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Africa romana: la Guerra vandalica

L'Africa romana in età bizantina

L'Africa proconsolare in età bizantina

 

 

LA GUERRA VANDALICA

 

 

 

Quando Belisario venne richiamato dall'Oriente, fu perché Giustiniano aveva da affidargli un altro, importante, compito. Belisario avrebbe dovuto comandare la spedizione nell'Africa settentrionale contro il regno dei Vandali. Questi, originari della Scandinavia, avevano abbandonato le terre natie a partire dal II sec. Verso la fine del IV sec. si erano stanziati nella zona a nord del Mare di Azov, poi, spinti dai popoli nomadi delle steppe, avevano attraversato l'Europa superando la frontiera settentrionale dell'Impero romano al di là del Reno, invaso la Gallia ed erano quindi passati in Spagna, dove si erano stabilmente stanziati. Strada facendo si erano convertiti al cristianesimo, aderendo però al credo ariano.

Ma anche in Spagna non rimasero a lungo tranquilli. Nel 429, sotto la guida del loro giovane re, Genserico, i Vandali attraversarono lo stretto di Gibilterra e invasero i possedimenti romani dell' Africa settentrionale. L'anno seguente avevano già posto l'assedio Ippona (Bona), il cui venerando vescovo, Sant'Agostino, proprio in quei giorni giaceva moribondo. Dopo un temporaneo accordo con le autorità romane che riuscirono a bloccarne l'avanzata contro Cartagine, essi conquistarono la città e fondarono un regno che si estendeva dall'Atlantico fino al deserto ad est di Tripoli.

Lo stato vandalo, contrariamente agli altri regni barbarici dell'Occidente, non riconosceva, sotto nessuna forma, la sovranità romana. E a differenza dei Goti d'Italia e di Spagna i Vandali si professavano ariani fanatici, perseguitando la chiesa cattolica e confiscandone le proprietà. All'inizio diedero vita addirittura a un sistema di « apartheid », per cui i Romani e gli Africani romanizzati erano considerati cittadini di seconda classe. Alla lunga, però, la seduzione delle civiltà romana e la loro debolezza demografica li convinsero a intraprendere relazioni più strette e amichevoli. Anche per un altro aspetto i Vandali appaiono « unici » rispetto ai loro contemporanei: avevano intuito il valore del potere sul mare anche se la flotta vandala non fu mai una forza professionale come quella dell'Impero romano al suo apogeo.

La Sicilia, la Sardegna, la Corsica e le Baleari caddero in loro possesso benché poco dopo la Sicilia venisse riconquistata dagli Ostrogoti di Teodorico. Roma e le città italiane non potevano più far conto sui rifornimenti di grano dall'Africa. Nel 455 re Genserico sbarcò alla foce del Tevere, assalendo e saccheggiando la stessa Roma. E fu appunto in questa occasione che i Vandali passarono alla storia come rabbiosi distruttori e il loro nome divenne sinonimo di incolta ferocia. Nel 468, Zenone, imperatore romano, armò e inviò contro il regno vandalo dell'Africa settentrionale una forte squadra navale, ma la flotta venne praticamente distrutta in una grande battaglia navale e i romani ci rimisero le penne.

Quando Genserico morì, ancora nel vigore degli anni, nel 477 egli poteva vantare un mezzo secolo di ininterrotti successi. Cinquant'anni dopo le cose erano cambiate. Re dei Vandali era allora llderico, nipote di Genserico. Ma Ilderico era nello stesso tempo discendente di un imperatore romano, perchè sua madre, la principessa Eudossia, figlia di Valentiniano III, aveva fatto parte del ricco bottino che il rude Genserico aveva portato seco dopo il sacco di Roma. Ilderico era orgoglioso della sua ascendenza romana, e rifiutava di adattarsi alle tradizioni vandale. Abbandonò addirittura la fede ariana, e si fece cattolico. Giustiniano credette di vedere in Ilderico l'uomo che avrebbe ricondotto l'Africa settentrionale nel seno della romanità.

