Sant'Agostino: di Juan de Borgoňa
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
L'AZIONE EDUCATIVA DI S. AGOSTINO
di Agostino Trapé
Tra le molte e grandi qualità che fecero di S. Agostino uno degli uomini più luminosi ed amanti che abbiano onorato la Chiesa e il mondo, v'é anche quella di educatore. Un educatore sapiente ed umile che espose fin dalle prime opere i grandi principi della pedagogia e che li mise in pratica lungo tutto l'arco della vita: a Tagaste, dove nel 374, appena ventenne, aprì la prima scuola di grammatica, a Cartagine, a Roma, a Milano, di nuovo a Tagaste, dove tornò con ben altri intendimenti - alii ivimus, alii redivimus (In ps. 36, serm. 3, 19) - a Ippona, e in tutta l'Africa; anzi, possiamo aggiungere, in tutta la Chiesa. Dove infatti non arrivava la sua parola - e mai o quasi mai, quand'era presente, gli fu permesso di tacere - arrivavano i suoi scritti. Dovunque era ascoltato e amato come maestro; e quanto meno desiderava di esserlo, tanto più, nella stima degli ammiratori, lo diventava.
Ad altri illustri docenti il compito impegnativo di esporne la dottrina pedagogica qual'é configurata prevalentemente nel De magistro e nel De catechizandis rudibus, comparandola con i metodi educativi dell'antichità e con i principi pedagogici moderni. A me il compito più modesto di presentarne l'azione educativa, che fu non solo continua, ma profonda, affascinante, generosa. Inutile dire che in questa azione esercitò un influsso decisivo l'indole stessa di S. Agostino, la sua ricca umanità, la sua esperienza, le sue disposizioni interiori. Ci si consenta pertanto di ricordare alcune di queste disposizioni interiori, anche se molti - e forse tutti - le conoscano, perché esse ci rivelano in nuce il tipo ideale dell'educatore e del maestro.
DISPOSIZIONI INTERIORI DI S. AGOSTINO EDUCATORE
Si sa che la grande passione di S. Agostino fu la ricerca della sapienza. Questa passione proruppe impetuosamente nel suo animo a 19 anni e ne dominò per tutta la vita i pensieri e gli affetti. La ricerca della sapienza, per essere efficace, deve ubbidire, nel pensiero agostiniano, a tre condizioni essenziali: un grande amore, un grande impegno di purificazione, una grande umiltà. Il nostro Dottore attuò in se stesso queste condizioni in modo perfetto. Enuncia la prima di esse nella prima delle sue opere, e precisamente nel proemio al libro secondo. Si tratta del Contra Academicos, diretto all'amico e mecenate Romaniano. Ecco le sue parole: Ipsum verum non videbis, nisi in philosophiam lotus intraveris (Contra Acad. II, 3, 8.). Era quanto egli stesso aveva fatto, qualche mese prima, abbandonando la scuola e ogni speranza terrena. Non sarà inutile ricordare che qui filosofia ha un significato ben più ampio di quello che siamo soliti dare, oggi, a questa parola. Comprende insieme la ricerca intellettuale, l'orientamento religioso, l'impegno ascetico.
Quel lotus, poi, vuol dire che la sapienza dev'essere cercata con tutte le energie dell'anima: intelligenza, volontà, affetti, sentimenti. O si cerca con tutta l'anima o si cerca invano. Ripeté lo stesso concetto dopo qualche mese in un libro scritto a Roma. Cito ancora in latino: Nam si sapientia et veritas non totis animi viribus concupiscatur, inveniri nullo pacto potest ... amore quaeritur ... amore revelatur, amore denique in eo quod revelatum fuerit permanetur (De mor. Eccl. cath. I, 17, 31).
Queste parole sono la traduzione in termini espressivi della esperienza personale di S. Agostino. Quanto egli abbia amato la sapienza lo sa chiunque abbia letto, almeno una volta, le sue Confessioni. Chi può dimenticare infatti la descrizione del cambiamento avvenuto nel suo animo quando lesse per la prima volta l'Ortensio di Cicerone? (Confess. III, 4, 7-8). O dimenticare quel grido di stupore insieme e di dolore che gli sgorgò dal cuore al pensiero di essere stato ingannato, proprio in nome della verità, dai manichei? O Veritas, veritas - esclama - quam intime etiam tum medullae animi mei suspirabant tibi ...! (Confess. III, 6, l0).
Quanto seriamente, poi, si sia impegnato nella purificazione dell'animo per giungere alla visione e all'amplesso della sapienza ce lo dicono i Soliloqui e le Confessioni. Il primo libro dei Soliloqui contiene un severo esame di coscienza, su questo argomento, di S. Agostino appena convertito; il decimo delle Confessioni contiene lo stesso esame, più severo ancora e più minuzioso, di S. Agostino già vescovo: l'uno e l'altro ci danno la misura del suo impegno ascetico che prelude alla contemplazione mistica. Infine l'umile atteggiamento di S. Agostino nei confronti della sapienza é tanto candido e sincero, tanto spontaneo, che desta stupore e commuove. E' frutto di una esperienza dolorosa e di una convinzione profonda: l'esperienza dell'errore e la convinzione che la verità non é un bene privato ma un bene comune o, come si esprime il S. Dottore, un bene pubblico che non é proprio di chi lo possiede, ma un bene da lui indipendente, un bene di tutti. Di suo l'uomo non ha che « la menzogna e il peccato» (In Ioa tr. 5, l).
