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Verecondo grammatico l'amico di Agostino

Il teatro romano di Douggha

Il teatro romano di Douggha

 

 

Verecondo Grammatico

di Luigi Beretta

 

 

Ma chi era Verecondo?

Le nostre informazioni al riguardo sono scarse e sono praticamente tutte ricavate dai testi agostiniani. Dalle Confessioni veniamo a sapere che Verecondo era un cittadino milanese che esercitava la professione di maestro di scuola o di grammatico. Probabilmente era un collega di Agostino con il quale intrattenne rapporti di grande intimità dettati dalla consuetudine e dalla familiare e quotidiana frequentazione. Verecondo inoltre aveva amici comuni con Agostino, scelti fra quella cerchia di componenti della comunità africana, cui apparteneva lo stesso Agostino, che soggiornarono a Milano fra il 384 e il 387 d. C. per motivi economici o politici da mettere in stretta relazione alla presenza in questa città della corte imperiale.

Da questo gruppo infatti Verecondo ricevette un indispensabile aiuto per il suo lavoro: fu Nebridio a diventare suo assistente cedendo alle insistenti sollecitazioni di Agostino e degli amici comuni. Nebridio era nativo di un paese presso Cartagine, dove il ricco padre possedeva una splendida tenuta ed era giunto a Milano al seguito di Agostino, con il quale, stretto da una amicizia di lunga data, aveva in comune un'ardente passione per la filosofia e la ricerca della verità. Non fu presente a Cassiciaco a causa dell'impegno assunto con Verecondo, tuttavia intrattenne con Agostino un vivace scambio epistolare. L'amicizia fra Nebridio e Verecondo era senz'altro sincera e tenace, così come quella fra Verecondo e gli altri amici africani. Racconta Agostino che "Verecondo desiderava vivamente, ce ne chiese in nome dell'amicizia, di avere dal nostro gruppo quell'aiuto fedele, di cui troppo mancava." Nebridio accettò di aiutarlo, dimostrando uno squisito senso dell'amicizia poiché, come racconta Agostino "non vi fu attratto dalla brama dei vantaggi, che, se soltanto voleva, poteva ricavare più abbondanti dalla sua cultura letteraria, bensì, da amico soavissimo ed arrendevolissimo quale era, per obbligazione di affetto non volle respingere la nostra richiesta."

Nebridio disimpegnò l'incarico con intelligenza "evitando con saggezza di farsi notare dai grandi di questo mondo, scansando così ogni inquietudine interiore che poteva venirgli da quella parte." Quest'ultima osservazione di Agostino ci induce a credere che Verecondo fosse insegnante presso la scuola imperiale o comunque che intrattenesse rapporti con personaggi altolocati. Verecondo non partecipò al ritiro di Cassiciaco, probabilmente neppure durante la pausa estiva, poiché non si sentì di condividere l'esperienza cristiana che lì si sarebbe vissuta. Narra Agostino che proprio per questo motivo "consolavamo Verecondo, rattristato, senza danno per l'amicizia, di quella nostra conversione, esortandolo all'osservanza fedele dei doveri del suo stato, ossia della vita coniugale."  Agostino ritorna nuovamente a occuparsi della vita dell'amico Verecondo e delle vicissitudini occorsegli fra il 386 e il 387 d. C. in un altro passo delle Confessioni, dove tratteggia la personalità dell'amico, le sue inquietudini, i suoi desideri e ne loda la straordinaria generosità con una invocazione a Dio intensamente emotiva.

Narra Agostino che verso il 386 d. C. "la nostra fortuna consumava d'inquietudine Verecondo. Egli vedeva come, a causa dei vincoli tenacissimi che lo trattenevano, sarebbe rimasto escluso dalla nostra società. Non ancora cristiano, aveva una moglie credente, ma proprio costei era una catena al piede, che più di tutte le altre lo ritardava fuori dal cammino che avevamo intrapreso. D'altra parte diceva di voler rinunziare a farsi cristiano, se non poteva esserlo nel modo appunto che gli era precluso. Però si offrì molto generosamente di ospitarci per tutto il tempo che saremmo rimasti colà. Lo ricompenserai, Signore, con usura alla resurrezione dei giusti, come già lo ricompensasti concedendogli il loro stesso capitale. Noi, trasferiti ormai a Roma, eravamo assenti, quando, assalito nel corpo da una malattia, si fece cristiano e fedele, per poi migrare di questa vita. Fu da parte tua un atto di misericordia non soltanto nei suoi riguardi, ma anche nei nostri, poiché sarebbe stato un tormento intollerabile ripensare all'insigne generosità dell'amico verso di noi senza poterlo annoverare nel tuo gregge." Recentemente il contenuto del testo agostiniano è stato riletto dalla Agosti sollevando il dubbio che la villa di rus Cassiciacum non sia appartenuta a Verecondo bensì a Flavio Manlio Teodoro, importante uomo politico e prestigioso filosofo neoplatonico della seconda metà del IV secolo d. C.  Come Claudiano attesta nel suo Panegyricus, Manlio Teodoro dopo un brillante cursus honorum, che raggiunse l'apice con la prefettura della Gallia, nel 383 d. C. decise di abbandonare la carriera politica per ritirarsi a vivere in un suo podere nella campagna milanese.

