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Martiri AfricaNI: Cipriano

Vita di Cipriano da Cartagine scritta da Ponzio (XV sec.): Cipriano seduto allo scrittoio. Ms. urb. lat. 63, fol. 8v. Biblioteca apostolica vaticana

Cipriano seduto allo scrittoio.

Ms. urb. lat. 63, fol. 8v. Biblioteca apostolica vaticana

 

 

SAN CIPRIANO

 

 

 

La storia della Chiesa nell'Africa settentrionale nel II e III secolo sembra una zona di penombra ove alcuni dettagli, più o meno sicuri, lasciano intravedere i lineamenti essenziali del quadro. A sprazzi, brevi lampi di luce, in cui si crede di vedere l'evoluzione storica confondersi mentre i fatti sembrano organizzarsi intorno ad una figura di importanza centrale. Così accade per gli avvenimenti relativi al decennio del 250 intorno a Cipriano.

Egli ci appare come un personaggio tutto di un pezzo: una conversione senza compromessi, una sicurezza di sé che non si spiega pensando semplicemente alla sua indole, un pensiero nel contempo complesso e coerente; il tutto in mezzo a persecuzioni, controversie e polemiche che rinascevano su fronti inattesi, stranamente simmetrici, quasi che volessero metterlo alla prova e forzarlo ad approfondire ciò che, non senza qualche irrigidimento talora dettato dal suo amor proprio, egli giudicava centrale nella sua missione di vescovo.

Il martirio ha forse pacificato queste tensioni ? La gloria ha semmai fatto di Cipriano nel suo paese un segno di contraddizione. Per troppo tempo, e forse ancora oggi, la sua dottrina è stata fatta oggetto di interpretazioni forzate, a scapito dell'esatta comprensione dello spirito che la animò. L'episcopato di Cipriano coincide, più o meno, con il parossismo della crisi multiforme che sembra presagire la crisi dell'Impero e, agli occhi del vescovo, la rovina stessa del mondo. L'Africa, da molto tempo in pace, ricca della sua agricoltura e di quella elegante civilizzazione urbana che è ben simboleggiata dalla sua capitale Cartagine, si trova ora coinvolta nelle lotte tra imperatori rivali (sacco di Cartagine nel 238) ed assalita dalle rivolte e dalle incursioni dei barbari del sud.

Per ragioni difficili a cogliersi, la Chiesa in questa regione conosce una rapida crescita e l'istituzione si infoltisce (all'epoca dei Severi ci sono 70 vescovi di Numidia e della Proconsolare in occasione di un concilio che definisce la dottrina della Chiesa africana a proposito del battesimo degli eretici; al tempo di Cipriano ci sono note almeno 135 sedi vescovili, la cui densità, come la presenza romana, si indebolisce da est a ovest dopo Cartagine che esercita un primato di fatto). Tuttavia, ad un così grande successo, alla vasta fioritura che aveva dato all'antica cristianità di lingua latina il suo primo autore originale, Tertulliano (malgrado il suo passaggio allo «scisma», Cipriano non smetterà mai di chiamarlo maestro, magister), si accompagna - o per lo meno Cipriano se ne lamenta - un certo rilassamento morale in un popolo cristiano sempre più numeroso, molto mescolato ormai - anche tra gli stessi vescovi - sul piano sociale, culturale e spirituale. Le eresie di tipo gnostico sembrano aver perduto la loro virulenza; le persecuzioni, che fino ad allora erano consistite in pogroms spontanei ed in atti di repressione locale, si sono assopite da alcuni anni. Proprio in questo contesto complesso e articolato, bisogna inquadrare l'attività pastorale e la santità di Cipriano.

 

 

La conversione di un retore

Cipriano si chiamava Caecilius Cyprianus qui et Thascius, che non prese il soprannome di Cecilio in onore di Ceciliano, prete la cui amicizia lo aveva condotto alla fede, e che Thascius era un nomignolo di significato peraltro ignoto. Cipriano era «africano», probabilmente cartaginese, e senza dubbio di buona famiglia, a giudicare dalla sua cultura e dalle sue ricchezze. Ben noto all'epoca della conversione, doveva ormai aver già raggiunto l'età matura: di qui l'ipotesi che sia nato intorno agli anni 210-220. Quanto alla sua professione nel «secolo», l'opinione più ragionevole fa di lui un retore, che talvolta può anche aver sostenuto cause in tribunale; ma non era affatto un giurista, possedendo di diritto - come Tertulliano e Cicerone - solo quanto era sufficiente all'avvocatura e alla scuola. Come si avvicinò alla fede ?

Non è noto. Ciò che si deduce dall'Ad Donatum, a proposito del suo disgusto per i vizi mondani, appartiene ad un'agiografia inverificabile. Ceciliano lo guidò verso la Chiesa e alla morte lo istituì, forse al di fuori delle forme legali, tutore dei suoi figli. La conversione provocò in Cipriano un cambiamento totale di vita, ormai senza pentimenti: osservò la castità e distribuì ai poveri almeno una parte del suo patrimonio (Ponzio, 2, 4-7). Tutto ciò accadeva intorno al 246. Il neofita bruciò le tappe: nel giro di poco tempo divenne prete e, alla morte del vescovo (senza dubbio nel 249), l'acclamazione del popolo e il suffragio dei vescovi vicini lo portarono all'episcopato - rapidità inaudita che Ponzio (3, 1) giustifica con le virtù del suo eroe: si intende che il prestigio sociale ed intellettuale di Cipriano lo imponeva come portavoce della sua comunità. Un gruppo di cinque preti fece una certa opposizione, ma il nuovo eletto riuscì a quanto pare a conciliarseli (Ponzio, 5, 6).

In realtà, il loro atteggiamento rimase riservato. I primi mesi del suo episcopato trascorsero senza incidenti. In questo periodo, prendono già forma i lineamenti dell'azione futura: difesa del diritto dei vescovi (contro un diacono ribelle: Ep. 3), rispetto della disciplina del clero (che deve fuggire ogni tentazione mondana: Ep.1) e delle vergini consacrate (Ep. 2).

