Percorso : HOME > Iconografia > Cicli > Quattrocento > Historia Augustini > Agostino legge l'Hortensius

CICLo AGOSTINIANo della Historia Augustini

Agostino legge l'Hortensius di Cicerone, immagine tratta dalla Historia Augustini

Agostino legge l'Hortensius di Cicerone

 

 

HISTORIA AUGUSTINI

1430-1440

Manoscritto 78A 19a Kupferstichkabinett di Berlino

 

Agostino legge l'Hortensius di Cicerone

 

 

 

Un professore, denominato dal termine rector (senza dubbio un errore al posto di rhetor) tiene aperto un liber rethoricus, scilicet Hortensius. Agostino è seduto ai suoi piedi assieme a due altri scolari che seguono ciascuno sul proprio libro. Dall'alto l'apparizione divina si rivolge al giovane Agostino, indirizzato al cristianesimo dalla lettura del libro ciceroniano.

Agostino ammira in Cicerone non solo il modello per tutti i retori, maestro di eloquenza pratica e teorica, ma il maestro di filosofia. Cicerone aveva sostenuto che l'oratore non può essere perfetto senza conoscenze filosofiche: egli stesso aveva contribuito più di ogni altro a far conoscere ai Romani  i pensiero greco. Tra le sue opere, alle quali si ricorreva per conoscere il suo pensiero, la prima che si leggeva  era un dialogo, per l'appunto l'Hortensius, in cui Cicerone immaginava di trascrivere una discussione svoltasi principalmente tra lui e l'altro grande oratore suo contemporaneo, in una villa di Lucullo, intorno al valore della filosofia. Scritto dopo la sconfitta di Pompeo, il dialogo rifletteva anche lo stato d'animo del suo autore disilluso dei beni fuggevoli, disposto a far consistere la vera felicità nella ricerca della sapienza.

Ma, nell'esortare alla filosofia, Cicerone non faceva che riprendere quello che era ormai un luogo comune nella letteratura filosofica dell'ellenismo.

L'Hortensius non è giunto sino a noi, ma alcuni frammenti, citati soprattutto da Agostino stesso, ci permettono di farci un'idea di quello che in esso deve aver fatto in lui la più viva impressione. Tutti vogliamo essere felici, diceva Cicerone. Ma in che cosa consiste la felicità ? Evidentemente nel fare e possedere ciò che si desidera. Ma quanti e come diversi i gusti e i desideri degli uomini ! E potremmo far consistere la felicità nel piacere dei sensi, che è piuttosto un turbamento, causa danni al corpo e allo spirito ? o nelle ricchezze, negli onori mondani, nel lusso, nella salute, nella salute fisica, in tutte le cose insomma di cui fu pieno quel famoso Sergio Orato, del quale sappiamo che si era arricchito con la coltivazione delle ostriche del lago Lucrino e al quale è attribuito quel sistema di riscaldamento ad aria calda, mediante un focolare sotto il pavimento e tubi chiusi nelle pareti, che, usato nelle Terme romane, è tuttora oggetto di ammirazione ? O la felicità consiste semplicemente nel poter fare tutto ciò che ci talenta, senza che nulla, nè dentro nè fuori di noi ce lo impedisca ? Ma il volere quello che non è disdicevole, è l'infelicità stessa. E il non conseguire ciò che si desidera è ancora un male minore del conseguire quello che non conviene; poiché una cattiva volontà reca più male che non rechi bene, a chiunque, la fortuna. No: la felicità consiste nei beni che non periscono, ma sono assoluti, la sapienza, la verità, la virtù. Cicerone si limitava a predicare questo moralismo intellettualistico, senza affrontare particolarmente nessuno dei massimi problemi.

Ma è notevole che egli facesse dipendere l'origine delle arti e delle industrie, in una parola, di tutte le attività umane, dalla particolare condizione d'infelicità in cui si trovano al mondo gli uomini, anime immortali in un corpo mortale. Tanto che la asola attività degna davvero dell'uomo è la ricerca della sapienza: sia che con ciò, per chi crede nella immortalità dell'anima, si ottenga di ricongiungerla più presto e sicuramente col divino di cui è parte, sia che, adempiuta la più sublime di tutte le funzioni con l'esercizio della nostra facoltà più nobile, l'intelligenza, non resti poi che aspettare la fine della vita come una morte completa, un annientamento integrale.

