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Percorso : HOME > Africa agostiniana > Africa romana > RomanizzazioneAfrica romana: LA ROMANIZZAZIONE DELL'AFRICA
Peristilio di una villa romana a Cartagine
LA ROMANIZZAZIONE DELL'AFRICA
La romanizzazione di quel vasto territorio influì naturalmente anche sugli indigeni. Berberi e Cartaginesi cominciarono ad acquistare la mentalità romana e il latino diventò la lingua comune. Era già molto che l'esistenza di Cartagine preoccupava i Romani. La delegazione mandata nel 510 a.C. , in Africa con scopi commerciali li aveva informati sui famosi elefanti da combattimento e sul potere marittimo della sua rivale.
«Senza il nostro permesso voi Romani», si erano sentiti dire durante i lunghi negoziati gli ambasciatori di Roma, «non potete nemmeno lavarvi le mani nel mare». Cartagine era stata fondata nell'814 a. C. da colonizzatori fenici. In quel tempo la Fenicia era soltanto una stretta striscia di terra fertile con alle spalle montagne altissime coperte di foreste di cedri (i famosi cedri del Libano) e davanti il mare. Inevitabilmente i suoi abitanti si rivolsero in quella direzione.
Poiché erano largamente forniti di legno, costruirono navi e diventarono i primi navigatori d'alto mare, oltre che i fornitori della porpora imperiale, quel colorante naturale così apprezzato nell'antichità. La Fenicia era il Paese della Porpora. Le terre del Nordafrica su cui regnava Cartagine erano in realtà una grande isola fra un mare d'acqua e uno di sabbia. Nell'hinterland i monti boscosi dell'Atlante, - che si stendevano dal Marocco alla Tunisia, - contenevano altopiani abbastanza elevati per attirare piogge abbondanti. Innumerevoli corsi d'acqua, perenni e stagionali, andavano a sfociare nel mare, o si perdevano nel deserto. Col tempo, mentre i suoi possessi si estendevano dalla Cirenaica, - appartenente in quel tempo ai Greci, - a ovest lungo l'intera costa della Tripolitania, Cartagine si attirò l'invidia generale.
In tutte queste terre abbondava l'antica triade grano, olio e vino che è alla base della dieta dell'agricoltore mediterraneo.
La Tunisia era per Cartagine - come sarebbe stata un giorno per Roma - il centro della produzione granaria, e anche allora le sue zone interne erano rinomate per i loro grani duri. Sebbene Orazio l'avesse definita «quell'arida nutrice di leoni», e Plinio «un deserto popolato di elefanti», secoli di coltivazione avevano reso le sue pianure assolate famose per «quel docile grano che cresce in fitti, stretti filari», così intensamente coltivato al centro del paese (in continuo sviluppo con le sue ville ben protette) che nel libro dei Giudici della Bibbia si legge: «... vissero in Africa alla maniera dei Sidoni ... sicuri e tranquilli in un luogo dove non manca niente di ciò che la terra può offrire». Per proteggere le loro navi e il loro commercio, i Cartaginesi costruirono in un punto riparato del porto di Tunisi, su una penisola triangolare lunga sei miglia, le fortificazioni più munite che si conoscessero in quel tempo.
Le loro mura erano spesse più di undici metri e alte più di trentatré, con torri ogni sessanta metri per difenderle dagli assedi. Disponevano di stalle capaci di albergare 300 elefanti e 4.000 cavalli, e di caserme per un esercito assai numeroso. Il porto era considerato imprendibile, e forse lo era, se per farlo capitolare duecentomila soldati e quattrocento navi romane dovettero assediarlo per due anni. Dietro una diga si apriva lo stretto canale largo una ventina di metri, che tutte le navi dovevano percorrere e dove, per permetterne il passaggio, bisognava calare catene enormi.
Entrate nel vasto porto rettangolare riservato alla marina mercantile, le navi passavano attraverso un altro canale validamente difeso in un porto rotondo chiamato il cothon, capace di contenere 220 navi da guerra, ognuna nel suo dock riparato, e che faceva pensare a un grande portico circolare. Al centro sorgeva la Torre dell'Ammiraglio, alta una trentina di metri e sormontata da una colonna, da cui si potevano sorvegliare il mare aperto e i due porti. Con queste basi e il suo sicuro istinto commerciale Cartagine doveva diventare la maggiore potenza mercantile del mondo antico. La città e i suoi dintorni contenevano più di mezzo milione di abitanti. Ma non essendo divorati dalla sete rabbiosa di potere che cominciava a distinguere Roma, i Cartaginesi si accontentarono di fondare colonie commerciali ovunque lo reputassero conveniente. Si spinsero fino in Cornovaglia per acquistarvi stagno e costruirono fabbriche sulla costa della Spagna.
