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Florilegio agostiniano

Capolettera iniziale (con figura di sant'Agostino) di un codice del XIII secolo che riporta il commento di due teologi domenicani al De civitate Dei, Biblioteca Ambrosiana, Milano

Capolettera iniziale (con figura di sant'Agostino)

di un codice del XIII secolo

 

 

 

FLORILEGIO AGOSTINIANO

LA  STORIA

 

 

 

 

SENSO DEL DE CIVITATE DEI

"Nel frattempo Roma fu distrutta sotto i colpi dell'invasione dei Goti condotti dal re Alarico, e fu un grande disastro. Gli adoratori di una moltitudine di falsi dei, che di solito chiamiamo pagani, si sforzarono di far ricadere questo disastro sulla religione cristiana e si misero a bestemmiare il vero Dio con più asprezza e acredine del solito. Perciò, divorato dallo "zelo per la casa di Dio", decisi di scrivere contro le loro bestemmie o i loro errori i libri de La Città di Dio.

Quest'opera mi occupò per parecchi anni, perché si presentarono molte altre incombenze che non si addiceva differire, e la loro soluzione reclamava subito ogni mia cura. Quanto a questa grande opera de La Città di Dio, fu infine compiuta in ventidue libri. Di questi libri, i primi cinque confutano quelli che vedono nel culto degli dei falsi, abitualmente onorati dai pagani, la condizione necessaria alla prosperità delle faccende umane e che pretendono di trovare nell'interdizione di questo culto la spiegazione della nascita e dell'accrescimento dei mali attuali. I cinque seguenti sono diretti contro coloro i quali, pur confessando che tali mali non sono mai mancati e non mancheranno mai ai mortali e che, ora grandi ora piccoli, essi variano secondo i luoghi, i tempi e le persone, dichiarano nondimeno utile il culto degli dei falsi, unicamente ai sacrifici che si offrono loro, a cagione della vita che deve seguire la morte.

In questi dieci libri si trovano dunque confutate queste due opinioni vane e contrarie alla religione cristiana. Ma perché non ci si accusi di avere soltanto combattuto le dottrine degli altri senza avere esposto le nostre, vi è questa esposizione, contenuta nella seconda parte di quest'opera, che è racchiusa in dodici libri. Tuttavia, ove ce ne sia bisogno, noi affermiamo le opinioni che sono nostre anche nei primi dieci libri e confutiamo quelle altrui negli ultimi dodici. Dei dodici libri finali, dunque, i primi quattro trattano dell'origine delle due città, di cui l'una è la città di Dio, l'altra la città di questo mondo. I quattro seguenti descrivono i loro progressi e i loro sviluppi. Gli altri, che sono anche gli ultimi, mostrano i destini che spettano loro. Cosi, tutti questi ventidue libri hanno per tema l'una e l'altra città; ma hanno tratto il loro titolo dalla migliore e sono chiamati di preferenza La Città di Dio.

(AGOSTINO, Retractationes 2, 43)

 

 

CITTÀ TERRENA E CITTÀ CELESTE SI OPPONGONO PER LA LORO ORIGINE

Due amori quindi hanno costruito due città: l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l'amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio, testimone della coscienza. Quella solleva il capo nella sua gloria, questa dice al suo Dio: Tu sei mia gloria e sollevi il mio capo. L'una, nei suoi capi e nei popoli che sottomette, è posseduta dalla passione del potere; nell'altra prestano servizio vicendevole nella carità chi è posto a capo provvedendo, e chi è sottoposto adempiendo. La prima, nei suoi uomini di potere, ama la propria forza; la seconda dice al suo Dio: Ti amo, Signore, mia forza. Nella prima città, perciò, i sapienti, che vivono secondo l'uomo, hanno cercato i beni del corpo o dell'anima o tutti e due; oppure quanti hanno potuto conoscere Dio non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa.

Mentre si dichiaravano sapienti (cioè gonfiandosi nella loro sapienza sotto il potere dell'orgoglio), sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili (nella pratica di questa idolatria essi sono stati alla testa dei popoli o li hanno seguiti). Hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore, che è benedetto nei secoli. Nell'altra città invece non v'è sapienza umana all'infuori della pietà, che fa adorare giustamente il vero Dio e che attende come ricompensa nella società dei santi, uomini e angeli, che Dio sia tutto in tutti.

(AGOSTINO, De civitate Dei XIV, 28)

 

 

IL TEMA DELLA PACE: NEL TENDERE AD ESSA SI INCONTRANO CITTÀ TERRENA E CITTÀ CELESTE

Perciò, come l'anima è la vita della carne, così Dio è la vita beata dell'uomo, secondo quanto dicono le sacre scritture degli Ebrei: "Beato il popolo il cui Dio è il Signore". Infelice quindi il popolo estraniato da questo Dio! Anch'esso tuttavia ama una sua pace che non è da disprezzarsi e che però non possederà alla fine poiché non ne fa buon uso prima della fine. Ma che nel frattempo ce l'abbia in questa vita, anche a noi preme; poiché, finché le due città sono confuse, anche noi godiamo della pace di Babilonia; in tanto il popolo di Dio si libererà da questa attraverso la fede, in quanto sarà provvisoriamente pellegrino presso di essa. Per questo motivo anche l'apostolo ha raccomandato alla chiesa di pregare per i re e i dignitari di Babilonia, aggiungendo: "affinché possiamo condurre una vita tranquilla e serena in tutta pietà e carità"; e il profeta Geremia, mentre preannunciava all'antico popolo di Dio la cattività e trasmetteva l'ordine di Dio di recarsi docilmente a Babilonia facendo anche di questa sofferenza un servizio di Dio, lo ammonì anch'egli di pregare per quella città, poiché, diceva, "nella sua pace sta la vostra pace", una pace temporale, beninteso, che è comune ai buoni e ai malvagi.

