Contenuto
Percorso : HOME > Associazione > Settimana agostiniana > Settimana 2001 > Agostino Clericiagostino clerici: agostino: l'esperienza di un uomo che cerca
Agostino cardioforo
AGOSTINO: L'ESPERIENZA DI UN UOMO CHE CERCA
di don Agostino Clerici
Verrebbe subito da correggere il titolo. O meglio, da completarlo. Agostino è uomo che cerca e, proprio perché cerca onestamente e instancabilmente, è uomo che trova. Vedremo che questo aspetto non è di poco conto, anche perché le Confessioni non sono soltanto un diario di ricerca ma un sensazionale resoconto di scoperte, alcune parziali e destinate ad essere perfezionate, altre definitive (per quanto possa essere definitiva un scoperta da un punto di vista umano e terreno).
Agostino - è bene dichiararlo subito - è assai lontano dal vezzo oggi assai comune di una ricerca fine a se stessa, da una concezione della vita come avventura senza regole e senza mete. Egli cerca per trovare, e, siccome cerca, trova, ed è ben contento quando la ricerca si estingue nella scoperta.
Non dimentichiamo che per lui la felicità consiste nel possedere ciò che non può andare perduto: non basta cercarlo, e nemmeno conoscerlo, e nemmeno sapere che esiste, bisogna possederlo. La felicità non è un bene cercato, ma un bene trovato.
Fatta questa importante precisazione, è altresì indubbio che Agostino è un paradigma umanissimo di ricerca instancabile. Tanto è vero che ai più è nota la sua vicenda tormentata di ricerca, raccontata in chiave autobiografica nelle Confessioni, mentre resta di più difficile comprensione tutta la sua vastissima opera di vescovo cattolico. Le stesse biografie del Santo di Tagaste procedono con ritmo incalzante sino alla scena della sua ordinazione sacerdotale, poi sembrano diventare monotone ... Eppure la vita pastorale del vescovo di Ippona fu tutto tranne che monotona, eppure la mitizzazione del giovane Agostino peccatore alfine convertito ha creato una simile parabola narrativa. Agostino stesso sembra averne patito gli esiti in anticipo: i primi dieci dei tredici libri delle Confessioni sono agili; gli ultimi tre, invece, sono una sorta di rilettura sistematica assai meno brillante e di cui la nostra sensibilità avrebbe fatto volentieri a meno, magari in cambio di qualche rivelazione in più ... nella prima parte, quella autobiografica.
L'argomento di questa relazione è potenzialmente inesauribile. Per questo sono obbligato a operare delle scelte di campo ben precise, che vado brevemente ad illustrare.
Mi preme, innanzitutto, chiarire che siamo di fronte ad un'esperienza, e ad un'esperienza cristiana. Cristiana dall'inizio e non soltanto dal momento della cosiddetta conversione. Risulta, pertanto, assai limitante ridurre la vicenda agostiniana ad una progressione - o regressione o stagnazione - di un intelletto, oppure ad una parabola morale, liberante o castrante a secondo della visuale con cui la si osserva e la si giudica.
In secondo luogo, proverò a individuare l'esito della ricerca agostiniana. Le tappe principali del tribolato itinerario sono note. Ma che cosa trova Agostino? Corrisponde a quanto cercava? Oppure c'è uno scarto provvidenziale tra la verità cercata e la verità trovata?
Da ultimo, assai sinteticamente, dirò qualcosa circa il modo peculiare con cui questo itinerario di ricerca-scoperta è stato da Agostino stesso trasformato in racconto per essere in un certo senso universalizzato e reso fruibile, per ora, a ... 1600 anni di lettori.
Un'esperienza cristiana
È nota la tesi proposta all'inizio del secolo scorso dall'Alfaric [1], il quale, contestando la storicità delle Confessioni, identificava l'evoluzione intellettuale di Agostino con la sua evoluzione totale. È la tesi riproposta alcuni anni fa' dallo studioso tedesco Kurt Flash [2], talmente attento a quella che egli considera quasi un'involuzione intellettuale - dalla ragione alla fede - da considerare l'Agostino convertito come una diminuzione rispetto a ciò che sarebbe stato un Agostino razionalista. Si tratta di un esempio di tipica schizofrenia interpretativa che rifiuta di vedere un soggetto nella sua storicità e si ostina a volerlo catalogare secondo parametri decisi a tavolino e ritenuti assolutamente validi.
All'Alfaric aveva già brillantemente risposto il Gilson, il quale alcuni anni più tardi scriveva: «si è voluto ridurre all'evoluzione di un intelletto quello che fu l'itinerario di un uomo alla ricerca della verità» [3]. Secondo lo studioso francese, infatti, bisogna mantenere lo sguardo rivolto a tutto l'uomo Agostino nel suo dinamismo di ricerca.
