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CONVENTI agostinianI: Rosia

Resti dell'insediamento di Rosia

Resti dell'insediamento agostiniano di Rosia

 

 

CONVENTO AGOSTINIANO DI ROSIA

di Benedict Hackett

 

 

 

Quest' eremo, posto in una zona della Montagnola, tra Montarrenti e il ponte di Rosia, venne eretto sopra una gola tortuosa che trapassava l'intricata foresta sul lato destro del torrente Rosia, e sebbene sia abbastanza vicino alla vecchia strada maestra che da Siena portava a Grosseto, costituiva un nascondiglio perfetto per chiunque cercasse la solitudine. Non vi sono prove che l'eremo sia stato edificato prima del 952 come casa colonica dell'abbazia di S. Bartolomeo di Sestinga, dato che non si trovano riferimenti a Sestinga fino all'anno 1025. Comunque, la ragione per cui è stata avanzata l'ipotesi dell'anno 952 sta nel fatto che in un documento di quello stesso anno (la data esatta è novembre 952) si fa un accenno a Roselle, mal interpretata come Rosia.

È certo invece che l'eremo venne fondato al più tardi il 21 maggio 1200, quando Pipino del fu Duodo e Rainerio di Rainerio, Guido e altri, fecero una donazione di terre e boschi a «Giovanni l'eremita dell'eremo di Rosia, che fu eretto per onorare Dio, B. Lucia Vergine ed altri santi. [Egli] la ricevette in nome di Bonacorso l'eremita, che fu il Rettore e l'ideatore del sopra detto eremo e della sua chiesa» (Archivio Storico Senese, Archivio Generale, 1200).

Di conseguenza, sappiamo che il fondatore era un uomo chiamato Bonacorso, ed anche se non c'è modo di sapere esattamente quando egli cominciò la sua vita eremitica a Rosia, si può pensare che non si fosse stabilito in quel luogo prima del 1100. Risulta chiaro dal documento che riporta l'elargizione delle terre e dei boschi, che Bonacorso il 21 maggio 1200 era ancora vivo, per cui, se avesse fondato l'eremo nel 1100, sarebbe vissuto più di cento anni. Supponiamo, invece, che nel 1200 avesse avuto 60 anni e fosse nato, perciò, nel 1140; ammettiamo, infine, che avesse avuto circa 30 anni quando decise di vivere da eremita nella Valle di Rosia, allora l'anno della fondazione dell'eremo sarebbe il 1170. E' assai probabile, invece, che l'eremo sia stato fondato non molto prima dell' anno 1192, poiché, a differenza di S. Leonardo, non figura nella lista delle tasse papali di quell'anno (Fabre-Duschesne, Le liber censuum de l'église romaine, Parigi 1910).

Concludendo, è possibile affermare che Rosia venne fondato sul finire del sec. XII. La concezione di vita eremitica di Bonacorso cominciò subito ad attrarre dei seguaci; infatti, nel 1200 vennero costruiti una piccola chiesa e degli alloggi primitivi, come capanne o grotte, che circondavano la dimora rudimentale del fondatore. Tra il 1216 e il 1239 i Vescovi di Volterra e di Siena concessero indulgenze a chi faceva l'elemosina agli eremiti (Luijk, Cassiciacum 1964). Inoltre, in questo arco di tempo, venne loro riconosciuto il titolo di comunità con un Priore, che forse era lo stesso Bonacorso; e infine nel 1220 la piccola casa ricevette la protezione papale da Onorio III. Già nel 1226 Bonacorso non era più a capo della comunità; a lui era subentrato un certo Palmerio, designato come il «Priore del Capitolo dell'eremo».