E ancor prima che Giustino morisse era entrato in corrispondenza con il re vandalo, cui aveva inviato splendidi doni, coltivandone l'amicizia. In quel momento il regno vandalo propendeva verso l'alleanza con Roma, dimostrandosi ostile nei confronti dei Goti d'Italia. La regina madre, Amalafrida, discendente da Teodorico, fu messa in prigione e tutti i Goti del suo entourage vennero uccisi. Per un po' parve che l'Africa potesse tornare sotto sovranità romana senza colpo ferire.

Ma Ilderico venne detronizzato (530) da alcuni nobili vandali che misero sul trono il cugino e successore designato, Gelimero, più di loro gusto. Giustiniano intervenne per vie diplomatiche in favore del suo amico, ma ricevette un aspro diniego da parte di Gelimero. I piani dovevano essere rivisti e modificati. Il regno dei Vandali non poteva più servire a Giustiniano come passerella verso l'Italia, perciò doveva divenire oggetto del primo attacco. Giustiniano, di conseguenza, decise di organizzare una spedizione contro l'Africa: pretesto ufficiale la restaurazione di Ilderico sul trono, scopo reale la conquista dell'Africa.

Il ricordo del terribile disastro del 468 era ancora vivo in molti, e parecchi cittadini di Costantinopoli si sentivano terrorizzati alla semplice idea che potesse ripetersi, e temevano anche il costo finanziario che tale operazione navale a lunga distanza avrebbe comportato. Nei porti dell'Impero fu allestita una potente flotta mentre contemporaneamente si mettevano all' opera anche i servizi segreti imperiali. Un romano residente in Africa, un certo Pudenzio, organizzò una rivolta a Tripoli, la città vandala più vicina ai territori romani e Giustiniano inviò come rinforzo un piccolo contingente di soldati.

Goda, governatore della Sardegna, goto al servizio dei Vandali, fu incoraggiato a ribellarsi con la promessa di essere sostenuto dalle forze romane. Gelimero cadde nella trappola, e concentrò le sue forze navali nelle acque sarde per domare i rivoltosi. Verso la fine di giugno del 533 la spedizione salpò da Costantinopoli: in totale 500 navi, tra cui 92 galere da guerra, che trasportavano 16.000 soldati e 30.000 marinai e forze miste, per la maggior parte originari dall'Egitto o dalle zone costiere occidentali dell' Asia Minore. Comandante in capo, era Belisario, come sempre accompagnato dalla moglie Antonina; suoi diretti collaboratori Doroteo e l'eunuco Salomone. Gli altri ufficiali superiori, debitamente elencati da Procopio, erano tutti Traci con l'unica eccezione di Aigano, il comandante della cavalleria, che era Unno. Si trattava, dunque, per la maggior parte di « compaesani » di Giustiniano, uomini che egli conosceva, capiva e di cui poteva fidarsi.

L'ammiraglio della flotta, Kalommo, era di Alessandria. Oltre alle unità regolari romane vi erano compagnie di mercenari barbari, appartenenti a popolazioni stanziate al di là delle frontieri, i cosiddetti federali, nonché parecchie migliaia di bucellarii, mercenari al servizio personale di Belisario. Passando per Erakleion, Abydos, Sigeion la flotta attraversò l'Egeo, indi costeggiò il Peloponneso, giungendo poi a Meone e a Zacinto. Un abile lavoro diplomatico aveva garantito il diritto di gettare l'ancora nei porti siciliani (la Sicilia a quell'epoca faceva parte del regno ostrogoto), dove infatti la flotta si ancorò a sud di Taormina per rifornirsi di acqua. Mentre erano così alla fonda, Belisario inviò il suo segretario, Procopio, a Siracusa, per cercare di appurare se i Vandali avevano avuto sentore dell'approssimarsi della flotta romana.

