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Vista della città alta di Illorai
CONVENTO DI S. MARIA di ILLORAI
Tratto da La Voce del Logudoro n. 47 del 3 dicembre 1969
Frati Contro banditi (1624-1765)
Il primo Convento di Agostiniani o, come venivano chiamati, Romitani di S. Agostino, fu fondato in Sardegna nel 1421 a Cagliari da un religioso chiamato Agostino Carbonell. Al 1649 si contavano nell'isola dieci Conventi ed un collegio di tale regola. L'elenco ufficiale di essi, pubblicato in un libro edito a Roma nel 1649, comprendeva anche il Convento "Illorayanus" . Nel 1624 i coniugi Francesco Nurchis Cedrelles (probabilmente della nobile famiglia dei Cedrelles feudatari di Usini) e Francesca Andreana Corona Nurchis, non sappiamo per quale voto fatto, offrivano al provinciale degli Agostiniani a Cagliari la chiesa di Nostra Signora d'Itria, situata in un terreno di proprietà, presso Illorai, accanto alla quale avevano costruito dei locali con la promessa di ampliarli qualora fossero venuti a stabilirvi i Frati Agostiniani per fondarvi un Convento. Come capitale fruttifero offrivano due tanche ed un chiuso più piccolo, nonché l'usufrutto di un gregge di pecore e di una mandria di vacche, oltre alla corresponsione della somma annua di 55 lire (ricordiamo che allora con 5 o 6 lire si comprava una vacca), ed infine tutto l'arredamento necessario alla Chiesa e al Convento.
Il provinciale dell'Ordine accoglieva l'offerta generosa, e subito dopo veniva stipulato il relativo atto notarile di fondazione del Convento, in data 8 settembre 1624 (giorno della festa della natività di Maria). A tale fondazione davano il loro consenso il Vescovo di Alghero Ambrogio Machin, divenuto in seguito arcivescovo di Cagliari, e l'arciprete Carcassona, del Capitolo di Alghero, nella sua qualità di prebendato delle parrocchie unite di Illorai e Bortiocoro. Il Convento prendeva il nome, dalla chiesa annessa, di nostra Signora d'Itria in Illorai nella regione che allora si chiamava "Botto". Il piccolo Convento era stato iniziato con le migliori intenzioni, ma non fu l'unica volta che, in casi simili la realtà non corrisponde alle promesse. Le due tanche ed il chiuso, infatti non vennero mai consegnati ai Frati, ne tanto meno i fondatori ampliarono l'edificio come promesso, per cui i Frati, col passare degli anni, dovettero costruirsi qualcosa a loro spese. Finché vissero i coniugi fondatori, il Convento ricevette i frutti del bestiame loro lasciato: in seguito non ebbero neppure quello.
Altrettanto capitò per le 55 lire cui si erano impegnati i fondatori. Ai primi del settecento si svolse una lunghissima lite fra gli Agostiniani di nostra Signora di Itria e l'erede dei fondatori, Don Antonio Ledda Conte di Bonorva e Barone di Ittiri e Uri proprio per tale questione. Dopo vari anni, i Frati dovettero desistere dalla causa, sia perché il Convento per la sua estrema povertà non poteva più sostenere le ingenti spese di tribunale, sia perché nulla si poteva fare, come dicevano, contro un avversario "tanto poderoso". Non solo quindi il Ledda vinse la causa, ma per vie di certe clausole contenute in una bolla di Innocenzo X del 1652, vari anni dopo quando si dovette chiudere il Convento per altre cause, si dovettero dare al Conte di Bonorva, come erede dei fondatori, un bel calice d'argento, varie suppellettili ecclesiastiche e perfino le campane della Chiesetta. Alla metà del Settecento oltre un secolo dalla fondazione, la situazione del convento non era certo delle più floride. Ci dice l'Angius che sia nel Settecento sia ancora agli inizi dell'Ottocento, il vicino castello di Burgos, dalle tante memorie, era diventato un nido di malfattori, e "vi aveva quartiere una grossa masnada di banditi e disertori, donne uscivano a predare e fare stragi". Continuava, cioè, sia pure sotto altre forme, la situazione che si era creata nel Quattrocento, ai tempi del famoso fuoruscito Bartolo Mannu, che però alla sua attività banditesca aveva dato qualche colorazione politica. Da una relazione contemporanea, e precisamente del 1765, ci risulta che i Frati, benché da molti anni fossero rimasti appena in due, non riuscivano se non a mala pena a ricavare di che vivere da ben 39 (dico trentanove) piccoli appezzamenti di terreno di proprietà del Convento.