Sbaglia pertanto chi pensa di poter descrivere la parabola agostiniana come un passaggio più o meno progressivo da una scuola all'altra, da una dottrina ad un'altra. Certamente questa lettura è legittima ed è possibile operarla grazie alle informazioni offertaci da Agostino stesso. Ma è profondamente riduttiva. Agostino, ad esempio, aderì certamente al manicheismo, ma perché cercava la verità e sperava di trovarla tra i manichei. Era l'uomo Agostino che cercava e non il suo intelletto. Ovviamente, la verità si trova anche con l'intelletto, ma non solo. E Agostino aveva dentro di sé domande di senso che cercavano una risposta anche intellettuale, ma non solo. Tanto è vero che le soluzioni puramente razionalistiche lo delusero al pari di quelle che egli giudicava fideistiche.
Alla luce di una visione globale appare riduttiva anche una prospettiva morale - che è poi profondamente moralistica - dell'itinerario agostiniano. Ovvio che il problema morale c'era, e lo avvertì certamente l'Agostino narrante delle Confessioni più che l'Agostino narrato nelle Confessioni. Ma non è possibile ridurre la ricca esperienza agostiniana ad una tragica quanto sofferta cesura morale che ebbe come esito la scelta della continenza. Indubbiamente Agostino avvertiva fortemente l'attrazione sessuale e la viveva in modo passionale, ma con quale diritto lo si dipinge come un soggetto patologicamente invischiato in una soggezione verso il contatto sessuale? Ovvio che una tale lettura veicola a sua volta un'ulteriore riduzione interpretativa della scelta operata da Agostino a Milano nel 386: la castità viene letta come continenza, il "di più" per il regno di Dio viene drasticamente annichilito in un "di meno" castrante delle esigenze - ritenute irrinunciabili - dell'uomo.
Solo abbandonando il paraocchi di uno schematismo psicanalitico e pansessualista - che è un filtro tipico della nostra mentalità post-moderna - si riesce ad intuire - e nemmeno si fatica più di tanto - la vicenda di un uomo alle prese con una violentia consuetudinis [4] che egli stesso avverte come una zavorra per la sua personalità matura. È Agostino che vuole essere libero e si accorge di mancare di una volontà vigorosa e totale, e la desidera, e la implora, perché attraverso di essa è sicuro di poter progredire nella ricerca della verità. Quando, finalmente, ottiene la grazia di esercitare tale volontà, s'accorge ben presto che ha rinunciato soltanto alla genitalità della sua carica erotica, non certo alla possibilità di esercitarla da uomo e da maschio.
In una parola: l'affettività è stata sublimata. Naturalmente non si tratta di una conquista definitiva fatta una volta per tutte, ma di un esito della grazia da assicurare ogni giorno con l'impegno, l'ascetismo e la preghiera. Tutta la vicenda successiva del monaco, del prete, del vescovo è lì a dimostrare la continua ricerca di questo equilibrio. Una ricerca serena, però, non patologica.
Le due riduzioni interpretative a cui ho accennato - l'evoluzione intellettuale e la cesura morale - hanno una comune radice di errore. Ed è quella di volersi ostinare a descrivere la parabola agostiniana come un passaggio dall'ateismo - guidato dal principio di ragione - alla fede - sorretta dal principio di autorità - . Non fu così. E non solo perché «ateismo» è una parola sconosciuta al tempo di Agostino e che contraddistingue, quindi, una realtà del tutto anacronistica. Ma soprattutto perché Agostino fu cristiano dalla nascita (anche se il padre Patrizio era pagano), catecumeno sin dall'infanzia (anche se fu battezzato soltanto nel 387): le orme che segnano i trentatré anni della tormentata vicenda agostiniana vanno, quindi, da una debole fede infantile ad una fede vissuta nella piena maturità.
Come mai, allora, tanta fatica? Perché il cammino è segnato da tanti errori e da tante lacrime? Verrebbe paradossalmente da rispondere: perché si tratta di un'esperienza cristiana! Passi il paradosso, ma non siamo lontani dal vero. È che forse noi abbiamo una concezione tranquilla del cristianesimo o, peggio, viviamo un cristianesimo in modo troppo tranquillo - e ci sarebbe da domandarsi se ormai non ne è una caricatura talmente scolorita da essere quasi irriconoscibile! - . Quando in fondo al cuore e nella mente ci sono gli assilli e le domande umane che Agostino aveva, quando si ha l'onestà di cercare la verità senza accontentarsi dei suoi surrogati, la vita su questa terra assume contorni meno tranquilli e assomiglia maggiormente alla parabola agostiniana. Certo che se il cuore è chiuso per ferie e la mente è tutta assorbita dalla televisione - strumento pericoloso, perché si fa le domande e si dà le risposte! - e la verità è stata troppo facilmente sostituita dalle opinioni, allora c'è poco da sperare in una esperienza cristiana.
