stesso opuscolo: l'interiorità del magistero, per l'appunto. Infatti, concludendo il dialogo sulla « vita beata », dopo aver detto che la felicità consiste nel possedere e godere Dio, al quale si perviene per mezzo del Figlio che è Verità e Sapienza, soggiunge: « Questo sole misterioso (Dio) diffonde la luce che rischiara il nostro sguardo interiore. E' da Lui che procedono tutte le verità che noi proferiamo, anche quando noi trepidiamo di volgere con audacia verso di Lui i nostri occhi ancora malati o improvvisamente apertisi per contemplarlo direttamente in faccia. Questo sole ci si rivela come niente altro che Dio ... » (S. Ag. De beata vita, V, 35). Nel De Magistro poi, superato l'avvio introduttivo alla indagine, Agostino ricorda al suo interlocutore l'insegnamento paolino sulla presenza di Cristo nell'interiorità dell'uomo: «Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi, e che Cristo abita nell'uomo interiore?» (1 Cor. 3, 16). Ma soltanto nell’epilogo del cap. XI questo problema viene esplicitamente posto in chiari termini; quindi sviluppato e risolto nei capitoli successivi. Il discorso dialogico sulla natura e sul ruolo del maestro umano nell'insegnamento, in quanto momento essenziale e formale dell'educazione, poneva in evidenza i limiti interni di una comunicazione didattica attuata nei termini del linguaggio e di ogni altra espressione semantica: «Con le parole non si imparano che parole » (De Magistro, XI, 36). Tuttavia, dove questi limiti risultano chiaramente invalicabili a qualsiasi metodologia didattica è nel campo della comunicazione concettuale, vale a dire dove il maestro è chiamato a partecipare al discepolo le verità intelligibili, le nozioni, le idee. In questo caso, non essendo possibile trasmissione o comunicazione alcuna di tipo concettuale, il rapporto didattico viene a mancare della sua più profonda qualifica, quella cioè di essere un insegnamento al livello di scientificità.
I valori pertanto di ogni insegnamento, quelli caratterizzati dai concetti di immutabilità, di eternità e di intelligibilità, quelli propriamente scientifici, in quanto la scienza è disciplina «de universalibus », non vengono al discepolo né dalle parole, né, in senso profondo, dai segni, e neppure dalla semplice visione delle realtà sensibili, mutevoli, transitorie e materiali, in qualunque maniera offerte all'incontro dei sensi. Degli oggetti sensibili è per lo più facile al maestro che parla portare il discepolo alla verifica esperimentale delle parole, mostrando questi stessi oggetti, « sicché conosciute le cose, si porta a compimento anche la conoscenza delle parole; mentre ascoltando le parole non si imparano neanche le parole» (Ibidem). « Così che - dice Agostino al suo interlocutore - immagina che noi udiamo per la prima volta questa parola «capo » e non sapendo se essa sia semplicemente un suono di voce, o significhi qualche cosa, ci diamo a cercare che cosa sia capo ... Se dunque venisse indicata col dito a noi la cosa che stiamo cercando, noi, vedutala, impareremmo il segno che avevamo soltanto udito, ma che non avevamo ancora imparato a conoscere» (Ibidem, X, 34). Nel caso però di oggetti intelligibili, come la sapienza, la giustizia, la verità, il discepolo non ha nessuna possibilità di verificare esternamente la veridicità di quanto gli viene insegnato dalle parole che tali concetti significano. Ma giacché non possiamo negare che l'uomo possiede la conoscenza di questi concetti, a meno di cadere nello scetticismo, dobbiamo concludere al fatto di una verifica reale di essi all'interno di noi e all'esistenza di un maestro, che ce li insegna e comunica, diverso dal maestro umano, esteriore. Se infatti «non si arriva alla realtà intelligibile, il segno è vuoto, la parola è nulla» (L. DE SIMONE, Il maestro interiore di S. Agostino e l'anamnesi platonica, in Giornale critico della Filosofia italiana, 10; 1929, pp. 275-276).