Qui trascorse più di dieci anni immerso nella meditazione e nelle attività letterarie di stampo neoplatonico, di cui restano pochissime tracce, sopravvissute nel trattato De Metris. Agostino, che era giunto a Milano nel 384 d. C., conobbe Teodoro probabilmente frequentando un circolo di aristocratici cristiani neoplatonizzanti al quale apparteneva anche il vescovo Ambrogio. Confesserà infatti Agostino nel De Beata Vita: "alfine giunsi in questa regione e qui conobbi la stella polare cui affidarmi. Avvertii infatti spesso nei discorsi del nostro vescovo e talora nei tuoi, che all'idea di Dio non si deve associare col pensiero nulla di materiale e neanche all'idea dell'anima che nel mondo è il solo essere assai vicino a Dio ... e letti pochi libri di Plotino, di cui so che tu Teodoro sei grande ammiratore ... m'infiammai talmente da voler subito levare tutte le ancore." 

Gli incontri con Manlio Teodoro furono certamente proficui per Agostino negli anni che vanno dal 384 al 386 d. C. e stimolarono una sincera e profonda amicizia fra i due. Agostino nutriva in quel periodo una grande ammirazione per Teodoro, che risuona efficacemente negli elogi tessuti nel De Beata Vita, uno dei Dialoghi scritti a Cassiciaco. Vir humanissime atque magne lo considera nel proemio dell'opera e più avanti lo propone interlocutore privilegiato, capace di comprendere i suoi intenti e di fornirgli l'aiuto desiderato.

L'introduzione del De Beata Vita con la sua dedica a Manlio Teodoro sotto forma colloquiale esprime in ogni caso che costui non fu presente a Cassiciaco. Nè del resto il contenuto degli altri Dialoghi può attestare il contrario. Nelle Confessioni Teodoro non è neppure citato. Questo aspetto della questione è rilevante poiché implicitamente contraddice l'ipotesi della Agosti, dato che è difficile ammettere che Manlio Teodoro, impegnato da alcuni anni in una esperienza spirituale non dissimile, non abbia accolto presso di sè l'amico Agostino, che quale discepolo, ne avrebbe condiviso la vita ascetica dedicata alla meditazione e allo studio della filosofia. Più che ospite, Manlio Teodoro può essere considerato un efficace ispiratore di questo genere di vita, che raccolse la favorevole adesione di Agostino e dei suoi amici. Si può anche supporre che Manlio Teodoro poteva essere assieme a Romaniano una di quella "decina di persone, alcune delle quali molto facoltose" , che nel 385 d. C. avevano deciso con Agostino di realizzare una società di uomini animati dal desiderio di vita comune, che purtroppo invece fallì sul nascere.

Non è da escludere che fosse proprio Manlio Teodoro colui che si era offerto di dare ospitalità al gruppo in questo primo tentativo andato a vuoto. Esperienze di questo genere erano forse comuni in quegli anni e potevano avere successo quando qualche generoso ospite metteva a disposizione le sue proprietà di campagna. Così fece indubbiamente Verecondo nel 386 d. C. quando offrì ad Agostino ed agli amici africani l'uso delle sue possessioni a Cassiciaco. Che fossero proprio sue lo attesta nuovamente Agostino in un passo del De Ordine quando rivolgendosi al comune amico Zenobio testualmente scrive "il dolore di petto mi ha fatto ab­bandonare l'insegnamento, sebbene già, anche senza tale evenienza, stessi tentando di rifugiarmi nella filosofia. Mi condussi subito nella villa del nostro buon amico Verecondo. Dovrei dire col suo consenso? Conosci bene la sua schietta generosità verso di tutti, ma particolarmente verso di noi. Ivi discutevamo assieme gli argomenti che ritenevamo giovevoli. "