Agostino, invece, la percorse tutta nelle sue tonalità di chiaro e di scuro, un po' in bianco e nero e un po' a colori. Esperienza cristiana, non solo perché il suo protagonista era catecumeno dall'infanzia, ma soprattutto perché egli era in tensione da Gesù Cristo bevuto nel latte materno verso Gesù Cristo nella sua presenza storica e sacramentale come Chiesa - e, infatti, fu la comunità cristiana raccolta attorno al vescovo Ambrogio a regalare ad Agostino un'immagine finalmente «piena» di Chiesa [5] - .
Il nome di Cristo doveva essergli così familiare e doveva apparirgli emotivamente così importante da diventare, più o meno consciamente allora, il termine di paragone, il criterio di valutazione, il motivo oscuro di ogni decisione. «Quel nome, per tua misericordia, Signore, quel nome del salvatore mio, del Figlio tuo, nel latte stesso della madre, tenero ancora il mio cuore aveva succhiato e conservato nel suo profondo. Così qualsiasi opera ne mancasse, fosse pure dotta e forbita e veritiera, non poteva conquistarmi totalmente» [6]. Ad esempio, l'Hortensius di Cicerone lo lasciò deluso perché mancava il nome di Cristo.
Ora, il nome di Cristo, scritto all'inizio sulla lavagna del cuore e mai cancellato, è il vero attore misterioso dell'itinerario agostiniano. Il giovane di Tagaste prenderà coscienza in modo graduale che il suo rapporto con Dio si realizza in Cristo e che il luogo di questo rapporto è la Chiesa cattolica. Soffermiamoci un attimo su queste tre tappe ideali: infatti «esperienza cristiana» è appunto questo dispiegarsi di un'esistenza religiosa entro un'esistenza cristiana e il suo inverarsi nell'ambito di un'esistenza ecclesiale [7].
Potremmo affermare che il percorso biografico di Agostino è esattamente questo: il suo bisogno di relazionarsi con Dio è da subito collegato al nome di Cristo, anche se tale legame è più nominale che sostanziale e diverrà autentico solo nella misura in cui la religione personale di Agostino, finalmente libera dai ceppi del materialismo, s'inserisce nella vita della Chiesa. Vale la definizione di Agostino data da Romano Guardini: «il cristiano che lotta, che diviene e comprende se stesso nella fede» [8]. Appunto: il cristiano che diviene. Mi preme sottolineare che centrale e decisivo resta proprio il riferimento a Gesù Cristo: quando il suo nome viene a mancare, tale assenza manda in crisi tutte le scelte e rimette in movimento la ricerca. È come se Agostino intuisse che non si dà autentica esperienza religiosa se non quando essa si coniuga come esperienza cristiana.
Sulla scorta dell'analisi del Gilson, è certamente utile identificare quali furono i dati in negativo che caratterizzarono l'evoluzione globale del Santo di Ippona e la resero lunga e faticosa. Cioè: come mai Agostino tardò tanto ad esplicitare la sua esperienza cristiana? Uno: perché ignorava i dogmi essenziali del cristianesimo, nonostante fosse catecumeno fin dall'infanzia; cioè: conosceva Gesù di nome, ma in realtà sapeva assai poco di Cristo. Due: perché la sua moralità naufragò precocemente, nonostante le preoccupazioni materne; ovvero: la prevalenza di vitalità passionale affievolì certamente la vita religiosa.
A questi dati in negativo, però, provvidenzialmente si opposero due "barlumi", che di fatto resero proficuo il suo tormentato viaggio verso la definitiva conversione. Il primo barlume fu, appunto, la fede incrollabile, anche se istintiva più che conoscitiva, in Gesù Cristo. Il secondo fu il costante desiderio presente in Agostino di voler imitare tutti i nobili esempi a lui proposti o da lui incontrati [9].
Umiltà, sapienza, felicità
Veniamo ora alla seconda parte. Che cosa trova il cercatore Agostino al termine del suo itinerario? Il che equivale in un certo senso a rispondere a quest'altra domanda: qual è l'esito della sua esperienza cristiana?
Per rispondere vorrei far riferimento a tre testi.