L'Africa proconsolare in età romana
Scacciarono dalla Sardegna gli indigeni, combatterono i Greci per impadronirsi della Sicilia, e da quello che ne sappiamo furono i primi circumnavigatori dell'Africa. Grazie ai Cartaginesi anche altri popoli ebbero i cavalli originari dell'Arabia, la ruota, e più tardi i carri. Sulle strade delle carovane venivano trasportati pepe, cannella - il «dono dei re» - noce moscata e mace (macis) proveniente dalla Malesia. Come tutti gli altri popoli, anche Cartagine commerciava in schiavi. Ma percorrendo le strade che tagliavano il Sahara le sue carovane portavano anche avorio, piume di struzzo, animali selvaggi e pelli. Era inevitabile che prima o poi Roma e Cartagine si affrontassero. Quando infine si decisero, le tre guerre puniche si prolungarono per 128 anni. Diventati in quel periodo anch'essi marinai, i Romani non definirono più il mare «il pascolo degli stolti». Nel 256 a.C. la loro seconda battaglia navale, al largo delle coste della Sicilia, - senza dubbio una delle più importanti della storia - mise di fronte 800 navi e 300.000 uomini concludendosi con la rovina di Cartagine.
Dopo la vittoria di Scipione Emiliano nel 146 a.C. bisognava impedire alla preoccupante rivale di risollevarsi. I sacerdoti scagliavano imprecazioni solenni contro chiunque avesse osato costruire sulle sue rovine. E quando, ventisei anni dopo, Gaio Sempronio Gracco fece sorgere sul suolo della città distrutta una colonia che chiamò Giunonia «... molti fenomeni paurosi rivelarono durante il suo soggiorno la disapprovazione degli dei». I suoi nemici - e ne aveva molti - lo accusarono di aver agito illegalmente; e poco dopo veniva assassinato. Giulio Cesare ebbe un destino simile nel 46 a. C., due anni dopo aver affrontato e battuto nel Nord Africa gli ultimi seguaci di Pompeo: Cesare aveva ricostruito come centro commerciale Cartagine, ma il compito di completare il suo sogno spettò a Augusto.
La nuova Cartagine doveva riflettere col tempo la maestà immensa della pace romana. Cinque delle strade africane più importanti sfociavano nel suo porto commerciale, e per ricostruirla - facendo arrivare da province lontane gli architetti, i muratori e gli scultori più abili, - furono spese somme ingenti. Traiano fece costruire le sue strade, Adriano gli acquedotti e Antonino Pio rifare le sue cisterne enormi, e più tardi le famose Terme di Antonino. Il suo figlio adottivo, Marco Aurelio, donò alla Cartagine romana teatri, anfiteatri e un Colosseo; e monumenti vari a molte città dell'interno. Settimio Severo vi costruì delle biblioteche per affiancarle ad istituti di studi superiori. Cartagine vantava una grande sala di concerti, un teatro famoso in tutto il mondo per i suoi fastosi scenari, un Tempio della Memoria e la ornatissima Via Coelestis, lunga ben due miglia romane. Il magnifico porto punico, ancora ingrandito, attirava navi da tutte le parti del mondo romano.
Come centro di cultura Cartagine era considerata inferiore soltanto a Roma. Da quell'Africa che Orazio aveva deriso uscirono schiere di scrittori, grammatici, avvocati, filosofi, oratori, storici e retori, e quando il tempo fu maturo, molti primi santi cristiani. È stato detto che la culla del cristianesimo latino fu l'Africa e non Roma. La società romana era un po' sconcertata da tutto quel fervore intellettuale. Stazio poeta laureato di Domiziano, si fece interprete dell'opinione generale quando disse a Severo, famoso oratore e padre dell'imperatore di quella famiglia: «Chi lo crederebbe mai, Severo, che Leptis nascosta nelle Sirti di Tripoli sia la tua città natale? È possibile che una mente brillante come la tua abbia passato i suoi primi anni così lontano dalle colline di Romolo? ». La fonte principale della prosperità del Nord Africa era il grano della Tunisia.