Procopio fu baciato dalla fortuna: infatti si imbatté subito in un suo carissimo amico d'infanzia, un tale di Cesarea di Palestina, che faceva il mercante a Siracusa. Uno schiavo di costui era tornato da Cartagine, la capitale dei Vandali, giusto tre giorni prima. Egli riferì che a Cartagine non si sapeva nulla della spedizione in atto, che tutto era perfettamente tranquillo e che la maggior parte della flotta vandala era tuttora concentrata nelle acque sarde. Procopio finse di aver bisogno dello schiavo dell'amico per fare un giro in città: poche ore dopo lo schiavo veniva interrogato, sulla nave ammiraglia, da Belisario in persona. Belisario, quasi non credendo alla sua fortuna, ordinò alla flotta di levare l'ancora e salpare immediatamente per Malta. Dopo un'altra brevissima sosta i Romani ripresero il mare alla volta dell'Africa, in stato di perenne all'erta in caso avvistassero la temibile flotta avversaria. I venti, che soffiavano da nord li sospinsero più a sud rispetto al punto preventivato per lo sbarco cosicché buttarono l'ancora a Caput Vada (Ras Kaboudia), a metà strada tra Sousse e Sfax. Belisario tenne un consiglio di guerra. Venne così deciso di sbarcare le forze di terra, che avrebbero proseguito la marcia verso nord tenendosi il più possibile vicino alla costa, mentre la flotta avanzava di concerto al largo.

Lo sbarco avvenne senza incidenti, merito che va riconosciuto alla capacità organizzativa e alla stretta disciplina imposta da Belisario se si pensa che, tra l'altro, dovettero essere sbarcati, su una spiaggia scoperta, circa 10.000 cavalli. Quando gli uomini furono sbarcati Belisario li mise in guardia contro lo sbaglio di alienarsi le simpatie della popolazione locale. « Siamo venuti fin qui per combattere i Vandali - disse il generalissimo - e per liberare gli Africani che sono Romani. Se non saprete mantenere la disciplina, finiremo col buttare gli Africani tra le braccia dei Vandali ». Nel frattempo la notizia dello sbarco dei Romani era pervenuta a Gelimero, che stava portando a compimento un'operazione punitiva contro varie tribù mauretane a occidente di Cartagine. Immediatamente il re inviò ordini al fratello Ammata, che fungeva da viceré nella capitale, di mettere a morte Ilderico e i suoi seguaci già imprigionati. Mentre l'esercito romano avanzava lungo la costa africana, Gelimero organizzò un piano per intrappolarlo. Ma né lui né i suoi seguaci erano all'altezza di competere militarmente col generale bizantino.

Una delle tre squadre vandale al comando di Ammata, giunse sul luogo scelto per l'attacco troppo in anticipo e, così isolata, fu facilmente fatta a pezzi dalle avanguardie romane; lo stesso Ammata cadde nello scontro. La seconda squadra fu messa in rotta da una carica della cavalleria Unna, che colse i Vandali di sorpresa. Ma il grosso dell'esercito vandalo, al comando dello stesso Gelimero, riuscì a mettere in fuga l'avanguardia dell'esercito di Belisario, e per un momento la cavalleria romana - la fanteria era alla retroguardia - si trovò a mal partito. Fu questo «l'attimo fuggente» di Gelimero, ed egli se lo lasciò fuggire. Mentre stava per dare il colpo di grazia alle forze romane si imbatté nel cadavere del fratello Ammata, che credeva ancor vivo e perse il controllo dei propri nervi, attardandosi sul luogo.

Belisario ebbe così modo e tempo di riorganizzare le proprie truppe e di sferrare un attacco contro le forze vandale, superiori di numero ma non ancora completamente schierate a battaglia. I Vandali ruppero le file e in pochi minuti Gelimero e il suo esercito erano in fuga diretti a occidente, verso la Mumidia, dopo aver abbandonato Cartagine. La battaglia ebbe luogo il 13 settembre 533, alla decima pietra miliare sulla grande strada che da Cartagine si dipartiva verso sud, all'incirca nei sobborghi dell'odierna città di Tunisi. Il giorno seguente l'esercito romano si accampò fuori delle mura della città, mentre la flotta riparava nel golfo di Tunisi. Belisario avrebbe potuto occupare Cartagine in qualsiasi momento; i Vandali rimasti in città avevano cercato asilo e rifugio nelle chiese e nei santuari. Il clero cattolico aveva già cominciato a prendere possesso delle chiese requisite dagli ariani, compresa la basilica di San Cipriano.