Vista infatti la cattiva volontà dei fondatori, la popolazione era venuta generosamente incontro, con varie donazioni di beni immobili. Ma la ragione del mancato frutto di tali terreni non dipendeva certo dalla sterilità di essi, ma dal fatto che non si era mai riusciti a tenerli a pascolo, perché il bestiame veniva sistematicamente rubato, e il frutto delle varie coltivazioni, con altrettante irregolarità, asportato anche con la forza dai fuorilegge. Non solo, ma altri fatti anche più gravi mettevano a disagio anche gli abitatori del Conventino. Aveva allora tutto il suo pieno vigore il diritto di asilo, per cui il malfattore inseguito dai ministri di giustizia poteva impunemente rifugiarsi in chiesa o in un altro luogo sacro o edificio ecclesiastico e rimanervi quanto voleva con tutta tranquillità. E il Convento di Nostra Signora di Itria era proprio il luogo ideale.
Dopo le prime volte i Frati, stanchi di una siffatta compagnia, tentarono di resistere barricandosi in casa, ma si sentirono rivolgere l'invito a raccomandarsi l'anima a Dio: e di fronte ad argomento si perentorio dovettero cedere, dato che a resistere non si poteva neppure pensare, poiché nel Convento non si trovavano altri che un vecchio sacerdote, Fra Sebastiano Cubeddu, ed un Frate laico. Si arrivò a tal punto che per i Frati il ricevere banditi da proteggere contro voglia divenne questione di ordinaria amministrazione. Le autorità civili, stanche di un simile stato di cose, rivolgevano alle autorità religiose inviti sempre più pressanti perché più efficacemente si opponessero a tali abusi. Proprio per quegli anni abbiamo delle testimonianze che ci fanno rimanere perplessi. Perfino in pieno centro abitato, nella stessa Ozieri per ospitare persone di riguardo perseguitate dalla giustizia molte volte si erano fatti sloggiare i Frati dalle loro celle del Convento di San Francesco, per ospitare i ricercati. E come per il Convento dei Francescani di Ozieri, così anche per quello degli Agostiniani di Illorai dovette direttamente intervenire il viceré di Sardegna rivolgendo vivissime istanze al provinciale dell'Ordine a Cagliari, Fra Nicola Lippi, perché si cercasse di mettervi un qualche riparo, non esclusa la soppressione del Convento, se altro rimedio non ci poteva essere. Il provinciale, nell'aprile del 1765, radunava a Cagliari il Consiglio (o Capitolo) Provinciale dell'Ordine, il quale ad unanimità ammetteva che realmente altra soluzione non vi poteva essere che quella definitiva di chiudere e sopprimere il Convento.
D'altra parte i superiori religiosi non sapevano più che strada prendere dato che i religiosi destinati ad Illorai, anche se di ribellione non si può parlare, facevano di tutto per eludere una tale destinazione, pera cui "non si trovano più soggetti che ci vogliono andare, perché nessuno desidera morire di fame o essere soggetto a perdere la vita" per opera dei malfattori, come scriveva il Provinciale da Cagliari al superiore Generale dell'Ordine P. Saverio Vasquez, supplicandolo di accettare la decisione di sopprimere il Convento. L'accettazione di tale decisione veniva comunicata dal Generale dell'Ordine in data 31 dicembre 1765 al Vescovo di Alghero, il quale disponeva l'esecuzione delle formalità per la soppressione ufficiale del Convento, vittima diretta dei fuorilegge. Tale atto veniva compiuto l'8 marzo 1766, con la consegna al vescovo di Alghero di tutta l'amministrazione del Convento soppresso. Se molti beni andavano, per legge, agli eredi dei fondatori, tutto il resto veniva dall'Ordine degli Agostiniani lasciato a disposizione dello stesso Vescovo purché fosse distribuito in opere di beneficenza. Il piccolo Convento degli Agostiniani di Illorai moriva così, allo stesso modo con cui era nato: come una testimonianza dello spirito di carità Cristiana.
Il monastero sorgeva nel centro di Illorai. Quando venne chiuso la statua di Sant'Agostino e quella di San Nicolò da Tolentino, anche lui agostiniano, vennero trasferite nella chiesa parrocchiale, dedicata a San Gavino, insieme con preziosi oggetti di argenteria appartenenti al convento.