Per Agostino questa lettura fu come la rivelazione di un mondo nuovo.

 

 

- 7. E già, secondo il consueto ordine degli studi, mi era venuto in mano un libro di un certo Cicerone, la cui lingua è oggetto di universale ammirazione: cosa che non si può dire del suo spirito. Ma quel suo libro contiene un'esortazione alla filosofia: Ortensio, è intitolato. Ed è proprio quel libro che ha mutato il mio modo di sentire: ha convogliato verso di te, mio signore, tutte le mie suppliche e mi ha fatto nascere altre ambizioni, altri progetti. Erano all'improvviso senza alcun valore, tutte quelle speranze della mia vanità: e nel mio cuore divampò un'incredibile passione per l'immortalità della sapienza. Cominciava il risveglio che mi avrebbe ricondotto a te. Quel libro io non lo usai per affinare il mio linguaggio, cioè per l'acquisto cui parevano destinati i soldi di mia madre: avevo diciott'anni, e mio padre era morto due anni prima. Non lo usai per affinare il mio linguaggio: perché era ciò che diceva ad avermi persuaso, e non come lo diceva.

 

- 8. Che incendio, mio Dio, che incendio questo in cui mi struggevo di levarmi in volo per ritornare a te, via dalle cose terrene, e non sapevo cosa volevi far di me! Sta presso di te la Sapienza. Ma l'amore della sapienza ha il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo. Si può sedurre, con la filosofia: c'è gente che usa il suo grande nome affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e quasi tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all'autore, sono segnalati e bollati in quel libro. Là si mostra salutare il consiglio donato dal tuo spirito per bocca del tuo buon servo devoto: Badate che nessuno vi inganni con la filosofia e la vana seduzione conforme alla tradizione umana, conforme agli elementi di questo mondo e non conforme a Cristo, perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. A quel tempo, lo sai, lume del mio cuore, ancora non conoscevo queste parole dell'Apostolo: ma in quell'esortazione bastava ad avvincermi l'invito, che il discorso mi faceva, ad amare non questa o quella setta ma la sapienza stessa, dovunque fosse: e a cercarla, conseguirla, possederla e stringerla a sé con forza. Quel discorso mi accendeva e mi faceva ardere, e in tanto fuoco una cosa sola mi raffreddava, che non vi comparisse il nome di Cristo, perché questo nome - secondo la tua bontà, Signore - questo nome del mio Salvatore, tuo figlio, il mio cuore ancora intatto l'aveva fiduciosamente succhiato col latte materno e lo conservava nel profondo. E senza questo nome qualunque opera, per quanto dotta e raffinata e veridica, non mi conquistava del tutto.

AGOSTINO, Confessioni 4, 4, 7-8

 

Molti anni della mia vita si erano perduti con me, forse dodici da quello in cui, diciannovenne, leggendo l’Ortensio di Cicerone mi ero sentito spingere allo studio della sapienza; e ancora rinviavo il momento di dedicarmi, nel disprezzo della felicità terrena, all’indagine di quell’altra, la cui non dirò scoperta, ma pur semplice ricerca si doveva anteporre persino alla scoperta di tesori, di regni terreni e ai piaceri fisici, che affluivano a un mio cenno da ogni dove. Eppure da giovinetto, ben misero, sì, misero proprio sulla soglia della giovinezza, ti avevo pur chiesto la castità. "Dammi, ti dissi, la castità e la continenza, ma non ora", per timore che, esaudendomi presto, presto mi avresti guarito dalla malattia della concupiscenza, che preferivo saziare, anziché estinguere. Mi ero così incamminato per le vie cattive (Si 2,16) di una superstizione sacrilega, senza esserne sicuro, è vero, ma comunque anteponendola alle altre dottrine, che invece di indagare devotamente, combattevo ostilmente.

AGOSTINO, Confessioni 8, 7, 17