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Agostino ai piedi della Croce con i santi Sigismondo e Antonio
ALBERTI GIUSEPPE
1707
Panchià, chiesa S. Valentino, sagrestia
Agostino ai piedi della Croce con i santi Sigismondo e Antonio
La tela di Giuseppe Alberti fu eseguita dal pittore nella sua maturità. La delicatezza dell'espressione dei volti, la struttura stessa del soggetto esprimono l'equilibrio artistico ormai raggiunto dal pittore. Ai piedi della croce, che si eleva nuda, stanno in ginocchio i tre santi Agostino, Antonio da Padova e Sigismondo. Tutti e tre sono in adorazione della croce sostenuta in basso e in alto da sei angioletti. La tela misura cm 131x84 ed è in buono stato di conservazione.
Agostino è dipinto a sinistra ed indossa i suoi paramenti episcopali. Regge con la mano sinistra un elaborato bastone pastorale, mentre ha deposto per terra la mitra, altro simbolo della sua dignità episcopale. Nella mano destra stringe un cuore fiammante che tende verso l'alto, un tipico simbolo iconografico del santo molto diffuso in età barocca. Agostino ha un aspetto da vegliardo, calvo, con profonde rughe e una lunga barba grigiastra che gli scende sul petto.
Dietro la croce troviamo sant'Antonio da Padova con la mano sinistra sul petto, mentre con la destra offre un giglio. Indossa la tunica dei frati francescani. A destra troviamo re Sigismondo, che ha deposto a terra la sua corona. Indossa una corazza metallica, secondo il gusto dell'epoca, ben diversa dal tempo in cui visse il santo burgundo figlio di Gundubado. Re dei Burgundi dal 516, si convertì al cristianesimo e fu il primo barbaro ad essere proclamato santo.
Consapevole della centralità della croce nel disegno salvifico di Dio sull'umanità e della straordinaria molteplicità di rimandi ad essa nell'Antico e nel Nuovo Testamento, Agostino si impegna nella sua interpretazione e meditazione lungo tutto l'arco della vita come confermano i numerosi riferimenti alla croce di Cristo, disseminati in tutta l'ampia produzione dell'Ipponate. Ciò che Agostino intende evidenziare è che la scelta di Gesù di portare la croce sulla quale verrà messo a morte è una lucida indicazione su cosa debba significare la vita cristiana. I credenti sono esortati in tal modo a seguire l'esempio del Maestro.
«La croce tiene insieme lo scandalo e la salvezza, la fine e l'inizio, perché in essa si compie qualcosa di assolutamente e radicalmente nuovo: sul legno, Cristo ci istruisce sul significato della nostra vita presente e futura, perché è con la sua morte che Egli ha vinto per noi la morte».
Una prima documentazione della chiesa parrocchiale a Panchià risale al 1190. Nel 1690 il vescovo autorizzò la riedificazione della chiesa, che fu completata nel medesimo anno. La consacrazione fu celebrata dal principe vescovo di Trento Giovanni Michele Spaur nel 1703. Tre anni dopo attorno alla chiesa fu costruito il camposanto e nel 1709 venne concesso il fonte battesimale. Nel 1710 la cappellania venne trasformata in una curazia annessa alla pieve di Cavalese. Il campanile fu infine eretto tra il 1728 e il 1730, mentre nel 1833 si procedette all'ampliamento del presbiterio. Un progetto di ampliamento della sala edificando due cappelle laterali non riscosse successo e così nel 1847 si preferì ingrandire la sagrestia. Ulteriori lavori furono eseguiti al campanile, che fu sopraelevato e nel 1873 fu aggiunto un porticato alla facciata. Agli inizi del Novecento un progetto di ampliamento della chiesa fu interrotto dallo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1915, all'inizio delle ostilità, la chiesa di San Valentino venne elevata a dignità parrocchiale.
La navata interna è unica, suddivisa in tre campate con pilastri laterali e coperta da un soffitto ligneo. La chiesa conserva numerose opere d'arte, fra cui il fonte battesimale, una Via Crucis e un'Ultima Cena, copia di Leonardo da Vinci. Nel coro una pala seicentesca raffigura la Madonna con santi, tra i quali san Valentino. Nella canonica si conservano un crocifisso ligneo e un'Annunciazione, che appartenevano alla chiesa originaria. Anche la sagrestia conserva testimonianze interessanti, come alcuni stendardi settecenteschi che raffigurano soggetti sacri, fra cui una Madonna della cintura.
Giuseppe Alberti
Nato probabilmente a Tesero nel 1640, era il decimo di undici figli. Rivelò ben presto doti non comuni come artista e già nel 1661 si fa notare con la pala d'altare di Montagnaga di Piné. Tra il 1664 e il 1667 frequentò l'Università di Padova seguendo i corsi di medicina e giurisprudenza. Tuttavia nel 1668 abbandona Padova e gli studi per trasferirsi a Venezia, dove resta fino al 1673. Nella città lagunare conobbe Marco Liberi che divenne il suo mentore. Negli anni veneziani seguì il naturalismo di Marcantonio Bassetti e Pier Francesco Mola, affinando il suo stile studiando le opere di Tiziano. Si recò quindi a Roma dove sviluppò le sue competenze da progettista, applicandosi nella conoscenza delle più recenti realizzazioni architettoniche. A Trento ottenne vari incarichi dal principe vescovo Francesco Alberti Poja, sia come pittore sia come architetto. Sua è la Pala di San Vigilio, ora conservata al Castello del Buonconsiglio, e sua la realizzazione degli affreschi della Giunta Albertiana, fatta costruire dal principe vescovo per collegare il Magno Palazzo a Castelvecchio. Progettò anche la Cappella del Crocefisso del Duomo di Trento, curandone i lavori. Fu impegnato anche a Vicenza, dove affrescò in gran parte le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari. Dopo la morte di Francesco Alberti Poja, nel 1689, Alberti si ritirò a Cavalese, circondandosi di numerosi allievi, che diedero vita alla scuola pittorica fiemmese. Morì a Cavalese nel 1716.