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La più antica immagine di Agostino sulla Scala Santa nel Palazzo del Laterano
AGOSTINO PROFESSORE DI RETORICA A ROMA
di Luigi Beretta
Agostino giunse per la prima volta a Roma nell'anno 383, poco dopo l'incontro con Fausto a Cartagine. La sua partenza probabilmente fu meditata e preparata per tempo, sia per poter raggranellare il denaro per il viaggio, sia per trovare un luogo dove alloggiare o godere di una sicura ospitalità. L'invio del libro De pulchro et Apto a Gerio, l'oratore siriaco esperto di greco e latino, cui l'aveva dedicato, si spiega in questa prospettiva, con lo schietto desiderio di farsi conoscere a Roma, dove vagheggiava di stabilirsi.
"Cosa mi spinse, Signore Dio mio, a dedicare quei libri a un oratore romano, Gerio, che non conoscevo personalmente? Avevo preso ad amarlo per la chiara fama della sua erudizione e per alcune parole che di lui mi erano state riferite e mi erano piaciute. Ma soprattutto mi piaceva perché piaceva agli altri, ne era esaltato e lodato. La gente stupiva che da un siriano, già dotto nell'oratoria greca, fosse uscito anche un dicitore mirabile nella latina, versatissimo per di più negli studi relativi alla filosofia." (Conf. 4, 14, 21)
"Quel retore comunque apparteneva al genere d'uomini che io amavo al punto di voler essere come loro ... Per me era poi molto importante che quel personaggio venisse a conoscere il mio stile e i miei studi. Una sua approvazione avrebbe accresciuto il mio ardore, una riprovazione avrebbe pugnalato il mio cuore vano e privo della tua fermezza. Intanto la Bellezza e convenienza, il trattato che gli avevo dedicato, io passavo e ripassavo nella mente, davanti allo sguardo compiaciuto della mia contemplazione, e l'ammiravo senza che avesse l'approvazione di nessuno." (Conf. 4, 14, 23)
Le sue conoscenze nell'ambiente manicheo cartaginese dovettero permettergli di procurarsi parecchi indirizzi utili tra i manichei romani, ben disposti a favorire un affiliato al loro movimento religioso. I principali avvenimenti di quel suo soggiorno romano sono descritti, piuttosto sinteticamente, nel libro quinto delle Confessioni (Conf. 8, 14-10, 22), dove scopriamo il motivo che indusse Agostino a trasferirsi a Roma: "... A raggiungere Roma non fui spinto dalle promesse di più alti guadagni e di un più alto rango, fattemi dagli amici che mi sollecitavano a quel passo, sebbene anche questi miraggi allora attirassero il mio spirito. La ragione prima e quasi l'unica fu un'altra. Sentivo dire che laggiù i giovani studenti erano più quieti e placati dalla coercizione di una disciplina meglio regolata; perciò non si precipitano alla rinfusa e sfrontatamente nelle scuole di un maestro diverso dal proprio, ma non vi sono affatto ammessi senza il suo consenso. Invece a Cartagine l'eccessiva libertà degli scolari è indecorosa e sregolata. Irrompono sfacciatamente nelle scuole, e col volto, quasi, di una furia vi sconvolgono l'ordine instaurato da ogni maestro fra i discepoli per il loro profitto; commettono un buon numero di ribalderie incredibilmente sciocche, che la legge dovrebbe punire, se non avessero il patrocinio della tradizione. Ciò rivela una miseria ancora maggiore, se compiono come lecita un'azione che per la tua legge eterna non lo sarà mai, e pensano di agire impunemente, mentre la stessa cecità del loro agire costituisce un castigo; così quanto subiscono è incomparabilmente peggio di quanto fanno. Io, che da studente non avevo mai voluto contrarre simili abitudini, da maestro ero costretto a tollerarle negli altri. Perciò desideravo trasferirmi in una località ove, a detta degli informati, fatti del genere non avvenivano ..." (Conf. 8, 14)
In questo contesto la tragedia vera fu quella di Monica, che aveva raggiunto il figlio a Cartagine, presagendo, con il tipico intuito femminile, che stava per accadere qualcosa di importante. "Mi seguì fino al mare – racconta Agostino - quando mi strinse violentemente, nella speranza di dissuadermi dal viaggio o di proseguire con me, la ingannai, fingendo di non voler lasciare solo un amico, che attendeva il sorgere del vento per salpare. Mentii a mia madre, a quella madre ..." (Conf. 8, 15)
Agostino probabilmente era consapevole di quale rischiosa avventura stesse tentando, per accettare la difficile decisione di trasferirsi a Roma con una madre, che era probabilmente in duraturo dissidio con la donna con cui conviveva. Monica, dubbiosa, rimase presso il porto, a pregare, nella cappelletta di S. Cipriano. Sul far di notte, la nave partì e mentre il lido veniva via via scomparendo, Agostino rimase a lungo a contemplare l'orizzonte, alla luce della luna, immaginando la disperazione della madre l'indomani.