Quanto alla pace che è a noi propria, essa è oggi unita a Dio per fede, nell'eternità sarà con Lui nella visione. Ma quaggiù sia la pace comune sia quella che ci è propria è tale che procura sollievo nella pena piuttosto che gioia nel benessere. Anche la nostra stessa giustizia, sebbene sia vera, perché vero è il bene, al quale si riferisce, tuttavia in questa vita è presente in misura così ridotta che ha il significato più di remissione dei peccati che di perfezione delle virtù. Testimone di ciò è la preghiera dell'intera città di Dio pellegrina sulla terra; attraverso tutte le sue membra essa grida verso Dio: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Né questa preghiera è efficace per coloro la cui fede, separata dalle opere, è morta; ma per quelli in cui la fede è resa operante attraverso la carità. Ché in effetti la ragione, pur sottomessa a Dio, in questa condizione mortale e in questo "corpo corruttibile, che appesantisce l'anima" non può tenere i vizi perfettamente sotto controllo. Per questo ai giusti è indispensabile tale preghiera, perché, sebbene la ragione si imponga, non può mai imporsi ai vizi senza conflitto.

In ogni caso, poiché ci troviamo in questa condizione di insufficienza, qualcosa si insinuerà in colui che lotta coraggiosamente come in colui che domina su nemici di tal fatta avendoli vinti e sottomessi, per cui - se non nell'azione, che si può più facilmente controllare - egli peccherà certamente nella parola, che è fuggevole, o nel pensiero, che è passeggero. Perciò, per quanto ci si imponga ai vizi, non si ha una pace piena, poiché quelli che resistono non saranno dei beati senza un pericoloso combattimento e di quelli che sono stati vinti non si trionferà restando sicuri in ozio; ma conservando su di essi un'autorità continua e sollecita. In mezzo a tutte queste tentazioni, dunque, alle quali la parola divina accenna quando dice "non è forse tentazione la vita umana sulla terra?", chi presumerà di vivere così virtuosamente da non avere bisogno di chiedere a Dio perdono dei propri peccati, se non l'uomo orgoglioso? Egli non è davvero grande, ma tronfio e tracotante, e colui che elargisce la sua grazia agli umili gli resisterà secondo giustizia. Per questo è scritto: "Dio resiste ai superbi e dà invece agli umili la Sua grazia".

Quaggiù dunque giustizia è per ciascuno il comando di Dio sull'uomo obbediente, dell'anima sul corpo, della ragione sui vizi, anche su quelli che si ribellano, sia che li si sottometta sia che si resista loro; ed è invocare la benedizione di Dio sui meriti e il perdono dei peccati e adempiere al ringraziamento per i beni ricevuti. Ma in quella pace finale, cui codesta giustizia è da considerarsi riferita strumentalmente, non ci sarà bisogno che la ragione comandi sui vizi, che non esisteranno, poiché la natura, risanata nell'immortalità e nell'incorruttibilità, non avrà vizi e non ci sarà nulla, né in noi né in altro, ad opporre resistenza a nessuno di noi. Ma Dio comanderà sull'uomo, l'anima sul corpo, e tanto facile e dolce sarà qui l'obbedire quanto felice il vivere e il regnare. E questo sarà quivi eterno per tutti e per ciascuno, e si sarà certi di tale eternità, e perciò la pace di questa beatitudine e la beatitudine di questa pace sarà il bene supremo. Al contrario, per coloro che non appartengono a questa città di Dio, vi sarà un'eterna miseria, che viene anche chiamata morte seconda, poiché non si può dire né dell'anima né del corpo che ivi vivranno, in quanto quella sarà esclusa dalla vita di Dio e questo sarà sottoposto a eterni tormenti; e questa morte seconda sarà perciò perfino più dura, proprio perché la morte non potrà mettervi fine.

Ora, come la miseria è l'opposto della beatitudine e la morte della vita, così la guerra sembra esserlo della pace. Se la pace è celebrata ed esaltata come fine dei buoni, ci si chiede dunque a buon diritto che tipo di guerra debba essere computata al contrario come termine della malvagità. Ma chi chiede questo, guardi a ciò che in guerra è nocivo e funesto, e non vedrà nient'altro che opposizione e conflitto tra forze antagoniste. Quale guerra, quindi, si può immaginare più crudele e amara di quella in cui la volontà si oppone a tal punto alla passione e la passione alla volontà che la fine del conflitto non verrà dalla vittoria di nessuna delle due parti, e in cui la forza del dolore combatte contro la natura stessa del corpo così che nessuna delle due cede all'altra? Quaggiù, quando si consumi una simile lotta, o è il dolore a trionfare e la morte a mettere fine a tutte le sofferenze, oppure vince la natura e la salute cancella il dolore. Là, per contro, il dolore persiste nel torturare, mentre la natura continua a subire; poiché né l'uno né l'altra si arrendono, affinché il patimento non abbia mai fine.

(AGOSTINO, De civitate Dei XIX, 26-28)