Dall'esperienza dell'errore nasce il bisogno costante della preghiera, che chiede a Dio di dissipare le tenebre dell'ignoranza e di guidare la mente verso la luce della verità - le opere agostiniane, in particolare i Soliloqui, le Confessioni e il De Trinitate ci offrono splendidi esempi di questa umile preghiera (Solil. I, 1-5; Confess. passim; De Trin. XV, 51) - e nasce altresì un sentimento vivo di comprensione e di paziente longanimità verso gli erranti. Siano duri con voi, scrive ai Manichei, dei quali aveva sperimentato gli inganni e sperimentava da vescovo l'opposizione, siano duri con voi quelli che non sanno a costo di quali fatiche e di quanti gemiti ci si libera dall'errore e si giunge a respirare nella luce della verità; ma io - e qui ripensava alla sua giovinezza - io non posso assolutamente essere duro con voi. Rileggiamo, in parte almeno, questo magnifico testo: « Siano duri con voi quelli che non sanno con quanta fatica si trovi la verità e quanto difficilmente si evitino gli errori ..., che non sanno quanto sia ardua e rara impresa superare i fantasmi dei sensi con la pia serenità della mente ..., che non sanno con quanta difficoltà si risani l'occhio interiore perché possa intuire la luce (del vero)..., che non sanno quanti sospiri e quanti gemiti siano necessari per comprendere, sia pure in minima parte, Dio ... Ma io che, lungamente sbattuto, ho potuto scorgere, finalmente, la verità che si percepisce senza i racconti di favole insulse ..., che accarezzandomi mi invitava a sé per detergere la caligine della mia mente, che ho pianto a lungo perché la sostanza immutabile e inviolabile, con l'autorità dei libri sacri, si degnasse darmi interiormente una ferma persuasione di se stessa ... io non posso essere duro coi voi» (Contro ep. Manichaei 2-3).
Di questo sentimento sono piene le opere agostiniane, soprattutto quelle che chiamiamo con un brutto nome, ma ormai consacrato dall'uso, opere polemiche. Ma più che l'esperienza dell'errore fu la persuasione che la verità non é un bene privato, a rendere S. Agostino profondamente e candidamente umile di fronte alla verità. Se infatti la verità é un bene pubblico, perché trascende tutti e a tutti si offre come oggetto comune di fruizione e di gaudio, se é indivisibile e ognuno che la possegga non impedisce ad un altro di possederla parimenti e integralmente, ne segue che nella ricerca della verità non può esserci invidia. Dunque chi l'ha trovata per primo deve aiutare generosamente gli altri a trovarla a loro volta, certo che aumentando il numero di coloro che la possiedano, non diminuisce la verità, ma cresce la gioia di possederla. Possiamo applicare all'educazione in genere ciò che il Santo dice della vita in comune: «Perché desideri, si chiede, che vivano insieme a te coloro che ami? » e risponde: «Per cercare insieme, concordemente, di conoscere le nostre anime e Dio. Infatti in questo modo sarà facile a chi ha scoperto per primo la verità condurvi gli altri senza fatica ». (In Ioa tr. 5, l) «Quale misura può esserci, continua, nell'amore di quella bellezza (propria della sapienza) nel possesso della quale non solo non invidio gli altri, ma cerco anzi che siano molti che la desiderino, che la bramino, che la possiedano, che ne godano insieme a me, certo come sono che mi diventeranno tanto più amici quanto più l'amata ci sarà comune? » (Solil. I, 12,20; I, 13, 22).
In quanto poi alle parole: l'uomo non ha di suo nisi mendacium et peccatum sento che hanno bisogno di una spiegazione, perché non sembrino l'espressione d'un insanabile pessimismo. E' noto che esse, fatte proprie dal Concilio di Oranges ed entrate malauguratamente nella controversia giansenista, hanno dato occasione a polemiche senza fine e senza costrutto. Occorre lasciarle nel loro contesto, che é quello metafisico, e allora appariranno non solo vere, ma anche belle, anzi feconde. Sono infatti l'interpretazione in chiave metafisica delle parole del Vangelo che S. Agostino leggeva così: qui loquitur mendacium de suo loquitur (Io 8, 44). Il grande pensatore ne tirava tutte le conseguenze. Se chi proferisce menzogne parla del suo, vuol dire che chi dice la verità non dice nulla di suo. Infatti la verità é di Dio e non diventa nostra se non attraverso l'illuminazione divina. E come ha di suo la menzogna, così l'uomo ha di suo l'ignoranza, l'errore e il peccato, cioé quanto vi é in lui di negativo.
Mentre quanto vi é di positivo - l'essere, la verità, il bene - gli viene da Colui che é l'Essere supremo, la Verità sussistente, il Bene sommo; gli viene per mezzo di quella mirabile comunicazione creativa che chiamiamo partecipazione. S. Agostino applica questa dottrina a se stesso senza pietà. Terminando il De Trinitate, una delle opere agostiniane restata tra le più celebri e più profonde della teologia cattolica, rivolge a Dio questa preghiera: «Signore Dio uno, Dio trino, tutto ciò che in questi libri ho detto di tuo, lo riconoscano i tuoi; se poi ho detto qualcosa di mio, perdonalo tu e lo perdonino i tuoi. Amen» (De Trin. XV, 28, 51).