Esiste una curiosa dichiarazione del 1225, in cui si afferma che in quell'anno gli eremiti abbandonarono l'eremo di Rosia e si stabilirono nella periferia di Siena, nel vecchio eremo della SS. Trinità, il che risulta completamente falso; non meno ingannevole è l'osservazione che gli eremiti di S. Leonardo decisero di trasferirsi a Rosia, perché non desideravano passare il resto della vita a S. Leonardo, «Quel luogo malsano e selvaggio» (A. Liberati, Chiesa di S. Agostino). Potrebbe darsi che l'autore di queste affermazioni poco veritiere abbia cercato di spiegare la presenza di certi fratres S. Augustini nel 1230 a Siena, collegandoli con Rosia, anche se questa ipotesi, poiché tale è, appare priva di fondamento e non verificabile storicamente. Nel 1252, nei dintorni della città al Laterino, si trovavano degli eremiti, che però non avevano alcun rapporto con Rosia, e comunque nel 1250 questa comunità non era agostiniana, anche se è possibile che lo sia divenuta in seguito. Oltre a quello precedente, ci troviamo di fronte un altro errore da correggere: per molto tempo si è creduto che Gregorio IX, il 7 marzo 1228, avesse fatto recapitare all'Arcidiacono di Arezzo una lettera papale in cui lo designava giudice delegato in una causa intentata dal «Priore e dai frati eremiti dell'Ordine di S. Agostino, Rosia» contro certi laici della diocesi di Siena e Volterra. In realtà, gli eremiti di Rosia non erano ancora Agostiniani nel 1228 e la lettera papale non fu redatta da Gregorio IX ma da Gregorio X il 7 marzo 1273 (Luijk). Rosia era entrata a far parte dell'unione degli eremiti della Toscana tra il 1244 e il 1250, vale a dire che abbracciò, come abbiamo già visto per S. Leonardo, la Regola di S. Agostino.

Il 3 maggio 1250 si tenne il Capitolo generale degli eremiti agostiniani e fra Domenico, Priore di Rosia, venne eletto, assieme ad un altro frate eremita di nome Simone, economo e procuratore dell'intero Ordine. L' elezione di Domenico fra i 61 delegati del Capitolo fu certamente un tributo alla sua reputazione (Torelli, Secoli agostiniani, IV, Bologna 1675, 454-455). Un monaco che resterà sconosciuto ha affermato che la storia della vita all'interno di un monastero potrebbe esser scritta sul retro di un francobollo; tuttavia, pur essendo un'esagerazione, contiene un barlume di verità, soprattutto riguardo a certe comunità religiose quali Rosia durante i primi cinquant'anni della sua storia documentata. Infatti, tutti gli atti esistenti che risalgono a questo periodo sono per lo più contratti di compravendita di terre, oppure doni della stessa natura (Herrera).

Questo non sta a significare che tali verbali indicanti i reali possedimenti siano di poca rilevanza: tutt'altro, poiché da essi sappiamo chi era Priore in quel determinato anno, oppure come il sito dell'eremo tendesse ad allargarsi, tanto da creare spazi per nuove costruzioni, dato che si progettava di edificare una chiesa più grande di quella originale ed anche alloggi migliori per una comunità in espansione. La decisione di erigere una nuova chiesa deve esser stata presa alla fine degli anni '40 o al massimo nel 1250, poiché la chiesa venne costruita nel 1252 sotto la guida del capomastro Martino. Nel 1255, 1256, 1257 e 1258, il Comune di Siena donò denaro all'eremo; la prima cifra ammontava a 10 libbre, che vennero senza dubbio accolte con riconoscenza dai frati Manno e Lorenzo a nome di tutto l'eremo. Tuttavia, passò un po' di tempo prima che la chiesa venisse consacrata, la qual cosa fa pensare a difficoltà economiche.

Resti dell'insediamento di Rosia

Resti dell'insediamento agostiniano di Rosia

Infine, il 27 novembre 1266, Papa Clemente IV aderì alla richiesta della comunità, che desiderava dedicare la chiesa a S. Lucia, e concesse l'indulgenza a tutti coloro che l'avessero visitata nel giorno della sua consacrazione e nell'ottava. La cerimonia venne officiata il 22 maggio 1267 dal Vescovo agostiniano di Accia, Corsica, Imerio Guardalupo, che era stato chiamato dal Vescovo di Volterra, Alberto Scolario. Inoltre, i fedeli vennero incoraggiati a visitare la chiesa e ottenere indulgenze anche dal Vescovo Azzo di Grosseto (1265-1277) e dal Vescovo Ruggiero di Ugurgeri di Massa (1256-1268). Si può dire che nel sec. XIII Rosia fu rivale di Lecceto per il numero di Beati la cui presenza onorò il luogo. Non si sa quasi nulla di due di questi: uno era un certo B. Rinero (sic), che si dice abbia restaurato la chiesa nel 1276 e l'abbia adibita con dipinti, vesti e reliquie. Anche se il Beato Rainerio esistette realmente di lui non si fa cenno nelle fonti agostiniane, eccezion fatta per una iscrizione una volta visibile all'entrata della chiesa. A questa testimonianza, comunque, viene dato poco credito.