 

 

"Lapsi", confessori, scismatici

Negli ultimi mesi del 249 l'imperatore Filippo l'Arabo, che a torto o a ragione passava per favorevole ai cristiani, muore a Verona combattendo contro il prefetto della città, Decio. Devoto allo stato, fedele alle tradizioni romane, il nuovo principe, per rinsaldare l'unità dell'Impero e attirarsi il favore degli dei, ordina a tutti gli abitanti di sacrificare. La decisione non prendeva di mira i soli cristiani, ma sicuramente li colpiva in pieno e forse di proposito. A tutti quelli che avessero sacrificato sarebbe stato rilasciato un certificato (libellus). La persecuzione dovette impiegare un certo tempo a svilupparsi e diffondersi.

Fatto sta che, alla prima intimazione, le defezioni furono massicce e Cipriano evocherà dolorosamente l'immagine di famiglie intere che si presentano al Campidoglio (Laps. 8). Alcuni cristiani, e fra loro c'erano anche preti e vescovi, offrirono un sacrificio (sacrificati); altri si limitarono a bruciare incenso (thurificati); altri ancora, i libellatici, ricorsero all'espediente di acquistare dei certificati. I riluttanti al sacrificio furono in un primo tempo relegati in esilio (così almeno pare), mentre i loro beni furono posti sotto sequestro o confiscati; poi all'inizio della primavera, se si deve credere alla testimonianza di Cipriano (Ep. 11, 1,3; 20, 2, 2; Laps. 7) «furono introdotte le torture, finalizzate più ad estorcere l'apostasia che non ad uccidere. Che cosa rimaneva allora della Chiesa di Cartagine ? Qualche prete e qualche laico che si erano sottratti alla persecuzione, senza peraltro compromettersi. Il vescovo, proprio lui, era fuggito. Indubbiamente, egli aveva ragioni più che valide: evitando la morte, desiderava scongiurare la dissoluzione completa della sua comunità, salvare il salvabile, esortare i confessori (Ep. 6), provvedere per il tramite dei preti rimasti fedeli alle necessità materiali e spirituali dei poveri e dei prigionieri (Ep. 7). Tuttavia la sua fuga aveva destato un certo scandalo, ed il clero romano (il cui vescovo Fabiano era stato ucciso il 20 gennaio) non mancava di ironizzare sull'accaduto (Ep. 8). Cipriano doveva dunque giustificarsi (Ep. 7; 14; 20) e Ponzio, a corto di argomenti, afferma che il suo eroe obbedì allora alla volontà di Dio (8, 5). Tanta prudenza rischiò di fallire il suo scopo e l'autorità di Cipriano si trovò gravemente compromessa. Alcuni confessori in esilio, ubriacati dal loro prestigio, commisero vari abusi e soprattutto scoppiò la questione dei lapsi, cioè di coloro che avevano abiurato la loro fede.

San Cipriano da Cartagine, Estratto dalle Omelie di Gregorio Nazianzeno Ms gr. 510, Parigi

San Cipriano da Cartagine

Dalle Omelie di Gregorio Nazianzeno

Ms gr. 510, Parigi

La massa dei lapsi aveva obbedito a diverse motivazioni e Cipriano lo sapeva (Ep. 55, 13-14): la maggior parte di loro non intendeva affatto rinunciare alla fede e ben presto cominciò a sollecitare, spesso con vivacità, la riammissione nella Chiesa. Non è sicuro che a Cartagine la condotta al riguardo degli apostati sia stata a quel tempo nettamente definita; due cose però erano ben chiare: nulla poteva esser fatto all'insaputa del vescovo e senza una dura penitenza. Ora, in sua assenza alcuni preti, per misericordia, lassismo o ambizione, avevano riconciliato indiscriminatamente dei lapsi. Cipriano ne fu indignato (Ep. 17, 2, 1), tanto più che i suoi preti, imbarazzati e forse irritati dalle lettere ricevute, non gli rispondevano più. Per il momento, in attesa del ritorno, Cipriano all'inizio dell'estate, stagione malsana, consentì di ammettere alla comunione della Chiesa i lapsi gravemente ammalati o in punto di morte qualora avessero ottenuto un biglietto di indulgenza da un confessore. Si delineava, insomma, un conflitto fra l'autorità del vescovo e quella dei confessori, a cui la tradizione riconosceva un diritto di intercessione. In quel momento però gli abusi si moltiplicavano, i biglietti erano rilasciati collettivamente ed alcuni confessori ne distribuivano a nome di loro compagni morti nel frattempo (Ep. 22). In seguito alle pressioni di Cipriano (Ep. 15), i «martiri» finirono per riconoscere esplicitamente il diritto eminente del vescovo, ma in termini secchi (Ep. 23) e senza ricredersi sulle indulgenze accordate, la cui autenticità era difficile da stabilirsi - ammesso che i lapsi, imbaldanziti, avessero accettato un tale esame. La linea di condotta adottata da Cipriano in questo momento di difficoltà è molto istruttiva circa i suoi metodi di governo: con acida ironia, egli consiglia ai lapsi, se davvero desiderano essere in pace, di correre al martirio che ancora potrebbero affrontare; ma soprattutto scomunicando i fautori della riconciliazione indiscriminata (Ep. 34), egli rinvia ogni decisione definitiva al Concilio che al suo ritorno dovrà riunirsi alla presenza dei preti e dei laici fedeli (Ep. 19). Ci tiene ad agire in accordo col clero e coi confessori di Roma (Ep. 27-28) e così, sempre senza vescovo, il clero della capitale, attraverso la penna del prete Novaziano (Ep. 30 e 36), assolve Cipriano da ogni sospetto ed approva le sue riserve. Ben presto però dalla questione penitenziale nacque uno scisma: i cinque preti che si erano mostrati ostili all'elezione di Cipriano a vescovo, capeggiati dal «criminale» Novato (cosi lo chiama Cipriano stesso in Ep. 52, 2), predicano l'indulgenza e si mettono a capo di una rivolta. Partito per Roma all'inizio del 251, Novato lascia ad un laico che egli aveva fatto ordinare diacono, Felicissimo, il compito di tener unita la sua fazione.