Il primo è tratto da una lunga lettera - la 118 dell'epistolario agostiniano - che il vescovo di Ippona indirizzò nel 410 ad un giovane di nome Dioscoro, il quale gli aveva sottoposto parecchie questioni circa le opere di Cicerone. Agostino lo invita a non perder tempo in cose inutili per un cristiano, e ad andare al sodo. Gli indica così in modo perentorio la via per giungere a Cristo, quella via che i Platonici non poterono seguire perché mancò loro l'esempio della divina umiltà. «A Cristo, caro Dioscoro, vorrei che ti assoggettassi con la più profonda pietà e che, nel tendere alla verità e nel raggiungerla, non ti aprissi altra via che quella apertaci da lui, il quale, essendo Dio, ha veduto la debolezza dei nostri passi. La prima via è l'umiltà, la seconda è l'umiltà e la terza è ancora l'umiltà: e ogni qualvolta tornassi a interrogarmi, ti risponderei sempre così. Non perché non ci siano altri precetti degni d'essere menzionati, ma perché la superbia ci strapperà senz'altro di mano tutto il merito del bene di cui ci rallegriamo, se l'umiltà non precede, accompagna e segue tutte le nostre buone azioni in modo che l'anteponiamo per averla di mira, la poniamo accanto per appoggiarci ad essa, ci sottoponiamo ad essa perché reprima il nostro orgoglio» [10].
Il secondo testo lo traggo da un sermone a commento del salmo 130 (che potrebbe essere più o meno degli stessi anni [11]). Il salmista confessa: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze». Agostino intravede una difficoltà: «c'è della gente - dice - che, ascoltando discorsi sull'obbligo dell'umiltà, si deprimono e rifiutano d'imparare anche le cose più elementari, convinti che, se progrediranno nella scienza, diverranno per forza superbi. Per cui rimangono sempre al livello del latte ... Ma se Dio vuole che ci nutriamo di latte, non è perché rimaniamo sempre bisognosi di latte ma perché, nutriti di latte, cresciamo fino a renderci capaci di cibo solido. Quindi, da un lato è vero che non ci è lecito innalzare il cuore per orgoglio ma, dall'altro, è necessario che lo eleviamo nella conoscenza della Parola di Dio ... Inoltre, se l'anima non si protende al di sopra di se stessa, non potrà pervenire alla visione di Dio e alla conoscenza della sua sostanza immutabile ... Il suo Dio le è dentro: dentro spiritualmente, anche se è altissimo per la sua spiritualità, non per l'interposizione di spazi in senso locale ... Se infatti si dovessero considerare altezze di questo genere, nell'avvicinarsi a Dio ci sarebbero superiori gli uccelli. Invece Dio è alto nel nostro intimo e alto in senso spirituale: l'anima quindi non sarà in grado di raggiungerlo se non trascenderà se stessa ... in conclusione, dunque, se ti si dice d'essere umile, non è per impedirti d'essere sapiente. "Sii umile" ti è detto perché eviti la superbia, mentre in fatto di sapienza devi essere alto» [12].
Il terzo testo fu scritto a Cassiciacum nel novembre 386. Il tema del dialogo è classico: in che cosa consiste la felicità? Il dibattito si assesta su una definizione che occupa un posto cardinale nel pensiero agostiniano: «Quindi - dice Agostino - non abbiamo più dubbi che, se qualcuno ha deciso di essere felice, si deve assicurare ciò che rimane per sempre ... Chi ha Dio, è felice» [13].
Alla luce di questi tre testi - che non sono certo isolati nella vasta produzione agostiniana - possiamo tentare una risposta alla nostra domanda. Che cosa trova Agostino al termine della sua ricerca? Dopo la deludente esperienza manichea, la sua vita aveva attraversato una fase scettica: «non trovando nulla di meglio, decisi di star pago per il momento della posizione che avevo comunque raggiunto precipitosamente, finché apparisse una luce preferibile» [14]. Che volto ebbe questa luce? La risposta più semplice e allo stesso tempo più completa mi sembra una: l'umiltà. L'epistola a Dioscoro è, da questo punto di vista, di una chiarezza adamantina: l'umiltà è ciò che manca al divino neoplatonico ed è, invece, la caratteristica peculiare del Dio cristiano. Agostino cercava un Dio incarnato e lo trova in Gesù Cristo. O meglio: già conosceva il nome di Cristo, ma ora scopre chi è veramente.