Ma Agostino guardava ormai al suo avvenire e fiducioso di sé, appassionato di Virgilio, forse avrà pensato alla partenza di Enea e ai drammi che avevano coinvolto il suo eroe giovanile.
Sbarcò a Ostia e raggiunse Roma seguendo la Via Ostiense, che costeggiava la riva sinistra del Tevere passando davanti alla piccola basilica costruita da Costantino sulla tomba di san Paolo. Giunse finalmente alla casa dell'uditore manicheo che lo ospitò. Al dire di Giovanni Papini "costui doveva abitare in quelle strade tra il Celio e l'Aventino, che erano il quartiere, come si ricava dai nomi, della colonia africana: anche oggi c'è Via Capo d'Africa, l'antico vicus Capitis Africae." [Giovanni Papini, Sant'Agostino, Firenze 1929, 97]
Forse per lo stress, forse il cambiamento di abitudini o per le condizioni ambientali, Agostino, in quell'autunno del 383, si ammalò quasi subito, assai gravemente.
"Qui ecco mi accolse il flagello delle sofferenze fisiche, che ben presto m'incamminavano verso l'inferno col fardello di tutte le colpe commesse contro te, contro me e contro il prossimo ..."(Conf. 9, 16)
Anche quando recuperò la salute, Agostino non sembra che si sia mai introdotto nella tumultuosa vita romana di allora. La città in quegli anni si stava rapidamente cristianizzando nonostante sopravvivessero varie sette ereticali. Papa Damaso era ormai al tramonto e, dopo i disordini che anni prima avevano insanguinato le vie e le basiliche nel conflitto con Ursino, poteva compiacersi della dignità che aveva assicurato al pontificato e del prestigio di cui universalmente godeva. Tra il 375 e il 379 d. C. era riuscito a traslare le spoglie mortali di San Cesario diacono e martire nella Domus Augustana sul colle Palatino per dare all'imperatore un santo tutelare di nome Caesarius in sostituzione del culto dei Divi Cesari. Vi eresse un oratorio che fu il primo luogo di culto cristiano, segno palese della consacrazione cristiana del palazzo imperiale. Agostino non accenna a questi episodi e neppure a Gerolamo, segretario del papa, che aveva diffuso le sue idee ascetiche nel circolo di pie aristocratiche signore che si adunavano sull'Aventino, presso la zelante vedova Marcella e la ricca vedova Paola, cui si accompagnavano le figlie Eustochio e Blesilla. Agostino non sembra neppure interessato alle vicende della Chiesa cattolica, che proprio in quell'anno, con la morte di Damaso, svela i contrasti interni nella Curia, che fa cadere la candidatura di Gerolamo a favore del diacono Siricio.