Dal luogo in cui si era rifugiato, Cipriano scomunica i ribelli (Ep. 41-43). Mentre la persecuzione si andava estinguendo (Decio, d'altro canto, impegnato nella guerra contro i Goti doveva morire sotto i loro colpi, senza dubbio nel giugno del 251), i disordini ritardano tuttavia il ritorno del vescovo, che rientrava nella sua città solo dopo Pasqua. Subito si riunì il concilio annunciato. Esso regolò innanzitutto la sorte dei lapsi, perdonando i libellatici ed imponendo ai sacrificati un periodo di penitenza, a meno che essi non fossero in punto di morte (Ep. 55-59). Sicuramente in questa occasione Cipriano diede lettura del suo trattato De lapsis. La norma era stabilita, e a partire da questo momento Cipriano si attenne senza protestare a tale linea di prudente carità. Più duro da risolvere era invece lo scisma. Sicuramente il Concilio sottoscrisse la scomunica di Felicissimo; ma a Roma, nel marzo del 251, Cornelio era appena stato eletto papa e Novaziano, che da molto tempo pensava di meritare l'episcopato, si mise apertamente contro di lui e si fece ordinare vescovo: era sostenuto da alcuni confessori e, benché appoggiato da Novato, adottò una politica di assoluta intransigenza nei confronti dei lapsi. Inviò subito a Cartagine alcuni suoi emissari; il Concilio agì con ponderazione e rifiutò di ricevere gli emissari di Novaziano, senza però riconoscere ufficialmente Cornelio, il quale si adombrò comunque per questo fatto (Ep. 48). Infine, in base alle relazioni dei vescovi africani presenti a Roma, Novaziano non fu riconosciuto (Ep. 45) e Cipriano ottenne che i confessori fautori dell'antipapa rientrassero in comunione con il vescovo legittimo (Ep. 46-47; Ep. 49-51 e 53-54).

Questa serie di avvenimenti (sicuramente lo scisma cartaginese, ma forse anche lo scisma romano) ispirò la redazione e la lettura davanti al Concilio (i cui lavori, vista la complessità della questione, si prolungarono in modo anormale) del De catholicae eccIesiae unitate. Il secondo semestre del 251 e l'inizio del 252 portarono al pacificarsi delle ultime discordie. Felicissimo aveva fatto eleggere vescovo a Cartagine un certo Fortunato e inoltre intrigava a Roma, presso il papa, che Cipriano esortava a resistere alle manovre (Ep. 59). I novazianisti si davano da fare in Africa (anche loro avevano nominato un vescovo a Cartagine) e così nell'Ep. 55 Cipriano difende le posizioni prese dal Concilio del 251 in materia penitenziale e mette in guardia contro gli intrusi. Nel 252, di fronte alla minaccia di una nuova persecuzione che non scoppiò, i vescovi, nel Concilio annuale, riammisero alla comunione della Chiesa tutti gli apostati che avevano dato una prova soddisfacente di pentimento (Ep. 57). Al puritanesimo esclusivo ed al lassismo che rischiava di dissolvere la Chiesa, Cipriano aveva contrapposto la sua concezione ecclesiologica, radicata nella tradizione (cfr. Ignazio di Antiochia) e non priva di rapporti con l'ideale romano della concordia: quella di un popolo unito, pur nella sua diversità, attorno al vescovo col suo atteggiamento di prudenza nell'attesa di una decisione, di moderazione nei confronti di chi si fosse pentito di aver apostatato e di fermezza, a decisione presa, nei confronti di chi avesse assunto un atteggiamento di intransigenza, Cipriano era riuscito a riaffermare la sua autorità, che temporaneamente era stata messa in forse.

 

 

Pontefici di Dio nella rovina del mondo

La peste che infuriava nell'Impero devastò l'Africa negli anni 252-254. Cipriano diede prova del suo coraggio e della sua carità: tra la demoralizzazione indotta da quel flagello (Ponzio, 9), esorta il suo popolo a non temere la morte (De mortalitate), e a praticare verso tutti, compresi i pagani, le opere di misericordia (De opere et elemosynis), pagando di persona e tenendo testa ai pagani che accusavano i cristiani (e il loro capo: «Cipriano ai leoni» Ep. 59, 6, 1) di scatenare, con la loro empietà, la collera degli dei (Ad Demetrianum).

Nella Numidia attaccata dai barbari, un gran numero di cristiani fu fatto prigioniero, e Cipriano fece giungere ai vescovi di una regione la somma ricavata da una colletta, da destinarsi al loro riscatto (Ep. 62). L'esilio di Cornelio e poi di Lucio gli diede l'occasione di esaltare il vescovo confessore e nel frattempo si ritenne in dovere (Ep. 66) di difendere il suo prestigio episcopale contro un certo Fiorenzo che insieme ad altri, lo accusava di superbia.

 

 

«Papa» d'Africa e papa di Roma

Nel 254 Stefano succedette a Lucio: i conflitti iniziarono assai presto, turbando quell'atmosfera che fino allora era prevalsa nei rapporti tra Roma e Cartagine. Basilide e Marziale, vescovi spagnoli che erano stati deposti per la loro condotta indegna, in particolare durante la persecuzione, cercavano di riappropriarsi della cattedra episcopale: Stefano accolse l'appello del primo dei due. Nella sua risposta alle comunità coinvolte nella questione, che avevano presentato il loro caso davanti ad esso, il Concilio africano, celebrato sicuramente nell'autunno del 254, sconfessò la decisione del papa che, ingannato, avrebbe agito inopportunamente, e giustificò la deposizione adducendo come motivo il fatto che non si doveva essere in comunione con vescovi che si erano macchiati di colpe. In seguito (o forse simultaneamente), in termini che non concedevano spazio a repliche, Cipriano invitò Stefano a provvedere alla sostituzione di Marciano, vescovo di Arles, che aveva aderito allo scisma di Novaziano (Ep. 68). Ciò significava, nel contempo, riconoscere il ruolo di guida della cattedra episcopale romana e dare una lezione a chi presiedeva ad essa, con un tono che dovette suonare sgradito a Stefano, a quanto sembra di carattere ombroso ed autoritario. Ad esasperare questi malintesi, subentrò la controversia sul battesimo.