Tutta la ricerca agostiniana è segnata dal tentativo di trovare un Dio «senza corpo» ma allo stesso tempo incontrabile umanamente. L'incorporalismo manicheo è uno stratagemma deludente: di fatto è un materialismo camuffato. Lo spiritualismo cristiano è la soluzione giusta, ma Agostino la fa sua solo quando riesce a superare il dogma razionalista che gli impedisce di concepire una realtà non corporea. Eppure, quando nelle Confessioni Agostino descrive il Dio che ha trovato, lo fa con parole paradossali che cercano di tenere unite la realtà spirituale di Dio con il bisogno che l'uomo ha di sperimentarlo concretamente. Il Dio che fa innamorare Agostino è spirituale, eppure tanto concreto. Se cerca di descriverlo con il linguaggio della poesia, comincia negando in Lui ogni connotazione di carattere fisico o naturale, ma è poi costretto a recuperare la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'abbraccio. Per Agostino amare Dio significa affermarne la spiritualità ma percepirlo fisicamente. «Ma che cosa amo, quando amo Te? - scrive - Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d'ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'amplesso dell'uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov'è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio» [15].
L'incarnazione del Cristo è il tassello che completa il mosaico. Il Dio umile di Gesù Cristo è il tesoro del sapiente cercatore. La via per trovare Dio è l'umiltà: la prima, la seconda, la terza, ovvero l'unica via, la via maestra. Non dimentichiamo che l'«incredibile incendio» [16] che scoppiò dentro la mente di Agostino nella primavera del 386 fu provocato provvidenzialmente dalla lettura di alcuni libri dei filosofi platonici - forse alcuni trattati di Plotino e un'opera di Porfirio - : una lettura veloce e appassionata offrì ad Agostino risposte filosofiche apprezzabili e rivoluzionarie. Soprattutto incontrò l'invito all'interiorità e la soluzione al problema del male. Fu stupito di trovare anche la dottrina del Verbo «se non con le stesse parole, con senso assolutamente uguale» [17]. Ma aggiunge: «Che però il Verbo si è fatto carne e abitò fra di noi non lo trovai scritto in quei libri» [18]. Ecco: manca l'incarnazione, manca l'umiltà divina. Ridicola appare la tesi secondo cui Agostino si convertì al neoplatonismo e non al cristianesimo! Egli seppe subito distinguere nella dottrina di quei libri platonici alcune verità cui aderì con entusiasmo ma anche alcuni limiti. Da questi ultimi si lasciò interrogare e trasportare oltre. Non oltre, però, in avanti. Ma oltre in profondità!
«Dov'era quella carità che edifica sul fondamento dell'umiltà, ossia Gesù Cristo? Quando mai quei libri avrebbero potuto insegnarmela? Credo che la ragione, per cui volesti che m'imbattessi in quelli prima di meditare le tue Scritture, fosse d'incidere nella mia memoria le impressioni che mi diedero, così che, quando poi i tuoi libri mi avessero ammansito, sapessi discernere e rilevare la differenza che intercorre tra la presunzione e la confessione, fra coloro che vedono la meta da raggiungere, ma non vedono la strada, e la via che invece porta alla patria beatificante, non solo per vederla, ma anche per abitarla» [19].
E questo brano ci aiuta ad andare oltre nella nostra risposta. Agostino, infatti, è certamente un uomo che ha scoperto nell'umiltà il segreto della sapienza, ma è un umile che vuole essere sapiente. C'è contraddizione tra umiltà e scienza? Ecco la pregnanza del secondo testo che abbiamo sopra riportato: non c'è alcuna contraddizione, anzi la vera umiltà è quella di Cristo, vero Dio e vero uomo, servo senza perdere la sua uguaglianza con Dio. Questo è il supremo modello per ogni uomo. L'umiltà, cioè, non impedisce di andare in alto nella ricerca della sapienza e della verità, anzi spinge proprio in alto l'uomo che si sia umiliato. Sarebbe interessante ripercorrere i cardini della dottrina agostiniana in tema di umiltà, a partire dall'affermazione presente nell'Esposizione della Lettera ai Galati (che risale al 391, all'inizio del ministero sacerdotale di Agostino): «l'umiltà è la legge essenziale del cristiano e mediante l'umiltà si tutela la carità» [20]. Non possiamo qui farlo, ma è certo che si tratta di un insegnamento costante nella predicazione e negli scritti agostiniani.
Per Agostino il segreto dell'umiltà come via di sapienza fu una scoperta strabiliante: egli che aveva cercato in ogni modo di raggiungere i primi posti nel cursus honorum, e che aveva brigato con i manichei romani per diventare qualcuno, e che a Milano era giunto quale maestro di retorica chiamato addirittura a tessere l'elogio ufficiale dell'imperatore Valentiniano II, ora si trova a scoprire che comincia ad essere veramente qualcuno nel momento in cui decide di interrompere la rincorsa superba al successo mondano.