Tale conclusione apre, nel dialogo, la via al discorso sul magistero interiore: «Intorno poi a tutte le cose intelligibili, noi consultiamo, non colui che parla, che risuona dall'esterno, ma la stessa verità che presiede all'interno della mente, forse da quelle parole ammoniti a consultarla. E colui che è consultato, insegna, quello che è detto il Cristo che abita nell'uomo interiore, cioè l'immutabile (virtù) di Dio e sempiterna sapienza. Sapienza che ogni anima razionale certamente consulta, ma che a ciascuno tanto si rivela, quanto dalla sua buona o cattiva volontà è permesso» (De Magistro, XI, 38). Ci sembra che con queste parole si stabilisca il «criterio ultimo » dell'insegnamento, quello per cui l'intendere si fa veramente crescita sapienziale. Esso è riposto nella « veritas interior » in quanto luminoso riflesso dell'immutabile Verità trascendente. Del resto, quasi contemporaneamente alla composizione del De Magistro, in una lettera a Nebridio, il santo spiegava il processo dell'intellegere: esso « avviene in due modi: o per un atto dell'intelletto e della ragione, attraverso una operazione immanente, come quando, per esempio, comprendiamo che esiste l'intelletto stesso, o per una impressione (admonitione), che riceviamo dai sensi, come, ad esempio ... quando comprendiamo che il corpo esiste. Nel primo caso noi giungiamo alla conoscenza sotto l'ispirazione di Dio (Deum consulendo) per mezzo di noi stessi, vale a dire partendo da ciò che è in noi; nel secondo, sempre sotto l'ispirazione di Dio (Deum consulendo), giungiamo alla conoscenza partendo da ciò che ci viene comunicato dal corpo e dai sensi» (S. Ag. Ep. XIII, 4). « Si tratti allora di conoscere qualcuno degli oggetti dell'intelligenza o degli oggetti del senso - scrive il Gilson - ogni conoscenza si opera al di dentro e dal di dentro, senza che niente vi si introduca mai dall'esterno. La dottrina di Agostino sembra dunque affidare ad ogni ordine di conoscenza una stessa legge, che potrebbe chiamarsi la legge della interiorità del pensiero» (E. GILSON, Introduction à l'étude de S. Augustin, Paris, 1929, p. 94). Legge però che non autorizza minimamente qualunque interpretazione immanentistica della verità: poiché la verità, anche se è in noi, non è una verità individuale, ma universale e trascendente (L. DE SIMONE, I. c). Si è accennato, in precedenza, ad un « criterio ultimo » dell'insegnamento, vale a dire alla « veritas interior ».
Ad essa ogni uomo si riferisce tutte le volte che vuole controllare l'attendibilità di un insegnamento che gli venga impartito dall'esterno. Non crediamo tuttavia che questa specie di verifica del conoscere, questa « consultazione» della verità che risiede internamente all'uomo, sia di per sé sufficiente a definire il senso profondo del criterio ultimo, poiché a questo molto conferisce la personalità di colui che parla, il ruolo che nell'atto intellettivo occupa il suo insegnamento, ed infine lo spazio spirituale che viene lasciato disponibile alla risposta conoscitiva del discepolo. Per ognuno di questi interrogativi, il dialogo agostiniano presenta risposte e suggerimenti utili per sviluppare una ampia e complessa tematica. Per forza di cose noi dobbiamo limitare il discorso all'essenziale di questo pensiero, ricollegandolo a quanto Agostino scrive nei Soliloqui circa Dio. Dio è il vero maestro degli uomini. « Dio, padre della verità, padre della sapienza. Dio verità, nel quale, dal quale e per il quale tutto è vero ciò che è vero. Dio! intelligibile luce, in cui, da cui e per cui tutto risplende ciò che intelligibilmente risplende» (Sol. l, 3). Questa luce di verità risplende agli uomini per mezzo del Cristo, colui che noi consultiamo in ogni atto intellettivo, colui che solo ci istruisce e dal quale solamente possiamo apprendere, per una interiore rivelazione di verità, il significato intimo delle parole e dei segni che il maestro esteriore ci presenta (De Magistro, XI, 40).