Preghiera che può sconcertare un lettore frettoloso, ma non chi si fermi quanto basta per conoscere un poco l'animo di S. Agostino e le sue convinzioni filosofico-teologiche. Da esse egli tira spietatamente tutte le conseguenze, per sé e per gli altri. Ricordiamone altre due che toccano da vicino il nostro argomento. La prima é che S. Agostino non teme di essere corretto, ma lo desidera; non sopporta il critico come un importuno, ma lo ama come un benefattore, purché egli, il critico, non sia un saputello presuntuoso che difenda l'errore sotto il manto della verità. « Per tutti i miei scritti desidero avere, dice il Santo, non solo un pio lettore, ma anche un franco correttore ... Tuttavia come non voglio che il lettore aderisca a me, così non voglio che il correttore aderisca a se stesso ... Dico al primo: non leggere i miei scritti come se fossero le Scritture canoniche ... Dico al secondo: non correggere i miei scritti seguendo la tua opinione o la tua presunzione, ma correggili seguendo l'autorità divina o la inconcussa ragione. Se trovi che in questi scritti v'é qualcosa di vero, sappi che esso, per sua natura, non é mio; ma attraverso l'intelligenza e l'amore sia tuo e mio. Se poi dimostrerai che v'é qualcosa di falso, sappi che esso é stato, per errore, mio; ma ormai, evitato l'errore, non sia più né tuo né mio » (De Trin. III, proem, 2). Splendide parole, che contengono una vertiginosa profondità metafisica e spirituale, e fanno intravedere, da lontano, la tempra d'un maestro singolare e straordinario. Ma prima di vederlo in azione, notiamo un'altra conclusione, che ci rivela, non meno della prima, l'animo di lui. Ed é questa: se la verità é Dio, e se da Dio ci viene per illuminazione, l'ideale sarebbe che l'uomo fosse discepolo solo di Dio, e non avesse bisogno alcuno di dottori umani. Lo sguardo di S. Agostino era fisso costantemente su questo ideale: ne parlava spesso, e lo affrettava con il desiderio. Pur avendo avuto sempre molti discepoli, in realtà non desiderava averne. «Non dobbiamo desiderare, scrive argutamente, che ci siano gl'ignoranti per poter noi insegnare ciò che sappiamo » (Ep. 266, 2).
Perciò amava più di imparare che d'insegnare. Insegnava solo per necessità, cioè per il dovere della carità che c'impone di prestare la nostra opera d'insegnamento a chi ne abbia bisogno. Ricorrono in questo atteggiamento i termini della caritas veritatis e della necessitas caritatis che stanno alla base della vita contemplativa, che raggiungerà la sua perfezione nella città celeste, e della vita attiva, che in quella città non avrà più luogo. Ecco a questo proposito un testo interessante: «La soave attrattiva della verità ci induce ad imparare; il dovere della carità ci obbliga ad insegnare. Dobbiamo dunque desiderare che questo stato di necessità, in forza del quale l'uomo deve insegnare all'uomo, finisca, e venga quella felice condizione nella quale tutti saranno ammaestrati da Dio, e solo da Dio» (De octo Dulcit. qua est.. q. 3, 5). Queste in breve le disposizioni di S. Agostino educatore. Come si vede, é un maestro che ha una grande passione nel cuore e vuole comunicarla, che conosce le difficoltà del sapere e sa essere longanime e paziente, che dà tutto con generosità e chiede scusa se avesse dato qualcosa di suo, che ama i discepoli e desidera averli collaboratori e condiscepoli alla scuola dell'unico maestro interiore, che é Dio. Un maestro, dunque, ideale, di cui ognuno di noi vorrebbe diventare discepolo. Vediamolo all'opera.
L'AZIONE EDUCATIVA
Gli scolari
Prima di tutto nei confronti degli scolari. Abbiamo detto che S. Agostino cominciò molto presto la professione di maestro: a vent'anni aveva aperto una scuola nel suo paese: era già, come si diceva allora, un grammaticus. A Cartagine, da studente, aveva avuto, sul piano scolastico e sociale, una condotta irreprensibile. I coetanei lo stimavano come un giovane «amante della quiete e dell'onestà» (Ep. 93, 13, 51). E lo era di fatto. « Ambivo, dirà di se stesso, di essere elegante e raffinato» (Confess. III, l, l). Per indole e per educazione - un'indole buona e signorile e un'educazione profondamente cristiana - aborriva dalle imprese degli studenti che per le loro ribalderie venivano chiamati eversores: potremmo dire « guastatori » o « perturbatori dell'ordine »: una specie di mafia del secolo IV (Confess. III, 3, 6). Diventato professore, esigeva dagli allievi lo stesso atteggiamento di amore alla quiete e all'onestà. Per questo nel 383 lasciò Cartagine, dove nel 376 aveva aperto una scuola di retorica, e si trasferì a Roma. Gli studenti romani avevano la fama di essere meno inquieti dei loro colleghi cartaginesi. E lo erano di fatto (Confess. V, 8, 14). Ma non per questo erano migliori di quelli di Cartagine. Non facevano irruzione nella scuola, non imponevano ai maestri la loro volontà, ma li abbandonavano in massa al momento di dover pagare la mercede pattuita. Un'usanza che doveva riuscire poco simpatica a chi non aveva per vivere che il modesto compenso della professione.
Perciò dopo alcuni mesi, saputo che la città di Milano aveva chiesto al prefetto di Roma un maestro di retorica, si fece raccomandare dai manichei, avvicinò il prefetto, superò la prova prescritta e ottenne di essere inviato a Milano (Confess. V, 12,22; V, 13,23). Degli studenti di Milano le Confessioni non ci dicono nulla: interpretiamo questo silenzio a loro favore. Dell'abilità di S. Agostino come professore di retorica non occorre parlare. Senza peccare di esagerazione possiamo supporre che le sue lezioni fossero affascinanti. L'uso che fece di quest'arte nei discorsi e negli scritti, il proposito, concepito a Milano mentre si preparava al battesimo, di comporre una vasta «enciclopedia » intorno alle arti liberali - portò a compimento solo il De grammatica (perduto) e terminò più tardi il De musica (Retract. I, 6) - il trattato sull'eloquenza sacra inserito nel De doctrina christiana, ci dicono abbastanza come egli conoscesse tutte le risorse della retorica (Si potrà leggere utilmente su questo argomento: H.I. MARROU, St. Augustin et la fin de la culture antique, Parigi 1938). A noi interessano piuttosto gli intenti morali di S. Agostino professore, intenti che non nacquero con la conversione, ma che furono presenti nella sua azione anche prima. Ecco un esempio significativo. Uno degli allievi più dotati e più cari che ebbe S. Agostino fu certamente Alipio, che gli divenne, poi, carissimo e inseparabile amico: aderì con lui al manicheismo, con lui si convertì alla fede cattolica, prima di lui divenne vescovo (di Tagaste).