Ma un umile sapiente è anche felice? Il mosaico trovato da Agostino, per essere completo, ha bisogno di un terzo tassello. Non solo uomo che ha scoperto nell'umiltà il segreto della sapienza. Non solo umile che vuole essere sapiente. Ma anche sapiente che vuole essere felice. Qui tocchiamo il vertice dell'esperienza cristiana di Agostino, che non è un vertice conoscitivo perché Agostino non è un intellettuale. La felicità non è data dalla semplice conoscenza della verità ma dal suo possesso esistenziale. Tale intuizione l'abbiamo vista chiaramente enucleata già a Cassiciacum nel dialogo sulla felicità De vita beata: chi vuole essere felice deve possedere ciò che non può andare perduto, deve quindi in un certo senso possedere Dio. Il sapiente non è automaticamente felice. Per esserlo è necessario che la sua sapienza diventi saggezza, cioè che da teoria diventi prassi, che le sue idee si disciolgano nella vita come la linfa che rigenera la pianta. Se il sapiente sa che cosa lo rende felice, il saggio è davvero felice perché possiede questo «qualcosa», nel senso che lo sperimenta nella vita.
Ad Agostino non poteva certo bastare l'aver conosciuto la verità su Dio e sull'uomo; doveva possederla, perché da sapienza diventasse saggezza. Il platonismo - come del resto ogni filosofia umana - non poteva estinguere la sua problematica interiore. E a questo punto si capisce perché fu la mediazione di San Paolo a portare definitivamente Agostino dentro la Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, furono proprio le epistole paoline a far passare i guadagni filosofici del platonismo dallo spirito al cuore, dalla teoria alla vita. Paolo appare come il persecutore della Chiesa, illuminato dalla grazia di Dio: quindi Agostino deve aver trovato un po' della sua vita nella vicenda dell'Apostolo. Nell'orto di Milano, in preda al pianto, fu sanato dalla provvidenziale lettura di un brano dell'epistola ai Romani [21] in cui si esorta alla castità, e trovò il coraggio di trasformare in vita la decisione che già da tempo albergava nella sua mente. Se il platonismo rischiava di rimanere una pura teoria disincarnata - e di fatto lo fu per numerosi filosofi - san Paolo offriva un ideale di spiritualità incarnata, che non poteva non affascinare Agostino.
Questo spiega anche la radicalità della conversione di Agostino. Monica aveva pregato perché il figlio diventasse cristiano cattolico, e si dava da fare perché, ottenuto un buon posto, si accasasse con un onorevole matrimonio. Non così Agostino. Per lui essere di Cristo equivaleva ad essere tutto di Cristo: non c'erano vie di mezzo! Lasciare il mondo con i suoi piaceri e i suoi onori era l'unica strada per possedere ciò che non può andare perduto, cioè Cristo. Solo così sarebbe stato felice, solo così si sarebbe realizzato.
In Agostino la scelta cristiana non avrebbe mai potuto andare disgiunta dalla scelta del celibato e di una vita ascetico-monastica. Non serve scomodare teorie psicologiste che vedono la personalità del vescovo di Ippona formarsi in una lotta tra istinto, ragione e fede, in cui la scelta celibataria si riduce ad essere l'espediente della fede per imbrigliare l'istinto dopo aver addormentato la ragione. Lo abbiamo già detto: la continenza per il Regno di Dio non può essere letta come una cesura morale con cui Agostino risolve la sua esuberante passionalità. È, invece, un problema di volontà e di grazia. Si trattava di decidersi a vivere secondo una modalità già intuita come vera, ma ancora frenata dai vincoli della passione generati da una particolare consuetudine di vita. Ma come decidersi in tale direzione? Agostino confessa: «Mi sembrava che sarei stato troppo misero senza gli amplessi di una donna; non ponevo mente al rimedio che ci porge la tua misericordia per guarire da quell'infermità, poiché non l'avevo mai sperimentato. Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze, e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto, da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. E tu l'avresti concesso, se con gemito interiore avessi bussato alle tue orecchie e con salda fede avessi lanciato in te la mia pena» [22]. E infatti ci penserà la grazia a regalare le occasioni giuste per far maturare scelte coraggiose. Una volta fatte, Agostino si dimostrerà tenace e fedele nel viverle sino in fondo. La sua passionalità resterà esuberante, ma la grazia saprà incanalarla verso nuovi lidi: leggete le sue opere polemiche e alcune omelie, la ritroverete tutta!