Si dovevano ribattezzare gli eretici pentiti - quelli, ovviamente, che non erano stati battezzati nella Chiesa cattolica, avendo aderito al cristianesimo predicato dai dissidenti ? - Da almeno una cinquantina d'anni, l'Africa (Proconsolare e Numidia) aveva risposto affermativamente: la stessa risposta era stata data dalle Chiese dell'Asia Minore e da quelle della Siria (attorno ad Antiochia), in base ad una pratica ancor più antica (Ep. 75, 19, 3). A Roma e, forse, in Egitto, ci si limitava all'imposizione delle mani. La Mauritania esitava sul problema, che era tornato attuale a causa del progressivo riassorbimento degli scismi nati negli anni precedenti. A partire dall'Ep. 69, Cipriano elabora il suo sistema di argomentazioni, che peraltro era già presente in embrione negli scritti precedenti. Gli eretici, separandosi dalla Chiesa cattolica, perdono lo Spirito Santo e non possono comunicarlo ad altri. Nella primavera del 255, rispondendo ad un gruppo di vescovi numidi, il concilio ribadisce il punto di vista e Cipriano comunica a Quinto, mauritano, tale decisione.

Da allora, Stefano aveva dovuto affermare il diritto, a suo giudizio esclusivo, della tradizione seguita dalla cattedra di Pietro. Cipriano adotta pertanto una duplice tattica: sul piano delle idee, contesta che la «consuetudine» possa averla vinta sulla «ragione», rivendicando con decisione almeno la legittimità del comportamento disciplinare africano; sul piano della procedura, agisce conciliarmente all'interno dei sinodi africani. Così, dopo il concilio del 255, o piuttosto all'epoca di quello della primavera del 256, indirizza a Stefano una lettera sinodale sottoscritta da 71 vescovi e nel contempo invia a Giubaiano di Mauritania l'importante Ep. 73, con una copia delle Epistulae 70 e 71. Poiché il papa rispose che «non si doveva introdurre alcuna innovazione ma ci si doveva attenere alla tradizione», trattando alla stregua di scomunicati gli emissari della Chiesa d'Africa (Ep. 75, 25, 1), Cipriano mise insieme un'ultima volta i suoi argomenti in una lettera a Pompeo, senza dubbio vescovo di Sobrate (Tripolitania) e in seguito, il 10 settembre 256 un concilio di 87 vescovi venuti soprattutto dalla Proconsolare e dalla Numidia riaffermò all'unanimità la tradizione africana, con velata disapprovazione della condotta di Stefano.

La questione, per quel che ne sappiamo, restò in sospeso. Cipriano fu realmente scomunicato dal papa ? In ogni caso sembra aver intrattenuto buoni rapporti con Sisto, successore di Stefano. Tuttavia, in attesa delle lontane conseguenze della controversia, la questione battesimale, se aveva dato prova dell'ascendente di cui Cipriano godeva ormai incondizionatamente in Africa, aveva anche messo ben in luce il suo acuto senso dell'autonomia della Chiesa e la sua prudenza quando si trattava di affrontare il problema del primato del vescovo di Roma: non era possibile trattare Stefano, vescovo legittimo e - ciò che più conta vescovo di Roma - come Novaziano: allo stesso modo, egli si astenne, malgrado una certa acredine abituale quando si contestava la sua autorità, dalle ingiurie lanciate da un Firmiliano di Cappadocia (Ep. 75).

 

 

Il sigillo del martirio

In un primo tempo ben disposto verso i cristiani, secondo quanto ci riferisce Eusebio di Cesarea (Rist. Eccl. 7, 10, 3), l'imperatore Valeriano divenne persecutore sotto l'influenza di Macriano, pagano fervente e ministro delle Finanze, che pensava a rinsanguare le tasse dell'erario con le ricchezze dei cristiani. Nell'agosto del 257 un editto proibì ogni riunione ed impose ai membri del clero di sacrificare, pena l'esilio. Cipriano fu confinato a Curubis: imbarazzato, Ponzio confessa che il soggiorno in riva al mare, non lontano da Cartagine, non fu assolutamente spiacevole, e attribuisce questo favore alla provvidenza divina. Il vescovo, che non manca di esortare i confessori condannati ai lavori forzati nelle miniere della Numidia (Ep. 76), appena giunto al luogo di confino avrebbe avuto, secondo il suo biografo, una visione che sulle prime gli fu incomprensibile e che preannunciava la sua decapitazione per l'anno successivo.

Le cose andarono proprio costo Nell'agosto del 258 Cipriano, ritornato a Cartagine (non si sa per quale motivo), dà notizia dell'imminente pubblicazione di un secondo editto che commina la pena di morte ai membri del clero (Ep. 80). In un luogo sicuro, aspetta il ritorno del proconsole Galerio Massimo (Ep. 81). Il 13 settembre, quando Galerio è già a Cartagine, Cipriano si lascia arrestare: il proconsole, indisposto, rimanda l'interrogatorio all'indomani e Cipriano, circondato di attenzione e attorniato da tutto il suo popolo, passa la notte in casa di un ufficiale. Per quanto riguarda il 18 dalle calende di ottobre sarebbe inutile, dopo la commovente sobrietà degli Atti proconsolari che non contraddice affatto la versione di Ponzio, pretendere di darne ancora una resoconto. La grazia del martirio coronava, secondo il desiderio di Cipriano, il suo ministero episcopale.

 

 

La misura di un'opera

Non si può separare la vita di Cipriano dalla sua opera; tuttavia sarebbe fuori luogo sviluppare in questa sede una «teologia di san Cipriano». Ma come si può dimenticare che egli fu il primo padre della Chiesa latina nel senso autentico del titolo ? Allo stesso modo i suoi scritti, più ancora di quelli degli altri Padri, sono tutti di circostanza, prolungandone l'attività pastorale nello stesso momento in cui la chiariscono. La coerenza della vita di Cipriano, considerata sotto questa luce ormai fissa, si rivelerà meglio, al di là dell'incerto fluire degli avvenimenti. L'opera, di modeste dimensioni, oltre alle 81 (forse 82) Lettere (effettive 59, uscite direttamente dalla penna del vescovo) comprende anche tredici trattati. Cinque sono già stati citati e collocati storicamente: L'unità della Chiesa cattolica, I «lapsi", Sulla morte, Le opere e l'elemosina, A Demetriano. Aggiungiamo ad essi due omelie (o trattati scritti sotto forma di omelia), databili all'epoca della controversia battesimale: il De bono patientiae («La virtù della pazienza» cfr. Ep. 73, 26, 2) e il De zelo et livore («La gelosia e l'invidia»).