Ora Alipio, a Cartagine, fu preso nel vortice della moda cartaginese che gli comunicò una passione forsennata per i giochi del circo. Agostino ne soffriva, temendo che la bella intelligenza e l'indole buona di quel giovane, visibilmente inclinata alla virtù, ne andassero perdute. Ma non sapeva come intervenire, perché Alipio in quel tempo si teneva piuttosto lontano da lui e non frequentava la sua scuola. Lasciamo la parola ad Agostino stesso. « Però al tempo in cui vi era miseramente sballottato, non frequentava ancora le lezioni di retorica che io tenevo pubblicamente, a motivo di certi dissapori sorti tra me e suo padre. Venuto a conoscenza della sua funesta passione per il circo, ero profondamente afflitto dal pensiero che avrebbe guastato, se non l'aveva già fatto, le più belle speranze; ma come ammonirlo o richiamarlo con un energico ammonimento, se non potevo giovarmi né dell'affetto di un amico né dell'autorità di un maestro? supponevo infatti che nutrisse verso di me gli stessi sentimenti del padre. Invece non era così, tantoché pospose in questa faccenda la volontà paterna e prese a salutarmi, frequentando la mia aula, ove mi ascoltava per un po' di tempo per poi allontanarsi ». Agostino continua: « Un giorno sedevo al mio solito posto, gli allievi di fronte a me, quando entrò, salutò, sedette e cominciò a seguire la trattazione in corso. Io tenevo per caso fra mano un testo, e nel commentarlo pensai bene di trarre un paragone dai giochi del circo per rendere più piacevole e chiara l'idea che volevo inculcare, schernendo mordacemente le vittime di quella follia ».
« Alipio, dunque, - narra ancora il Santo - dietro il suono di quelle parole si gettò fuori dalla fossa profondissima, in cui affondava compiaciuto e con strano diletto si privava della luce; scosse il suo spirito con vigorosa temperanza, e ne schizzarono lontano tutte le sozzure del circo, ove non mise più piede; quindi, vincendo le resistenze del padre, mi prese per maestro» (Confess. V, 7, 11.12). L'episodio si commenta da sé. Si noti che le parole di condanna contro la passione dei giochi circensi Agostino non le disse ad Alipio, a cui in quel momento non pensa, ma le disse per rendere più viva e più efficace la sua lezione. Era dunque fin d'allora un suo metodo, una sua abitudine: dare agli alunni le regole della retorica e insieme quelle della sapienza. Un altro episodio degno di essere ricordato avvenne a Cassiciaco, dopo la conversione e prima del battesimo. Terminato l'anno scolastico 386, S. Agostino aveva rinunciato alla professione di maestro e si era ritirato in una villa di campagna per prepararsi al battesimo: lo avevano seguito la madre, il fratello Navigio, il figlio Adeodato, l'amico Alipio, i concittadini Trigezio e Licenzio, i cugini Lastidiano e Rustico. A Trigezio e Licenzio continuava ad impartire lezioni di retorica. Ora avvenne che un giorno i due giovani, durante una discussione di filosofia, cominciarono a beccarsi per un puerile motivo di vanagloria.
Il maestro ne fu ferito, e tenne un accorato discorso contro questo stolto e bruttissimo vizio. Eccone la conclusione: «Non vogliate, vi supplico, aumentare le mie miserie. Mi bastano le mie ferite; prego Dio e piango quasi ogni giorno perché siano sanate, e tuttavia mi convinco spesso di non essere degno di essere sanato così presto come vorrei. Vi prego, se un qualche rapporto di amore o di amicizia vi lega a me, se capite quanto vi ami, quanto vi apprezzi, quanto mi preoccupi della vostra condotta, se sono degno di non essere dimenticato da voi, se infine, e Dio mi é testimonio, non mentisco quando dico che non desidero per me più di quanto desidero per voi; vogliatemi bene. E se spontaneamente mi chiamate maestro, ricompensatemi: siate buoni» (De ordine I, 10, 29).
Lasciate che io prenda queste parole come indice dell'animo di S. Agostino educatore e come sintesi del suo programma: amare profondamente gli alunni, impartire loro con generosità la scienza, ma chiedere, in compenso, che siano buoni. Nessuno pensi che i sentimenti espressi dalle parole or ora citate siano conseguenti alla conversione: lo sono per l'intensità, non lo sono per la sostanza. Anche prima S. Agostino aveva sempre desiderato di aver allievi che amassero gli studi per la loro utilità e per l'intrinseca bellezza e non per la soddisfazione della vana gloria. Subito dopo, infatti, nello stesso testo, ripensando alla professione a cui aveva rinunciato da poco, dice a Licenzio: «Non sai tu che nella mia scuola ero profondamente afflitto quando constatavo che i giovani si lasciavano guidare non dall'utilità e dalla bellezza degli studi, ma dall'amore d'una gloria vanissima?» ( De ordine I, 10, 30).