La sua indifferenza si abbina alle parole critiche di Ammiano Marcellino, che proprio in quegli anni a Roma scriveva la sua opera Rerum gestarum libri XXXI, dove al racconto della strage avvenuta nella lotta tra Damaso e Orsino nella Basilica liberiana, scrive che "valeva la pena che ognuno dei rivali facesse ogni sforzo per ottenere l'episcopato di Roma, cui s'accompagnavano le ampie rendite assicurate dalle matrone, gli abiti sontuosi, un cocchio magnifico, le cene non meno splendide di quelle dei Cesari."
Lo stesso aspro giudizio ripete il retore e funzionario Vezio Agorio Pretestato, il capo del partito pagano in Roma, colui che Macrobio ci presenta come il princeps religiosorum, quando, a chi lo invitava a farsi cristiano, rispondeva: "Sì, se mi fate anche vescovo di Roma".
Con Massimo, che aveva vinto nelle Gallie il cristianissimo Graziano, il partito pagano accennava a rialzare il capo e sperava nel nuovo imperatore. Mentre il vescovo Ambrogio da Milano veniva inviato ambasciatore a Massimo per averne pace o almeno tregua, a Roma i due capi dell'aristocrazia senatoriale pagana vengono eletti alle massime cariche: Vezio Agorio Pretestato è il nuovo prefetto al pretorio e Q. Aurelio Simmaco diventa prefetto urbano.
Ma Agostino viveva praticamente solo nel gruppo dei suoi conoscenti manichei, in compagnia di Alipio, che aveva ritrovato a Roma, dove studiava diritto ed era impiegato nella amministrazione pubblica delle finanze. Il De pulchro et apto probabilmente non aveva riscosso il successo sperato e Agostino forse non riuscì neppure a incontrare Gerio. Il retore cartaginese nel 384 era ancora solo uno dei tanti maestri di retorica, che a Roma, a quanto pare, si mantenevano a stento. Anche la ragione del suo trasferimento a Roma, per Agostino divenne una seria preoccupazione, in quanto, se era vero che gli studenti di Roma erano più tranquilli dei Cartaginesi, avevano tuttavia abitudini deleterie per gli insegnanti, dato che dopo aver seguito per un certo tempo un maestro, venuto il momento di pagare, si trasferivano in massa da un altro.
"Iniziata volenterosamente l'attività per cui ero venuto a Roma, ossia l'insegnamento della retorica, dapprima adunai in casa mia un certo numero di allievi, ai quali e grazie ai quali cominciai a essere noto; quand'ecco vengo a conoscere altre abitudini di Roma, che non mi affliggevano in Africa. Certo ebbi la conferma che là non si verificavano i famigerati disordini degli scolari depravati. Tuttavia fui anche avvertito che improvvisamente, per non versare il compenso al proprio maestro, i giovani si coalizzano e si trasferiscono in massa presso altri, tradendo così la buona fede e calpestando la giustizia per amore del denaro." (Conf. 5, 12, 22)
Agostino, debilitato dalla malattia e deluso dagli studenti ingrati, probabilmente dovette trovare la vita a Roma piuttosto disagevole.