E' difficile stabilire la genesi dei possessi di Verecondo nella campagna di Cassiciaco. In effetti non sappiamo neppure se era un milanese autoctono oppure un immigrato del IV secolo, quando con lo stabilirsi della corte imperiale, l'inevitabile indotto commerciale, militare ed anche culturale attirò nella metropoli molteplici persone in cerca di fortuna, di un lavoro o di una sistemazione. Verecundus è comunque attestato in diverse iscrizioni nel milanese [1], a Bergamo [2] e in Umbria [3] che però non sembrano avere una diretta relazione con il nostro, poiché sono anteriori alla fine del IV secolo d. C. Tra le iscrizioni milanesi potrebbe rivelare una significativa coincidenza la lapide recentemente scoperta in città nella chiesa di S. Simpliciano, che riporta la dedicazione "I(ovi) O(ptimo) M(aximo) DECIA VERECUNDUS DA. CUM CONIUG(e) ET FILIIS V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito)", dove curiosamente accanto a Verecondo compare un DECIA, che richiama un analogo DIICIA (da leggersi DECIA) riscontrato in un bollo in planta pedis di un frammento di patera scoperto in località Pieguzza a Cassago. Verecundus fu anche un fabbricante di ceramiche largamente attestato oltre che ad Aquileia anche nella Romagna, a Rimini, a Budrio e a Russi. La firma Verecundus compare in un bollo pediforme anatomico sia pure a lettura incompleta (.ERECV.) in un frammento conservato nella raccolta del Museo di Cremona, relativo a un fondo di patera [4].

Nel catalogo Oxé-Comfort sono indicati col nome di Verecundus tre fabbricanti, uno attivo in pianura padana, uno nell'Italia centrale e uno in Gallia. La scoperta più interessante relativa a un Verecundus fu comunque fatta nel 1875 a Valle Guidino. In questa frazione di Besana Brianza, una cittadina della Brianza centrale, fu estratta da un pozzo, che aveva già consegnato altre epigrafi, una lapide che si ruppe in cinque pezzi per l'incuria dei lavoranti. Sul lato centrale era tracciata a rozzi caratteri l'iscrizione  I(ovi) O(ptimo) M(aximo) VERECUNDUS [5]

Poiché l'invocazione riporta il nome del dedicante formato da un solo elemento, per il noto fenomeno della oscillazione del diacritico ossia dell'unico nome con cui un individuo era noto ai suoi contemporanei nel tardo impero, si può stabilire con relativa sicurezza che la lapide è posteriore al 300 d.C. [6].

Difficile pertanto è stabilire quali fossero tutti gli elementi del suo apparato onomastico e quale era dunque il vero nome polionomico del dedicante. La tardività dell'epigrafe e il nome tardoantico non escludono che si possa riconoscere nel dedicante proprio il Verecondo agostiniano, ancora pagano nel 386-387 d.C., o qualcuno che apparteneva alla sua famiglia. La lapide di Valle Guidino era inoltre sagomata posteriormente, il che è indizio sicuro della sua riduzione a struttura di decorazione da altro uso cui fu originariamente destinata. Nè si può escludere che si tratti di materiale di riporto da luoghi circonvicini e che provenga proprio dal rus Cassiciacum, situato a pochi chilometri di distanza.

 

 

Note

 

(1) C.I.L. V, 5991 e soprattutto al n. 6073: " I. O. M. DECIA VERECUNDUS DA. CUM CONIUG ET FILIIS V. S. L. M. ", proveniente dalla chiesa di San Simpliciano a Milano.

(2) Stele funeraria mutila: riporta "Q. L. VERECUNDO.. FT. VIBIAE. Q. L. VERECUNDAE TFI ", in I Romani nelle Alpi, Convegno Storico di Salisburgo 1986, Bolzano 1989, 348. A Verona è attestato altresì un Verecondo vescovo della città: si tratta del XXV della serie e le sue spoglie riposano nella cattedrale.

(3) Ne troviamo in Umbria ad Assisi (Attilio Verecundo Decurione, presso il Museo Romano) e a Gubbio (Marzia Vereconda, presso il Museo Romano), dove addirittura si venera un S. Verecondo cavaliere del IV sec. d. C., che proveniva dalle Gallie, cfr. RUGHI D. LUIGI, Memorie su l'Abbadia di S. Verecondo in Vallingegno, Gubbio 1935, 8-9.

(4) Si tratta di un fondo di patera di forma Dr. 17 B, di cui al n. 44 dell'inventario provvisorio. Il fondo è piano, il piede alto ad anello. Sul fondo interno è impressa la marca ERECV, in bollo pediforme di tipo anatomico con al centro alcuni cerchi concentrici lievemente incisi; corpo ceramico c.s.; altezza max. 2 e Ø max. 8. Cfr. DONATI, Solduno, t. Ba4, 75 e 50; OXÉ-COMFORT, Corpus Vasorum Arretinorum, Bonn 1968, al n. 2260 e M. CORSANO, La raccolta del Museo di Cremona e lo scavo del pozzo del mappale n. 50, in RAC (1990), 54.

(5) C.I.L. V, 8917. La lapide fu portata da don Vitaliano Rossi a Cinisello Balsamo dove tuttora si trova murata nella parete di una cantina in via Settembrini 3 di proprietà Cipelletti.

(6) B. NOGARA, Il nome personale nella Lombardia durante la dominazione romana, Milano 1985, 11.