I Religiosi
Ma la rinunzia alla professione non significò per S. Agostino il termine della sua azione educativa; anzi quest'azione, trasferitasi dal piano scolastico a quello esclusivamente religioso, divenne più intensa e più efficace. Non si tratterà più di formare maestri di grammatica o di retorica, bensì maestri di vita spirituale, seguaci della sapienza del Vangelo. « Stavamo sempre insieme, dice S. Agostino di sé e dei suoi dopo il battesimo, e avevamo fatto il santo proposito di abitare insieme anche per l'avvenire. In cerca anzi di un luogo ove meglio operare servendoti, prendemmo congiuntamente la via del ritorno verso l'Africa. Senonché presso Ostia Tiberina mia madre morì» (Confess. IX, 8, 17). Da Ostia Tiberina indietro a Roma; da Roma, l'anno appresso, a Cartagine; da Cartagine, attraverso la valle del Medjerda, a Tagaste. A Tagaste restò quasi tre anni. La vita che vi condusse fu quella del Servus Dei. Venduti i pochi beni che aveva e allontanate da sé le cure secolari Deo vivebat, dirà Possidio, insieme ad alcuni amici che avevano lo stesso santo proposito, nei digiuni, nelle preghiere e nelle opere buone; meditando giorno e notte la legge del Signore. Naturalmente S. Agostino si trovò di nuovo ad essere il maestro della piccola comitiva di religiosi. «Le verità che Dio rivelava alla sua intelligenza nella meditazione e nella preghiera, dice lo stesso Possidio, le comunicava ai presenti e agli assenti, ammaestrandoli con discorsi e con libri» (POSSIDIO, Vita di S. Ag., 3).
Fine di questo magistero era il deificari in otio; mezzo il suaviter habitare apud mentem suam. Cioé S. Agostino con l'esempio e la parola perseguiva attraverso le vie dell'interiorità le mete altissime della contemplazione. Lo sappiamo da una lettera, breve, ma ricca di contenuto, all'amico Nebridio, che varrebbe la pena di leggere. Vi risuonano i temi della deificazione, della soavità del vivere con se stesso, del ritiro dal tumulto delle cose esteriori, delle condizioni necessarie per rendere la vita sapientemente intrepida, cioé immobile ai terrori e alle lusinghe (Ep. 10). Il consiglio dato allo stesso amico in un'altra lettera, costituisce il nucleo centrale del suo insegnamento in quegli anni: «Confer te ad animum tuum, gli scrive, et illum in Deum leva, quantum potes: raccogliti in te stesso ed eleva il tuo animo, per quanto puoi, a Dio» (Ep. 9).
Del resto é di questi anni la splendida opera del De vera religione dove si trova la formulazione più celebre del metodo pedagogico agostiniano; formulazione che viene ricordata, troppo spesso, per metà, e quindi interpretata male, quasi si trattasse di una interiorità priva di trascendenza. Mi riferisco a quel passo che comincia così: Noli foras ire, ecc. Non ripeto tutte le parole agostiniane perché penso che ognuno se le senta già risuonare all'orecchio. Raccomando solo di non fermarsi a metà. S. Agostino non ha scritto solo noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas; ma anche: trascende et te ipsum, indicando la via, la meta e il predellino di lancio delle ascensioni verso Dio (De vera Relig. 39, 72). L'interiorità che S. Agostino raccomanda non é un ripiegamento su se stesso per restare in se stesso, ma per salire sopra di sé e, salendo, giungere a quella luce che illumina senza essere illuminata. Argomento affascinante, di cui suppongo parleranno altri. lo vorrei aggiungere solo che chi ha detto in termini metafisici: in interiore homine habitat veritas, ha detto anche in termini paolini: in interiore homine habitat Christus. Questa seconda espressione riassume, insieme alla prima, l'azione educativa di S. Agostino a Tagaste e poi ad Ippona. Dopo tre anni di permanenza nel paese natale, il nostro Santo spinto, forse, dal desiderio di trovare un luogo più tranquillo - i suoi concittadini non lo lasciano in pace (Ep. 5) - risalì la collina alle spalle di Tagaste, scese lungo l'ubertosa valle del Seybouse (fleuve) e giunse ad Ippona col proposito di fondare un monastero. Ad Ippona l'attendeva la Provvidenza per dare un nuovo corso alla sua vita. E' noto infatti che mentre era a pregare nella basilica pacis fu afferrato e costretto a farsi ordinare sacerdote.
Accettò con riluttanza, solo per ubbidire al volere del popolo che gli parve fosse l'espressione della volontà di Dio; ma non s'indusse a cambiare il piano che aveva concepito: chiese al vescovo ed ottenne di fondare un monastero, che fu il celebre monasterium virorum o «monastero dei laici », dove continuò per cinque anni ad essere padre e maestro. Quanto la sua azione educativa fosse efficace lo possiamo arguire dai frutti: da quel monastero, assicura Possidio, uscirono molti sacerdoti ed una diecina di vescovi, alcuni dei quali tra i più eminenti dell'Africa (POSSIDIO, Vita di S. Ag., II, 2-4). Si deve ad esso in non piccola parte se la Chiesa africana rifiorì rapidamente tra la fine del sec. IV e gli inizi del sec. V, e la pace religiosa fu ristabilita.