In un simile contesto aveva più che mai bisogno di conforto e di appoggio, per cui cercò l'amicizia e l'aiuto dei correligionari manichei, sia tra gli uditori che fra gli eletti. La loro frequentazione gli permise non solo di allargare le sue relazioni sociali, ma pure di venire a miglior consapevolezza della vita di quella comunità e soprattutto delle contraddizioni e incoerenze che si manifestavano al suo interno. Nonostante tutto Agostino non ha ancora il coraggio di riaggiustare i suoi convincimenti manichei, anzi a un certo punto sembra cullarsi, indifferente, nelle certezze che gli procurano: "Ero tuttora del parere che non siamo noi a peccare, ma un'altra, chissà poi quale natura pecca in noi. Lusingava la mia superbia l'essere estraneo alla colpa, il non dovermi confessare autore dei miei peccati affinché tu guarissi la mia anima rea di peccato contro di te. Preferivo scusarmi accusando un'entità ignota, posta in me stesso senza essere me stesso, mentre ero un tutto unico e mi aveva diviso contro me stesso la mia empietà. Ed era un peccato più difficile da sanare il fatto che non mi ritenessi peccatore ... Perciò me l'intendevo ancora con i loro eletti, sebbene non sperassi più di progredire in quella falsa dottrina. Anzi tenevo ormai con minore impegno e cura la posizione stessa ove avevo deliberato di stare appagato, se non trovavo nulla di meglio." (Conf. 5, 10, 18)
Probabilmente i modelli di sapienza e moralità dei manichei non erano più così attraenti come una volta ed ora aveva a che fare piuttosto con uomini che si rivelavano deboli e peccatori, come tutti. Per di più incominciava insistentemente a scorgere i lati più deboli della dottrina: non solo la cosmologia differiva dall'insegnamento delle scienze esatte, ma pure la moralità nella vita pratica si rivelava non proprio conforme a quanto veniva proclamato. I dubbi diventano sempre più insistenti, ma non scuotono Agostino: "Così rintuzzai apertamente l'esagerata fiducia che, mi avvidi, il mio ospite riponeva nelle favole di cui sono pieni i libri manichei. Tuttavia mantenevo rapporti di amicizia più con questi che con gli altri uomini alieni dalla loro eresia; e se non la sostenevo con l'ardore di un tempo, però la familiarità con i suoi seguaci, occultati in grande numero a Roma, mi rendeva meno solerte nella ricerca di altro." (Conf. 5, 10, 19)
Il desiderio di andare a fondo si arrende di fronte alle ambiguità della ragione, che da sola non riesce a scoprire la verità: "Mi era nata infatti anche l'idea – afferma - che i più accorti di tutti i filosofi fossero stati i cosiddetti accademici, in quanto avevano affermato che bisogna dubitare di ogni cosa, e avevano sentenziato che all'uomo la verità è totalmente inconoscibile." (Conf. 5, 10, 19)
Negare all'uomo la facoltà di raggiungere la conoscenza del vero deve essersi presentata alla mente di Agostino quasi come una esigenza. Di fronte alla varietà di opinioni, per non tralasciare l'inesauribile diversità di vedute tra i filosofi, la possibilità di discernere, tra due linee di insegnamento differenti, quella che è meglio deducibile logicamente o meglio in armonia con la nostra ragione, è tale che se ci si allontana dalla mera autorità, si entra nell'orizzonte del probabile. La ragione stessa non è timoniere sicuro, altrimenti tutti arriverebbero alle medesime conclusioni. La constatazione romana dell'incapacità umana di attingere il Vero, e il Bene che coincide con esso, giustificava solamente lo sforzo teso continuamente verso entrambi, pur nella convinzione di non coglierli mai.
Agli occhi di Agostino la condotta stessa degli eletti era una riprova di questo limite alla aspirazione umana di una suprema certezza morale e di una verità assoluta. Inoltre non riusciva ad ammettere che un unico essere divino avesse creato l'uomo, da una parte con questa aspirazione, e dall'altra, con l'incapacità di soddisfarla. Un simile creatore sarebbe stato la negazione di tutte le qualità che si attribuiscono a Dio: "Di conseguenza credevo che anche il male fosse una qualche sostanza simile e fosse dotato di una sua massa oscura e informe, qui densa, ed è ciò che chiamavano terra, là tenue e sottile, secondo la natura dell'aria, che immaginano come uno spirito maligno strisciante su quella terra. E poiché la mia religiosità, qualunque fosse, mi costringeva a riconoscere che un dio buono non poteva aver creato nessuna natura cattiva, stabilivo due masse opposte fra loro, entrambe infinite, ma in misura più limitata la cattiva, più ampia la buona." (Conf. 5, 10, 20)
Questa "fase scettica" di Agostino, che comincia col suo soggiorno a Roma, se inizialmente può essere considerata un tardivo tentativo di interpretare filosoficamente il suo manicheismo, con il suo trasferimento a Milano diventerà un potente motivo non solo per abbandonare definitivamente il manicheismo, ma pure per avvicinarsi con occhi nuovi al cristianesimo e alla interpretazione delle sacre Scritture.