Il nome dell'altro Beato, invece, è ben conosciuto: si trattava del fratello laico Gualfredo, la cui santità era nota ben oltre la zona di Rosia già intorno al 1330 (Rano, 1982). Abbiamo invece notizie più sostanziose di altri due Beati di Rosia. Il Beato Pietro de Rossi, della cui morte vengono proposte date differenti (1222, 1232, 1272), è menzionato anche nel 1226. Egli viene ricordato per 1'ardente amore che nutriva per la Santa Croce. Si dice infatti che la vista del crocifisso gli provocò un dolore così intenso che non smise mai di piangere! Comunque, non va dimenticato che, in epoca medievale, il dono delle lacrime era considerato una prova di santità. Pietro, a quanto pare, ad un certo momento della sua vita, si spostò da Rosia per trascorrere gli ultimi giorni a Lecceto, ove è sepolto nel Chiostro de' Beati (Landucci, Selva).

L'altro Beato, fra Giacomo da Rosia, forse era un semplice converso come Gualfredo, ed è anche probabile che siano vissuti nello stesso periodo. Giacomo trova ampio spazio in un leggendario di santi agostiniani scritto a Firenze da un frate agostiniano intorno al 1330.

Secondo questa fonte, Giacomo entrò nel convento di Rosia quando era molto giovane e con il passare del tempo si guadagnò i più alti meriti per castità, osservanza e carità, che era la sua più grande virtù; fu infatti, per compassione dei poveri ammalati che frequentavano il convento che Giacomo riuscì a far fruttare ogni anno un tipo di melo che invece dà frutto ogni due anni, onde consentire ai poveri infermi di sfamarsi. Egli sistemò le cose in modo che metà albero fruttificasse un anno e l'altra metà l'anno successivo. Ma la leggenda delle leggende, che con tutta probabilità non è quella originale, dato che è stata attribuita in maniera leggermente diversa ai Beati di Lecceto, narra che il Priore di Rosia si fosse recato alla tomba di Giacomo per pregarlo di non compiere altri miracoli, poiché il gran numero di pellegrini che si recava a rendere omaggio alla sua tomba disturbava la pace dei frati. E la leggenda conclude: «Il servo di Dio assunto alla gloria celeste obbedì al volere del suo Priore perché voleva rimanere il suo suddito» (Arbesmann, A legendary of early Augustinian saints, 1966).

Lo stesso leggendario fiorentino dedica un intero capitolo ad un altro frate di Rosia, il Beato Agostino Novello, che è noto anche a S. Leonardo al Lago. Il leggendario non aggiunge nulla a quello che già si conosce sulla vita di Agostino a Rosia eccetto che in questo caso si fa riferimento ad un particolare degli spostamenti di Agostino dopo che il suo sovrano Re Manfredi fu sconfitto e ucciso nella battaglia di Benevento nel 1266. Si è creduto infatti che Agostino, dopo quella sconfitta, fosse fuggito in Sicilia; al contrario, la versione fiorentina afferma che egli trovò rifugio in Puglia. Secondo una coeva Vita di Agostino, il cui nome di battesimo era Matteo, egli divenne Agostiniano presso l'eremo di S. Barbara vicino a S. Fiora nel periodo in cui era Priore fra Buono da Siena, che divenuto Priore di S. Antonio di Ardenghesca o Vall'Aspra e in seguito anche di Rosia, volle portare con sé Agostino. Per tutto questo tempo, Agostino venne stimato il più umile dei conversi fino a che non venne rivelata la sua vera identità. Dopo aver preso la laurea di doctor utriusque iuris presso l'Università di Bologna, divenne consigliere e magistrato reale alla corte di Re Manfredi. Il Priore Generale degli Agostiniani, Clemente da Osimo, ne venne probabilmente informato durante il suo secondo periodo di priorato, cioè tra il 1284 e 1291, poiché ordinò ad Agostino di prendere gli ordini sacri e di unirsi a lui per comporre il testo definitivo delle Costituzioni dell'Ordine.