I Chierici
Con la consacrazione episcopale l'azione educativa di S. Agostino non subì una limitazione, ma si accrebbe di molto, si estese cioé alla diocesi d'Ippona, all'Africa, alla Chiesa. Restò l'educatore dei religiosi, e divenne l'educatore del clero, dei fedeli e di quanti, specialmente giovani, da ogni parte ricorrevano a lui. Sull'educazione impartita ai chierici abbiamo documenti preziosi: due discorsi pronunciati dal Santo verso la fine della vita e la biografia scritta dal discepolo ed amico Possidio. Da questi documenti emerge un S. Agostino inedito, che non é solo, come molti pensano, buono e paterno; ma é anche, come molti non pensano, forte e severo. Citeremo di questa severità tre esempio Riguardano alcuni punti essenziali del suo programma educativo: la carità, la povertà, l'incensurabilità dei sacerdoti. Egli voleva che i suoi chierici evitassero chiacchiere nocive e superflue, soprattutto la mormorazione che offende la carità fraterna. Per ricordare questo precetto aveva composto un distico e l'aveva affisso su una parete del refettorio (Il distico suonava così: Quisquis amat dictis absentum rodere vitam, hanc mensam indignam noverit esse suam. Cf. POSSIDIO, Vita di S. Ag., 22, 6). «Una volta - narra Possidio - che taluni colleghi nell'episcopato, intimi amici suoi, si erano dimenticati di quella scritta e parlavano in modo contrario alla medesima, li riprese molto severamente, fino a dichiarare, con una certa vivacità, che o dovevano cancellare dal refettorio quei versi, o che egli si sarebbe alzato a mezzo il pasto per ritirarsi nella sua camera ». La dura lezione fu efficace. «Di questo fatto - conclude Possidio - fui testimonio io, come pure altri che erano a tavola con noi in quell'occasione» (Ivi, 12, 8). Del secondo caso, che vogliamo ricordare, ci parla il Santo stesso nei due discorsi che abbiamo menzionato. S'era proposto di non ammettere nessuno alla vita clericale che non avesse accettato la povertà e la vita comune, e pensava perciò di cancellare dall'albo dei chierici coloro che fossero venuti meno a questo proposito. Ma ci fu tra i chierici un'alzata di scudi, che trovò appoggio da parte di qualche vescovo viciniore. Il Santo stesso, poi, si persuase che una regola generale così rigida avrebbe potuto favorire il peggiore dei mali: la simulazione e l'ipocrisia; dato che molti ambivano, spesso purtroppo per ragioni umane, di entrare nella classe dei chierici. Cambiò parere.
Il 18 dicembre del 425 parlò al suo popolo e diede ai chierici la libera opzione: restare in monastero con lui o vivere in casa propria. Tempo per riflettere, fino all'Epifania. Dopo il 6 gennaio il vescovo parla di nuovo al popolo, annunzia con gioia che tutti hanno accettato la vita comune, e aggiunge: «Ora poi, se qualcuno sarà trovato proprietario, non gli permetto di far testamento, ma lo cancello dalla tabella dei chierici. Si appelli pure contro di me a mille concili, navighi pure contro di me dove vuole - l'allusione a Roma é qui evidente - se ne stia dove potrà: mi aiuterà il Signore a far sì che dove io sono vescovo, egli non possa essere chierico» (Serm. 356, 14). Queste parole sono veramente forti. Esse mostrano le profonde convinzioni e il senso di responsabilità del Santo e il suo grande amore alla povertà evangelica. E' difficile trovare altri che abbiano parlato con tanta forza del proprio ideale e lo abbiano difeso con un atteggiamento altrettanto deciso e chiaro. E veniamo al terzo caso. Si tratta di un sacerdote della diocesi d'Ippona di nome Abundanzio, addetto ad una parrocchia di campagna. Non era esemplare, ma non c'erano prove sicure contro la sua condotta morale. Un anno, nella vigilia di Natale, trovandosi nella chiesa Gippitana - un'altra parrocchia di campagna - alla mattina presto salutò il parroco del luogo, dicendo di volersene tornare alla sua parrocchia; invece se ne restò da quelle parti e, nonostante che fosse un giorno di digiuno, fece pranzo e cena in un ospizio, presso una donna di poca buona fama, e vi passò la notte. Naturalmente nacquero dei sospetti, ma non fu possibile provarli. Bastò però il solo fatto - l'aver mancato al digiuno e l'aver commesso un'azione che destava fondati sospetti - perché S. Agostino inesorabilmente lo privasse della cura delle anime e lo sospendesse, diremo oggi, « a divinis ». Nel darne notizia a Santippo, primate di Numidia, tronca ogni discussione con queste parole: «Se il tribunale ecclesiastico giudicherà diversamente, dato che un concilio - quello di Cartagine del 348 - ha stabilito che la causa di un sacerdote non debba passare in giudicato se non dopo la sentenza di sei vescovi, non so che dire: chi vuole, gli affidi pure una chiesa che appartenga alle sue cure; io, per parte mia, temo di affidare a simili sacerdoti una qualunque porzione del mio gregge» (Ep. 61).
Queste parole, non meno di quelle ricordate sopra, ci dicono di quale tempra fosse S. Agostino pastore di anime: un pastore che assume e difende la propria responsabilità nella formazione del clero e nel governo della diocesi di fronte a chiunque, fosse anche un Concilio provinciale qual era quello di Cartagine. A questa forte azione formativa si deve se la Chiesa africana ebbe dal clero d'Ippona incalcolabili benefici. Abbiamo detto che più di dieci vescovi e molti sacerdoti uscirono dal primo monastero agostiniano, dati dal Santo alle diverse chiese, tra cui alcune molto importanti (POSSIDIO, Vita di S. Ag.. II, 2-4). Ora aggiungiamo che tutti lavorarono indefessamente per l'unità e la rinascita della Chiesa cattolica, e molti suggellarono col sangue il loro zelo contro il donatismo.