Cristo si fa, così, il maestro interiore che unisce, in una comunione di verità, tutti gli uomini fattisi condiscepoli alla sua scuola: in una schola communem magistrum in coelis habemus (S. Ag. Sermo 299, 1). Cristo è anche il solo maestro di tutti in cielo (Mat. 23, 8-10), dal quale noi, interiormente rivolti a lui, veniamo ammaestrati (De Magistro, XIV). Cosicché fra Cristo e l'uomo c'è un vero rapporto didattico nel quale i termini della dialettica insegnamento-apprendimento celano, nella loro profonda significazione, un contenuto quasi misterioso. Infatti, per qualificare la funzione di questo magistero interiore, Agostino adopera frequentemente quegli stessi vocaboli con cui noi siamo soliti configurare la fisionomia del magistero umano. Il maestro interiore insegna (docet), esercita sul discepolo, o meglio dentro il discepolo una azione dottorale la cui profonda natura ci sfugge. Inoltre egli ci ammaestra, ci istruisce (erudiamur), realizza quella comunicabilità di idee, che sarebbe impossibile sul piano del semplice magistero umano. Ed è opportuno notare, a nostro avviso, come a questo interiore magistero non venga mai attribuita, in termini letterali né la funzione locuzionale, né quella esplicativa, né l'ammonitrice, come accade, invece, per il maestro umano. Anzi, in quegli stessi momenti del dialogo nei quali Agostino pone l'una accanto all'altra l'azione magisteriale dei due maestri, distingue anche lessicalmente il senso di queste funzioni (Ibidem). Non mancano comunque caratteristiche specifiche di questo magistero. Oltre alla sua interiorità, c'è un aspetto che non sembra attribuibile, in ugual misura, a nessun tipo di didattica umana e che viene presentato come proprio del Maestro interiore: vogliamo riferirci al ruolo rivelante o, più esattamente, illuminante di questo insegnamento. Scrive Agostino: «Quando poi si tratta che intuiamo con la mente, cioè con l'intelletto e con la ragione, noi parliamo certamente di cose che vediamo presenti in quella luce interna di verità in cui gode e si illumina quello che chiamiamo l'uomo interiore» (Ibidem, XII, 40). La metafora della luce è messa in analogia con la luce che opera nella conoscenza sensibile e nella quale percepiamo le realtà esteriori (Ibidem, XI, 38; XII, 39). Nel caso della conoscenza intellettiva essa costituisce un approfondimento delle condizioni reali dell'insegnamento: ogni progresso conoscitivo si attua attraverso la illuminazione divina di un maestro, che, se pur abita in noi, tuttavia ci trascende, perché in coelis est (Ibidem, IV). Questa conclusione ci avverte, di passaggio, che i pochi accenni all'illuminazione fatti nel dialogo, non sembrano autorizzare una interpretazione immanentistica della funzione illuminante: ciò che illumina non può confondersi con ciò che è illuminato. Come anche pare fuori posto identificare questa funzione illuminante con quella di un « intelletto agente ». Sarebbe più esatto affermare che, restando nei limiti del dialogo, una dottrina della illuminazione e quindi del significato profondo della funzione illiminante del maestro interiore non si possa sufficientemente e chiaramente elaborare (L. DE SIMONE, l. c). Riteniamo, ad ogni modo, che il ruolo illuminante della «veritas interior », ammessa come condizione assoluta di intelligibilità e non come semplice dato, contribuisca a riqualificare sia a livello dell'insegnamento che a quello specificamente educativo e formativo, la natura dell’intellegere, il ruolo e la funzione dello stesso maestro umano. L’intendere diviene, in ultima analisi, un farsi « interiormente discepolo della verità» (De Magistro, XIII, 41), un considerare dentro di sé, se le cose che sono state dette da coloro che esercitano la professione del magistero umano, corrispondono a verità (Ibidem, 45). Nei confronti di ogni insegnamento umano, il discepolo è portato a sospendere il giudizio di verità perché possa consultare quella verità che gli è dentro. E sebbene tutta si svolga spesso con impercettibile rapidità, tanto che siamo indotti erroneamente ad attribuire quello che impariamo al richiamo di colui che parla dall'esterno e diamo a lui il titolo di maestro che non gli