Etienne Gilson ha sintetizzato così l'ideale agostiniano: «La sapienza è una regola di vita, aderirvi significa praticarla» [23]. Romano Guardini - la cui analisi della conversione di Agostino rimane insuperata - ha così descritto l'itinerario: «Il processo non può essere stato se non quello che afferra l'uomo per la vita e per la morte: il ritorno al Dio di Gesù Cristo, che tutto esige. Ma Agostino non è né Ilario, né Antonio, per i quali ogni decisione sta nella volontà. La sua vita si effettua in quel lavoro creativo che rifonde l'esistenza entro forme logiche, e in base a queste, di nuovo plasma l'esistenza. Così la storia della sua conversione deve essere intesa, contemporaneamente, come storia sia del suo pensiero che della sua vita spirituale ... Egli, che nella sua Civitas Dei intese comprendere la storia dell'umanità come procedente da Dio, ha visto anche se stesso in una storia. Le Confessioni sono il tentativo di narrarcela» [24].
E siamo così giunti all'ultima parte della mia relazione.
Confessioni : storia di Dio e dell'uomo
Guardini ha ragione: Agostino non si è limitato a vivere la sua storia di ricerca, ma ha avvertito il bisogno di raccontarla. Non è mia intenzione e compito della mia relazione sondare i motivi, lo scopo e le circostanze per cui il vescovo di Ippona intraprese quest'opera. Vorrei, qui, soltanto fare qualche considerazione circa le dimensioni esistenziali del racconto delle Confessioni.
È risaputo che il termine confessio nel latino cristiano ha il duplice significato di confessio laudis e confessio peccatorum [25]. Significati tra loro strettamente connessi, perché «l'accusa che fai di te stesso è una lode rivolta a Dio» [26].
Le Confessioni sono, dunque, l'esito di una meditazione personale in un punto determinato della retta della vita di Agostino. All'uomo che rifletta accade che alcuni avvenimenti rendano improvvisamente chiari segmenti della propria vita passata. Chiari, ovvero incorniciati entro un quadro finalmente organico. Il che non significa che quel quadro sia fittizio e quei segmenti creati ad arte. Significa soltanto che un uomo, abituato a vivere riflettendo, ad un certo punto scopre il senso del suo passato. Un passato reale che ora diventa finalmente trasparente al pensiero oltre che all'esistenza.
Possiamo certamente identificare l'avvenimento che nella vita di Agostino ha scatenato questa retroproiezione organica: è l'ordinazione episcopale avvenuta presumibilmente nel 395 o al più tardi nel 396. Questo avvenimento eminentemente ecclesiale mette Agostino nella condizione ideale di comprendere con uno sguardo la sua vita precedente e di vedervi il proprio peccato ma soprattutto la mano della Provvidenza divina. Confessando il primo egli loda la seconda: questo, in estrema sintesi, il meccanismo narrativo delle Confessioni.
Non dimentichiamo che l'elezione a vescovo non fu un fatto meno dirompente nella vita di Agostino rispetto alla sua conversione milanese. Già aveva avvertito come traumatica l'ordinazione sacerdotale del 391, ma ora intuisce che si tratta di un cambiamento dello stato di vita da un modello più intellettivo e contemplativo ad uno certamente più attivo e pastorale. Non solo un mutamento esteriore del ruolo, ma un avvenimento spirituale che cambiò Agostino nell'intimo. Il passaggio - rilevabile anche letterariamente - è dal filosofo che disputa al predicatore che annuncia [27]. Ne resta una traccia indubbia anche nelle Confessioni in cui la preoccupazione di narrare è in simbiosi con quella di istruire. Agostino racconta se stesso come esempio della misericordia di Dio.
Non solo. Egli ha la consapevolezza chiara di raccontare una vicenda storica particolare - la sua - e insieme di enucleare alcune coordinate universali di «antropologia della conversione». Le Confessioni sono indubbiamente racconto irripetibile nella loro contingenza legata alla vicenda personale di Agostino, ma insieme contengono un canovaccio di ricerca, e l'autore stesso non fa nulla per nasconderlo, perché vuole segretamente educare e forse anche consolare coloro che sono in ricerca e patiscono il morso della disperazione. Raccontando la sua esistenza, vuole insegnare il metodo per praticare la sapienza: camminare incontro alla grazia di Dio con la forza della propria onestà intellettuale e con la tenacia del desiderio di verità. Senza scoraggiarsi, imparando a soffrire, continuando a sperare. Qui sta senza dubbio uno dei segreti del perenne successo delle Confessioni.