Estratto da un'antologia di Omelie di Gregorio Nazianzeno (XII secolo): san Cipriano al lavoro (in alto) e san Gregorio mentre scrive il panegirico di san Cipriano (in basso). Ms. gr. 548, fol. 87v. Biblioteca Nazionale di Parigi

san Cipriano al lavoro (in alto) e san Gregorio

mentre scrive il panegirico di san Cipriano (in basso)

Il De dominica oratione («La preghiera del Signore») è un commento al Pater, forse pronunciato davanti ai neofiti: come già il De bono patientiae, ed anche come un altro trattato, il De habitu virginum («Il contegno delle vergini»), esso è ispirato ad un trattato di Tertulliano di argomento affine. Le quattro ultime opere hanno una fisionomia molto particolare. I tre libri di Testimonianze a Quirino costituiscono un florilegio di brani tratti dalla Scrittura (Cipriano cita la Bibbia secondo una versione fatta in Africa, ormai fissata), erede delle ormai tradizionali raccolte di estratti e destinato, per i primi due libri, a dimostrare il rifiuto dei giudei e la verità del cristianesimo, mentre il terzo, la cui autenticità è stata un tempo messa in discussione, ricava dalle Scritture, in 120 paragrafi male ordinati, i principi dell'azione morale e spirituale del cristiano.

Appartiene allo stesso genere (più che di «scrivere un commento suo», Cipriano ha l'intenzione di «fornire il materiale a chi scriverà un commento» (Quir., prol.; Fort., prol. 3, ma in quest'altro trattato sono più frequenti i suoi interventi personali) il trattato A Fortunato sull'esortazione al martirio. Il Quod idola dii non sint (Gli idoli non sono dei), centone di Tertulliano e di Minucio Felice, pare autentico, anche se le liste antiche (enumerazione retorica di Ponzio, 7; catalogo del 359) non lo menzionano: Girolamo e Agostino, però, lo conoscono. Infine nel dialogo Ad Donatum, il racconto della conversione (il primo del genere in latino) - tributario senza dubbio della tradizione pagana (Apuleio) e cristiana (Paolo e Giustino) e lontano modello delle Confessioni di Agostino prende forma di contrapposizione fra la melma della corruzione e la luce del battesimo che, inondando il credente, lo rinnova del tutto in un istante.

 

 

Sacramentum unitatis

Così dispersa, la sua opera non assomiglia affatto ad una Summa theologica. Si spiegano anche per questo anche i silenzi: non si trova traccia di speculazioni sulla Trinità, sulla cristologia (il cristocentrismo di Cipriano è di evidenza lampante, ma si attiene alle formulazioni della Scrittura ed il Salvatore è contemplato nella Chiesa), sullo Spirito Santo (che tuttavia è sentito come una presenza sempre vicina.)

Le condizioni hanno voluto che l'opera di Cipriano fosse incentrata sul mistero della Chiesa (mai dimenticato, nemmeno nei trattati di argomento morale più «specialistici»), cioè sul mistero dell'unità nella vita divina. Si è visto come fu risolto il problema dei lapsi. I critici discutono ancora se l'apostasia, fino al 251, fosse in Cartagine un peccato irremissibile: Quir. 3, 28 ne reca forse la traccia. Immediatamente, la dottrina di Cipriano sulla penitenza precisa due principi.

Il ruolo centrale rivestito dall'assoluzione impartita dal vescovo non impedisce che Dio solo, che conosce la profondità del pentimento, perdoni (Laps. 17; Ep. 55, 18, 1), e forse il peccatore assoluto dovrà ancora pagare nell'aldilà (Ep. 55, 20, 3): il «prete» (sacerdos, termine che in Cipriano designa, in linea di massima, il vescovo) altro non è che un «servo» che non può ingerirsi nei diritti del Signore. D'altro canto il pentimento non è un merito che estorce il perdono: è rinuncia a se stessi, abbandono alla grazia di Dio. Ciò detto, affrontando il problema dell'Eucarestia, arriviamo al centro del pensiero di Cipriano. Memoriale della Passione (della Cena e, nel contempo, della Croce: cfr. Ep. 63, 7, 1), essa unisce le membra del Corpo al Capo, come l'acqua e il vino nella coppa ed i chicchi di grano frantumati nell'unica pasta del pane (Ep. 63, 13). Al centro, il vescovo: il popolo offre il sacrificio con lui (Orat. 4), che «porta la persona del Cristo» (Ep. 63, 14, 4). Per opera del suo ministero, la comunità si realizza. A partire da questa concezione liturgica e mistica, non giuridica, tutto si chiarisce. L'unità visibile giustifica per Cipriano la non validità del battesimo degli eretici. La vita divina è comunicata nella Chiesa, Sposa e Madre, trionfo percepibile dello Spirito, la cui unità procede da quella delle Tre Persone, da essa efficacemente significata (unitatis sacramentum, Unit. 7, cfr. 5-6; Orat. 23): nessuno può tagliarsi fuori da questa unità, nell'eresia o nel peccato punito dalla Chiesa (Ep. 65; 67; 68), e comunicare la vita. La pretesa insufficienza della teologia sacramentale di Cipriano non costituisce di fatto altro che la logica conseguenza della sua ecclesiologia, ma si deve anche tener conto che l'ambiguità che si crede scorgere in essa (egli rivendica niente altro che il secondo battesimo come una tradizione da considerarsi legittima), si spiega pensando alla sua fede in un Dio di misericordia abbastanza potente per salvare al di fuori delle regole (Ep. 73, 23, 1), ma anche ricordandosi della sua preoccupazione per l'unità di tutti i vescovi tra loro (ibid., 26, 2).