spetta, tuttavia la verifica della verità richiede dal discepolo uno sforzo non indifferente (Ibidem). Uno sforzo in cui l'intendere diviene realmente un'attività del discepolo. Agostino parla di «contemplazione» (sua contemplatione), parla anche di una «intuizione» della verità (illam veritatem intuentes) che genera l'apprendimento (Ibidem, XII, 45), e parla di una« interiore conversione» al maestro divino (ad eum intro conversi erudiamur) (Ibidem, 46). Quale valore dare a questo linguaggio? C'è da credere che, di fronte alla verità, il discepolo venga a trovarsi in una specie di intuizione contemplativa in cui sono impegnate tutte le migliori risorse (pro viribus) della persona umana: quelle conoscitive e quelle volitive. Questo atteggiamento esige dal discepolo una pratica di esercizio ascetico che va dall'intelligenza al cuore; un esercizio di riflessione, di attenzione, di ascolto e di purificazione interiore. Certo, non si può negare che la verità si manifesti ad ogni uomo, ma i limiti e la chiarezza della percezione di essa, molto dipendono dalle morali disposizioni di ciascuno (Ibidem, XI, 38). In tal senso Agostino può concludere il dialogo con un riferimento a quella « vita beata », la quale, come si è detto, costituisce l'ideale sapienziale dell'educazione. Tutti ricercano la felicità, ma la gioia del suo possesso è riservata solo a quei pochi che riescono a conoscere e amare il maestro interiore. In questo contesto anche la funzione del maestro umano risulta rivalutata. Suo compito precipuo è di insegnare non la verità, la quale non viene dall'esterno, ma il metodo per cercarla e scoprirla. Egli deve preparare, attraverso tutti i suggerimenti e le accortezze che gli dettano la sua personale attitudine e preparazione, l'occhio interiore del discepolo a percepire, senza errore, quella luce che lo illumina e lo istruisce (G. GONELLA. La funzione del Maestro e lo Verità interiore nella dottrina di S. Agostino. in «S. Agostino e le grandi correnti della Filosofia contemporanea ». Ed. Agostiniane 1954, pp. 386 sg). Il suo insegnamento ha il compito di stimolarci a cercare e trovare entro di noi la verità latente nello spirito. E poiché la stessa luce di verità è comunicata sia al maestro che al discepolo, il maestro, che non invano porta questo titolo di fronte agli uomini, ma solo perché ha esperimentato in sé, attraverso la riflessione, la conversione e l'attenzione, la piena disponibilità alla verità, cerca di avviare il discepolo a questa stessa esperienza di natura sapienziale. L'opera del maestro perciò è una azione di amore: condurre il discepolo ad amare la luce, a desiderare vivamente la verità. Quella funzione che gli era negata o almeno limitata sul piano intellettuale, ora gli viene rivendicata sul piano affettivo e volitivo: sul piano propriamente spirituale. Allora il linguaggio riacquista una certa finalità, che se non è quella di comunicare le verità, è però quella di sgombrare la via alla consultazione interiore di essa. D’onde lo sforzo veramente educativo del maestro, per ricercare le parole esatte, per sintonizzare, per così dire, gli accenti linguistici sulla lunghezza d'onda dell'ascolto del discepolo e per creare l'interesse al conoscere. Spetta a lui di purificare l'intelligenza dello scolaro da tutti quegli inciampi passionali che formano la cattiva volontà e quindi creano ostacoli pericolosi sul cammino di colui che marcia verso il possesso del vero e della beatitudine. Questo, mi sembra, deve ritenersi il senso profondo di quella funzione «ammonitrice », tanto cara, nel dialogo, alla penna di Agostino. Un maestro che dedicasse la sua opera ad ammonire in questo senso, certo non comunicherebbe la verità, che è funzione riservata al Maestro sommo, interiore, ma il suo sarebbe ugualmente un esercizio, o meglio un esercizio educativo in senso pieno, in quanto avrebbe collaborato con quel maestro divino a formare l'uomo nuovo, ricco di una sua propria ed autorevole personalità. Pensiamo che una simile conclusione dovesse riuscire ad Agostino tanto spontanea e naturale. Una soluzione che non avviolisse la figura e l'opera del maestro umano. Egli che nella sua vita è sempre rimasto un maestro.