Un secondo segreto - per limitarci ai due più importanti - è lo spazio qualitativamente e quantitativamente predominante che occupa nella trama delle Confessioni il dialogo di Agostino con Dio. Giustamente Michele Pellegrino ha scritto che esse «sono, prima che un'autobiografia, una biografia di Dio. Non di Dio visto in astratto, lontano, ma di Dio presente a lui, in lui, Agostino». E aggiunge: «Lo scrittore ci parla, indubbiamente, di sé; ma non ci parlerebbe affatto di sé se non fosse per parlarci di Dio; perché l'io e Dio, distinti, non si possono concepire separati, lontani. Il senso concreto, vivo, drammatico dell'esistenza non s'illumina se non nella luce di Dio» [28]. Proprio così: Dio è il vero protagonista delle Confessioni, che così cessano di essere soltanto il racconto della conversione di Agostino, per diventare storia dell'uomo e storia di Dio. E non di un uomo virtuale e di un Dio astratto, ma dell'uomo peccatore redento da Cristo e del Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che agisce nella Chiesa cattolica. Quindi, «storia di Dio e dell'uomo, dell'uomo in Dio e di Dio nell'uomo» [29].
Il Dio di Agostino è un Dio che sfonda la sordità con la sua parola, un Dio che dissipa le tenebre con il suo splendore, un Dio che spande il suo profumo, e che si lascia gustare. Una pagina giustamente famosa delle Confessioni contiene una stupenda preghiera che è, allo stesso tempo, una testimonianza sofferta del suo itinerario di innamoramento: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai! Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» [30].
Concludendo, per raggiungere il risultato delle Confessioni non è bastata una vicenda umana per diversi aspetti drammatica.
È stato necessario che a viverla sino in fondo ci fosse un uomo dalla passionalità forte; un uomo conquistato da Dio sin dall'inizio - ma in un modo misterioso, tale da rivelare tutta la sublime libertà di cui l'uomo è dotato - ; un uomo capace di esercitare i diritti della ragione sino al massimo grado - ma intelligente sino al punto di rilevarne onestamente i limiti - .
A quest'uomo Dio si è provvidenzialmente accostato in modo unico. Non solo, gli è stato dato in dono il talento di saper scrivere - e scrivere bene! - il racconto della sua esperienza.
E, da ultimo, quest'uomo ha accettato la sfida, non si è tirato indietro: ha avuto il coraggio di lasciarsi penetrare da quel Dio così tenace, ed ha osato mettere per iscritto ciò che di per sé è quasi inenarrabile.
Se, dunque, consideriamo chi è il Dio che si fa vicino e l'uomo a cui s'accosta, saremo in grado di afferrare il significato più profondo della vicenda umana di Agostino, dicendo con Romano Guardini: «è il congiungersi, il farsi urgente e lo svilupparsi di un destino d'amore, proveniente da Dio e tendente a Dio» [31].
[1] P. ALFARIC, L'évolution intellectuelle de saint Augustin, Paris 1918
[2] K. FLASCH, Agostino d'Ippona, Bologna 1983
[3] E. GILSON, Introduzione allo studio di Sant'Agostino, Casale Monferrato 1983, 263 (la prima edizione originale francese risale al 1929).
[4] conf. VIII,5,12: «lex enim peccati est violentia consuetudinis».
[5] conf. VIII, 1, 2
[6] conf. III, 4, 8
[7] Per tale dinamica vedi: SAINT AUGUSTIN, Le visage de l'Église (textes choisis et présentés par Hans Urs Von Balthasar), Paris 1958, 8.
[8] R. GUARDINI, La conversione di sant'Agostino, Brescia 1957, 14.
[9] E. GILSON, op. cit., 263-264.
[10] ep. 118, 3, 22
[11] Secondo lo Zarb sarebbe stato predicato a Cartagine venerdì 20 dicembre 412; mentre la tavola cronologica della La Bonnardière lo assegna a mercoledì 3 aprile 407 e lo ritiene rivolto ai fedeli di Ippona.
[12] en. ps. 130, 12
[13] beata v., 2, 11
[14] conf. V,7,13
[15] conf. X,6,8
[16] acad. II, 2, 5
[17] conf. VII,9,13
[18] conf. VII,9,14
[19] conf. VII, 20, 26
[20] exp. Gal. 15
[21] Rm 13, 13 - 14
[22] conf. VI,11,20
[23] E. GILSON, op. cit., 269
[24] R. GUARDINI, op. cit., 11
[25] È Agostino stesso a rilevarlo: cf s.29,2; s. 67, 1, 1
[26] s. 67,1,2
[27] cf. J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in sant'Agostino, Milano 1971, 13
[28] M. PELLEGRINO, Le Confessioni di sant'Agostino, Roma 1956, 25.
[29] M. PELLEGRINO, op. cit., 26
[30] conf. X,27,38
[31] R. GUARDINI, op. cit., 181