Agostino, su consiglio di Clemente, venne nominato da Nicola IV (1288-1292) Penitenziario papale, mentre nel 1298 successe a Clemente nel ruolo di Priore Generale. Ma nel 1300, un anno prima della fine del suo mandato, Agostino si ritirò dalla carica di Superiore, e trascorse il resto dei suoi giorni a S. Leonardo al Lago. Il riferimento a Clemente da Osimo ricorda un episodio accadutogli mentre si trovava in visita a Rosia. Si narra infatti che in quell'occasione il vino era quasi finito e il socio di Clemente soffriva molto a causa della sete. Clemente, per alleviare il malessere del suo compagno, tramutò l'acqua in vino facendo il segno della croce. Questo è il primo dei due miracoli attribuiti a Clemente dall'agiografo fiorentino che, oltre a questo, cita altri miracoli compiuti per sua intercessione ad Orvieto, ove morì l'8 Aprile 1291. Durante il Trecento, non si registrarono altri avvenimenti miracolosi a Rosia, anzi il convento si ingegnava di recuperare la proprietà che divideva con S. Antonio di Ardenghesca. Si trattava di un monastero benedettino che in seguito venne affidato ai Cistercensi a Giugnano vicino a Roccastrada. Evidentemente i due conventi agostiniani erano stati per molto tempo in possesso del monastero, ma il Cardinale Napoleone Orsini, che era Nunzio papale, affidò la proprietà ad un Ciono. I frati protestarono con vigore e nel 1308 riuscirono a convincere il Cardinale ad annullare la cessione a Ciono. La proprietà non doveva avere grande valore, dato che il Priore Generale Gregorio da Rimini, il 21 ottobre 1357, dette il permesso di venderla, cosicché, come scrisse lui stesso, i proventi sarebbero stati utilizzati «per i possedimenti più utili dei due conventi» (SPKB Sienenser Urkunden E12).

La scelta di Rosia come sede del Capitolo della provincia senese, potrebbe sembrare strana, ma non certo più singolare della scelta di S. Leonardo per il Capitolo svoltosi nel 1424. Entrambi gli eremi, infatti, non erano in grado di ospitare sessanta membri del Capitolo in una sola volta. Comunque, come ci si fosse riusciti a S. Leonardo, forse a scapito del normale svolgimento delle procedure, è un'altra questione. Fortunatamente per Rosia il problema non si presentò affatto, dato che il Priore Generale, Agostino da Roma, acconsentì a non far svolgere il Capitolo a Rosia, cosa che recò un certo sollievo alla comunità e ai membri dello stesso Capitolo. Il 22 dicembre 1420, egli scrisse di esser stato informato che Rosia non era disponibile ad ospitare il Capitolo, a causa della peste e la scarsità di cibo. Questo era il motivo apparente, ma forse la vera ragione era che i frati di Rosia non gradivano la presenza di sessanta membri del Capitolo all'interno dell'eremo, o forse molti dei delegati non erano troppo entusiasti all'idea di doversi accampare a Rosia. L'antico eremo non fu mai incorporato nella congregazione di Lecceto; se così fosse stato, sarebbe sopravvissuto forse più a lungo.

Continuò invece a far parte della provincia di Siena, ma questo non lo salvò dalla soppressione. Nel sec. XVI, quando l'indipendenza economica aveva i giorni contati, cominciò il periodo del declino e dell'indebitamento, fino a che, il 20 ottobre 1575, Rosia divenne una casa colonica di S. Agostino a Siena (Archivio Agostiniano di Roma). Nel 1638 l'eremo era abitato da due soli frati, un sacerdote e un converso.