Aperte erano le porte della città, e la popolazione, in segno di giubilo e di benvenuto, aveva appeso lanterne in tutte le strade. Ma Belisario temeva gli potesse essere teso un agguato nelle strette stradine del centro. Così fu solo il giorno seguente, 15 settembre, che egli fece ingresso solenne a Cartagine, accolto dalle acclamazioni di una folla giubilante. Si recò direttamente al palazzo reale dove, assiso sul trono di re Gelimero, ricevette i notabili della città. La lezione era chiara: il potere dei Vandali era finito, l'Africa faceva nuovamente parte dell'Impero romano. Alle truppe fu imposta l'osservanza di una rigorosissima disciplina: i soldati erano addirittura obbligati a pagare quel che loro serviva, con l'ordine di coltivare la benevolenza dei cittadini in tutti i modi possibili. Ma nelle campagne circostanti le cose non potevano andare altrettanto lisce. I contadini, in gran maggioranza di stirpe punica o berberi per lingua e cultura, non provavano lo stesso attaccamento affettivo per Roma e ciò che era romano, e temevano la rigida efficienza dei funzionari fiscali romani.

Gelimero e i suoi Vandali, per di più, accampati a Bulla, a quattro giorni di marcia a occidente di Cartagine, offrivano una vistosa ricompensa per ogni testa romana. Ben presto le teste romane al campo vandalo cominciarono ad ammucchiarsi. Le linee di comunicazione romane erano pericolosamente lunghe, e ormai si approssimava l'inverno quando gli uomini malvolentieri si mettono in mare sapendo che è tutto a loro rischio e pericolo. Perciò Gelimero si affrettò a richiamare in patria dalla Sardegna il fratello Tzazon, e le forze da lui comandate. Si diede poi a coltivare, e non senza successo, l'amicizia delle tribù berbere, anche se la maggior parte dei capi di quelle stesse tribù si era affrettata a recarsi a Cartagine per rendere leale omaggio ai nuovi governanti. Ben presto poté spingersi fin nelle vicinanze della capitale, le cui rovinate mura Belisario aveva dato ordine di riparare nel minor tempo possibile. Gelimero riuscì a far deviare un acquedotto, ma non a togliere completamente i rifornimenti idrici alla città. Nel frattempo comunque, la sua « quinta colonna» era molto attiva entro la cerchia delle mura cittadine, dove non tutti gli abitanti erano così ben disposti verso i Romani come le apparenze lasciavano credere. Il re vandalo riuscì addirittura ad allettare la cavalleria unna di Belisario, per cui al generale romano non restò altra scelta che promettere ai barbari ricompense ancora maggiori, fargli compiere un solenne giuramento di fedeltà e ... sperare per il meglio. I Vandali stavano riprendendo l'iniziativa; e prima che l'inverno fosse passato il piccolo contingente militare romano avrebbe potuto essere logorato e distrutto da una guerriglia incessante, dalle continue diserzioni e dallo scoraggiamento. Perciò Belisario decise che era necessario battere il nemico in uno scontro frontale e decisivo.

Le sue truppe erano meglio allenate e più efficienti ed egli era sicuro che in campo aperto avrebbe potuto facilmente surclassare i generali vandali, tutti di mediocre levatura. Verso la metà di dicembre Belisario, al comando della cavalleria, si avvicinò minacciosamente al campo di Gelimero, costringendolo ad accettare battaglia. Lo scontro avvenne a Tricamarum, circa 55 km ad ovest di Cartagine. Tzazon fu ucciso e i Vandali si ritirarono in disordine verso i loro accampamenti. Solo allora gli Unni di Belisario, che si erano astenuti dal combattere con l'aria di volersi ammutinare da un momento all'altro, visto lo svolgimento della battaglia, decisero di affiancarsi ai Romani: la loro carica selvaggia e impetuosa completò la rotta dei Vandali. I morti vandali furono circa 800 contro 50 Romani. Dopo una brevissima sosta Belisario attaccò il campo vandalo, che Gelimero non cercò neppure di difendere rifugiandosi a occidente, nella Numidia. I resti del suo esercito ne seguirono l'esempio, abbandonando alla loro sorte le famiglie e le terre. Era la fine; e infatti da allora i Vandali come popolo svanirono dalla faccia della terra, uccisi o assorbiti e assimilati dai Romani o dai Berberi.