I giovani
Non vorremmo terminare questi rapidi accenni sull'azione educativa di S. Agostino, senza dare uno sguardo al suo atteggiamento verso i giovani. Possiamo ricordare le lettere a Licenzio (29), a Dioscoro (118), a Leto (242), a FIorentina (266) e il III e IV libro del De anima et eius origine a Vincenzo Vittore: tutti giovani, in situazioni molto diverse; ma che offrirono al S. Dottore l'occasione di mostrare il suo grande amore ad essi e di applicare alla situazione di ciascuno l'inesauribile tesoro della pedagogia cristiana. Cominciamo da quest'ultimo, un giovane la cui presunzione era pari solo all'ignoranza e all'arroganza. Aveva scritto un libro intorno all'origine dell'anima nel quale aveva osato rimproverare, facendone esplicitamente il nome, il Vescovo d'Ippona, che pur chiama « dottissimo ed espertissimo », per la nota sua perplessità circa l'origine dell'anima dei discendenti di Adamo. Il libro era infarcito di errori.
La risposta del Santo é uno splendido esempio di umiltà e di mitezza, ma anche di forza e di estrema fermezza. Risponde per dimostrare a quel giovane, che personalmente non conosceva, che non lo disprezza, ma che lo ama e confida nella sua correzione; si dichiara pronto, lui vescovo e ormai vecchio, ad accettare tutte le critiche anche se provengano da un giovane e, per di più, laico, purché ciò che gli viene rimproverato sia veramente degno di rimprovero; é infatti persuaso che di cose censurabili ce ne siano molte non solo nella sua vita, ma anche nei suoi scritti. Ma Vincenzo Vittore criticando Agostino, é incorso in molti e grossolani errori. Il Santo glieli elenca e lo invita a riconoscere i suoi limiti. «Se avessi saputo quello che non sai - gli dice amabilmente - non avresti detto quello che hai detto: capisci quello che non capisci, se non vuoi metterti nella condizione di non capire niente - Intelliges quid non intelligas, ne totum non intelligas - e non voler disprezzare - continua il Santo - chi, per capire veramente ciò che non capisce, capisce di non capire ». E conclude con tono patetico: «non dispiaccia dunque alla tua giovanile presunzione il mio senile timore, figlio mio » (De anima et eius origine IV, Il, 15).
La lezione fu efficace. Vincenzo Vittore scrisse al Vescovo d'Ippona riconoscendo i suoi errori (Retract. Il, 56). Diverso fu l'esito dell'interessamento di S. Agostino per il giovane Licenzio. Era questi il figlio del suo grande mecenate ed amico Romaniano; aveva un'indole allegra, versatile, entusiasta, ma anche instabile e superficiale; era amante della poesia e poco o nulla delle disquisizioni metafisiche. S. Agostino lo ebbe discepolo a Cassiciaco e ne scrisse al padre con parole di grande elogio (Contra Acad. I, l, 4): gli voleva bene e sperava di farne un amante della sapienza. Tornato Agostino in Africa, Licenzio sparì dal circolo dei suoi amici. Nel 394 il discepolo diresse all'antico maestro un lungo poema in cui ricorda le ore passate insieme e spiega ad Agostino che ha ancora bisogno di lui (S. Agostino lo riporta nella sua risposta. Cf. Ep. 26). S. Agostino gli risponde con una lettera piena d'affetto e di rimpianti: gli esprime la sua tenerezza, il desiderio bruciante che consacri a Dio 1'« ingegno d'oro» che ha ricevuto, il doloroso timore che sciupi i doni di Dio servendo le passioni. Conclude con queste accorate parole, che val la pena di rileggere: « Non volerlo fare, ti scongiuro; così possa tu finalmente sentire con che animo infelice e degno di commiserazione io abbia scritto queste cose e possa avere almeno pietà di me, se ai tuoi occhi sei diventato cosa vile» (Ep. 26, 6). Ma S. Agostino con tutto il suo amore non riuscì a far breccia nell'animo del giovane, che era in realtà troppo lontano dalla generosità e dalla straordinaria nobiltà del maestro. Questi ne scrisse a S. Paolino da NoIa, supplicandolo d'interporre la sua influenza (Ep. 27, 6), ma anche l'intervento di Paolino fu inutile. Possiamo invece pensare che nel caso di Leto l'intervento di S. Agostino fosse risolutivo. Leto era un giovane generoso che aveva abbracciato la vita religiosa-sacerdotale, ma, a causa delle resistenze di sua madre, era fortemente tentato di abbandonarla. Scrisse per aiuto ai « fratelli » d'Ippona ed espresse il desiderio di ricevere una lettera da S. Agostino.
La lettera desiderata non si fece attendere. S. Agostino ci spiega le esigenze della « milizia » cristiana, la bellezza della vita comune, che fa di tutti un'anima sola, l'unica anima di Cristo, la natura dell'odio che il Vangelo ci comanda di portare ai parenti, un odio che é amore, ma non un amore «privato », che divide, bensì un amore «pubblico» (o « sociale ») che unisce, perché insegna ad amare i parenti nella Chiesa, che é madre di tutti. Vi sono in questa lettera brani veramente lirici, come questo, che bisognerebbe, però, leggere nel testo originale: «Ecco, ti rapisce l'amore della verità e il desiderio di conoscere e di scrutare la volontà di Dio nelle Scritture: ti rapisce il compito di predicare il Vangelo. Il Signore dà il segnale di vigilare nell'accampamento e di edificare la torre, da dove si possa scorgere e respingere il nemico della vita eterna. La tromba celeste chiama a battaglia il soldato di Cristo, e la madre lo trattiene. Non certamente tale quale fu la madre dei Maccabei e neppure simile alla madre degli Spartani - fosse simile almeno ad esse! - delle quali si dice che spronavano i loro figli alle imprese belliche, affinché spargessero il sangue per la patria terrena più insistentemente e più ardentemente del segnale di guerra ... Ma che cosa dice? quali ragioni adduce (tua madre)? .. Uccidi queste ragioni con la parola della salvezza, perdi in questo senso tua madre, affinché la ritrovi nella vita eterna ... La Chiesa é madre anche di tua madre» (Ep. 243, 6.8). Segue una pagina mirabile sulla maternità della Chiesa, sulle sue necessità e sul modo di conciliare l'amore per la Chiesa, madre nostra spirituale, e l'amore per la madre terrena. S. Agostino insiste sul dovere di essere grati alla madre terrena - si ricordi di quale amore egli aveva amato sua madre - ma chiarisce anche il modo evangelico di farlo, che é quello di rendere i beni spirituali per i carnali, gli eterni per i temporali, che é, appunto, l'amore «pubblico» o «sociale ».