Il vescovo, o meglio l'unicità del vescovo nella chiesa locale, è segno e garanzia dell'unità della Chiesa. In questo senso, Cipriano afferma a buon diritto che «il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa è nel vescovo» (Ep. 66, 8, 3). Ogni vescovo è Pietro nella sua Chiesa, secondo una successione regolare che lo riconnette alle origini, all'unica roccia (Ep. 43, 5): l'intruso che spezza questa catena non si ricongiunge a nulla (Ep. 55, 8, 4). Ora, la Chiesa universale è una: la comunione reciproca dei vescovi, successori degli apostoli che, tutti insieme, hanno ricevuto le promesse fatte inizialmente al solo Pietro (per manifestare l'unità, Unito 4 TR), garantisce questa unità e, per il tramite del suo unico vescovo in comunione con i suoi coepiscopi [colleghi di episcopato], ogni Chiesa locale si inserisce nella Chiesa universale. In questo risiede il duplice significato dell'evangelico Tu es Petrus (Unit. 4, nelle due recensioni) e Cipriano, con grande consequenzialità logica, vede nel successore di Pietro sulla cattedra di Roma (Ep. 59, 14) il centro della comunione.

Tutto ciò in termini moderni non implica affatto un primato di giurisdizione, ma a quanto pare una missione di discernimento in accordo almeno con le Chiese interessate, attinente alla comunione di questo o quel vescovo o preteso tale: di qui, volta per volta, la facoltà riconosciuta a Cornelio di informarsi al riguardo del caso di Felicissimo e di Fortunato (Ep. 59) e l'ingiunzione rivolta a Stefano a proposito di Marciano, o i rimproveri a lui mossi al riguardo di Basilide e Marziale, vescovi regolarmente deposti. La responsabilità del vescovo, la sua legittima autonomia entra in stretto rapporto con la ricerca conciliare di norme disciplinari comuni (Ep. 55, 21) di un'intesa con Roma, espressione pratica del comune sentire che anima i vescovi.

 

 

Servi di Dio

Il vescovo è servo dell'unità; la giustificazione teorica di un ruolo storico, fin nei suoi paradossi, si sviluppa spontaneamente in spiritualità. E quest'ultima, che per quanto ci è consentito cogliere traduce un'esperienza personale, fornisce anche un insegnamento generale, dal momento che il vescovo appare in qualche modo come il culmine della sua realizzazione. Innanzitutto nello stile di Cipriano si manifesta l'equilibrio del divino e dell'umano, o piuttosto il compimento in Dio dei doni umani: di qui, volta per volta, la trasparenza classica della frase (dopo l'Ad Donatum) e il fatto di trascurare gli autori pagani che avevano nutrito la cultura del retore. Più esattamente, Cipriano cita in forma esplicita solo la Bibbia («lettura divina» e preghiera debbono insieme dare vita, per così dire, ad un'assidua conversazione con Dio: Don. 15), ma la sua lingua è intessuta non meno di reminescenze scritturistiche che di un buon numero di echi, forse inconsapevoli, di autori profani. Lo stile testimonia così di una conversione completa della penna e della vita, e nel contempo di una fermezza nella grazia che senza dubbio costituisce una proiezione del carattere, ma che esclude ogni precipitazione (Ep. 54, 3, 3; cfr. Ponzio, 6).

Il centro di gravità collocato in Dio spiega la profonda compatibilità che per Cipriano si stabilisce fra due tratti, l'uno dei quali facilmente sorprende: il pastore equilibrato, erede quasi dei magistrati romani, appare anche nelle vesti di visionario, in accordo con la mentalità del tempo. I fanciulli hanno visioni attorno a Cipriano (Ep. 16, 4, 1), ugualmente i vescovi (Mort. 19) e, dopo la sua morte, i martiri, come già circa cinquant'anni prima Perpetua in prigione: i miracoli narrati in Laps. 24-26, a proposito delle profanazioni eucaristiche, la fede nella forza tangibile degli esorcismi (Don. 5) dipenderebbero dalla stessa condizione spirituale. In entrambi i casi si ritrova l'intenzione di obbedire alla volontà di Dio, di non far nulla fuori dal tempo da lui stabilito (Ep. 5, 2) o da ciò che nella sua potenza Egli ancora oggi rivela.

E' chiaro che un simile rifugio in Dio è condizionato dalle circostanze in cui Cipriano visse. La solidità della fiducia si alimenta di un'esasperata attesa escatologica: la fine del mondo è alle porte, e nel drammatico invecchiare del creato la sola fede, speranza e già possesso di vita futura, può sostenere l'uomo. Questo «vigore» (parola che Cipriano usa spesso) riveste facilmente l'aspetto di una resistenza o, più violentemente, di un conflitto (il cristiano è un soldato che milita nell'esercito di cui Cristo è l'imperator, e i vescovi sono i suoi furieri, Ep. 55, 4) contro l'agitazione degli eretici e il livore dei pagani, a cui Cipriano rivolge l'ardente invito a convertirsi (cfr. Dem. 23), che sono le due facce dell'unica rivolta di un tentatore che si infiltra anche tra i fedeli (Mort. 4-5). Tuttavia, questa contrapposizione non esprime l'intera concezione dell'uomo e del cristiano in Cipriano. L'essenziale sta nella tensione tra il dono battesimale dello Spirito - ed il vescovo afferma che esso si estende a tutti, bambini compresi (Ep. 64) o ammalati che hanno ricevuto solo il battesimo di chi è costretto a letto, e non la totalità dei riti (Ep. 69): la sola misura, almeno presso gli adulti, è la fede -, grazia originale che va preservata (Orat. 12: la terminologia storica non deve trarre in inganno), e il cammino al seguito del Cristo.

La visione teologica di Cipriano si riassume dunque nella correlazione tra il ruolo di figlio, immagine di Dio, e quello di servo, creatura che si svuota di sé per lasciarsi invadere dallo Spirito (Don. 5), dal momento che i precetti ai quali il servo nel suo timore obbedisce altro non sono che l'«oggettivazione» e la condizione di piena fioritura della vita che il figlio porta in sé, e che l'intimazione è generosità del figlio che assomiglia al Padre e conformazione al Servo sofferente. A questo punto, si chiarisce il rapporto tra il martirio, il vescovo e l'Eucarestia. Il combattimento del martirio è perfezione della fede, di modo che (anche se l'affermazione talvolta riceve connotazioni polemiche, contro le pretese dei confessori), tutta la vita cristiana prepara a questo dono totale di sé, o si sostituisce ad esso (Mort. 17; Zelo 16). Cipriano torna spesso sul rapporto di affinità esistente tra il sacrificio eucaristico e quello del martire (Ep. 76, 3, 1). A sua volta il vescovo, uomo della Parola e ministro consacrato, con la sua confessione proclama di fronte al mondo ciò che insegna ai discepoli, e con la morte completa il significato dei misteri che dispensa: secondo un'espressione cara a Cipriano, Egli fa ciò che insegna. L'opposizione tra carisma ed istituzione è superata, in un'offerta in cui si consuma un'intera comunità riunita attorno al suo pastore (Ep. 81).