In realtà qualche segnale confortante l'aveva già assaporato a Cartagine dai discorsi e dalle discussioni di Elpidio, che con grande acume e ottima conoscenza dei testi sacri ne discuteva pubblicamente con i manichei.
"Esistevano poi le critiche dei manichei alle tue Scritture, che mi sembravano irrefutabili. Eppure a volte avrei desiderato davvero sottoporre alcuni singoli passi a qualche profondo conoscitore dei libri sacri per sondare la sua opinione. C'era ad esempio un certo Elpidio, che soleva discutere pubblicamente proprio con i manichei e che già a Cartagine mi aveva impressionato con i suoi discorsi, poiché citava certi passi scritturali difficilmente contrastabili. Le risposte degli avversari mi sembravano deboli; per di più preferivano darcele in segreto, anziché esporle in pubblico. Sostenevano che gli scritti del Nuovo Testamento erano stati falsati, chissà poi da chi, col proposito d'innestare la legge dei giudei sulla fede cristiana, senza presentare dal canto loro alcun esemplare integro di quel testo. Ma io, incapace di raffigurarmi un essere incorporeo, rimanevo soprattutto schiacciato, per così dire, dalle due masse famose: prigioniero e soffocato sotto il loro peso, anelavo a respirare l'aria limpida e pura della tua verità, ma invano." (Conf. 5, 11, 21)
In un contesto intellettualmente ed emotivamente così liquido, ad Agostino si presenta un'opportunità imprevista quanto seducente. L'occasione origina dai rinnovati contrasti tra pagani e cristiani: Simmaco e Pretestato credevano di poter far valere la loro influenza politica per abolire le misure antipagane di Graziano.
Simmaco e la maggioranza del Senato, Roma stessa, chiedevano di ripristinare la statua e l'altare nella Curia per ricordare la grandezza passata. Simmaco tuttavia era stato sconfitto dalla perorazione di Ambrogio, che aveva esaltato sopra l'antica la nuova fede. Ben più d'ogni altra considerazione, nella decisione di Valentiniano, pesò la preoccupazione di non perdere l'appoggio di Ambrogio. Tuttavia Simmaco non trascurò ogni possibilità per riscattarsi. E l'occasione gli si presentò presto. Accadde infatti che la città di Milano si rivolse a lui per ottenere un insegnante di retorica per la scuola palatina. Agostino quando lo seppe mostrò un vivo interesse per ottenere quel posto e, con l'aiuto dei suoi amici manichei, ottenne di incontrare Simmaco.