Belisario occupò l'accampamento, sterminò coloro che avevano cercato rifugio nelle chiese e si affrettò verso Ippona, dove entrò senza incontrare nessuna resistenza. Colà giunto si impossessò del tesoro reale e fece prigionieri molti notabili vandali. Gelimero, tuttavia, sfuggì alla stretta e con pochi fedeli si rifugiò nelle inaccessibili montagne della Numidia meridionale, bene accolto dalle locali popolazioni berbere. Ma non contava più nulla: era un re senza sudditi e senza regno. Braccato dai Romani passò i suoi ultimi anni componendo un poema in latino in cui lamentava le proprie sfortune. E quando l'opera fu terminata inviò un messaggero con bandiera bianca a Pharade, il comandante locale delle forze romane, chiedendo una cetra con cui accompagnare il proprio canto, una spugna per tergersi le lacrime e un tozzo di pane. Finalmente, verso la fine di marzo del 534 si consegnò a Belisario. Nel frattempo vari distaccamenti romani avevano occupato la Sardegna, la Corsica, le Baleari, Cesarea di Mauritania (Cherchel) e la remota fortezza di Septem (Ceuta).

Sei mesi dopo lo sbarco Belisario aveva riguadagnato al potere romano un intero continente. Le comunicazioni tra l'Africa e Costantinopoli non erano né rapide né facili. Non sappiamo con esattezza quando la prima notizia della vittoria pervenne a Giustiniano ma è certo che fino a quel momento deve avere vissuto in ansiosa attesa. Un fallimento avrebbe significato il totale abbandono di tutte le sue speranze per il futuro. Verso il 21 novembre egli aveva già avuto notizia della vittoria avvenuta alla decima pietra miliare e della presa di Cartagine, e giudicò che la partita era ormai vinta. Infatti, in quello stesso giorno egli emanò un decreto introduttivo delle lnstitutiones, in cui si diceva: «Le nazioni barbare che hanno accettato la nostra supremazia militare ben ci conoscono; come ci conosce l'Africa e le altre numerose terre e province che, grazie alle vittorie riservateci dall'Onnipotente, dopo lungo tempo sono nuovamente tornate in seno all'Impero ». E nel preambolo a quello stesso decreto egli aggiungeva agli appellativi di Alamanico, Gotico, Franco, Germanico, Antico di cui, imitando i suoi predecessori si era gratificato, anche quelli di Alanico, Vandalico, Africano: non solo era l'incarnazione del nuovo Augusto e del nuovo Costantino, ma anche del nuovo Scipione. Non appena nella capitale giunsero le prime nuove sulla decisiva vittoria di Tricamarum, l'imperatore promulgò due lunghi editti in cui veniva definita la struttura civile e militare dei territori di nuova conquista. In Africa veniva stabilita la terza prefettura pretoria, comprensiva della Sardegna, della Corsica e delle Baleari.

I territori vennero suddivisi in sette provincie. Le paghe e i salari di ciascun funzionario, giù giù fino al più umile scrivano, erano elencati con precisi dettagli, a partire dal Prefetto del Pretorio, che aveva a sua disposizione una squadra di funzionari composta da 396 individui e uno stipendio annuo pari a mille libbre d'oro. Nell'estate del 534 Belisario fu richiamato nella capitale: Giustiniano aveva in serbo più ambiziosi compiti per il suo generale. Salomone, un ufficiale efficiente e di grande esperienza, avrebbe dovuto provvedere alla pacificazione dell' Africa. Già si era dovuto fronteggiare a Byzacene una noiosa sollevazione di Berberi che avevano annientato la sparuta guarnigione locale romana. Ma pareva cosa di poco momento: Giustiniano, infatti, non aveva ancora afferrato la differenza effettiva tra vittoria militare e pacificazione vera e propria.