 

 

Cipriano nella storia ... fino all'invasione araba

Una simile armonia tra parole ed opere, innanzitutto nuova per la chiarezza del suo disegno in un momento decisivo per la crescita e la coesione della Chiesa, non mancò di suscitare profonda impressione nei contemporanei. Si è visto il fervore di Ponzio. Nei mesi successivi alla sua morte, Cipriano appare a molti confessori imprigionati (Passo Montani, 11 e 21; Passo jacobi et Mariani, 6). Il suo prestigio letterario è immenso e il corpus degli scritti doveva ancora ampliarsi per il confluire di un certo numero di apocrifi che Cipriano non può aver scritto (è il caso de De rebaptesimale, ostile alla consuetudine di ribattezzare gli eretici), o che si debbono attribuire a Novaziano. All'inizio del IV secolo, Lattanzio tesse un vibrante elogio di Cipriano scrittore, lamentando che non possa essere gustato da chi vive fuori dalla fede.

La fama del martire si estende ulteriormente. A Roma è festeggiato già dalla metà del IV secolo ed associato a Cornelio come dimostra la loro comune iscrizione nel Canone della messa. Le sue opere sono lette in tutto l'Occidente, e si può seguire la traccia di molte reminescenze ciprianee presso gli scrittori latini tardi. Onore raro, una parte dei suoi scritti è tradotta in greco, e possediamo frammenti di traduzioni in siriaco ed in armeno. In Oriente però la sua memoria ebbe una storia singolare: Cipriano fu confuso con il leggendario mago Cipriano di Antiochia, la cui leggenda ha vari punti di contatto con quella di Faust: l'Oratio di Gregorio Nazianzeno (In laudem sancti Cypriani) ce ne fornisce una testimonianza. Questa confusione penetrò anche in Occidente, dal momento che Prudenzio, nell'inno che dedica al «dottore dell'universo» (Peristephanon, 13), vi fa allusione (vv. 21-24) e che Isidoro di Siviglia riassume così la carriera del santo: «Da mago, Cipriano divenne vescovo e martire». Ma la fortuna maggiore Cipriano l'ebbe in Africa. Alcune sue reliquie sono forse disperse nelle chiese del paese, e Cartagine nel corso del IV-V secolo gli dedica due o tre luoghi di culto.

Attorno alla mensa Cypriani, come attorno alla sua tomba, si celebrava la festa dei Cypriana, in prossimità delle tempeste equinoziali a cui i marinai avevano dato lo stesso nome; sulla tomba, in onore del santo, il popolo teneva danze e banchetti che il vescovo Aurelio seppe certamente trasformare in veglie di preghiera. Nulla di strano, allora, se i donatisti esaltarono la protezione del martire, tenendo le sue opere quasi nella stessa considerazione in cui tenevano la Bibbia. Preoccupati di conservare una Chiesa senza macchia, rimanevano fedeli - e con intransigenza - alla tradizione del secondo battesimo che i cattolici, nel frattempo (IV secolo), avevano abbandonato. Il che determinò la messa a punto della questione da parte di Agostino. Questi predicò per l'anniversario di san Cipriano, a Ippona o a Cartagine (cfr. Serm. 309-313); l'Ad Donatum aveva in qualche modo preparato la via alle Confessioni, benché l'autore del De doctrina christiana, che del resto ammira lo stile di Cipriano, giudichi con severità l'eleganza estetica del suo prologo.

Agostino lesse anche il De Unitate e sembra conoscere la prima recensione del capitolo IV, guardandosi bene dall'insistere troppo sul primato romano che essa implicherebbe. Soprattutto, fuori dalla controversia donatista (cfr. De baptismo libri VII), l'abilità dialettica dell'anziano retore coglie, a nostro parere, il nodo centrale della questione: Cipriano, la cui autorità non era infallibile, ha potuto sostenere il secondo battesimo (non senza concessioni che la sua carità avesse giudicato affatto rovinose), ma non ha mai voluto rompere la comunione dei vescovi. Perciò questa constatazione del polemista cattolico ci pare dirimere il dibattito circa la legittimità, alla luce della dottrina ciprianea, dell'uno o dell'altro partito che dividevano allora la comunità d'Africa.

 

 

Peregrinazioni medievali

Anche il Medioevo legge e medita le opere di Cipriano: il numero dei manoscritti (circa 200, dal V secolo in avanti) che conservano la sua opera lo sta a dimostrare. Ma «al di là del mare, il suo culto appare ora meno popolare, come testimonia la rarità delle rappresentazioni iconografiche. Certo in quei secoli si credeva, garanti alcuni letterati carolingi, che le reliquie del santo fossero state trasportate da Carlo Magno ad Arles e poi a Lione (quanto al modo, le testimonianze sono discordi): di lì sarebbero arrivate sia a Compiègne, insieme a quelle di Cornelio, nell'abbazia fondata verso l'anno 887 da Carlo il Calvo, o piuttosto nel celebre monastero di Moissac, dove si trovano attestate senza interruzione a partire dal 1125, e dove se ne festeggiava la traslazione il 5 luglio. Peraltro il trasferimento da Cartagine ad Arles manca di ogni fondamento storico. Più solido è l'influsso dottrinale di Cipriano. Già il concilio di Efeso (431) lo ammetteva tra le dieci autorità che garantivano la condanna di Nestorio, e l'elenco De libris recipiendis dello pseudo Gelasio (VI secolo) approva la lettura della sua opera. Non è cosa di poco conto che la versione «filoromana» di Unit. 4 si trovi citata esplicitamente in un documento scritto di pugno da un papa, Pelagio II (579-590) e che la formula «al di fuori della Chiesa non c'è salvezza» sia divenuta proverbiale, con un'estensione che Cipriano non avrebbe mai pensato.