Ne venivano inviate annualmente a Roma un milione e mezzo di staia, quanto bastava a sostentare per un anno 600.000 persone. Il suolo profondo delle pianure tunisine era così fertile, afferma Plinio, che al tempo di Augusto il suo procuratore gli mandò un covone di grano composto niente di meno di quattrocento spighe. L'importanza della Tunisia come fornitrice di grano a Roma era riconosciuta fin dall'anno 68, quando, essendosi rivoltato contro Nerone, il proconsole Macro trattenne nei porti africani tremi1a navi cariche del prezioso cereale e la capitale fu minacciata per mesi dalla fame.
Mosaico che raffigura l'Annona Sacra (Museo del Bardo a Tunisi)
Chiunque tiene l'Africa tiene Roma. L'importanza del Nord Africa nell'economia di Roma essendo ormai dimostrata, Nerone vi mandò un proconsole responsabile soltanto verso di lui. La casa imperiale possedeva in Africa una grande quantità di terre coltivate; e le famiglie più potenti di Roma - gli Anici, i Probi, i Ceionii - proprietà immense. I resti di quei latifundia sono ancora così imponenti che l'archeologo ha spesso l'impressione di avere sotto gli occhi le rovine di una città. Ai tempi di Orazio queste villae erano così famose che «una fattoria del Nordafrica ...» era sinonimo dell'illimitata fertilità, prosperità e ricchezza. «L'Africa» doveva affermare con classica sottovalutazione Costantino, «è una provincia sempre molto vantaggiosa per un imperatore». I Romani dipendevano a tal punto da questo grano che lo deificarono come «L'Annona Sacra», raffigurandolo come una florida donna con le spalle e le braccia nude, una mezzaluna nei capelli e in mano una cornucopia. I capaci magazzini di Ostia, il porto di Roma, furono costruiti per poterne accogliere i carichi, portati da una speciale flotta, così numerosa che un romano-africano che si fosse proposto d'invadere nel quarto secolo l'Italia poteva contare su 3500 navi.
L'ingresso della flotta del grano nei porti di Pozzuoli e di Ostia veniva celebrato come una grande festa e tutti lasciavano il lavoro per precipitarsi sui moli ad assistere al suo arrivo. I Romani che ricordavano i vecchi tempi deploravano quella schiavitù dall'Africa «Borbottano» scrisse Tacito, «vedendo la vita del popolo romano affidata al capriccio dei venti e delle tempeste».
I vasti latifundia africani, di campi di grano e piantagioni di ulivi, venivano coltivati da vecchi soldati nelle proprie fattorie e da liberti, coloni, berberi e schiavi in quelle dei padroni. Sui terreni dissodati e nelle radure questi coloni allevavano pecore, capre, cavalli da sella (la cavalleria numida era famosa) e buoi enormi, abituati a una dura fatica sotto il sole cocente, Protetti dalla Pax Romana, gli uliveti, già numerosi ai tempi di Cartagine, si estesero fittamente nell'interno.
La frutta veniva esportata a Roma, e i dactyli (datteri) erano comunissimi sui mercati romani. Già prima che Cartagine fosse distrutta, la vigna era così largamente coltivata, per ricavarne vino, uva da tavola e come dimostrano scavi e spaccati, - il terreno venuto alla luce era in gran parte calcareo, - in quella zona si poteva fare a meno di letti complicati. Quando era necessario il costruttore usava la solita tecnica di scavare un fosso (fossa) più largo della strada prevista, comprimendone il fondo con pesanti mazzapicchi e coprendolo con uno strato di tre o quattro centimetri di pietre. La strada che correva su questo semplice letto aveva una superficie di ghiaia ben pressata per assicurare lo scolo delle acque.
Poiché in primavera pioveva molto e gli acquazzoni erano seguiti da un caldo infernale, dopo poche ore perfino una strada semplicemente battuta diventava dura come il cemento. Su quel tratto della Via Hadriana s'incontrano ancora le rovine di sette grandi città, di dieci fra dighe e ponti, di sette miliaria più o meno in situ e di tre archi trionfali. Il centro più importante è Thugga, seguito da Musti.