Non poteva mancare in fine la nota patetica. «Ti scongiuro - gli dice concludendo - evita di dare ai buoni « fratelli » col tuo torpore una tristezza più grande della gioia che hai dato loro con la tua alacrità» (Ep. 243, 12). Bisogna proprio dire che S. Agostino sapeva suonare tutti i tasti per indurre i giovani al generoso proposito di servire Cristo e la Chiesa. Ricorderemo infine due esempi che confermano egregiamente la sensibilità pedagogica del Vescovo d'Ippona e il suo grande amore ai giovani. Il primo é il caso di Dioscoro, un giovane cartaginese, che scrisse al Vescovo d'Ippona proponendogli « innumerevoli » questioni di grammatica, di letteratura e di filosofia, e gli chiese, per di più, di rispondergli subito perché era in procinto di partire per Roma dove avrebbe corso il rischio di fare una brutta figura se non avesse saputo rispondere alle domande proposte. Il santo Vescovo avrà certamente sorriso a questa ingenua motivazione indice di puerile vanità. Difatti nel rispondergli trova modo di fare amabilmente dell'ironia a questo proposito. Per il resto gli dice apertamente quel che pensa; gli sembra cioé che occupare il tempo per rispondere a certe questioni non sia degno di un vescovo, anche se avesse tempo; egli, Agostino, il tempo non ce l'ha proprio, assillato com'é da tante necessità ecclesiastiche. Aveva ragione. In quel periodo, oltre che nelle occupazioni ordinarie del ministero pastorale, stava impegnato nella controversia donatista e nella composizione di opere poderose come il De Trinitate e il De genesi ad litteram. Ciò nonostante non seppe reggere al pensiero di rattristare quel giovane e rispose, brevemente, in margine alla lettera stessa di lui; ma rispose. Anzi, approfittando di un periodo di convalescenza, gli diresse una lettera, che é un trattato stupendo intorno all'umiltà e alla sapienza cristiana: Dioscoro aveva veramente bisogno dell'una e dell'altra. Così era S. Agostino: buono e generoso con tutti, sempre; ma particolarmente con i giovani quando li trovava avidi di sapere e capaci, per la loro indole, di dedicarsi alla conoscenza della verità. Ricordiamo per ultimo il caso di Florentina. Per ultimo, perché ci rivela meglio degli altri l'animo di S. Agostino educatore e può servirci come conclusione del poco che abbiamo detto. Florentina era una giovane, probabilmente cartaginese, desiderosa di presentare a S. Agostino domande intorno ai problemi della vita cristiana, ma non osava farlo, per quel senso di timore riverenziale che prende d'ordinario una fanciulla di fronte a un uomo venerando e famoso.
Ma l'amore supera ogni distanza. In questo caso l'amore di S. Agostino, il quale, conosciuto il desiderio di Florentina dalla madre di lei, le scrisse subito una lettera, esortandola a chiedergli quanto desiderava. Mise però, come si suol dire, le mani avanti: «O so quel che mi chiedi - le dice non meno argutamente che sapientemente - e allora te lo dirò volentieri; o non lo so, e in questo caso le ipotesi sono due: o si tratta di cose che si possono ignorare senza scapito della fede e della salvezza, e te ne darò la ragione, perché tu stia tranquilla; oppure si tratta di cose che sono necessarie a sapersi e in questo caso le ipotesi sono di nuovo due: o dal Signore otterrò la grazia d'imparare ciò che non so per potertelo insegnare - poiché spesso il dovere di dare é un merito per ricevere - o ti risponderò per dirti a chi dobbiamo tutti e due rivolgerci per imparare ciò che tutti e due ignoriamo» (Ep. 266, l). « Questo te l'ho detto - prosegue il Santo - perché non creda di aver sempre da me la risposta che aspetti. Io infatti non sono un dottore perfetto, ma un dottore che si va perfezionando insieme a quelli ai quali insegna ... Per quanto anche in quelle cose che so, preferisco che tu pure le sappia, anziché tu sia in condizione di aver bisogno della mia scienza ... In verità sarebbe molto meglio che tutti fossimo discepoli solo di Dio; ciò che certamente avverrà nella patria celeste, quando si compirà in noi quanto ci é stato promesso ... Sappi pertanto che io godo della tua fede, speranza e carità con tanta maggiore certezza, solidità e sapienza quanto meno tu avrai bisogno d'imparare qualcosa non solo da me, ma da qualsiasi uomo ». E dopo aver rinnovato la sua disposizione d'insegnare alla fanciulla tutto quanto possa, conclude: «purché tu, tuttavia, ritenga fermissimamente che, quantunque tu potrai imparare da me qualche cosa di utile alla salvezza, ti sarà maestro Colui che é il maestro interiore dell'uomo interiore, Colui che nella tua mente ti mostra che é vero ciò che viene insegnato; poiché né chi pianta vale alcunché, né chi innaffia, ma Dio che dà il crescere» (Ep. 266, 2, 4). Questo accenno al maestro interiore con la relativa citazione paolina ci riporta al tema centrale della pedagogia agostiniana, un tema affascinante e fecondissimo.
Ma di questo parleranno gli illustri docenti che seguono.