"Perciò, quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l'offerta anche del viaggio con mezzi di trasporto pubblici, proprio io brigai e proprio per il tramite di quegli ubriachi da favole manichee, da cui la partenza mi avrebbe liberato a nostra insaputa, perché, dopo avermi saggiato in una prova di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m'inviasse a Milano." (Conf. 13, 23)
Che Simmaco abbia accettato una tale raccomandazione meraviglia alquanto, soprattutto perché veniva dai seguaci di una setta proscritta, le cui dottrine erano profondamente diverse dal misticismo pagano, sincretistico e neoplatonizzante, i cui fondamenti erano stati esposti con chiarezza dal suo amico Macrobio. Questa ibrida alleanza si giustifica probabilmente con la necessità di formare un fronte unico contro la politica filo cristiana e a Simmaco interessava che quel posto non fosse affidato a un fiduciario di Ambrogio. Ben sapeva infatti che dalla classe dei retori venivano selezionati gli alti funzionari civili e i dirigenti dell'attività politica imperiale ed era dunque suo interesse avere, presso la corte, una persona di fiducia legata a lui da vincoli di gratitudine. Come è stato sottolineato da più autori, Agostino avrebbe potuto o dovuto diventare, nelle intenzioni di Simmaco, un contrappeso efficace alla crescente influenza di Ambrogio. Agostino ebbe dunque l'occasione di incontrare Simmaco, che lo ascoltò e ne saggiò le qualità. Agostino già allora esprimeva sicuramente solide doti oratorie, perché superò l'esame, non facile, dato che Simmaco, per quanto ben disposto, era lui stesso retore e non avrà trascurato di accertarsi che il candidato possedeva tutte le qualità necessarie per imporsi a Milano e assolvere il compito per cui lo sceglieva. Agostino ottenne la nomina e, con essa, il trasferimento presso la corte imperiale a spese dello Stato. Da Roma a Milano: ormai trentenne, Agostino è diventato professore ufficiale di retorica, all'apice della sua carriera d'insegnante.
Il ritorno a Roma
Dopo aver ricevuto il battesimo a Milano nella notte di Pasqua del 387, Agostino decise, con i suoi familiari e amici, di ritornare in Africa e da Milano si trasferì a Roma. "... associasti alla nostra comitiva anche Evodio, un giovane nativo del nostro stesso municipio. Agente nell'amministrazione imperiale, si era rivolto a te 85 prima di noi, aveva ricevuto il battesimo e quindi abbandonato il servizio del secolo per porsi al tuo. Stavamo sempre insieme e avevamo fatto il santo proposito di abitare insieme anche per l'avvenire. In cerca anzi di un luogo ove meglio operare servendoti, prendemmo congiuntamente la via del ritorno verso l'Africa." (Conf. 9, 8, 17)
Mentre erano in attesa d'imbarcarsi, a Ostia Tiberina Monica fu colta dalle febbri e in breve tempo mori. Agostino racconta gli ultimi giorni di vita della madre e ricorda in particolare l'ultimo colloquio, il supremo addio, che presa la forma di una visione e di un'estasi.
"All'avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d'uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta." (Conf. 9, 10, 23)
Il testo che segue e le riflessioni di Agostino sono improntati ad uno spontaneo neoplatonismo, dove le memorie plotiniane si alternano alle citazioni dei Salmi: "Se per un uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini della terra, dell'acqua e dell'aria, tacessero i cieli, e l'anima stessa si tacesse e superasse non pensandosi, e tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, ogni lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per sparire se per un uomo tacesse completamente, sì, perché, chi le ascolta, tutte le cose dicono: "Non ci siamo fatte da noi, ma ci fece Chi permane eternamente"; se, ciò detto, ormai ammutolissero, per aver levato l'orecchio verso il loro Creatore, e solo questi parlasse, non più con la bocca delle cose, ma con la sua bocca, e noi non udissimo più la sua parola attraverso lingua di carne o voce d'angelo o fragore di nube o enigma di parabola, ma lui direttamente, da noi amato in queste cose, lui direttamente udissimo senza queste cose, come or ora protesi con un pensiero fulmineo cogliemmo l'eterna Sapienza stabile sopra ogni cosa, e tale condizione si prolungasse, e le altre visioni, di qualità grandemente inferiore, scomparissero, e quest'unica nel contemplarla ci rapisse e assorbisse e immergesse in gioie interiori, e dunque la vita eterna somigliasse a quel momento d'intuizione che ci fece sospirare: non sarebbe questo l'"entra nel gaudio del tuo Signore"? E quando si realizzerà? Non forse il giorno in cui tutti risorgiamo, ma non tutti saremo mutati?".(Conf. 9, 10, 25)
Monica fu sepolta ad Ostia. Agostino e i suoi tornarono a Roma. Qui probabilmente ebbe l'occasione di incontrare alcuni dei manichei suoi correligionari, amici e ospiti di un tempo. Il disagio può essere stato imbarazzante, ma l'ardore del neofita cristiano spinse Agostino a contraddirli apertamente. Ne sono una prova i due libri De moribus manichaeorum e De moribus ecclesiae catholicae che scrisse proprio a Roma nel 388, dove vengono confrontati gli stili di vita dei manichei e dei cristiani.