Lo avrebbe ben presto imparato a sue spese per via dell'Africa e di altri luoghi ancora. Quando Belisario fece ritorno a Costantinopoli, portando con sé prigionieri Gelimero e i suoi maggiorenti, onusto del bottino preso a Cartagine (che comprendeva la maggior parte del tesoro rubato a Roma da Genserico nel 455) gli furono riservate accoglienze uniche, così straordinarie da fare intendere a tutti quanto peso annettesse l'imperatore alle sue vittorie. Il trionfo di Belisario fu celebrato secondo l'antico costume romano che gli stessi imperatori, per secoli, avevano lasciato decadere. Tra i generali, l'ultimo ad averne goduto era stato, sotto Augusto, Lucio Cornelio Baldo per la vittoria riportata sui Garamanti, qualcosa come 533 anni prima. Belisario avanzava alla testa dei suoi soldati seguito da Gelimero avvolto nella porpora reale, dal più alto e dal più prestane dei Vandali, e dai numerosi carri su cui era ammucchiato l'opulento bottino. Nell'Ippodromo Giustiniano e Teodora, circondati da tutti i notabili dell'Impero, lo attendevano ritti nella Kathisma. Mentre Belisario e il suo regale prigioniero si avvicinavano al palco imperiale, alcuni soldati tolsero il mantello di porpora dalle spalle di Gelimero e lo costrinsero a prostrarsi nella polvere davanti alla coppia imperiale.

Mormorando « Vanità delle vanità, tutto è vanità » l'ultimo re dei Vandali strisciò bocconi dinanzi ai padroni del mondo, mentre al suo fianco colui che lo aveva vinto e catturato si inginocchiava a sua volta in segno di obbedienza al suo Signore. Inoltre, per rendere ancora più evidente la benevolenza imperiale di cui era oggetto, Belisario fu nominato console per l'anno successivo: il corteo inaugurale, il 1 gennaio, fu una copia del trionfo. Giustiniano aveva fatto in sette anni più di quanto chiunque ragionevolmente avrebbe ritenuto possibile. Dio era con lui. Gelimero fu inviato « al confino » in Galazia, in una bella proprietà, dove non avrebbe potuto danneggiare nessuno e gli fu concesso di continuare a praticare il credo ariano. I Vandali prigionieri « di buona costituzione e disposizione » vennero organizzati in cinque reggimenti speciali, i Vandali Justiniani, e inviati a presidiare la frontiera persiana. Non bisognava buttare via nulla: questo l'imperativo categorico.

Il bottino portato dall'Africa era di inestimabile valore e superava di gran lunga le spese sostenute per la spedizione. Tra gli altri oggetti preziosi vi era la Menorah, il candelabro a sette braccia asportato dal tempio di Salomone e recato a Roma da Tito nel 71, e a Roma preso come bottino da Genserico nel 455. Quando la cosa si riseppe, la comunità ebraica della capitale, eccitatissima, inviò un proprio rappresentante a parlare con un alto funzionario affinché le venisse concessa udienza dall'Imperatore, facendo presente che sarebbe stato un errore tenere il sacro candelabro a Costantinopoli.

Infatti, aveva sempre portato sfortuna. Gerusalemme era stata conquistata e distrutta da Tito, Roma messa a sacco da Genserico, ed ora Cartagine conquistata da Belisario. Meglio era riportarlo a Gerusalemme, sua sede primitiva. Debitamente la cosa fu riferita all'Imperatore. Giustiniano non desiderava entrare in polemica con gli Ebrei che egli considerava come una parte, sia pure piuttosto discutibile, del disegno divino; per di più, come tutti gli uomini della sua epoca era superstizioso e facilmente influenzabile. Così la Menorah e gli altri sacri arredi del Tempio vennero nuovamente inviati a Gerusalemme e distribuiti tra le varie chiese cristiane dell'antica città.