Tuttavia, l'eredità maggiore di Cipriano consiste innanzitutto nella sua ecclesiologia. Di qui, le controversie sulla nozione del «primato» petrino: l'equilibrio di Cipriano in materia può essere illuminante nel dibattito interconfessionale - partecipazione forse inattesa di colui che definisce così strettamente le «frontiere» della Chiesa. Infine, il Concilio Vaticano II cita per tredici volte Cipriano: dieci citazioni ricorrono nell'enciclica Lumen gentium: la concezione ciprianea del vescovo e del Corpo mistico è l'oggetto della maggior parte delle allusioni, segno dell'ascendente che, ancora oggi, esercitano il pensiero del martire cartaginese e le sue implicazioni spirituali e pastorali.

 

 

Dies Natalis

Così il giorno dopo, cioè il quattordici di settembre, di prima mattina, secondo quanto aveva ordinato il proconsole Galerio Massimo, una gran folla si radunò nella villa di Sesto, e il proconsole Galerio Massimo, quel giorno medesimo, ordinò che venisse condotto al suo cospetto Cipriano: lui, ancora malato, stava nell'atrio. Come gli fu portato dinanzi, il proconsole Galerio Massimo disse al vescovo Cipriano: "Sei tu Tascio Cipriano ?". Il vescovo Cipriano disse: "Sì". Il proconsole Galerio Massimo disse: "I santissimi imperatori ti hanno ordinato di compiere i sacri riti". Il vescovo Cipriano disse: "Mi rifiuto". Galerio Massimo disse: "Bada a te". Il vescovo Cipriano disse: "Fa' quel che ti è stato ordinato; in una faccenda tanto ingiusta, non c'è bisogno di alcuna riflessione". Il proconsole Galerio Massimo, dopo aver conferito con quelli del consiglio, disse: "A lungo sei vissuto in sacrilegio, hai unito a te altri uomini viziosi come compagni di seduzione e ti sei fatto nemico degli dei romani e delle sacre leggi, e neppure i pii e santissimi principi Valeriano e Gallieno e il nobilissimo Cesare Valeriano sono riusciti a richiamarti all'osservanza dei loro sacri riti. Quindi, poiché sei stato arrestato come ispiratore e vessilifero di un crimine atrocissimo, tu stesso servirai da esempio a coloro che hai unito a te nel tuo crimine: l'ordine pubblico sarà confermato col tuo sangue". E lesse la sentenza dalla tavoletta: «Tascio Cipriano è condannato alla pena capitale».

Il vescovo Cipriano disse: "Grazie a Dio". Udita la sentenza, la folla dei confratelli diceva: "Che anche noi veniamo decapitati con lui!". Nacque così un tumulto di cristiani, e una gran moltitudine seguì Cipriano. Poi fu condotto nel campo di Sesto, dove si tolse il mantello e lo distese nel punto in cui intendeva inginocchiarsi, poi si tolse la dalmatica e la consegnò ai diaconi, restando con indosso la sola veste di lino; e si mise ad aspettare il carnefice. Arrivato che fu il carnefice, ordinò ai suoi di dargli venticinque aurei. I confratelli gettarono ai suoi piedi salviette di lino e asciugamani; Cipriano si coprì lui stesso gli occhi, ma non riuscendo a legare le bende da solo, il prete Giuliano e il suddiacono Giuliano gliele legarono. Poi il vescovo Cipriano fu giustiziato, e il suo corpo, per proteggerlo dalla curiosità dei gentili, fu tenuto nelle vicinanze. La notte seguente però il suo corpo fu rimosso da lì e portato tra fiaccole e torce nel cimitero del procuratore Macrobio Candidato, sito nella via delle Capanne presso la piscina, con gran gioia e tripudio. Pochi giorni dopo il proconsole Galerio Massimo morì".

Acta Cypriani, in Atti e Passioni dei martiri

 

 

L'ultima lettera (Ep. 81)

Cipriano saluta i preti, i diaconi e tutto il popolo Poiché ci è stato riferito, fratelli carissimi, l'invio di " frumentarii " con l'ordine di condurmi ad Utica e che, dietro consiglio di amici carissimi, sono stato persuaso a lasciare per tempo la mia casa di campagna, per l'intervento di una giusta causa ho dato il mio assenso, perché è bene che un vescovo confessi la sua fede nella città stessa in cui presiede alla Chiesa del Signore e che tutto il popolo sia glorificato dalla confessione del suo capo, presente in mezzo ad esso. Tutto ciò che, nel momento stesso della confessione, il vescovo confessore dice, lo dice per ispirazione di Dio ed a nome di tutti. Inoltre, è sicuro che l'onore della nostra Chiesa tanto gloriosa ne sarebbe sminuito se io, vescovo preposto alla guida di un'altra Chiesa, dopo aver ricevuto in Utica la sentenza per la mia confessione, di lì raggiungessi come martire il Signore, quando io con preghiere continue supplico e con tutta la forza del mio desiderio desidero e sento come un dovere confessare la mia fede presso di voi, per la mia salvezza e per la vostra, tra voi patire il martirio e di tra voi raggiungere il Signore. Ci siamo perciò rifugiati in un posto sicuro e qui aspettiamo l'imminente ritorno del proconsole di Cartagine, disposti ad ascoltare da lui ciò che gli imperatori hanno disposto al riguardo del nome dei cristiani, laici e vescovi, pronti a dire ciò che in quel momento il signore vorrà che si dica.

Quanto a voi, fratelli carissimi, secondo quelle norme che avete ricevuto da me circa la volontà del Signore ed in conformità con ciò che avete appreso dal mio insegnamento, mantenete la pace e la serenità: nessuno di voi sparga il tumulto tra i fratelli o si consegni spontaneamente ai gentili. Solo se è arrestato e condotto in giudizio deve parlare, perché sarà Dio, che abita in noi, a parlare in quel momento, quel Dio che volle da noi una confessione più che una professione di fede. Ciò a cui, riguardo al resto, conviene che noi ci atteniamo, prima che il proconsole emetta la sua sentenza contro di me per la confessione del nome di Dio, lo decideremo sul momento, secondo ciò che Dio ci suggerirà di fare. Sani e salvi, fratelli carissimi, il Signore vi faccia rimanere nella Sua Chiesa e si degni di conservarvi così.