All'ascetismo autentico dei cristiani Agostino contrappone quello errato e falso dei manichei, che maschera i loro vizi. La polemica contro i manichei insiste non solo sulla inesistenza del male come sostanza, ma pure giustifica la convergenza fra Antico e Nuovo Testamento grazie alla interpretazione allegorica.
Ma Agostino come viveva il cristianesimo nel suo secondo soggiorno romano? Qualche autore ha sottolineato che era "ancora in ombra" e che "come nei dialoghi di Cassiciaco, la contrapposizione che il Vangelo fa tra «questo mondo" e il "venturo" diventa quella dei neoplatonici tra il mondo sensibile e l'intelligibile. La rinuncia a Satana, al mondo e alle sue pompe, che Agostino ha fatto nel ricevere il battesimo, non implica se non l'impegno di sottrarsi al dominio delle cose sensibili e di elevarsi alla conoscenza razionale di Dio."
Dalle rare allusioni alla vita e alla società romana, si può dedurre che Agostino sia rimasto ai margini della vita liturgica della comunità cittadina. Della Roma cristiana sa che c'è l'abitudine di digiunare il sabato, mentre a Milano ciò non accadeva. Forse non sapeva neppure dove si trovava la basilica costruita sulla tomba di san Pietro. Frequentò tuttavia i monasteri che si stavano ampiamente diffondendo e certamente fu edificato dalla austerità degli asceti. La ragguardevole attività letteraria che sviluppò in questo secondo soggiorno romano, indica che Agostino trascorse la maggior parte del suo tempo ritirato nella sua stanza da lavoro o occupato nelle conversazioni con gli amici e col figlio.
Probabilmente Agostino desiderava solo tornare in Africa, per dedicarsi a una vita di lavoro e di contemplazione e le tensioni fra Massimo e Teodosio erano solo un ostacolo ai suoi progetti. L'inverno era passato relativamente tranquillo e a gennaio Massimo si era impadronito di Roma. Agostino, come tutti, viveva sulla sua pelle l'inevitabile scontro, che avrebbe definito le sorti dell'Impero e del mondo. Gli eserciti di Massimo e Teodosio si scontrarono infine nei Balcani. Dopo la vittoria a Petovione, Teodosio inseguì Massimo fino ad Aquileia, dove i suoi soldati lo uccisero. Era la fine di luglio del 388: non molto dopo, Agostino e i suoi compagni conclusero la loro avventura in Italia e sbarcarono a Cartagine.
Scarso è il ricordo in Roma del doppio soggiorno di Agostino. A lui venne dedicata una chiesa solo molti secoli dopo, di cui troviamo qualche interessante notizia nel volume "Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX" di Mariano Armellini pubblicato dalla Tipografia Vaticana nel 1891, dove l'autore laconicamente scrive: "In tutti gli antichi cataloghi delle chiese di Roma non ne comparisce alcuna dedicata al grande vescovo africano. La prima innalzata in Roma a questo santo fu nell'anno 1484, fatta edificare dal card. Guglielmo d'Estouteville nel luogo medesimo ove già sorgeva una cappella che portava il nome di s. Agostino, ma che non sembra più antica del secolo XIV." A Roma si conserva il corpo di Monica, che traslata dalla primitiva sepoltura a Ostia. Sempre a Roma si conserva quella che viene ritenuta la prima raffigurazione iconografica di Agostino presso la Scala Santa in Laterano.